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Poveri, ovvero ricchi che non ce l’hanno fatta

Forse sarà che abbiamo una classe politica più dedita alla rappresentazione che alla rappresentanza ma questa estate la ricorderemo come la stagione dell’esplosione definitiva della pauperofobia. Non si tratta di un’irrazionale paura della povertà, come ci si potrebbe perfino aspettare in un Paese di aspiranti borghesi sempre sul limite del bonifico, dove l’autopreservazione è la realizzazione più alta a cui aspirare. È piuttosto una paura epidermica e nervosa di poveri, un’irritazione sociale che provoca reazioni scomposte ogni volta che se ne incontra qualcuno. Come per quelli che temono i ragni e agitano le tende con le dita, terrorizzati che la bestiolina possa saltare fuori.

Che paura, i poveri. Li incroci girando l’angolo di qualche periferia, li trovi in mandria che prendono il primo treno del mattino. E ogni volta una vocina nella testa ripete che no, non è tutto così serenamente previsto. Per evitarli, fisicamente e intellettualmente, i pauperofobici fanno il giro lungo. Non è volontà di disinfestazione (anche i pauperofobici sanno che senza poveri non esisterebbero i ricchi), piuttosto il sogno di una modalità di vita e di mondo che gli permetta di non doversene curare, di poter adottare un distanziamento sociale, politico e culturale utile ad alimentare l’illusione che non esistano.

La retorica sul reddito di cittadinanza e sulle colpe di chi è in stato di indigenza è il mezzo dei politici per scacciare la paura dei poveri
Milano, un “muro della gentilezza” (Getty)

La povertà come punizione giusta per un fallimento

Il pauperofobico, poi, ha bisogno di trovare le colpe. Per lui la povertà non esiste ma è solo una punizione giusta per un fallimento. Così si rincuora, scoprendo ogni volta quale sia il peccato mortale che ha ridotto qualcuno in cenci. «Se conosco gli errori da non fare e poiché sono sicuro della mia capacità di non compierli, allora non rischierò mai di diventare povero», si ripete ossessivamente e, in quest’estate di pauperofobia, tutti i malati si sono strizzati le meningi per scovare le cause e dormire sereni. Le cause, appunto. Va forte l’indolenza, un sempreverde che dura da decenni e sostiene una visione del mondo per cui se fai quello che devi allora non avrai problemi di sorta (sì, ciao). Va forte la mancata educazione: «beh, con una famiglia così», dicono i pauperofobici dandosi pacche sulla spalla, convinti che lo scopo di uno Stato sia quello di assegnare il marchio doc alla famiglia giusta. E del resto se qualcuno paga lo scotto di nascere in una famiglia così (che significa povera, ma il pauperofobo non ha il coraggio di una parola che gli risuona come bestemmia) è normale diventi così anche lui.

La vera novità però è il reddito di cittadinanza. Il duo dei Mattei ha capito benissimo che i poveri sono tali perché ne hanno ricevuto lo status. E poiché, secondo loro, la parola genera realtà, si ingegnano per dire ai poveri che non sono solo poveri ma semplicemente colpevoli. Hanno passato tutta l’estate a ripeterci che non si trovavano lavoratori perché i poveri sono dei privilegiati che possono cullarsi della loro situazione. Poi è accaduto che l’Inps abbia dato i numeri  – 142mila contratti per gli «stagionali che non si trovano», mai così tanti in 8 anni – e loro abbiano fatto finta di niente. I pauperofobici sono così, scollegati da una realtà che altrimenti li schianterebbe.

I pauperofobici vorrebbero solo un bidone in più per la differenziata

Poiché odiano i poveri, i pauperofobici non sopportano nemmeno che esista un dibattito sulla povertà, vorrebbero semplicemente un bidone in più nella raccolta differenziata per buttarceli dentro e di solito quel bidone si chiama periferia. Sostengono, poi, che il reddito di cittadinanza sia discriminatorio: se esiste un sostegno per i poveri allora perché non pensarne uno anche per i biondi oppure per i cittadini che hanno troppo spazio tra i denti?

Sapete perché odiano i poveri? Perché, in fondo in fondo, hanno la netta sensazione di non conoscere davvero le chiavi del proprio successo. In cuor loro, anche se non lo diranno mai, sanno benissimo che la ricchezza non è un merito (nonostante insistano nel gridarlo) ma spesso una concatenazione di fattori, dal censo alle possibilità che altri non hanno avuto. Come gli artisti che non riescono a governare la propria ispirazione temono fortissimamente di svegliarsi una mattina scoprendo di averla persa. I pauperofobici odiano i poveri perché hanno una paura fottuta di diventarlo. Hanno costruito un’architettura di tesi che non stanno in piedi per rassicurare la loro ossessione nascosta. Convinti se non esisteranno più poveri, svanirà anche l’incubo di risvegliarsi tale. Solo che hanno ammantato questa loro giustificazione rivendendola per tesi politica. Che povertà, di spirito.

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Essere Barillari: ovvero approfittare di un calciatore quasi morto per collezionare qualche like

Essere Barillari non è difficile di questi tempi anzi addirittura funziona, porta un po’ di visibilità e riesce a coagulare cretini e cretinismi che vivono il privilegio di non sentirsi più soli.

Se è vero che internet e i social hanno portato una drastica diminuzione delle distanze, trasformando il mondo in un grande bar dove potersi sollazzare di boiate di fronte al bancone il consigliere regionale del Lazio Davide Barillari si è ritrovato l’occasione di poter essere lo scemo del villaggio con una tale quantità di amici da non averlo mai nemmeno potuto sperare nei suoi sogni più arditi.

Così anche oggi risuona forte per l’indegnità di una sua ennesima dichiarazione (che lui sputa sotto forma come sempre di un pensiero breve, ottimo per essere intelligibile facilmente e per starci dentro un tweet): Barillari è spaparanzato sul suo divano con il suo cellulare in mano (la sua bolla sociale che non gli sarebbe concessa in qualsiasi consesso dal vivo), vede il giocatore Eriksen stramazzare sul campo rischiando la morte e come primo pensiero non ha né pietà umana (figurarsi), né preoccupazione (sentimento troppo complesso) e nemmeno un fanghiglioso moto di tifo perfino avverso.

No, Barillari che deve la sua patetica celebrità a un’imperterrita negazione della realtà soffiando su vomitevoli complotti immaginari, pensa subito a come può usare quel calciatore quasi morto per collezionare qualche like e per soffiare sugli sfinteri dei suoi seguaci e quindi come prima cosa pensa subito al vaccino, l’odiato vaccino che secondo lui una superiore entità mega segreta e potentissima avrebbe formulato per distruggere il mondo.

A Barillari non viene il dubbio che questa super massoneria ingegnerizzata debba essere proprio fallace se è riuscita a farsi scoprire da un Barillari spaparanzato sul divano perché i Barillari (lui è solo il capo branco ma il modello è replicabile e replicato) pensano di essere talmente intelligenti da riuscire a disarticolare le mafie mondiali con due clic su Google e su YouTube.

Peccato che Eriksen non sia nemmeno stato vaccinato e così, in un mondo normale, un Barillari verrebbe scanzonato. E invece no: gli incapaci di spiccare tra persone sensate vanno a giocare sempre nel campo del cretinismo. Incapaci di valere almeno un’unghia nella realtà se ne inventano un’altra dove possono farsi notare. L’importante è avere avuto un’idea originale e rara, che poi lo sia perché altamente stupida non è un problema che lo sfiora. Il reddito di cittadinanza di Barillari è inesauribile: l’idiozia.

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Aurora Leone e il solito copione di Fallocrazilandia, ovvero come una donna da vittima diventa carnefice

Nuova esilarante puntata in arrivo dal fantastico mondo di Fallocrazilandia, questa volta con tutti gli ingredienti che rendono pepata l’avventura: c’è il calcio (anzi, meglio ancora: ci sono dirigenti di una nazionale di vip un po’ imbolsiti che mettono a disposizione la propria faccia per buone e giuste cause mentre i loro dirigenti credono di essere in Super League), c’è il cibo (un ristorante non manca mai come set per i bagordi tra maschi), c’è il maschilismo un po’ macho che non faceva già più ridere nei filmetti di Natale 10 anni fa e poi c’è la donna, ovviamente ritenuta “fuori luogo” e poi bollata come nevrastenica perché ha deciso di farsi rispettare.

Lei è Aurora Leone, talentuosa comica del gruppo The Jackal, che con il suo collega Ciro Priello avrebbe dovuto partecipare a Torino alla partita amichevole tra Nazionale Cantanti e Campioni per la Ricerca e che andrà in onda su Mediaset. Chi segue i The Jackal e Aurora Leone sa bene che lei da giorni mostrava fiera la sua convocazione alla partita per una causa così importante.

Mentre cenavano nella stessa stanza della nazionale cantanti i due comici sono stati avvicinati da Gianluca Pecchini, direttore generale della Nazionale Italiana Cantanti (il superuomo di questa storia) che avrebbe detto a Leone «Sei donna, non puoi stare qui». Per non lasciare dubbi sulla levatura del suo fallace e fallo rate ragionamento Pecchini avrebbe anche risposto ad Aurora Leone, che faceva presente di avere la divisa per entrare in campo nella partita, «ma tu il completino te le puoi mettere pure in tribuna, che centra. Le donne non giocano. Queste sono le nostre regole e se non le volete rispettare dovete uscire da qua” e ancora non farmi spiegare perché non puoi stare seduta qui, tu non puoi e basta».

Il resto è una triste costante in vicende come questa: Aurora Leone si è (giustamente) incazzata, i due se ne sono andati e hanno annunciato la propria defezione alla prossima partita, qualche cantante ha espresso solidarietà (e gli altri?) e il giorno successivo (cioè oggi) esce un bel comunicato della Nazionale che accusa Aurora Leone di “arroganza, minacce e violenza verbale”.

Una matta, insomma, strano solo che non abbiano ironizzato sul suo nervosismo. E per chiudere in bellezza ci tengono a dirci che “tantissime donne” hanno partecipato ai loro progetti. Un po’ come quelli che dicono “ho tanti amici gay ma…”. E così la “donnina” fuori posto improvvisamente dovrebbe essere addirittura la carnefice, chiaro? In attesa della prossima replica del solito copione.

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