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oggi

Mi terrorizza la ferocia di questi, oltre al terrore

Questa mattina, se mi permettete, non scriverò il mio consueto buongiorno. Quindi non mi dedicherò alle notizia di oggi (da Londra alla bagarre sui vitalizi fino alla prossima celebrazione dei trattati europei) ma vi racconto una sensazione.

Nella casella di posta stamattina molto presto mi è arrivato un messaggio, ovviamente da un profilo Facebook che non è riconducibile a nessuna persona reale: la foto del profilo è un soldato ripreso di spalle e il “nome” una semplice sigla “Dem Ken”. Dice, il messaggio, letteralmente:

«cara zecca, prenditela con gli extracomunitari terroristi, volevi anche tu l’europa dell’accoglienza? eccoti servito!»

Mi sono sforzato di immaginare quale strana connessione possa scattare nell’animo di qualcuno per prendersi la briga di scrivere una frase del genere a un insignificante editorialista, quale sia quell’organo così peloso che possa vomitare in una frase del genere gli accadimenti di Londra.

Poi, per immergermi nella meglio nel cassonetto a toccare con mano il percolato della ferocia, mi sono fatto un giro sulle pagine dei fomentatori professionisti (niente nomi, oggi nessuna pubblicità), ancora:

“Ennesimo attentato terroristico islamico a Londra ci conferma che l’Europa è ormai una fabbrica del terrorismo islamico.
Continuiamo ad importare “arricchimento” culturale…i risultati sono questi”

“QUANDO C’ERA IL FASCISMO MIO PADRE DICEVA SEMPRE TUTTI AVEVANO UN LAVORO E NON C’ERA DELIQUENZA!”

“adesso ho capito perche’ la boldrini vuole dare la cittadinanza ha tutti quelli che arrivano nel nostro paese , cosi risultano italiani quando uccidono qualcuno”

“E adesso ?… I buonisti quale caxxata si inventeranno per l’ennesimo attentato facendo passare per un squilibrato un paranoico ecc. senza ragionare un attimino che questi signori perbene attentatori stanno dichiarando guerra ai fessi della UE fallimentare?”

(continua su Left)

Buongiorni e eroi (del giorno)

Gli appuntamenti quotidiani per la mia combriccola di lettori diventano due. Oltre al buongiorno per Left (che è qui e viene sfornato tutte le mattine dal lunedì al venerdì) ci si trova anche nel tardo pomeriggio con ‘L’eroe del giorno‘ su Fanpage (più o meno qui).

Oggi si parla di FC Dolo 1909 e la dignità di un presidente.

Per il resto ci si ritrova qui. Giusto il tempo di scrollarsi di dosso le solite minacce e le litanie troppo sapienti che questa volta non permetteremo nemmeno che si accendano.

Buona lettura.

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Dio è femmina e comunista

L’amore che ci state dando in questi giorni mi fa pensare che mia madre ha fatto qualcosa per gli altri. Delle sue lotte diceva: non posso fare altrimenti, non si può lasciare che si trattino così le persone. Mia madre ha amato immensamente, me, mio padre, le mie figlie, la mia nipotina. Quando qualcosa non funzionava, diceva: ricordati che Dio c’è, ed è comunista. Io dico che non solo è comunista, ma è anche femmina. Andate a casa da qui con un po’ di fiducia. Il mondo lo cambieremo“.

Jacopo Fo oggi, al funerale della madre Franca Rame.

E non l’oggi

Abbiamo tutti bisogno di inventare un tempo nuovo. Ma siamo capaci soltanto di attraversarlo non chiedendogli niente. Abbiamo bisogno di essere tutti più felici ma chiediamo la felicità con parole che non sono mai diverse da quelle che conosciamo. Abbiamo bisogno di tollerare il dolore, ma non siamo neppure capaci di sopportare noi stessi. Abbiamo trasformato la nostra memoria, la storia, il passato, in un simulacro gelido e immobile. Abbiamo inventato il prima e il dopo, e non il mentre, il passato e il futuro e non l’oggi.

(Roberto Cotroneo, Mettetevi buone scarpe e cominciate a camminare. E buona giornata a tutti)

Radio Mafiopoli 30 – Il sorriso di Bruno Caccia

Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morticome fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.

Questa storia è una storia che inizia con la fine il 26 giugno, di domenica a Torino. Se fosse in bianco e nero il 26 giugno 1983 sarebbe grigio come la menta che è appassita, una domenica che ti suda addosso come una doccia fatta troppo di fredda. È la passeggiata aggrappata al marciapiede di un uomo, un guinzaglio e il cane. E che interesse può accendere una camminata dopo cena in bianco e nero con un cane? Per questo siamo dovuti andare a riprenderla nel cestino del corridoio.

Lui cammina mentre slappa il sapore fresco del caffè tra il palato e la lingua, il cane annusa la sua passeggiata che gli insegna che è sera e forse questo asfalto che cerca di scollarsi ci dice che è fine giugno. Le passeggiate dopo cena sono sempre un fruscio degno, un vento tra le orecchie e il cuore anche se non c’è vento, una sigaretta per assaggiare il retrogusto di anche oggi cos’è stato, una pausa con la parrucca della sigla di coda. Se fosse in bianco e nero quella passeggiata sarebbe un battere di palpebre.

Chissà cosa pensava, Bruno Caccia, quella sera, sempre così sacerdote delle giornate bianco o nero, mentre si sedeva con gli occhi sull’altalena del guinzaglio e della coda; se pensava al gusto stringente di chi ha deciso che è domenica, e la domenica sera con il cane appoggiando per un secondo sul comodino la scorta dovrebbe essere un diritto anche delle solitudini più malinconiche, o se pensava a come fosse a dormire comodo questo nord di Mafiopoli che succhia l’osso dell’immunità narcotizzato dalla sua stessa presunzione. Come un coccodrillo sdentato che si prende il sole. Chissà se aveva ancora voglia di pensarci, a quell’ora che si mette sul cuscino perché è poco prima della notte, a quei vermi liquidi che zampettavano sulle gambe e sulla schiena del Piemonte addormentato, sdentato e fiero che tra il bianco e il nero aveva scelto la cuccia e la catena.

A Mafiopoli ci insegnano sempre che è di cattivo gusto fare i nomi. Caro Bruno, hanno cercato di consigliartela spesso la buona educazione di Mafiopoli. Non fare i nomi. E allora facciamo finta che non ci siano intorno a questa storia che è passata come un brodino con un dado artificiale, facciamo finta che non ci siano a sapere e ascoltare i mastri della ‘Ndrangheta che si attaccano seccati alla suola delle scarpe di una regione a forma di coccodrillo, facciamo finta che non siano né gli Agresta, né i Belcastro, o Bonavota, Bruzzaniti, D’Agostino, Ilacqua, Macrì, Mancuso, Megna, Morabito, Marando, Napoli, Palamara, Polifrone, Romanello, Trimboli, Ursino, Varacolli, Vrenna. In ordine alfabetico, messi in fila per matricola: come lo scarico dei capi al mercato dei suini secondo la marca pinzata all’orecchio. E lasciando fuori, per adesso, i Belfiore, che in questa storia di marciapiede, bianco o nero, sono il concime.

Chissà se ci pensava Bruno Caccia a quanto marciapiede avrebbe dovuto mangiare per svegliare il coccodrillo e urlargli dentro i buchi delle orecchie che era tempo di cominciare a grattarsi, a farle scivolare queste zecche marce che succhiano e si nascondono tra i peli. Chissà se ci pensava il magistrato Caccia, mentre sul marciapiede seguiva il passo soffice del cane e del suo collare, a com’è impudicamente nuda una città con un palazzo di giustizia che è un arcobaleno acido di caffè, mani strette e corna pericolose. Lì dove uno dei capi dei vermi, quel Domenico Belfiore che nella storia è un tumore che appassisce, chiacchericcia con il procuratore Luigi Moschella. Un bacio umido con la lingua al sugo tra ‘Ndrangheta e magistratura. Chissà se non gli si chiudeva lo stomaco a Bruno Caccia, sempre così fiero del bianco o del nero.

Siamo al primo lampione, cane e padrone, sotto quella luce di vetro che solo Torino sa riflettere così grigia.

Se ci fosse la colonna sonora da destra a sinistra sarebbe: il cuscinettìo delle zampe del cane, lo spelazzo della coda, il cotone della solitudine intesta alla sera di lui e più dietro, quasi fuori quinta, una 128 che cigola marinaia come tutte le fiat il 26 giugno del 1983.

Chissà che pensieri evaporavano dentro i sedili di plastica di quel marrone secco della 128. Chissà se erano fieri a sganciare la leva del cambio anoressica e zincata, per questa missione da bracconieri della dignità. Chissà come brillava la faccia a Domenico Belfiore mentre ordinava quella 128 e la polvere da sparo come si ordina una frittura per secondo, chissà come si erano sniffati la potenza di avere ammaestrato i catanesi alla ‘ndrina, di avere preso anche Cosa Nostra come cameriera, chissà come avevano riso pensando che proprio loro, con Gianfranco Gonnella, alzavano la saracinesca del caffè sotto il tribunale, in una colazione che serviva a mischiare rapporti per l’interesse di stare sempre nel grigio, vendendosi il crimine e la giustizia e mischiare tutto con il cucchiaino.

Mi dico che forse Bruno Caccia non riusciva a fumarseli nemmeno nella passeggiata di coscienza alla sera quei nomi che aveva deciso di tenersi bene a mente, come succede per un titolo che rimane anni incastrato nel portafoglio perché prima o poi ci può servire. Ecco, forse, mi viene da pensare, Bruno Caccia è un magistrato con la schiena dritta ma soprattutto un uomo di memoria, ma la memoria attiva quella vera che ormai qui a Mafiopoli è andata fuori produzione. Quella che serve per leggere le storie mentre succedono e se hai un po’ di fortuna immaginare di prevedere anche la mattina di domani. Mica quelle memorie in confezioni da 6 da accendere come le candeline in quelle storie che si cominciano a raccontare partendo dalla fine. Una memoria in camicia e con un cane sotto il secondo lampione.

Chissà se avranno pensato di spararci anche al cane, quei manovali disonorati nel costume mai credibile degli uomini d’onore mentre si avvicinavano a Bruno Caccia, il suo cane e per stasera niente scorta, chissà come schizzava olio quel soffritto nel cervello per sentirsi capaci di meritarsi anche stasera un pacca dal boss, quella 128 farcita di codardi che 25 anni dopo non sono ancora stati pescati. Chissà se pensano di essere impuniti dimenticando di avere prenotato in una sera il posto riservato nell’inferno dei picciotto e degli omuncoli.

14 colpi ad ascoltarli di seguito in una sera di 26 Giugno in via Sommacampagna a Torino sono una fanfara della codardia che tossisce. 14 volte di sforzi dallo stomaco di un rigurgito a pezzettoni. La risata di potenza di Mimmo Belfiore e suo cognato Palcido Barresi che apre lo sfintere. 14 spari in una serata d’estate suonano come una canzone d’amore suonata con le pietre. Chissà cosa avrà pensato il cane, nel vedere quegli uomini a forma di stracci mentre scendono per finire con tre colpi Bruno Caccia, il suo padrone, e ripartire veloci a prendersi gli applausi della grande famiglia di vomito e merda. Chissà a che punto era arrivato il magistrato a passeggio a pensare a tutti i fili dei nei di una regione che dormiva.

Tutto proprio sotto al secondo lampione. Dicono che Torino ogni tanto sia funebre: quella sera era a forma di cuore schiacciato da una ruota all’incrocio.

Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morti come fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.

Che il magistrato Bruno Caccia sia stato ucciso il 26 Giugno 1983 da ignobili ignoti è rportato in qualche foglio tarmato scritto probabilmente con una stampante ad aghi. Ma gli avvoltoi tra le macerie della memoria si sono subito messi in tasca i soprammobili di quella storia con questa fine così cinematografica da non farsi scappare. E ti hanno regalato la memoria, caro Bruno, quella memoria di polistirolo buona per le sfilate per appiccicarci un nome al cartello bianco con sfondo bianco di una via. In questa Mafiopoli dove tutto va al contrario e bisogna prendersi la responsabilità di sperare in una fine certificata perché almeno si mettano a cercare cosa era successo prima.

Mi chiedo Mimmo Belfiore, cosa starai pensando adesso. Se un po’ non ti disturba che quella memoria che pensavi di avere rapinato tutta oggi è diventata una preghiera laica e quotidiana ogni mattina. Proprio qui, proprio dentro casa tua, nella tua cascina senza porcilaie ma che è stata piena di porci. Mi chiedo se ti brucia, mentre in carcere recitavi la parte dell’invincibile avere detto a Miano che Caccia l’avevi fatto ammazzare tu. Chissà come ci sei rimasto male, tradito da un infame e da un infermiere che il coraggio lo praticano per amore e non per una puttana a forma di maestà. Chissà quando te lo raccontano che a casa tua piano piano i guardiani del faro stanno strofinando via l’odore della tua famiglia e della vergogna. Chissà che magari, come tutti i tuoi compari non preghi di essere messo nelle mani di Dio e lui non ti aspetti sotto un lampione su una 128. Chissà se un giorno a voi mafiosi per un allineamento degli astri non vi succeda che riusciate ad avere un sussulto per vedervi allo specchio così anoressici d’indignità. Chissà se ci hai creduto davvero che tuo fratello Sasà riuscisse a continuare impunito mentre faceva girare in 4 anni 11 quintali di cocaina. Dal Brasile poi in Spagna fino a Genova e Torino nell’ennesimo giro del mondo dei soldi in polvere. E chissà se non ti dispiace che tuo fratello Beppe invece non sia proprio all’altezza, lui che si è buttato sul gioco d’azzardo e alla fine si è azzardato troppo anche se aveva le spalle coperte dalla ‘ndrina Crea. Chissà come ti suona stonato sentire suonare una memoria libera proprio qui nel tuo cortile dove travestito da boss del presepe ti compravi la benevolenza con le ricotte. Chissà se un po’ non hai sorriso sapendo che alcuni tuoi compaesani di San Sebastiano Po temevano i disagiati per la “sicurezza pubblica”, impauriti dai disagiati del gruppo Abele dopo che ti avevano lasciato pascolare e sporcare per tutti questi anni. Vorrei chiederti, caro Mimmo, se non stai pensando che si avvicini la data di scadenza del tuo onore.

Bruno Caccia e il suo cane sono quei due sotto al secondo lampione.

A Mafiopoli le storie si cominciano a raccontare dalla fine. Bruno Caccia doveva finire il 26 giugno, che dico, per uno scherzo del destino il 26 giugno io ci sono pure nato. Oggi c’è un cortile, un cortile scippato ai Belfiore, un cortile che è stato rapinato al rapinatore, un cortile che vuole diventare da grande un giardino e una memoria che con le unghie sta rompendo il guscio. E il magistrato severo, sono sicuro, non riuscirebbe a trattenere un sorriso.