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“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca”

L’editoriale particolarmente ispirato dell’amico Lorenzo Fazio:

No, non siamo in guerra, non siamo in guerra con nessuno. Invece, dopo quanto successo a Parigi, sembra che tutti diano per scontato che l’esercito della libertà e della democrazia sia già schierato  contro l’esercito del fondamentalismo sanguinario islamico. Siamo caduti in trappola. La parola guerra scappa di bocca a tutti, dal difensore più disciplinato dell’ordine occidentale all’opinionista più illuminato e aperto. Persino comici, vignettisti, attori, e chi con la libertà ci lavora, non rinuncia  a evocare quella parola. La guerra è data per inevitabile e necessaria, “fermare la barbarie” è l’unica missione per le nuove generazioni chiamate a “conquistare la pace”.

La circolare inviata dall’assessore all’istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, ai presidi delle scuole in cui si chiede ai musulmani di condannare i fatti di Parigi e di aderire ai valori occidentali, rivela il clima in cui siamo precipitati. Tutti gli stranieri sono potenziali nemici, devono dimostrare di non esserlo. In spregio a qualsiasi principio liberale.

Come editore che da diversi anni si batte contro le verità del potere e come tutti coloro che hanno a cuore la parola e il pensiero, credo che bisogna spezzare questo discorso sulla “guerra necessaria” in nome della libertà. Un contro senso che poggia sull’idea che solo noi siamo i buoni e che gli altri, loro, sono i cattivi, dimenticando tutti gli orrori e i morti che abbiamo provocato.  Se non riusciamo a sradicare questo pregiudizio andremo incontro a nuove tragedie. Il compito di noi editori che operiamo nel settore dell’informazione è cercare di smascherare tutte le falsità che ogni guerra comporta (ricordate i finti arsenali di Saddam?) e difendere a ogni costo la nostra libertà di critica, sempre, soprattutto  quando, in nome della sicurezza, lo Stato, attraverso la polizia, aumenta il suo potere repressivo, come accade dopo ogni evento terroristico.

Quanto accaduto a Parigi è un episodio e come tale va valutato, un episodio che poteva essere previsto, e che si somma ad altri episodi avvenuti in varie parti del mondo sempre a opera di integralisti islamici contro islamici non integralisti.  Non è una guerra. Non facciamoci vincere dall’isteria. Anche gli islamici sono vittime dei fondamentalisti, aiutiamoli, stiamogli vicino, non alimentiamo noi stessi il loro odio nei nostri confronti. Il bambino che sta per lanciare la bomba contro gli americani a Falluja, ritratto nel film American sniper di Clint Eastwood, nella vita reale potrebbe diventare un terrorista pronto a uccidere in nome di Allah.

Se seguiamo la strada della guerra ovunque nel mondo, aiuteremo solo i fabbricatori di armi, l’equilibrio fondato sul terrore e la paura, che porta a più repressione, all’innalzamento di nuove barriere e a minori libertà. Il dissenso è difficile da gestire, per il partito unico del capitale qualsiasi occasione è buona per limitarlo.  Già si parla di ristabilire le frontiere in Europa, Le Pen propone la pena di morte in Francia, Salvini approfitta per criminalizzare tutti gli islamici in Italia. Il partito della paura è il più forte di tutti, nessuno rinuncia ad arruolarvisi. Chi rimane fuori rimane solo. Bersaglio facile come Charlie Hebdo.

“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca” scrive Simon Jenkins su “The Guardian”.  I terroristi non vogliono altro che questo: che diventiamo come loro. Che vinca la violenza e l’odio, in nome della libertà. Un paradosso atroce.

D’altra parte siamo campioni nel proclamare la libertà e negarla appena c’è qualcuno che la usa contro di noi. Non è un caso che la satira in Italia non esista quasi più. In casa nostra non c’è bisogno di fondamentalisti, la libertà ce la togliamo da soli.

direttore editoriale di Chiarelettere e membro del cda del Fatto quotidiano

L’intelligenza sta (forse) nel dubbio: “Nous sommes Charlie ma noi siamo anche i genitori dei tre assassini”.

Mai come in questi ultimi giorni ho imparato quanto siano pericolose le persone senza dubbi: fedeli a se stessi riescono a vivere i propri luoghi comuni come un dogma incrollabile. La categorizzazione di questi giorni, ad esempio, propone dei tipi umani costruiti banalmente sull’educazione religiosa come se non esistessero le mille sfumature di una socialità umana che si perde in mille rivoli. Per questo credo che valga la pena leggere la lettera tradotta da Claudia Vago che pone (per chi ama coltivare dubbi e farsi domande non accomodanti) quesiti interessanti:

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… E’ tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.

« Nous sommes Charlie », possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard

Il corteo dei Giuda

parigi-manifestazione-per-charlie-hebdo-e-la-liberta-di-espressione-46-631273Gli amici della satira sono arrivati tutti insieme su un autobus nero dai vetri oscurati come una squadra di calcio. Poi si sono piazzati a semicerchio alla testa del corteo, loro che di solito i cortei li subiscono. Angelona Merkel e Francois Hollande si sono molto abbracciati e per un pomeriggio hanno dimenticato il 3%. C’erano anche David Cameron e Matteo Renzi, con i suoi pantaloni di un blu elettrico che era impossibile non notare in tutte le inquadrature di gruppo. Non c’era Obama, che della lotta al terrorismo ha quasi fatto una professione, e non s’è capito perché. 

Sono tutti Charlie, dunque, i nostri capi di Stato. Lo sono anche Abu Mazen e Benjamin Netanyahu, riconosciuti campioni della libertà di stampa e di satira. Lo sono i reali di Giordania, il premier turco Ahmet Davutoglu, che nelle sue carceri protegge una cinquantina di cronisti, e il presidente del Gabon, Ali Bongo, che si illustra nelle classifiche di “Reporters sans frontières”. Se si voleva una rappresentazione plastica dell’ipocrisia del potere non se ne poteva immaginare una migliore. Almeno Putin, altro eroe della libertà di stampa, s’è reso conto dell’assurdità ed è rimasto a casa.

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Ciò che mi terrorizza del terrorismo (tra stupidi e avvoltoi)

Tanto per provare a capirsi in mezzo a tutto questo letamaio. Charlie Hebdo ha pubblicato anche copertine come questa:

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Io ho il terrore di chi sarebbe disposto a trasformare l’indignazione cristiana di fronte a questa immagine in violenza armata. Ho il terrore che poi siano le stesse persone che seminano odio in risposta all’odio, violenza contro la violenza, tradendo il Vangelo più di questa vignetta. Ho il terrore che non riusciremo a restare abbastanza umani per accorgersi che la differenza è tra i violenti e gli altri, non tra musulmani contro tutti.

E ho la pelle d’oca ogni volta che mi accorgo quanto sia subito pronta a scattare l’animalità più becera degli sciacalli che comunque, nonostante tutto, già oggi ci hanno guadagnato dai morti di Parigi.

Niente Coppi senza i Carrea

In morte di Andrea Carrea, detto Sandrino forse per affrontare con un diminutivo la solennità del suo corpaccione contaidno, 89 anni, nato a Gavi ma cresciuto a Cassano Spinola, si è ricordato l ultimo gregario storico di Fausto Coppi e quindi di un certo ciclismo. Il penultimo ad andarsene era stato, poco più di un anno fa, Ettore Milano, 86 anni, anche lui di quella provincia di Alessandria che ha dato allo sport italiano campioni enormi di ciclismo e calcio, con una concentrazione di talenti che forse meriterebbe un qualche studio serio: Girardengo, Coppi, Baloncieri, Giovani Ferrari, Rivera

Milano, erre “roulée” alla francese proprio come Rivera e come tanti di quella provincia (idem per Parma), era in corsa il paggio psicologo di Coppi, Carrea era il suo diesel da traino e spinta.

Scelti entrambi, per aiutare il Campionissimo, da Biagio Cavanna detto l orbo di Novi Ligure, il massaggiatore cieco che tastava i muscoli e indovinava le carriere (e a Milano diede pure la figlia in sposa).

I due non avevano vinto mai in prima persona, Fausto vinceva anche per loro che lavoravano per lui portandogli in corsa acqua,panini,conforti vari, tubolari, amicizia. Un giorno al Tour de France del1952 Carrera si trovò, ”a sua insaputa”come uno Scaiola del ciclismo, in maglia gialla.

Un gendarme lo pescò in albergo per portarlo alla vestizione. Carrrea si scusò con Coppi per eccesso di iniziativa, avendo fatto parte di un gruppetto, teoricamente innocuo, di fuggitivi non ripresi.

Il giorno dopo il suo capitano gli prese, come da copione, la maglia gialla scalando l Alped Huez e arrivò da dominatore a Parigi. Un cantante ciclofilo, Donatello, che ha fatto anche Sanremo, ha composto una canzone splendida che è un sogno di bambino e dice: “Un giorno, per un giorno, vorrei essere Carrea”.

Il gregario nel ciclismo non c è più, almeno nel senso classico: libertà di rifornimento continuo dalle ammiraglie, licenza per ogni assistenza tecnica in corsa, severità della giuria quando, specialmente in salita, ci sono troppe spinte per i capisquadra, che facevano chilometri senza dare una pedalata, hanno procurato dignità aduna collaborazione che non è più umiliante e servile, e che consiste soprattutto nel pedalare con accelerazioni giuste al momento giusto, nell aiutare, aprendogli un tunnel nell aria, il capitano quando è il momento di tirare per rimediare aduna sua défaillance o rafforzare una sua iniziativa. Nello sport tutto i gregari sono di tipo nuovo.

Diceva Platini genio del calcio: “Importante non è che io non fumi, è che non fumi Bonini”. Il quale Bonini gli gocava dietro, riempiva il campo del suo gran correre, cercava palloni per servirglieli. Adesso i grandi gregari del calcio, alla Gattuso, guadagnano bene, sono stimati, cercati. Coppi lasciava comunque ai gregari tutti i suoi premi, e così li ha fatti ricchi.

Chi è adesso il gregario? Nell automobilismo il pilota che esegue gli ordini di scuderia, lascia passare il compagno che ha bisogno di punti, fa da “tappo” mettendosi davanti a chi lo insegue, e al limite “criminoso” sbatte fuoripista il concorrente pericoloso.

Nel ciclismo è ormai quello che sa propiziare il sonno al campione nelle dure prove a tappe, sa dargli allegrie o comunque distensione in corsa. Nel mondo dell atletica il gregario si chiama lepre, ed è pagato, nelle corse lunghe,per tenere alto il ritmo nella prima parte, sfiancando gli avversari e propiziando un tempo di finale di eccellenza: poi può ritirarsi. Sta sul mercato, è ingaggiabile anche al momento, per una corsa sola.

Nella scherma magari è quello che tiene per il campione il conteggio delle vittorie regalate in tornei di ridotta importanza o comunque prospettanti al campione stesso una eliminazione ormai sicura, gli fa il calcolo dei crediti e dei debiti così messi insieme nel rapporto con avversari importanti, gli dice quando è tempo di “passar vittoria”.

Il gregario nuovo può anche arrivare a sperimentare su se stesso il prodotto dopante o il prodotto coprente, correndo dei rischi. Ma la sua funzione diventa sempre meno materiale. E si deve ricordare che il prototipo altamente psicologico del gregario che dà serenità, oltre a procurare una buona compagnia negli allenamenti, tiene quattro gambe anzi zampe. E un cavallo: si chiamava Magistris, era un quasi brocco, ma senza di lui vicino, in pista come nella stalla,il favoloso Ribot era nervoso, tirava calci e nitriva di rabbiosa tristezza.