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ombra

Perquisita la solidarietà

La storia di Lorena e Gian Andrea va raccontata, contiene un monito che interessa tutti. A Trieste hanno un’associazione che aiuta i profughi della rotta balcanica. La polizia ha fatto irruzione nella loro casa alla ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina

A Trieste il 24 ottobre scorso l’estrema destra è scesa in piazza in diverse fazioni, piazza Libertà, si sono anche menati perché come si sa i fascisti hanno solo quel modo di comunicare e di esprimere idee politiche. Va così. Quando ha cominciato a circolare la notizia di perquisizioni in città ieri qualcuno avrà immaginato che finalmente si fosse deciso di prendere posizione contro l’apologia di fascismo, che finalmente si muovesse qualcosa, ma niente.

L’irruzione all’alba, nel perfetto stile con cui si stanano i latitanti più pericolosi, è avvenuta nell’abitazione di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir. Lorena ha 68 anni, è psicoterapeuta e vive con il marito Gian Andrea che di anni ne ha 84 ed è un professore di filosofia in pensione. Nel 2015 hanno attivato un piccolo presidio medico appena fuori dalla stazione per offrire un primo aiuto ai ragazzi che passavano il confine con la Croazia e che hanno piedi malconci e corpi segnati dalle torture. I due coniugi viaggiano anche spesso verso la Bosnia con scarpe, coperte, vestiti e medicinali per provare a lenire il terrore e il dolore. Per questo insieme ad altri hanno costituito l’associazione Linea d’Ombra ODV.

La loro nota racconta l’accaduto: «Questa mattina all’alba la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione privata di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, nonché sede dell’associazione Linea d’Ombra ODV. Sono stati sequestrati i telefoni personali, oltre ai libri contabili dell’associazione e diversi altri materiali, alla ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che noi contestiamo, perché utilizzata in modo strumentale per colpire la solidarietà».

E se ci pensate non è la prima volta che la solidarietà (o il buonismo, come lo chiamano alcuni) accenda indifferenza se non addirittura malfidenza. Tant’è che ogni volta che qualcuno compie un gesto “buono” senza nessun evidente ritorno economico o di altro tipo viene subito additato come “pericoloso”. La solidarietà che diventa “reato” o presunto reato è un crinale pericoloso. Per questo la storia di Lorena e Gian Andrea va raccontata: perché così piccola contiene un (preoccupante) monito che interessa a tutti.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il governo “tecnico” non esiste

La definizione di “governo tecnico” è una truffa: è una locuzione che si ritira fuori ogni volta che non si ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità

Per disinfettare la scarsa credibilità che sono riusciti ad accumulare in questi anni i partiti (praticamente quasi tutti) si sono accodati alla narrazione fallace del “governo tecnico”, della “responsabilità”, al feticcio “dell’alto profilo” e al “governo voluto dal Presidente”. Vorrebbero convincerci quindi che siano in pratica “costretti” a partecipare al governo Draghi per condonare qualsiasi azione venga compiuta nei prossimi mesi, in caso di insediamento del governo, e poter poi ricominciare a sparare a palle incatenate contro Draghi l’uomo solo al comando che ritornerà utile abbattere quando calerà il consenso popolare di questo o di quel leader.

La definizione di “governo tecnico” è una truffa: è una locuzione che si ritira fuori ogni volta che non si ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità e viene spalmata da certi giornaloni nella speranza di “sospendere la politica” in un liberi tutti che sospenda ogni giudizio. Eppure il prossimo governo Draghi, com’è giusto che sia, sarà un governo politicissimo: cosa c’è di più politico di decidere una maggioranza in Parlamento che si prenda la responsabilità di guidare un Paese in piena pandemia? Non è politica prendersi la responsabilità di scrivere una legge elettorale? Non è politica l’elezione prossima del Presidente della Repubblica? Non è politica decidere le priorità nella spesa dei soldi che arrivano dall’Europa? Non è politica decidere come e quanto ristorare un Paese in piena crisi occupazionale a causa del virus? Non è politica decidere come provare a fare ripartire un Paese?

Dai, non prendiamoci in giro, su. Questa smania di queste ore che ha colpito taluni capi di partito mentre si mettono in disparte in nome del culto di Draghi come se fosse un Babbo Natale da aspettare solo strizzando gli occhi e sperando di sentire il tintinnio delle renne non ha niente a che vedere con quel senso di responsabilità che viene sventolato in queste ore da tutte le parti. Non si appoggia Draghi perché “calcia le punizioni come Baggio” o perché è un “Ronaldo che non può stare in panchina” (a proposito: avrebbe dovuto essere l’inizio di una politica alta ma il livello dell’analisi è puro bar sport) ma ci si prende la responsabilità di ascoltare e porre i propri temi.

I temi, appunto: la scomparsa dei punti programmatici che fino a qualche giorno fa sembravano imprescindibili dimostra un primo preoccupante effetto Draghi che era facilmente immaginabile ovvero la tentazione dei partiti di nascondersi sotto la sua ombra per poi accoltellarlo alle prossime idi. Se davvero è il momento della serietà allora che si faccia i seri e che questo giro di consultazioni apra un dibattito vero su quali siano gli eventuali punti d’intesa di una maggioranza che potrebbe mettere insieme formazioni politiche inconciliabili fino all’altro ieri.

Perché più continueranno le iperboli sul nome di Draghi senza scendere nella discussione dei punti e più si sente l’odore della truffa. Fingono di prendersi Draghi a scatola chiusa perché sognano di rivendercelo, a scatola chiusa.

Buon venerdì.

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Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare…

Ora almeno ci sono anche dei numeri, pochi, pochini e perfino poco chiari. Dopo mesi in cui tutti chiedevano aggiornamenti l’altro ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il suo rapporto per il periodo dal 31 agosto al 27 dicembre sui contagi a scuola mettendo nero su bianco che si tratta di 3.173 focolai di coronavirus pari al 2% del totale. Si tratta di bambini e ragazzi in età scolare (dai 3 ai 18 anni): la maggior parte dei casi, ben il 40%, si è verificata negli adolescenti dai 14 ai 18 anni. Si potrebbe partire da qui ad aprire un serio dibattito sul futuro, sul presente e sul passato recente delle scuole italiane in tempo di pandemia se non fosse che l’Iss non sa dire nulla sul fatto che il contagio avvenga in classe oppure nei (troppo pochi) trasporti prima e dopo le ore di lezione. Il nodo dei mezzi pubblici rimane un grosso punto interrogativo. Stesso discorso sulla reale efficacia della chiusura delle scuole per frenare la diffusione del Covid: «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro», si legge nel rapporto.

E quindi? E quindi sulla scuola si continua con l’indecente balletto di favorevoli e contrari, di opposte tifoserie che si scontrano per opposte fazioni spesso dimenticando di proporre soluzioni. In mezzo un governo che sulla questione continua a balbettare e appare piuttosto disunito: la ministra alla scuola Lucia Azzolina pretenderebbe un rapidissimo rientro in presenza mentre altri membri del governo, Dario Franceschini in testa, propendono per la linea della cautela a oltranza. La sintesi non c’è. Meglio: la sintesi è una sbiadita mediazione che per ora dal Consiglio dei Ministri dà il via libera in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì 11 gennaio mentre per le scuole primarie e secondarie di primo grado fissa la ripresa dal 7 gennaio in presenza. Peccato che intanto le Regioni vadano ognuna per conto suo con la Liguria che annuncia che non aprirà, la Sardegna che posticipa al 15 gennaio, il Veneto che rimanda al 31 come Calabria, Friuli Venezia Giulia e Marche, tutte in ordine sparso. La sensazione diffusa è che il molto probabile aumento dei contagi nei prossimi giorni cambierà di nuovo le carte in tavola.

«Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie», avverte Azzolina ma che il peso della ministra sia debole all’interno dell’esecutivo è molto più di una sensazione.
Poi ci sarebbe anche il pensiero degli studenti, raccolto da un’indagine Ipsos per Save The Children tra ragazzi dai 14 a 18 anni che racconta di come il 42% di loro ritenga ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro mentre loro non possono frequentare la scuola. Il 46% considera quello trascorso finora “un anno sprecato”. Save the Children stima che almeno 34mila studenti delle superiori, a causa delle assenze prolungate, potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Ad oggi, più di uno studente su tre (35%) si sente meno preparato di quando andava a scuola in presenza.

Poi si potrebbe parlare dei trasporti che ancora mancano, del tracciamento e dei presidi sanitari e dei tamponi che avrebbero garantito sicurezza e soprattutto di un sistema di ventilazione nelle aule che avrebbe potuto garantire più sicurezza. Ma di visoni strutturate e lunghe sulla scuola non se ne vede l’ombra. Intanto il personale scolastico si arrabatta e resiste, in attesa della prossima decisione poche ore prima di aprire i cancelli.

L’articolo Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare… proviene da Il Riformista.

Fonte

La cupidigia dei due Mattei

«Hai visto? Gli ho fatto il mazzo!». Non sono due discoli in mezzo a una strada dopo qualche bighellonata, no, è Matteo Renzi che incassa soddisfatto i complimenti dell’altro Matteo, Salvini, che si congratula con lui per avere bastonato Conte in Parlamento e avere incrinato il governo. Una scena simbolica, per niente inaspettata.

Vi ricordate quando, mesi fa, qualcuno faceva notare le assonanze dei due Mattei? Vi ricordate come si offesero le rispettive tifoserie, convinti davvero che i due fossero distanti come mimavano? Eccoli qui, ora: la coppia perfetta con la loro danza macabra che si inventa una crisi di governo nel giorno in cui l’Italia diventa il Paese europeo con più morti in assoluto. Si assomigliano in molte cose i due Mattei, parecchie.

Sventolano entrambi la “responsabilità” per incassare qualcosa. Lo fanno entrambi. Renzi appicca una polemica sulla cabina di regia del Recovery Fund (che contiene dubbi intelligenti che vale la pena discutere) ma poi come suo solito lascia andare la frizione e si ributta a frugare per trovare un posticino al sole buttando all’aria tutto. L’altro Matteo leghista invece parla da sempre di “buon senso” ma è solo una perifrasi per provare a riprendersi lo spazio che si è mangiato con il suo suicidio politico.

Hanno giocato entrambi con la salute cianciando di libertà. Matteo Salvini, greve come sempre, sventola addirittura l’ombra della dittatura sanitaria mentre Matteo Renzi gioca a fare il turboliberista per anteporre il fatturato alla salute. Due lati diversi di uno stesso modo di pensare: per loro i decessi sono i naturali effetti collaterali del loro modo di vedere il mondo. A loro va bene così. E non è un caso che invocassero le riaperture con gli stessi tempi.

Entrambi temono le elezioni. Renzi sa che con il suo partito da zerovirgola rischierebbe di contare per quello che effettivamente conta, poco o quasi niente, e quindi punta a monetizzare le dimensioni dopate dalla sua scissione in corso d’opera. Salvini sa che di non essere più il padrone del centrodestra e ha capito da tempo che Meloni e Berlusconi non sono più disposti a incoronarlo re. E infatti in nome della “pacificazione nazionale” propongono un governo nuovo (meglio: propongono loro al governo) senza passare dalle elezioni.

Entrambi non si capisce bene cosa vorrebbero. Se scorrete le loro dichiarazioni risultano chili di errori addossati agli altri ma non si vede bene quale sia la proposta. O meglio: si capisce che si propongono come soluzione, non si sa con quale strategia.

Entrambi hanno la memoria corta. Renzi da padrone del Pd urlava contro gli scissionisti e se la prendeva con i piccoli partiti che mettono a rischio i governi. Se l’è dimenticato. Salvini invocava elezioni a ogni piè sospinto e ora si abbandona ai giochi di palazzo addirittura invocando quel Mattarella che ha vilipeso per mesi.

Fantastici. Uguali. Una coppia perfetta, appunto.

Buon lunedì.

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Casellati dice che sullo stato d’emergenza Covid qualcuno nasconde la verità. Ma allora faccia i nomi

Hai voglia poi a debellare i negazionisti, a smentire punto su punto tutti i cospirazionisti e ad avere a che fare con i complottisti, se in un Paese come l’Italia la seconda carica dello Stato, la presidente del Senato Elisabetta Casellati, riesce addirittura a rilasciare un’intervista su uno dei principali quotidiani del Paese come il Corriere della Sera e dire tranquilla tranquilla: “Sulla proroga dello stato di emergenza, prima di tutto occorre avere informazioni corrette, senza nascondere i risultati del Comitato tecnico. Se non abbiamo accesso alle informazioni, non possiamo dire nulla. Abbiamo bisogno di verità. Gli italiani sono stanchi di oscillare tra incertezze e paure, in una confusione continua di dati che impedisce tra l’altro di programmare il lavoro”.

Ed è una frase che lascia più che perplessi perché non è chiaro dalle parole della presidente chi starebbe “occultando” la verità e chi, se non lei, che si ritrova ad avere una delle più importanti cariche dello Stato e la più importante del Parlamento, dovrebbe garantire quella “corretta informazione” che proprio lei invoca.

La pubblicizzazione dei pareri del Comitato Tecnico Scientifico è un tema parlamentare ed è un tema politico che va affrontato a viso aperto senza bisbiglii che nulla hanno a che vedere con la responsabilità e l’etica politica. La presidente Casellati crede che qualcuno nasconda delle informazioni? Benissimo: lo dica chiaramente senza giocare di sponda e vedrà che molti si muoveranno per verificare le sue accuse, noi giornalisti per primi.

Il “clima di incertezza” di cui parla è l’inevitabile inquietudine di fronte ai numeri del contagio che salgono e di fronte a uno scenario che per tutto il mondo è praticamente sconosciuto. Adombrare ipotesi che a parlamentari e ai cittadini vengano nascoste informazioni corrette significa svilire di fatto proprio lo stesso Parlamento di cui Casellati è classe dirigente.

Crede che ci sia una regia per imporre uno stato d’emergenza non giustificato? Benissimo, lo dica a chiare lettere senza girarci troppo intorno e ci dia gli elementi oscuri che il Parlamento deve chiarire. Queste mezze frasi di mezza propaganda sono veleni che servono solo a intossicare il dibattito senza nessun elemento aggiuntivo.

“Due parole d’ordine che ci dovranno accompagnare nei prossimi mesi: responsabilità e coraggio”, dice la presidente del Senato nella sua intervista. E allora lo chiediamo noi a lei: abbia responsabilità e coraggio nelle sue esternazioni. Perché le oscillazioni “tra incertezze e paure in una confusione continua di dati” (sono parole sue) nascono da interviste come questa. Ci dica, presidente.

Vaccino antinfluenzale: firma la petizione di TPI su Change.org

Leggi anche: 1. Governo e Regioni promuovano una vaccinazione antinfluenzale di massa: la campagna di TPI / 2. Covid, Cartabellotta: “Di questo passo, a Natale 1.000 in terapia intensiva e 12mila in ospedale” | VIDEO / 3. Fino a ieri ha sbeffeggiato il Coronavirus ora Trump (positivo) si affida alla scienza (di G. Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Tante promesse per nulla

Niente, gli è andata male anche questa: Salvini ci teneva così tanto a fare il martire per il suo processo che avrebbe dovuto cominciare il prossimo 4 luglio, quello che lo vede imputato per sequestro di persona per il cosiddetto “caso Gregoretti” quando 131 migranti rimasero per quattro giorni su una nave militare italiana prima dello sbarco ad Augusta il 31 luglio del 2019. Ci teneva moltissimo Salvini perché avrebbe potuto mettere in scena la trama del povero perseguitato che viene messo all’angolo dalla magistratura cercando un legame (che non c’è) con la vicenda delle orrende intercettazioni del magistrato Palamara. E invece niente. «C’è mezza Italia ferma però mi è arrivata una convocazione a Catania per il 4 luglio», aveva dichiarato il leader leghista e invece il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro è stato costretto al rinvio: «I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre», spiega. E anche sui dubbi di un processo ingiusto Sarpietro tranquillizza l’ex ministro: «Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo, giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna».

Tutto fermo, quindi e niente scontro giudiziario come quelli che piacciono così tanto al centrodestra eppure l’ombra di Salvini, al di là delle vicende processuali, continua a pesare su questo governo e a essere un macigno per questo centro sinistra che si ritrova alleato con gli stessi alleati che furono di Salvini, con lo stesso presidente del Consiglio che celebrò proprio i decreti sicurezza e con un’aria stagnante per quello che riguarda il futuro prossimo sul tema. “Discontinuità”, avevano promesso proprio all’inizio del Conte bis. In molti si ricordano che le due leggi estremamente restrittive sull’immigrazione furono ampiamente contestate da buona parte del Partito democratico, in molti si ricordano le promesse che furono fatte e poi ripetute e in molti si ricordano che furono proprio i maggiorenti democratici a dirci di stare tranquilli che sarebbe cambiato tutto e che si sarebbe cancellato presto quell’abominio. Niente di niente. I decreti sicurezza sono lì e dopo otto mesi non sono stati cambiati. Non sono nemmeno state apportate le modifiche che addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiesto in una sua comunicazione ufficiale. E se è vero che il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo è diminuito in questi primi mesi dell’anno è altresì vero che dopo la pandemia sicuramente ci si ritroverà di fronte allo stesso identico problema, con le stesse identiche strumentalizzazioni di Salvini (e della ringalluzzita Meloni) e ancora una volta si assisterà al cortocircuito del governo che tiene insieme quelli che andavano a visitare le barche tenute alla deriva di Salvini e quegli stessi che con Salvini definivano «taxi del mare» le navi delle Ong. Sono diverse le proposte di modifica depositate nei mesi: la riduzione delle multe che i decreti prevedono per le navi Ong impegnate nei salvataggi in mare (su cui anche Mattarella aveva avuto da ridire), il ripristino di alcune forme di protezione internazionale per rendere più facile la regolarizzazione delle persone sbarcate nonché maggiori investimenti nel sistema di accoglienza diffusa, quella che ha sempre funzionato meglio coinvolgendo piccoli gruppi in piccole strutture sparse sul territorio italiano. Niente di niente. Rimane solo qualche parola delle poche interviste rilasciate dalla ministra dell’Interno Lamorgese, l’ultima all’inizio di questa settimana, che ha più volte ripetuto di non essere favorevole allo stravolgimento delle leggi. A posto così. Figuratevi, tra l’altro, se in un contesto del genere si possa anche solo lontanamente parlare di ius soli o di ius culturae che erano altri capisaldi di una certa sinistra progressista che urlava ad alto volume contro Salvini e che ora si è inabissata in un penoso silenzio.

Ma è rimasto tutto fermo? No, no, è andata addirittura peggio di così: all’inizio di aprile il governo ha stabilito che i porti italiani non possono più essere definiti “porti sicuri” per le persone soccorse in mare e di nazionalità diversa da quella italiana, di fatto impedendo l’accesso delle navi delle Ong, riuscendo nel capolavoro di fare ciò che nemmeno Salvini era riuscito a fare con tutte le carte a posto. Nonostante la sanatoria approvata dal Consiglio dei ministri per rimpinzare di braccia i campi dell’ortofrutticolo e per garantire l’ingrasso della grande distribuzione il governo non ha nemmeno trovato il tempo di rivedere la legge Bossi-Fini del 2002 che di fatto rende impossibile trovare lavoro regolare per qualsiasi straniero extra comunitario. A metà dello scorso aprile dodici persone sono morte per sete e per annegamento (mentre altre cinquantuno sono state riportate nei lager libici) e anche l’indignazione per i morti sembra ormai essersi rarefatta. Il giornalista Francesco Cundari il 18 aprile ha colto perfettamente il punto: «Il governo ha abbandonato anche quel minimo di ipocrisia che ancora consentiva di accreditare una qualche differenza, almeno di principio, tra le parole d’ordine di Matteo Salvini e la linea della nuova maggioranza in tema di immigrazione, sicurezza e diritti umani», ha scritto per Linkiesta. Ed è proprio così: ormai la sinistra non finge nemmeno più di essere sinistra e spera solo che non si sollevi troppa polemica. Tutto si trascina in un desolante silenzio spezzato solo dalle inascoltate parole di qualche associazione umanitaria e dalla interrogazione parlamentare di Rossella Muroni sui respingimenti illegali, di cui leggerete nell’inchiesta di Leonardo Filippi che apre questo numero. Mentre in Parlamento ci si inginocchia in memoria di George Floyd qui ci si dimentica di quelli che senza ginocchio si riempiono i polmoni d’acqua per i criminali accordi che l’Italia continua a sostenere con la Libia e ci si dimentica di quelli che muoiono nelle baracche di qualche borgo di fortuna per schiavi.

Poi, in tutto questo, vedrete che arriverà il tempo in cui Salvini tornerà a fare il Salvini e tutti si mostreranno stupiti, ci diranno che vogliono fare tutto e che vogliono farlo presto e intanto sarà troppo tardi, intanto la gente muore, intanto gli elettori si allontanano e si ricomincia di nuovo daccapo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 19 giugno

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Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/01/il-colloquio-di-lavoro/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.