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Conte massacrato perché “non si discuteva del Recovery”. Ma il piano di Draghi nessuno l’ha visto

Eravamo in ritardo già due mesi fa, quasi tre. Lo dicevano a gran voce tutti, lo ribattevano i giornali, lo dicevano quasi tutti i partiti e i renziani ci avevano detto che la mancata discussione del Pnrr “con un dibattito aperto e franco in Parlamento” era uno dei principali motivi della crisi di governo.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è il programma di investimenti che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU, lo strumento per rispondere alla crisi pandemica provocata dal Covid-19: il piano va presentato il prossimo 30 aprile, tra pochi giorni, ma non l’ha ancora visto nessuno.

I sindacati che hanno incontrato ieri Draghi hanno raccontato di non avere visto nulla di scritto, nonostante si siano presentati pieni di speranze. “Noi riconosciamo solo a Omero la possibilità di una descrizione orale” ha detto ieri Pierpaolo Bombardieri, segretario della Uil, ma qui tocca fidarsi delle buone intenzioni, visto che anche gli stessi partiti non hanno ancora visto nulla.

Ieri c’è stato l’ultimo incontro con le forze politiche, la delegazione di Leu, e anche in quel caso nulla di scritto. Perfino Carlo Bonomi, presidente di Confindustria sempre piuttosto tenero con Draghi, ha dovuto specificare che si riserva una valutazione “perché non è stato visto alcun documento”.

Ultima versione del piano? Quella del 12 gennaio, ritenuta “insufficiente” dagli stessi partiti che ora si sono meravigliosamente ammansiti. 34 associazioni tra cui Libera, Transparency International Italia, Lipu, Cittadinanzattiva, Cittadini reattivi, Re-Act, Fondazione Etica hanno scritto una lettera ai Ministri Franco, Giovannini, Colao, Cingolani e al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Garofoli per chiedere di pubblicare con urgenza le bozze del piano: “A pochi giorni dalla data che sancisce l’obbligo di consegna di Piano definitivo a Bruxelles e in previsione di una spesa pari a 220 miliardi di euro di risorse comunitarie e nazionali, ci è ancora impossibile pronunciarci sui contenuti del PNRR perché l’ultima bozza non è stata resa disponibile”, scrivono.

In Parlamento probabilmente verranno fatte delle “comunicazioni”, sottoposte al voto, che saranno molto generiche. E pensare che fino a qualche giorno fa si pensava semplicemente a delle “informative”. “Sarebbe utile leggere il piano” dicono tutti composti in Parlamento quelli che prima si strappavano i capelli e intanto sperano che non si colga l’incoerenza. Un altro punto nella lista delle urgenze che si sono spente.

Leggi anche: E anche Beppe Grillo scoprì cos’è il giustizialismo (di Giulio Cavalli)

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Palazzo Chigi val bene una messa: teatri chiusi, chiese aperte

L’immagine più lampante è la chiesa con un cinema accanto, a Fiorano Modenese, dove il parroco don Paolo, evidentemente illuminato nel ruolo di direttore artistico della santità, ha deciso di aprire il Cinema teatro Primavera per trasmettere in streaming la messa pasquale. Gente seduta, luci soffuse da cinema, schermo abbassato e proiezione della messa: a parte i popcorn c’erano tutti gli ingredienti di una normale proiezione di un qualunque film, una serata qualsiasi di quelle che ormai da un anno i vari Dpcm vietano in tutta Italia.

Ma il prete, incalzato dai giornalisti, ci ha spiegato che «il Dpcm vieta le attività teatrali e cinematografiche, ma noi non abbiamo fatto né l’una né l’altra. Quella sala non viene utilizzata come cinema da ormai 13 anni, non abbiamo neanche più la licenza: semplicemente l’abbiamo impiegata come salone perché non sapevamo come altro mettere a riparo i fedeli». Insomma, la messa vale, il cinema no.

Poiché le chiusure sono figlie di una precisa politica sanitaria di prevenzione sfugge prepotentemente il motivo per cui la circolazione del virus cambierebbe in base al contenuto proiettato. In fondo è lo stesso dubbio che attanaglia i lavoratori del teatro che operano nelle medesime condizioni delle liturgie che al contrario non si sono mai fermate: un palco lì dove c’è un altare, una platea di spettatori lì dove invece ci sono i fedeli e un distanziamento che potrebbe essere rispettato in una chiesa come in una qualsiasi sala teatrale.

Forse esiste una variante santa del virus di cui non ci hanno dato spiegazione o forse semplicemente la laicità che dovrebbe essere garantita dalla Costituzione si frantuma ancora una volta contro gli interessi lobbistici di una Chiesa che rivendica (purtroppo con successo) una superiorità morale rispetto a qualsiasi altra attività umana che si svolge su suolo italiano. Tornando per un secondo a Fiorano Modenese sarebbe da rivedere la faccia del sindaco Francesco Tosi che si è affrettato a dichiarare in difesa del prete che «tutte le norme sono state rispettate», riuscendo perfino a contravvenire le più elementari regole di logica oltre alle condizioni dei Dpcm.

Sui social circola ormai da un anno una battuta, mestamente rilanciata dai…

L’articolo prosegue su Left del 16-22 aprile 2021

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I risparmi della mamma

Era immaginabile che la procura indagasse il presidente di Regione Lombardia (l’ipotesi di reato è autoriciclaggio e falsa dichiarazione in sede di voluntary disclosure, lo scudo fiscale) per il suo conto corrente in Svizzera di 5,3 milioni di euro, a detta del presidente “ereditati” dalla madre.

Bastava leggere con attenzione la storia raccontata nelle carte dell’altra indagine che vede coinvolto il presidente, quella dei famosi camici del cognato e della moglie prima venduti alla Regione, poi “donati” (perché si erano sbagliati, hanno detto, che sbadati) e infine sequestrati dalla procura. Proprio nel tentativo di pagare quei camici si scopre che Fontana aveva usato il suo conto svizzero per un bonifico di 250mila euro. Sia chiaro: detenere denaro all’estero non è un reato (tra l’altro quei soldi sono stati scudati nel 2015 grazie alla legge voluta dal governo Renzi) ma, al solito, ci sono questioni di responsabilità politica (al di là della questione giudiziaria) su cui basterebbe dare alcune risposte.

Dice Fontana che quel tesoretto siano i risparmi della madre, dentista. «Evasione fiscale? Ma figuriamoci, lei era superfifona», disse Fontana. C’è da dire che fosse piuttosto scaltra, questo sicuro, se è vero che a partire dal 1997 aveva trasferito i suoi soldi prima in Svizzera e poi alle Bahamas su un conto su cui il figlio poteva tranquillamente operare. Attilio Fontana tra l’altro in quegli anni era sindaco di Induno Olona, vale la pena ricordarlo.

Si è parlato poco anche del fatto che i suoceri del presidente (Paolo Dini, il patron della Dama, deceduto due anni fa, e sua moglie Marzia Cesaresco) avessero, con la società di famiglia, spostato circa 6 milioni di euro poi condonati. «L’istante Paolo Dini ha detenuto attività finanziarie all’estero in violazione degli obblighi di dichiarazione dei redditi e di monitoraggio fiscale», si legge nelle note di accompagnamento alla domanda di condono. Evasione fiscale, in pratica. A questo si aggiungono una serie di operazioni (che ha raccontato benissimo Giovanni Tizian per Domani) segnalate come sospette proprio da parte della moglie di Fontana che ha ereditato l’azienda insieme a suo fratello. Quella dei camici, per intendersi.

Eppure a Fontana basterebbe rispondere solo ad alcune semplici domande: quel conto svizzero è il suo unico conto all’estero? Può dimostrare la legittimità di tutte le operazioni effettuate su quel conto? Quando è stato acceso, nel 1997, era destinato solo a preservare i risparmi della mamma, dentista di Varese e all’epoca ultrasettantenne? Fontana ha usato quel conto anche per suoi interessi personali? Se sì, quali? Con che soldi?

Perché siamo sempre alle solite: l’etica dei rappresentanti politici è un tema che sta fuori dalle indagini giudiziarie e Fontana deve delle risposte agli elettori. Semplicemente questo.

Poi magari si potrebbe discutere di come stia governando la Lombardia ma su quello ormai il giudizio è quasi unanime ed è già Cassazione.

Buon giovedì.

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Il Natale di Salvini

Nella bieca rincorsa a ritagliarsi un posto al sole per ottenere un po’ di visibilità e per andare “contro” al governo Matteo Salvini si è inventato un’altra delle sue invitando tutti a disubbidire alla zona rossa natalizia: “tutti fuori a fare volontariato”, dice Salvini, nel tentativo di incastrare con i buoni sentimenti la sua fregola di essere irresponsabile.

Peccato che la frase, nonostante possa fare breccia tra i suoi fan, non significhi assolutamente nulla, che sia assolutamente priva di senso e sia in netto contrasto con il suo modo di agire, di pensare e di parlare. “Fare volontariato” è una cosa terribilmente seria che non ha nulla a che vedere con il farsi foto insieme a qualche senza tetto. Fare volontariato significa impiegare il proprio tempo e il proprio ruolo in attività organizzate che garantiscano la dignità, se non il benessere, delle persone in difficoltà. Fare volontariato ad esempio significa anche riconoscere la povertà, vederla, conoscerla, abitarla: l’esatto opposto di quello che fece il vicesindaco di Trieste Paolo Polidori quando dichiarò di avere buttato via le coperte dei senzatetto “con soddisfazione” (disse proprio così), l’esatto opposto di quello che fece l’assessora leghista di Como che tolse la coperta a un senza tetto pubblicando tutta fiera il video su Facebook (lì a Como dove nel 2017 venne vietato proprio dalla Lega di dare un latte caldo proprio ai clochard).

Se invece vogliamo rimanere su Salvini allora sarebbe da capire come intenda il volontariato se proprio i suoi senatori hanno acceso una gazzarra in Parlamento mentre si archiviavano quegli orrendi decreti sicurezza dell’ex ministro.

Se Salvini vuole fare volontariato allora potrebbe benissimo ascoltare volontariamente i racconti dei pescatori da poco liberati in Libia che raccontano come quella detenzione fosse al di fuori di qualsiasi diritto umano. Proprio quella Libia che Salvini ritiene “un porto sicuro” in cui ammassare tutti i senza tetto del mondo che provano a trovarlo, un tetto.

Oppure potrebbe ammettere che anche la bontà in fondo per lui è solo un feticcio da sventolare alla bisogna. E potrebbe riconoscere che con questa sua uscita da finto filantropo fa sanguinare le orecchie per la contraddizione che contiene. Perché i buonisti sono naturalmente molto aperti ma non sopportano le minchiate.

Buon lunedì.

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Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto

Benissimo, Corrado Augias ha lasciato il segno restituendo la Legion d’Onore alla Francia dopo che l’Eliseo ha conferito il più alto riconoscimento del Paese al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Augias ha spiegato ieri di averlo fatto per rispetto di Giulio Regeni e per sottolineare la mancata collaborazione del governo egiziano alla ricerca della verità sull’omicidio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani.

A ruota anche l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, l’ex ministra Giovanna Melandri e la giornalista Luciana Castellina hanno preso la stessa decisione per contestare Macron, che tra l’altro, da parte sua, ha tentato vanamente di tenere sotto traccia il conferimento facendo sparire foto e video della cerimonia in onore di al-Sisi.

Ha ragione Luciana Castellina quando scrive che la vicenda “costituisce un dolore per chi come me, e tanti italiani, si sente così legato alla Francia. È una brutta pagina della storia di questo Paese. Un gesto, aggiungo, stupefacente, che nessuno si sarebbe aspettato dalla Repubblica francese”.

Ora però forse sarebbe il caso di allargare lo sguardo e tornare dalle nostre parti, qui dove la procura di Roma ha svolto un enorme lavoro con quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo ma dove anche la politica non sembra ancora in grado di prendere posizioni forti.

Insomma, il problema non è Macron. “Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?”, ha chiesto qualche giorno fa Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, che su ciò che si potrebbe fare per esercitare le giuste pressioni sul governo egiziano ha tracciato una strada netta: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali.

“La priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici”, ha detto in conferenza stampa il padre di Giulio, Claudio Regeni. La famiglia pretende “un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni”.

Il ministro Di Maio nell’ottobre 2019 aveva parlato di “conseguenze”, se non avesse ottenuto collaborazione alle indagini da parte dell’Egitto. Di collaborazione non ce n’è stata (lo scrive anche la procura): quali sono le “conseguenze”?

Lo scorso 30 novembre la procura della Repubblica egiziana ha annunciato di avere “temporaneamente” chiuso le indagini. Una fonte del governo egiziano che ha parlato al quotidiano Mada Masr ha detto lo scorso 11 dicembre: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”. Forse il problema non è solo Macron, no?

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi

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Sardegna e discoteche dappertutto

Non è un caso da poco quello aperto dalla Procura della Repubblica di Cagliari per epidemia colposa e per altri reati sul Ferragosto vacanziero sardo in cui le discoteche sono rimaste bellamente aperte mentre già arrivavano i primi preoccupanti numeri del virus.

La vicenda intanto. Tutto nasce da un’inchiesta della trasmissione televisiva Report che intervista due consiglieri regionali della maggioranza (nomi di peso: Angelo Cocciu è capogruppo di Forza Italia, Giovanni Satta vicecapogruppo del Partito Sardo d’Azione) mentre confessano «pressioni da parte degli imprenditori del settore». L’ordinanza del presidente della Sardegna Solinas risale all’11 agosto sulla base del parere del Comitato tecnico scientifico regionale. Almeno così dice Solinas. Il parere del Comitato però sembra impossibile da vedere, da leggere e da controllare. «Se c’è – ha intimato Emiliano Deiana, presidente regionale dell’Anci – lo tirino fuori subito. Se non c’è, vuol dire che i soldi di pochi hanno contato più della salute di tutti i sardi». Fonti investigative fanno intendere che forse quel parere sia stato semplicemente “verbale”. Tipo un consiglio al telefono, siamo a questi livelli qui.

Una cosa è certa: quell’ordinanza permise alle discoteche più in voga (come Billionaire, Phi Beach, Just Cavalli, Country Club e Sottovento) di ammassare un bel tot di gente tutti festanti e senza mascherina procurando uno dei più grossi cluster di quei mesi. Tanto per avere un’idea dei numeri: solo nel Lazio sono stati intercettati più di 1200 positivi di rientro dalla Sardegna. 1200.

Solo che la Sardegna e le discoteche sono dappertutto, in tutta Italia, in aperture che sono rimaste aperte (e che sono ancora aperte) e che poiché non hanno nomi e volti noti magari non vengono raccontati e investigati. Non so se avete notato che dalla narrazione generale sembra ad esempio che siano spariti magicamente tutti gli infettati in fabbrica, sui posti di lavoro, negli ospedali (solo negli ospedali di Milano San Carlo e San Paolo nelle prime 3 settimane di ottobre, badate bene, c’erano 80 lavoratori contagiati). Tutto sparito. Si fanno pulci alle scuole (giustamente) ma l’attività produttiva, quella che non si potè toccare nella bergamasca nella prima ondata, continua imperterrita a non esistere. E chissà quante centinaia di inchieste andrebbero aperte. Magari anche senza bisogno del giornalismo investigativo.

Il crinale su salute e lavoro è quello su cui camminiamo in questo tempo buio.

Buon giovedì.

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Le sta sbagliando tutte

Matteo Salvini non fa proposte concrete e dimostra di non avere una strategia sull’emergenza pandemia. E continua a inanellare una serie incredibile di figuracce

Ieri nel Consiglio regionale lombardo, settima commissione ore 10/10.30 volano stracci in casa Lega: Massimiliano Bastoni insulta Salvini ma non si accorge di avere il microfono accesso. Il presidente di commissione Terzani lo rimprovera insieme a Paola Romeo (Forza Italia). Una scena meravigliosa ma indicativa. Eccolo qui:

Il piccolo incidente però è indicativo. Matteo Salvini le sta sbagliando tutte e sono in molti ormai nella Lega che glielo stanno facendo notare. Una premessa: governare un Paese in tempi di pandemia, con tutte le decisioni difficili da prendere, costa moltissimo in termini di consensi. Accade negli Usa con Trump, accade in Francia con Macron, accade in Brasile. Indici di gradimento che sono in continua discesa e le opposizioni che risalgono prepotentemente. È il gioco della politica da sempre: governare costa in termini di consenso e farlo in un periodo di incertezza e di crisi sanitaria ancora molto di più.

Lui no. Lui, Matteo Salvini, è riuscito a passare dal 37% dell’agosto 2019 al 24,3% dell’ultimo sondaggio e continua a inanellare una serie incredibile di figuracce. Ieri mattina è corso dal suo presidente della Lombardia Fontana perché diceva non condivideva il lockdown notturno pensato dal presidente della Lombardia. Ha anche sparato la solita tiritera sulla libertà: «le limitazioni delle libertà personali mi piacciono poco e devono essere l’ultima spiaggia», ha detto prima di entrare nel palazzo della Regione. Ne è uscito scornato. Fontana è rimasto sulla sua posizione e pace per il leader leghista.

Badate bene: Salvini è lo stesso che 15 giorni fa diceva che non ci fosse nessun bisogno di prolungare lo stato di emergenza. Anche in quel caso aveva parlato di scelta politica non suffragata da dati sanitari: in 15 giorni è stato seppellito dalla realtà.

Del resto è lo stesso  che questa estate ha rilanciato più volte l’ipotesi del professore Zangrillo che dichiarava il virus “clinicamente morto”. Com’è andata a finire lo sappiamo bene: perfino Zangrillo ha dovuto tornare sui suoi passi. Salvini ovviamente ha fatto finta di niente, come al solito. A fine luglio Salvini aveva partecipato al convegno dei negazionisti, proprio con Zangrillo e Sgarbi. Riascoltare oggi quello che dicevano in quei giorni fa venire la pelle d’oca.

E ve lo ricordate a febbraio, quando fece quel video in cui disse “riaprire, riaprire tutto, tornare alla libertà”, pochi giorni dopo il paziente uno di Codogno? Ecco, poi ci sono stati i morti e le bare di Bergamo. Ha fatto sparire il video dai suoi social ma poi ci era ricascato ancora. Senza contare tutte le volte che si è esibito fiero senza mascherina, fino a che perfino i suoi supporter lo hanno duramente criticato ed è stato costretto a cambiare rotta.

Due giorni fa si è lamentato perché il presidente del consiglio Conte aveva telefonato alla coppia Fedez e Ferragni per chiedere di sensibilizzare i giovani sull’uso della mascherina e lui, pensando di fare una bella figura, ha detto ai giornali «a me ha fatto solo una chiamata di 40 secondi negli ultimi mesi». Ora, pensateci un secondo: quale sarebbe la strategia di Salvini? Non c’è. Proposte concrete non ce ne sono.

Certo perdere consensi di questi tempi è un capolavoro di inettitudine e tra i suoi (Zaia in testa) sono in molti a dirlo sottovoce. Almeno c’è di buono che non ce lo siamo ritrovati come ministro. Almeno questo.

Buon giovedì.

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Spiegateci perché gli esperti che minimizzavano il virus ora imperversano in tv (di Giulio Cavalli)

Spiegateci perché gli esperti del virus “clinicamente morto” imperversano in tv

Il virus non è morto, anzi, purtroppo per noi è in ottima salute: sfondati i 10mila positivi con 150mila tamponi, 55 deceduti, 4.343 ricoverati in più di cui 52 in terapia intensiva. Stanno benissimo però anche quelli che nei mesi scorsi vedevano psicotici e allarmisti dappertutto, quelli che ci avvisavano che ormai era tutto alle spalle e che addirittura si innervosivano se qualcuno provava a chiedere un po’ di precauzione in vista dell’autunno. Fu Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, che lo scorso 31 maggio ci annunciò nel corso del programma Mezz’ora in più che “il virus clinicamente non esiste più”.

Zangrillo poi provò a correggere il tiro, certo, ma rimane lo studio del San Raffaele di Milano che parlava (a maggio) di “pochi pazienti e tutti con sintomi lievi” dovuti al fatto che il virus aveva perso la propria capacità replicativa e che risultava essere “enormemente” indebolita rispetto a quella registrata a marzo. “Ha ragione il mio amico Alberto Zangrillo: clinicamente il Covid-19 non c’è più, è morto, ho più degenti con infezioni batteriche”, disse Paolo Navalesi, direttore dell’Istituto di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda ospedaliera di Padova e della Scuola di specialità, che si espresse anche sul futuro: “In base all’esperienza maturata in questi tre mesi, posso dire che se siamo riusciti ad affrontare in pochi giorni un’emergenza completamente sconosciuta, oggi saremmo in grado di rispondere nel giro di qualche ora, perciò mi sento tranquillo”.

“Chi parla di seconda ondata fa terrorismo”, disse ad agosto Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, che parlò addirittura di una “psicosi per una malattia ormai sotto controllo“. Sempre Bassetti lo scorso 9 settembre ci assicurava anche che in Campania non c’era “nessuna seconda ondata” ma semplicemente una “coda, peraltro prevedibile”. Eh, già. “Non ci sarà la seconda ondata” diceva anche Giorgio Palù, professore emerito di microbiologia e virologia dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia.

“Non ci sarà una seconda ondata, l’autunno sarà come adesso, il virus si sta adattando all’uomo, magari farà un ping pong con il pipistrello, cioè ce lo ripasseremo tra specie, ma non se ne andrà fino al vaccino”, disse il 6 agosto Massimo Clementi, professore ordinario di virologia al San Raffaele. E ora? Ora quegli stessi “esperti” che hanno minimizzato e hanno addirittura deriso chi temeva l’autunno tornano a essere considerati “affidabili” e a imperversare nei media. Ma siamo sicuri che non sia il caso di chiedere conto delle dichiarazioni che sono state rilasciate? Almeno un accenno di spiegazioni, basterebbe anche solo un “sì, scusate, mi sono sbagliato”. No? Ora teneteli bene a mente perché saranno quelli che cominceranno a strepitare contro il governo per le mancate misure. Scommettiamo?

Leggi anche: 1. Allarme terapie intensive: ecco la situazione regione per regione. Se i casi aumentano non siamo pronti / 2. “Ora fermiamoci 3 settimane”: parla Crisanti / 3. E alla fine lo hanno fatto: gli sceriffi governatori scavalcano il governo e chiudono le scuole (per colpa loro) – di Luca Telese / 4. Negazionisti contro empiristi: la guerra tra i virologi che decide se siamo liberi o no

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I rider di Uber Eats erano schiavizzati: la compagnia commissariata per caporalato

L’inchiesta su Uber Italy che vede coinvolte 10 persone per caporalato tra cui la manager di Uber Gloria Bresciani è la perfetta fotografia di un momento storico, al di là poi della rilevanza giudiziaria: sistematizzare le disperazioni per poterle spolpare fino all’ultimo centesimo appoggiandosi sulle povertà e nascondendosi dietro l’algoritmo di una piattaforma è il comandamento degli sfruttatori del 2020, gli schiavi non sono più solo nei campi con le schiene spezzate ma macinano chilometri sotto il sole o sotto la pioggia per la miseria di una lavoro sottopagato a cottimo come nelle peggiori storie di secoli fa.

È uno schiavismo scintillante, quello del delivery che ci porta comodamente i cibi a domicilio, che una certa narrazione è riuscito addirittura a rivenderci come una conquista. Solo che nel vocabolario impolverato dei diritti ormai sembra essersi smarrito il senso che una “conquista” lo è se porta vantaggi a tutti e invece qui ci troviamo di fronte a lavoratori, ancora una volta, stretti nella morsa di azienda e clienti.

Tra gli indagati anche Danilo Donnini e Giuseppe e Leonardo Moltini, amministratori della Flash Road City Srl e della Frc Sr, che andavano a cercare carne da macello da fare salire in bicicletta nelle sacche più in difficoltà delle storture politiche: i “pericolosi” immigrati in attesa di protezione umanitaria, quegli stessi che vengono già mangiati da certa propaganda politica, tornavano utilissimi per diventare manovalanza. Sono perfetti, se ci pensate, per un certo tipo di capitalismo: si ritrovano in una posizione di debolezza per reclamare diritti e hanno troppa fame per rinunciare a un lavoro.

Si legge nelle carte del pm di Milano Paolo Storari che gli indagati “approfittavano dello stato di bisogno dei lavoratori, migranti richiedenti asilo dimoranti nei centri di accoglienza straordinaria, pertanto in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale” e li destinavano al lavoro per il gruppo Uber “in condizioni di sfruttamento”. Pagamenti a cottimo per 3 euro a consegna, indipendentemente dalle distanze da percorrere e dalla fascia oraria, mance dei clienti che venivano sottratte, punizioni arbitrarie: “Abbiamo creato un sistema per disperati, ma i panni sporchi si lavano in casa”, diceva intercettata al telefono la manager di Uber. Consapevoli di essere degli schiavisti e sicuri di poter ambire all’impunità. Forse sarebbe il caso di imparare presto i nuovi riferimenti per riconoscere le nuove schiavitù. In fretta.

Leggi anche: Rider sfruttati, Uber Italia commissariata dal tribunale

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