Vai al contenuto

periferie

Il coraggio di avere paura delle nostre periferie

Non abbiamo paura degli altri, non solo, quella è l’apparenza, quello che ci viene più facile, soprattutto di questi tempi in cui ci viene continuamente suggerito: abbiamo paura di noi, delle nostre solitudini e di prenderci la briga di andare a visitare le nostre periferie. Le nostre periferie non sono le zone meno centrali dei nostri quartieri: le nostre periferie siamo noi, noi un passo più in là del nostro lavoro (se abbiamo la fortuna di averlo, ma vale anche per la nostra disoccupazione), noi una goccia di più della nostra famiglia (se abbiamo la fortuna di averla, ma vale anche per la nostra cerchia), noi appena fuori da quello che siamo nel vocabolario stinto di questo tempo (madri se siamo donne, professionisti riconosciuti se siamo uomini, gran lavoratori se siamo manovali, fedeli alla divisa se siamo poliziotti o carabinieri, appassionati se siamo artisti, onesti se siamo dipendenti pubblici, volenterosi se abbiamo meno di trent’anni, umili se siamo in stage, regolari se siamo universitari, affettuosi quando siamo nonni, responsabili se da poco viviamo da soli, precisi se invece siamo manovalanza specializzata, mai fermi se siamo disoccupati, disponibili se siamo neoassunti, intellettualmente onesti se siamo giornalisti, umili se abbiamo studiato più dei nostri capi, riservati se siamo consulenti, instancabili se siamo sfruttati e così via).

Stiamo tutti in un aggettivo che ci pone tra i buoni o tra i cattivi. E le nostre periferie, quelle che ci aspettano a casa nei brevi momenti in cui rimaniamo soli, le abbiamo lasciate disabitate, pronte ad essere occupate da quello che ci viene già comodo. E l’affittuario più comodo per le stanze che non vogliamo visitare è la paura: è sempre a disposizione, ha centinaia di interpreti ed è sempre pronta a farsi chiamare legittima difesa.

C’è un posto, al di fuori dei canoni stabiliti, che non sappiamo più visitare e di cui sembra che non sia capace di parlarci più nessuno. Il cattivismo si è preso le periferie perché gli altri non sanno più come rivolgersi. Non abbiamo paura dei negri e dei rom: abbiamo paura dei poveri (che sono spesso negri e spesso zingari) perché abbiamo paura dei poveri che possiamo diventare noi. L’abbiamo visto in giro: lo zio che per tutta una vita ha indossato una giacca e una cravatta e ora innaffia le rose smunte aspettando il diritto di avere una pensione, l’amico manager che ora si confonde in mezzo ai magazzinieri pagati in nero, il compagno brillante che si è laureato due volte e ci tocca offrigli la pizza perché è arrivato tardi in un mercato del lavoro già marcito.

Oltre a difendere gli ultimi dovremmo avere il coraggio di raccontare la paura di diventare ultimi anche noi. Così si disinnescherebbe la retorica di questi giorni: non abbiamo paura dei poveri ma abbiamo paura della povertà che non ci è mai sembrata così terribilmente possibile. Nonostante il marchio doc sugli aggettivi.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/06/21/il-coraggio-di-avere-paura-delle-nostre-periferie/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Cominciare dalle periferie

Una riflessione di Alessandro Balducci.

Ponte Lambro è un quartiere di Milano fino a ieri noto come una zona da evitare. Se oggi ci passate scoprirete un moderno quartiere residenziale accogliente. Le famigerate «case bianche» non sono più tali: hanno colori allegri, coordinati e diversi; dalle facciate sono sparite (perché centralizzate) le mille parabole che denunciavano il recente carattere multietnico del quartiere; i piani terra una volta invasi di scritte e graffiti, sono puliti e ben tenuti; le aiuole fiorite e curate, gli spazi pubblici frequentati; i pochi servizi come la posta, il mercato comunale, il centro civico, la parrocchia, la scuola elementare sono animati da persone gentili e capaci. Insomma qualcosa è cambiato.

Le ragioni dello stigma del quartiere avevano molto a che fare con la disattenzione pubblica, sfociata più volte nel maltrattamento. All’origine vi erano i due grandi interventi di edilizia popolare realizzati in fretta e furia negli anni 70, occupati abusivamente, che si erano inseriti con violenza in un piccolo borgo di artigiani. A metà degli anni 80 viene chiusa la scuola media per insediarvi l’aula bunker per i processi di mafia (più sicurezza!). Per i Mondiali di calcio del ’90 viene iniziata la costruzione di un grande albergo il cui scheletro abbandonato è rimasto per vent’anni come monito e vergogna per Milano. Più di recente un’area verde è stata trasformata in un deposito di autobus. Anche gli interventi di pregio come l’ospedale Cardiologico Monzino e il Centro di riabilitazione della Fondazione Maugeri sono atterrati come isole in un territorio ostile. Un territorio dove la città ha scaricato tutto ciò che non poteva mettere altrove.

La situazione inizia a cambiare a metà degli anni 2000 quando il Comune lancia il Progetto Periferie che prevede la realizzazione di un «laboratorio di quartiere». Le prime mosse producono ulteriore delusione: il promettente progetto di Renzo Piano per inserire nuove funzioni nelle case bianche si risolve nello svuotamento di 40 appartamenti che restano murati per anni: mancanza di fondi. Ma il coinvolgimento degli abitanti, la passione di chi si occupa del Laboratorio di quartiere e la volontà di riscatto producono risultati concreti: i programmi di riqualificazione degli stabili, la risistemazione dei servizi pubblici e il loro rilancio, la scelta dei colori delle case, vengono decise insieme agli abitanti. Negli ultimi mesi il processo di rigenerazione si è accelerato: è stato finalmente aperto il cantiere per la riutilizzazione degli appartamenti murati e l’assessore all’Urbanistica è riuscita a ottenere la possibilità di demolire finalmente entro l’estate ciò che resta dell’albergo dei Mondiali.

Si sta anche discutendo di un progetto modello che aumentando la popolazione consenta la riapertura della scuola media, la realizzazione di un parco e di nuove attrezzature capaci di attrarre utenti dall’esterno per integrare meglio il quartiere nella città. Ponte Lambro è una dimostrazione che risanare le periferie si può, che la rigenerazione ha soprattutto a che fare con la cura e la ricostruzione del senso di cittadinanza degli abitanti. C’è da augurarsi che l’esplosione che demolirà l’ecomostro seppellisca per sempre anche un approccio alla periferia come luogo della disattenzione e della semplificazione.