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L’ultimo stadio del populismo: il risultato non ci piace? Ci inventiamo brogli e cancelliamo la democrazia

Il bamboccione, il vero bamboccione, è quel ragazzo attempato che guida una superpotenza mondiale e ieri è riuscito nella mirabile impresa di svolgere la peggiore conferenza stampa di questi ultimi anni in una cosiddetta democrazia. Il ragionamento di Trump, come tutti i ragionamenti semplici di chi è incapace di affrontare la complessità, è basico e feroce, come quello dei bamboccioni, e si srotola tutto nel ritenere il potere un proprietà privata che contiene tutto: presidenza, favor di popolo e persino la democrazia e tutti i suoi meccanismi.

I nuovi populisti, che ci auguriamo vengano spazzati via presto se basta un Biden per spodestarli, sono dalla parte del popolo solo se il popolo è dalla loro parte poiché si riempiono la parola della parola “patria”, ma l’unica patria che riconoscono sono loro stessi, perfino i propri elettori sono semplicemente un ingrediente fastidioso e detestabile che serve solo per raggiungere lo scopo. E così Trump che ci parla di “brogli alle elezioni” senza uno straccio di prova e che legge come voti utili solo i voti che riguardano se stesso sono l’ultimo stadio del populismo che ci ha infettato tutti, da parecchi anni, e che passa dalle più disparate e screanzate teorie che permettono di restare a galla (o di illudersi di restare a galla come nel caso di Trump) senza nemmeno assumersi l’onere della prova.

Trump sta disfacendo la credibilità degli Usa nel mondo senza nessun senso di responsabilità nei confronti dell’onore del suo Paese, quell’onore di cui si è riempito la bocca per tutti questi anni fingendo di parlare di Usa quando in fondo era solo una proiezione della propria identità. E siccome sono personaggi fragili, fragilissimi, riescono a misurarsi solo con la ricchezza e con il potere che hanno conquistato senza mai riuscire a fare i conti con un’eventuale sconfitta.

Un presidente Usa che viene perfino censurato dagli algoritmi social per le sue strampalate teorie senza né capo né coda è un bamboccione che ha già perso, è quello che grida dall’ultimo banco per farsi notare, è quello che dice “la palla è mia ora non si gioca più”, solo che lo fa nelle vesti di presidente di una superpotenza mondiale. Trump ha a disposizione tutti i mezzi per verificare e per raccontarci la regolarità delle elezioni: lo faccia, indaghi, porti i numeri, presenti i fatti. Ma no, non accadrà perché questi sono solo la loro narrazione, in sostanza non esistono e quando la narrazione si incaglia sanno solo svoltolare. Come bamboccioni.

Leggi anche: 1. Il golpe mediatico (con fanfara) di Trump / 2. Altro che trionfo di Biden. Ancora una volta sondaggi e opinionisti hanno toppato alla grande / 3. “Il voto in Usa ci dice che Trump non è un fenomeno passeggero”

ELEZIONI USA 2020: I REPORTAGE DI PIETRO GUASTAMACCHIA PER TPI DAGLI USA

  1. Viaggio nel Bronx: “Io, repubblicano italo-irlandese, voglio sconfiggere Ocasio-Cortez e il suo socialismo”
  2. “La polizia ci spara addosso, l’America capitalista ci sfrutta. Ora noi neri spacchiamo tutto”: reportage da Philadelphia
  3. Elezioni Usa, viaggio in Pennsylvania: “Qui ci si gioca tutto. Se Biden vince, sarà presidente”

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Lo smemorato del Sussidistan

Eccolo qui, ancora, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che come un falco rotto si lancia sul sistema Italia impartendo la sua lezione di politica dall’alto della sua (modesta) esperienza imprenditoriale e con i suoi soliti toni di guerriglia contro il Paese sociale. La sua ultima impresa, il suo ultimo bullismo lessicale è tutto nella parola «Sussidistan» con cui ha bollato l’Italia colpevole, a suo dire, di occuparsi troppo dei poveri e troppo poco delle imprese. «Aderire allo spirito dell’Ue significa una visione diversa dai sussidi per sostenere i settori in difficoltà. Nel lockdown il governo ha assunto misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di rifinanziamento al fondo Pmi, ma i sussidi non sono per sempre, né vogliamo diventare un Sussidistan», ha detto Bonomi all’assemblea annuale degli industriali, riprendendo tra l’altro il termine già usato dall’economista del partito di Italia viva e trasformando un discorso serissimo e fondamentale per il futuro del Paese in uno slogan da macchiette.

Però ci vuole davvero un bel coraggio e tanta miopia per sostenere che il denaro a pioggia sia distribuito solo nella «logica del dividendo elettorale» nell’Italia in cui gli industriali hanno dimostrato di sapere battere cassa come forse da nessun’altra parte, tanto che al ministero dello Sviluppo economico c’è addirittura un’intera task force (un’altra, l’ennesima) dedicata esclusivamente agli incentivi alle imprese.

Forse bisognerebbe ricordare a Bonomi che già nel Dopoguerra fu lo Stato, attraverso le banche pubbliche, la Mediobanca di Enrico Cuccia e l’Iri a iniettare denaro nell’industria nazionale. Qualcuno potrebbe ricordare cosa accadde negli anni Novanta quando tutti i cittadini pagavano mutui con interessi a doppia cifra e lo Stato firmava il famoso “tasso Fiat” al 7% per aiutare l’azienda automobilistica italiana, quella che non ha avuto molti scrupoli poi a chiudere i suoi impianti italiani e delocalizzare con tanta agilità spostando tutto l’asse verso gli Stati Uniti.

Oppure si potrebbe tornare sul cronico tasto dolente di Alitalia che è stata privatizzata ma non è mai stata realmente privata nella distribuzione delle sue perdite che sono ricadute e continuano a ricadere nelle tasche dei contribuenti. Oppure si potrebbe ricordare i miliardi di euro che ogni anno arrivano come contributi indiretti o come sgravi fiscali all’industria del cemento che formalmente vanno a favore dei cittadini sotto i fantasiosi nomi di sismabonus, ristrutturazioni, rifacimento terrazze e soprattutto come bonus facciate ma che di fatto servono ad alimentare un settore in crisi profonda anche di idee che senza aiuti di Stato sarebbe fermo al palo. Dice il segretario Cgil Maurizio Landini in un’intervista a La Stampa che «il Sussidistan è quello delle aziende che vivono di contributi pubblici. Tra il 2015 e il 2020 alle imprese sono andati sussidi per più di 50 miliardi. E più di un terzo dei 100 della manovra del 2020. Una cifra consistente, una parte è prevista anche nella manovra più recente. Sono sussidi per incentivare assunzioni, sgravi fiscali, aiuti di ogni genere. Noi chiediamo di uscire dalla logica degli aiuti a pioggia per una nuova politica industriale che incentivi a creare lavoro di qualità e non precario innanzitutto per giovani e donne».

Il tema vero di questa epoca politica è che è in corso un attacco sconsiderato ai poveri e alla povertà (non certo per sconfiggerla con redditi decenti), che si camuffa come critica politica al Reddito di cittadinanza e a Quota 100 ma che sostanzialmente punta a spostare i soldi del prossimo Recovery fund sulle imprese che non vogliono perdere la propria occasione di sedersi al tavolo e di dividersi una bella fetta della torta. L’avevamo già scritto qualche numero fa proprio su queste pagine (vedi Left del 26 giugno, La democrazia secondo Confindustria, ndr): Confindustria ha lanciato Bonomi nell’agone politico con l’evidente obiettivo di succhiare più soldi possibili dai (molti) soldi che arriveranno dall’Europa. Solo questo. Tutto qui. E il trucco di non distinguere i piani del rilancio industriale da quelli della lotta alle povertà è astutamente utilizzato per confondere le acque.

Infine il prode Bonomi si lancia anche nella sconclusionata proposta di fare pagare l’Irpef direttamente ai dipendenti in nome di una “semplificazione” che non si capisce esattamente cosa porterebbe: in un Paese dove l’evasione fiscale costa 107 miliardi all’anno (metà del Recovery fund) e con la scandalosa statistica che ci dice che il 93% dell’Irpef è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati la proposta suona come un sottilissimo invito a investire in quelle stesse modalità che da anni azzoppano le casse pubbliche con l’enorme “fantasia fiscale” di una certa parte dell’imprenditoria italiana.

Un fatto però suona chiaro e cristallino: nel Paese dei capitalisti senza capitali che fanno imprenditoria con i soldi degli altri (o con i soldi pubblici) Carlo Bonomi si presenta con tutti i ghingheri che servono per apparire il perfetto protettore di un certo padronato che ha nel vocabolario del futuro solo una parola: soldi, soldi, soldi.

L’editoriale è tratto da Left del 9-15 ottobre 2020

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Lo Ius Soldi

C’è chi deve aspettare anni per ottenere la cittadinanza italiana, e chi 10 minuti

Il calciatore del Barcellona Luis Suarez, l’avrete sentito ieri sicuramente, aveva bisogno della cittadinanza italiana per brigare il suo trasferimento a un’altra squadra e per facilitare la propria carriera. Aveva la parentela giusta ma avrebbe dovuto sostenere l’esame di italiano. Si presenta all’Università per Stranieri di Perugia e ovviamente è un trionfo.

Peccato che secondo la Procura di Perugia l’esame sia stato concordato e addirittura il voto finale fosse stato stabilito prima ancora di sostenere l’esame. Dalle carte dell’inchiesta si legge che «quello non spiaccica ‘na parola, coniuga i verbi all’infinito, ma te pare che lo bocciamo», si dicono i professori, anche perché dicono sempre loro «con 10 milioni a stagione di stipendio, non glieli puoi far saltare perché non ha il B1». Sui social i professori si sono fotografati tutti sorridenti con il celebre studente.

E dov’è lo scandalo?, direte voi. Semplice. In Italia per prendere la cittadinanza ci vogliono fino a quattro anni, normalmente. Merito, neanche a dirlo, anche del decreto sicurezza del fu Salvini che ha allungato da due a quattro anni i tempi del procedimento. Suarez in 15 giorni ha fatto quello che una persona normale riesce, se riesce, a fare in quattro anni con pratiche molto macchinose che spesso richiedono l’ausilio perfino di un avvocato.

Scrive una professoressa: «In qualità di docente di italiano L2 conosco le lungaggini burocratiche, legate alla richiesta della cittadinanza, le quali inducono spesso molti stranieri a evitare di farne richiesta; fatto salvo il caso di taluni che pare godano di corsie preferenziali».

Poi c’è l’esame: quello di Suarez è durato qualche decina di minuti. Un mostro, in pratica. Scrive Gavin Jones, corrispondente Reuters in Italia che l’ha sostenuto: «Leggo che #Suarez ha ottenuto il certificato B1 di conoscenza dell’italiano ieri in mezz’ora. Per caso anch’io ho dato lo stesso esame ieri (per ottenere la cittadinanza). Dura 2 ore e 45’. Farlo in mezz’ora è impossibile – anche per Dante, ma sicuramente per Suarez».

E quindi cosa è successo con Suarez? Semplice: l’attaccante del Barcellona ha ottenuto lo Ius Soldi, ovvero un diritto che, come troppo spesso accade, non viene attribuito per merito ma per interesse economico. E non capita solo agli stranieri, e non capita solo nelle questioni di cittadinanza. E sarebbe interessante aprire un dibattito sulla ricchezza (e la notorietà) che unge i gangli della burocrazia. Siamo sempre lì. Siamo sempre qui.

Buon mercoledì.

(la geniale definizione di Ius Soldi è di Matteo Grandi)

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Chi difende Willy? Se a uccidere un bianco fossero stati 4 neri sarebbe scoppiato il finimondo

Eppure ci sono dentro tutti gli elementi della propaganda salviniana: c’è una zona che, a detta degli stessi abitanti che la abitano, è completamente sfuggita al controllo delle forze dell’ordine, una zona di quartiere e spaccio, una zona dove spesso accadono atti di violenza. Una zona franca, direbbe Matteo Salvini, che è sempre pronto a prendere parola quando accadono cose di questo tipo. Ci sono persone dedite allo spaccio, alla violenza, che fieramente si mostrano in tutta la loro prepotenza sui loro canali social. I due fratelli Marco e Gabriele Bianchi vengono raccontati come ragazzi che sfociavano spesso nell’uso delle mani, forti della loro preparazione sportiva e di un pensiero in cui la forza diventa una virtù da esibire con cura.

Cè tutta la vigliaccheria di chi se la prende con un ragazzo di 21 anni, Willy Monteiro Duarte, che ha avuto la sfortunata idea di provare a difendere un amico, la sua colpa sarebbe tutta qui, ha avuto l’ardire di sedare una rissa che invece era un fiume di violenza inarrestabile e che si sarebbe sfamato solo con la morte. L’hanno ucciso a calci e pugni, a mani nude, come un in brutto video di quelli che circolano in rete. E Willy era un ragazzo come tanti, con il sogno di giocare nella Roma di cui era tifosissimo e con la passione della cucina. Giovani, italiani, spacciatori, picchiatori, pregiudicati. Sono il prototipo dei nemici di Matteo Salvini, solo che quelli contro cui sbraita Salvini ogni volta devono essere neri e invece questi, per sua sfortuna, sono bianchi.

Ora immaginate questa notizia invertita: immaginate gli editoriali, immaginate i politici sbraitare, immaginate l’emergenza sicurezza scritta su qualche prima pagina, immaginate le pelose descrizioni di quello che rischiamo, immaginate il leader leghista accusare il governo, le istituzioni, magari organizzare una bella fiaccolata. E invece sulla tragedia di Willy non si dice niente, non esce niente. Il caso di Colleferro contiene tutti gli ingredienti per raccontare che la violenza non ha un’etnia, non ha un colore e non ha una fede religiosa e notare la differenza di trattamento che questa notizia ha rispetto alle altre simili è una cosa che fa rivoltare lo stomaco. Invocano sicurezza tutti i giorni, ma hanno bisogno che i protagonisti corrispondano ai loro pregiudizi. Altrimenti non se ne fa niente, questa morte non è usabile, è da scartare, da cacciare via.

Leggi anche: 1. “Vi prego basta, non respiro più”: la testimonianza di una donna che ha visto morire Willy / 2. “Sognava di diventare come Totti”: chi era Willy, il 21enne ucciso dal branco a Colleferro / 3. Dal culto per le arti marziali ai precedenti per spaccio: chi sono gli aggressori di Willy Monteiro

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E il maluomo non s’armolada

Secondo uno studio dell’Università di Padova il ghiacciaio della Marmolada nelle Dolomiti tra 15 anni potrebbe non esistere più. Ma il tema è pressoché assente dal dibattito pubblico. E la politica finge che non esista

Marmolada è diventato un verbo, un verbo di distruzione, un verbo di irresponsabilità, un verbo che dovrebbe ricorrere nei discorsi perfino quelli del bar, quelli che si fanno con leggerezza e che ultimamente sono abbastanza ingolfati di presunti vip fieri di essere infettati e di chiacchiericcio di fondo.

Secondo uno studio del Centro nazionale delle ricerche tra 25-30 anni il ghiaccio della Marmolada non esisterà più. Nel dicembre del 2019 gli studiosi scrivevano che in soli 10 anni il ghiacciaio della Marmolada, montagna iconica delle Dolomiti, ha ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale è stata del 22%. Il ghiacciaio, un tempo massa glaciale unica, è ora frammentato e suddiviso in varie unità, dove in diversi punti affiorano masse rocciose sottostanti. I terreni carsici, come la Marmolada, sono irregolari e costituiti da dossi e rilievi. Se il ghiaccio fonde gradualmente, le aree in rilievo affiorano, diventando fonti di calore interne al ghiacciaio stesso.

Ora un nuovo studio dei glaciologi dell’Università di Padova dicono che il Cnr probabilmente è stato fin troppo ottimista. «Negli ultimi 70 anni – afferma Aldino Bondesan, coordinatore delle campagne glaciologiche per il Triveneto – ha ormai perso oltre l’80% del proprio volume passando dai 95 milioni di metri cubi del 1954 ai 14 milioni attuali. Le previsioni di una sua estinzione si avvicinano sempre di più: il ghiacciaio potrebbe avere non più di 15 anni di vita». «Se estendessimo il trend di riduzione di superficie degli ultimi 100 anni (3 ettari/anno) – spiega Mauro Varotto – la fine del ghiacciaio è fissata per il 2060; se consideriamo il trend di contrazione degli ultimi 10 anni (5 ettari/anno), la fine viene anticipata al 2045. Ma il trend degli ultimi 3 anni è ancora più allarmante (9 ettari/anno) e potrebbe portare alla scomparsa di buona parte del ghiacciaio già nel 2031».

E non si tratta di un caso isolato: l’aumento delle temperature hanno ridotto nell’ultimo secolo del 50% i ghiacciai e il 70% di questo 50% è avvenuto negli ultimi 30 anni.

Marmolada è diventato un verbo. M’armolada molto che se ne parli solo negli articoli considerati scientifici come se non fosse un tema fortemente politico. M’armolada che nella campagna elettorale in corso non ci sia un solo accenno. M’armolada che i segretari di partito non sprechino mai una parola, non abbozzino mai una soluzione ogni volta che esce una notizia di questo tipo. M’armolada che quelli che promettono di spostare le montagne non si accorgono della loro sparizione. M’armolada che ancora si scriva e si dica del presunto maltempo senza capire che non è mai il tempo a essere malo ma tutto quello che accade è colpa piuttosto di un maluomo.

E il maluomo non s’armolada, continua a arrovellarsi sui problemi (reali e spesso inventati) che interessano il presente.

Buon mercoledì.

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Sicilia, Fava a TPI: “Musumeci fa lo scaricabarile. Ma sui migranti il governo ha paura di decidere”

Nello Musumeci insiste. Il governatore della Sicilia non ha intenzione di fermarsi sulla sua ordinanza che chiede lo sgombero degli hotspot dell’isola e risponde al no del governo parlando di responsabilità sanitarie. Si finirà probabilmente con un ricorso al tribunale amministrativo ma intanto la provocazione ha preso piede tra i sostenitori di destra e corre sul web. TPI ha intervistato Claudio Fava, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Fava, il governatore Musumeci insiste. Come legge questa ultima uscita sullo svuotamento degli hotspot e la chiusura ai nuovi arrivi?
È già un pezzo di campagna elettorale, perché ha riannodato i fili di una coalizione piuttosto frammentata e lasca e naturalmente ha ottenuto le benedizioni della destra alla quale Musumeci continua a rivolgersi. Manifesta la sua indole, la sua cultura politica: è un autoritario, convinto che la migliore forma di governo sia quella di affidare al podestà le chiavi della vita dei cittadini. Anche se si affida ai poteri di tutela della salute lui sa perfettamente che intervenire sui porti, sulle prefetture, sugli hotspot è competenza esclusiva del governo nazionale, segnatamente del Ministero dell’Interno. Ma è un modo per rimettere al centro una parola che sia una calamita e che ha bisogno di nemici facili, l’immigrato portatore di contagi.

Quindi è tutta campagna elettorale…
L’altra ragione è che c’è un fallimento complessivo su tutta la politica di investimento del post-Covid, le risorse promesse per il settore del turismo non sono mai arrivate, nemmeno un centesimo, le condizioni dell’isola sono abbastanza allo sfascio quindi un giorno ci si inventa il ponte, un giorno il tunnel, un giorno chiudiamo gli hotspot. Tutto pur di non parlare di quello che accade a casa nostra: c’è un’ordinanza di controlli per chi arriva dai Paesi considerati focolai poi però in aeroporto, nei porti e nelle stazioni i controlli sono minimi e anche in questo Musumeci dice che la responsabilità non è sua ma del Ministero dei Trasporti.
Una responsabilità che palleggia…
Su alcune cose dice “la responsabilità non è nostra”, su altre dice “la responsabilità non è nostra ma me ne occupo direttamente io”. In questo un po’ ci è un po’ ci fa.

Sembra seguire un po’ il copione di certe Regioni di centrodestra che giocano sul Covid per scontrarsi con il governo e fare parlare di sé. Non è simile all’atteggiamento della Lombardia con Fontana?
Sì. In più nel suo caso c’è una sfumatura di carattere politico, di identità politica. Gli piace fare il podestà. Dopo il Covid ha preteso e ottenuto dalla sua maggioranza il voto su un emendamento infilato in una legge che gli dà, in caso di emergenza sanitaria, pieni poteri e la possibilità di emanare delibere di giunta anche in contrasto con la legislazione vigente. Ed è una cosa abbastanza bizzarra, decidono loro a quale normativa possano derogare senza passare dal Parlamento regionale. È la sua idea di ventennio e ha utilizzato il Covid per ritrovare quei toni, quel cipiglio. Un tempo era un atteggiamento inoffensivo e invece oggi interviene su un tema vero, reale.

Esiste comunque un problema immigrazione in Sicilia?
Esistono problemi concreti nelle città che sono il punto di approdo naturale per i profughi. Non lo risolvi chiudendo, lo risolvi cercando di avere un livello di partecipazione da parte di tutte le Regioni. Anche perché non possiamo lamentarci dell’Europa che non fa la propria parte e poi in Italia lasciare che siano le Regioni di frontiera a occuparsene perché le altre non vogliono rotture di coglioni. Abbiamo un sistema geopolitico basato sul principio dell’egoismo: non a casa mia. È una questione che va affrontata da un governo che non riesce e non è riuscito a ottenere una linea di condivisione e di consapevolezza e di disciplina partecipata da tutti i presidenti di Regione. Qui tutti, in nome della salute, hanno deciso a casa loro.

Però la propaganda di Musumeci sembra funzionare: cosa dire a quelli che lo applaudono, come riuscire a parlar con loro?
Non è semplice perché se dall’altra parte hai un governo pavido che non è capace di fare un passo e di prendere una direzione risolutiva è chiaro che poi è difficile parlare solo sul piano di principio e della linea della condotta morale. Il cittadino alla fine si trova confortato da un decisionista che può anche essere incostituzionale ma che è una risposta alla preoccupazione. Come per le discoteche si registra una certa inerzia da parte di figure chiave del governo nazionale di affrontare con coraggio i problemi che si presentavano. Ora il tema sono gli immigrati e il tema ha bisogno di un tavolo di soluzione che non può essere affidato a ciascun presidente di Regione. Avere un nemico, un untore, qualcuno su cui scaricare le proprie frustrazioni in tempo di crisi conforta molti, anche chi non ha nulla a che fare con quella cultura politica. Poi magari un giorno ti svegli e ti accorgi che gli untori sono i tuoi figli che sono andati a fare un party e sono tornati asintomatici e carichi di virus.

Leggi anche: 1. Sicilia, ordinanza di Musumeci: “Entro le 24 di domani migranti fuori dall’isola”. Ma il Viminale lo blocca: “Non può farlo” / 2. Sicilia, Musumeci non molla: “Il governo vuole un campo di concentramento per migranti, vado dalla magistratura”

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La parola ai giovani

Da qualche tempo è comparso su autorevoli quotidiani un dibattito tra editorialisti un po’ âgé. Parlano delle nuove generazioni. Oltre a uno stucchevole paternalismo, ciò che emerge con chiarezza è che costoro non si sono mai posti il problema di ascoltarne le istanze

Forse converrebbe parlarci con i giovani, piuttosto che parlare di giovani. Forse sarebbe il caso di smetterla una volta per tutte con questi atteggiamenti paternalistici da parte di una classe dirigente che si è fatta trovare sempre impreparata all’incontro con le nuove generazioni e dirci una volta per tutte che essere giovani oggi in Italia è qualcosa che fa schifo.
Fa schifo arrabattarsi in una scuola che è ancora novecentesca nell’approccio del mondo e che non ha i mezzi nemmeno per garantire la dignità, proprio lei che dovrebbe insegnarla. Per capirlo basta parlare con i ragazzi che frequentano scuole che stanno in edifici dismessi e che si devono portare la carta da casa, la carta per scriverci e pure la carta per pulirsi le terga, perché mentre si ordinano i banchi con le rotelle si ha a che fare con professori che cambiano ogni anno, se va bene, o che sostengono il programma giusto il tempo di qualche mese.

Bisognerebbe parlare con una generazione che non ha idea di cosa sia la speranza, che ha un orizzonte che spesso non è più lungo della fine della scuola (per chi ha la fortuna di poterla frequentare) e che in ambito lavorativo si ritrova ancora a elemosinare l’opportunità di provare a fare un lavoro ovviamente dietro ridicolo compenso. E mentre lavorano mettendo via i soldi che bastano (forse nemmeno) per arrivare a fine mese, ragazze e ragazzi continuano a usare la propria famiglia come unico ammortizzatore sociale di una società costruita e architettata per essere il nido di auto preservazione della classe dirigente (che di giovani non ne ha o ne ha pochissimi oppure ha qualche “figlio di”). E bisognerebbe provare ad ascoltarli mentre ti raccontano che l’acquisto di una casa, elemento fondamentale per avere il coraggio di programmarsi una vita, è…

L’articolo prosegue su Left del 14-20 agosto

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Orfini a TPI: “Lamorgese non fa la ministra. I flussi di migranti sono gestibili, ma preferiamo finanziare i torturatori libici”

Se c’è una figura nel Partito Democratico che invoca una svolta, quanto alla gestione dei flussi migratori, già dall’epoca di Minniti, si tratta sicuramente di Matteo Orfini. Il tema dei migranti è ormai tornato al centro del dibattito politico, con l’aumento degli sbarchi, Salvini che ha ripreso la sua propaganda a tamburo battente e la maggioranza in pieno stallo, incapace di cambiare rotta. TPI ha intervistato il deputato del Pd per capire quali sono gli scenari futuri e quali decisioni prenderà la maggioranza di governo su una questione non più differibile.

Tre migranti sono stati uccisi dalla Guardia Costiera libica, e non erano passate nemmeno 24 ore dalla manifestazione che si teneva per contestare il rifinanziamento da parte del governo italiano. La notizia tra l’altro non sembra avere nemmeno indignato più di tanto.

Questa purtroppo è la storia di questi mesi, di questi anni. Non è una notizia, succede quasi tutti i giorni e fuori da ogni forma di ipocrisia e di circostanza è la ragione per cui paghiamo la Guardia Costiera libica: trattenere i migranti con ogni strumento e con ogni mezzo mettendo in conto che possono essere chiusi in un lager, torturati, seviziati e anche uccisi. Se tu finanzi torturatori e assassini, quelli torturano e assassinano.

Ci siamo abituati all’orrore?

C’è un’amnesia collettiva di fronte a un qualcosa di enorme che è e sarà una delle pagine più vergognose del nostro Paese nei libri di storia. Tutto questo oggi, purtroppo, non solleva una discussione adeguata nell’opinione pubblica e nella politica.

Ma qual è il blocco che impedisce di cambiare rotta nel governo? L’alleanza con il Movimento 5 Stelle o vogliamo ammettere che c’è anche un serio problema all’interno del Partito Democratico?

È ovvio che c’è un problema anche dentro al Partito Democratico, che per altro è ancora più incomprensibile quando addirittura Minniti è oggi su una linea differente, tanto che nelle ultime interviste ha definito “inapplicabile” quella politica che ha disegnato e concepito nelle ultime interviste. Siamo di fronte a un accanimento incomprensibile da parte della maggioranza e quindi anche del Pd. Questo atteggiamento è figlio della difficoltà a misurarsi con con una strategia radicalmente alternativa e della paura di una battaglia difficile. Mettere in discussione radicalmente quell’impianto significa affrontare uno scontro culturale e politico molto duro nel Paese e in Parlamento. Evidentemente spaventa.

Il Movimento 5 Stelle da questo punto di vista è più coerente: quell’impianto lì l’hanno sempre avuto e sono i coestensori dei decreti sicurezza. Io ricordo sempre che il secondo decreto sicurezza fu peggiorato dagli emendamenti del M5S rivendicati da Di Maio. Loro sono in continuità. È mancata la volontà del PD.

Carmelo Miceli in un’intervista a Il Foglio dice: “Io non ci sto a dire che l’immigrazione non è un problema. E dico anche, con buona pace dei buonisti, che bisogna rimpatriare chi non ha diritto di rimanere in Italia”. Se lo aspettava di sentire la parola “buonisti” usata come roncola da un suo compagno di partito?

Ormai mi aspetto di tutto. Non mi sorprendo più di nulla. Che vada rimpatriato chi non ha diritto mi pare un’evidenza. Il problema è se l’Italia sia in grado di garantire salvataggio nel Mediterraneo, accoglienza dignitosa e un percorso di integrazione. Di questo stiamo parlando: rinunciamo a salvare, paghiamo la Libia per respingimenti che sono illegali, nel momento in cui qualcuno arriva non siamo in grado di gestire l’accoglienza. In queste ore la ministra degli Interni continua a fare dichiarazioni ma non fa la ministra degli Interni: noi siamo di fronte a flussi ampiamente gestibili che diventano un’emergenza perché non c’è un piano.

Che gli sbarchi aumentino d’estate è così da sempre e di solito si dispone un meccanismo adeguato, non si chiudono 600 persone in un tendone sotto al sole in un posto che ne dovrebbe ospitare solo cento. Non è questo il modo. Caricare la pressione solo su alcune comunità locali non è una soluzione. Noi dovremo essere in grado di organizzarci, vedere chi ha diritto di restare e chi no e mettere in campo un processo di integrazione e invece tutto questo è stato smontato in larga parte dai decreti sicurezza e non c’è stato nessun tentativo di ricostruire un meccanismo complessivo.

Ma come può cambiare la linea del PD? Con la vittoria di una corrente interna, visto che la pressione degli elettori non sembra funzionare?

Io penso che servano entrambe le cose: deve crescere una battaglia interna nel Pd che si deve incrociare con una mobilitazione nel Paese. È chiaro che noi abbiamo perso. Il voto sulla Guardia Costiera libica è una sconfitta. L’assemblea del PD aveva votato contro il rifinanziamento e questa decisione non è stata rispettata: abbiamo anche un serio problema di democrazia interna.

Se Orfini potesse cosa cambierebbe, subito?

Intanto abrogherei le norme che ci sono. Dobbiamo abrogare (e non modificare) i decreti sicurezza, abrogare la Bossi-Fini e ricostruire da un punto di vista complessivo le norme che gestiscono i flussi migratori e che aprono canali legali. Poi abbiamo bisogno di una politica differente dall’altra parte del Mediterraneo che smonti quel meccanismo di sostegno ai respingimenti illegali e che ripristini ciò che accadeva con Mare Nostrum: ricerca e salvataggio di concerto con le Ong e le navi della Marina e della Guardia Costiera.

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Non ne indovina una: eterofobia

Per Matteo Salvini se si vota una legge contro l’omofobia allora bisogna pure fare una legge contro l’odio verso gli eterosessuali. Una cretinata talmente colossale che fa tremare le vene e i polsi solo a commentarla

Quel gran geniaccio di Salvini si vergogna di dire che vuole prendersi i voti di quelli che odiano i gay e allora ha studiato un’incredibile invenzione per dichiararsi quel poco che è facendo un giro larghissimo: dice che se si vota una legge contro l’omofobia allora bisogna anche correre subito a scrivere una legge contro l’eterofobia. Ci deve avere messo ore a imparare una parola nuova ma alla fine ci è riuscito, innanzitutto.

Del resto a chi di noi non è mai capitato di essere insultato perché eterosessuale, mano nella mano del marito o della compagna, mentre cammina in una via del centro dove ci sono cartelli con scritto “non si affitta agli eterosessuali” oppure a chi di noi non è mai capitato di avere un amico che è stato disconosciuto dalla famiglia o ghettizzato sul lavoro per avere detto di essere eterosessuale. È una cretinata talmente colossale che fa tremare le vene e i polsi solo a commentarla.

Poi ci sono quelli che la buttano sulla “libertà di pensiero”: sono quelli che vogliono esercitare il diritto di offendere un gay in quanto gay e non sanno che si può liberamente esprimere la propria opinione senza grossi rischi. Per me, ad esempio, quelli che hanno paura di perdere il diritto di urlare in mezzo alla strada “fai schifo, gay!” sono degli emeriti imbecilli e mi prendo anche la briga di difendermi nel caso in cui mi quereli qualcuno. Scambiare la libertà di espressione con la libertà di essere cretini va parecchio di moda, di questi tempi.

Infine c’è la chicca delle chicche: una legge che punisce chi discrimina in base all’orientamento sessuale in realtà difende anche qualcuno che viene pestato in quanto etero. Quindi la legge che vorrebbe scrivere Salvini è proprio quella in discussione, non deve nemmeno fare fatica.

Ben fatto, Matteo!

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sfruttati e trattati da untori: i moderni schiavi di Mondragone, vittime del razzismo italiano

Alla fine è arrivata alla disperazione. La miscela perfetta della pandemia: gli invisibili stranieri che lavorano nei campi di Mondragone (sfruttati da italianissimi sfruttatori), gli italiani che vivono nella povertà e che hanno bisogno di trovare il nemico di fianco al proprio pianerottolo per avere la soluzione facile senza rendersi conto che non è una soluzione, la politica che banchetta sul disagio come continua a fare da anni e perfino il presidente campano che ora si ritrova a affrontare un’emergenza vera, qualcosa di endemico, qualcosa che ha radici profonde nel tempo e nei modi e che è molto di più di una semplice emergenza sanitaria.

Mondragone era malata già prima del Coronavirus, Mondragone, come molte parti d’Italia, è una di quelle zone dove la politica è riuscita a instillare la guerra tra disperati, gente invisibile che lavora nei campi per qualche spicciolo e poi rientra in case che sono casermoni dormitori dove la socialità sta solo nello sprofondare nel letto farciti di fatica, con un futuro immaginabile che non è più lungo del giorno successivo in cui ci sarà da cavarsela ancora. Lo schema facile facile disegnato dallo zotico razzismo di chi è incapace di fare i conti con la complessità è semplice, ripetuto, sempre lo stesso: arrivano i bulgari a infettarci, arrivano i bulgari a non rispettare le ordinanze ed è colpa dei bulgari se noi perdiamo il lavoro. La parola bulgari la potete tranquillamente sostituire con una nazionalità qualsiasi, l’importante è che siano altro rispetto a noi e così il giochino fila liscio liscio.

Nessuno che riesce a ricordare gli arresti e le denunce di imprenditori casertani (e lì, dalle parti di Latina) che i bulgari li importano a chili, famiglie con anche figli minori che diventano forza lavoro, per pagarli 2 euro all’ora e per lucrare su persone che non sono persone ma sono solo le loro braccia e la fatica che riescono a spremere in una giornata di lavoro. Mondragone è il grido d’allarme degli invisibili che sono rimasti con il collo schiacciato sotto la scarpa della pandemia e di questo mondo del lavoro che è appeso a un filo, fottendosene delle leggi e delle regole, dove basta rinchiudersi in casa per qualche settimana per fare la fame, la fame vera, la fame che andrebbe trattata per tutta la vita e per tutte le vite che ha intorno e che invece la nostra bassa politica tratta come fenomeno passeggero, giusto il tempo per coltivare rabbia e sperare di raccogliere una manciata di voti. Ora è Mondragone, è solo l’inizio.

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