Vai al contenuto

Philip Roth

La tragedia, e chi la indossa, quasi non ha corpo. A proposito di Roth.

Aurelio Picca scrive per il Corriere della Sera un articolo su Roth che sa di Roth. Da conservare:

È più che una mattana vedere nelle lamentazioni di Alexander I dolori del giovane Werther. È come abolire la distinzione nevrotica e barzellettistica in Roth tra un goy (non ebreo) e un ebreo. E se malsana è l’idea di tirare in ballo l’eroe romantico di Goethe, lo è pure quella di interpretare i personaggi di Philip Roth «tragici». La tragedia, e chi la indossa, quasi non ha corpo.

Vola troppo in verticale. La terra e le viscere possono fargli da sfondo o trampolino ma poi tutto se ne va dal mondo. Solo gli ideali e la loro sconfitta restano stramazzati al suolo. Anche quando nell’Iliade Achille trasforma in sangue le acque dello Xanto, per la carneficina che vi compie, sappiamo che ben presto gli Dei provvederanno a rigenerare le acque. Solo nell’Inferno di Dante (appunto la Divina Commedia è una «Commedia») le creature vivono nel loro insindacabile destino vestite di corpi, organi e immerse nei liquami. Invece, nel frattempo, Lamento di Portnoy assesta un colpo all’intera letteratura americana epica e on the road e si fa plesso per poi diradarsi e invadere l’intera opera, anche quando costruisce il canto stonante della Pastorale americana.

Ecco: il corpo. La stessa famiglia dell’infante e poi adolescente e infine trentatreenne Alex è un concentrato asfissiante, deterso, grasso, incastrato, trapiantato di sensi che fanno una famiglia, cioè un perfetto e incancellabile corpo che fonda ogni origine e fine.

Quella famiglia con il padre che sulla tazza del cesso sbraita: «Perché non riesco a smuovere gli intestini! Ho le prugne che mi escono dal culo!», con il figlio che si masturba compulsivamente per eiaculare nei cappelli, negli zaini, in mezzo a una fetta di carne di fegato, perfino nel guantone del tanto divinizzato baseball – contro lo sciocco football dei cristiani – ecco, quella famiglia è una tana animale: è il ceppo fondante e imprescindibile della cultura ebraica (così palesemente europea in Roth).

Dalle ferree Leggi alle ossessive attenzioni della madre che ingenerano bestiali complessi di colpa, ma anche spinte sensuali nel mentre Alex la guarda quando si tira su le calze di naylon; dal padre, promotore finanziario che sgobba quanto Il commesso viaggiatore di Miller, che però non paga il dazio della frustrazione e della sconfitta, questa famiglia così animale che si racconta per bocca di Roth nella enclave ebraica di Newark, è un vero mescolio di organi e cibo, sesso e ebraismo, comunismo e psicoanalisi che mai più Philip potrà ricacciare indietro per proseguire in avanti.

Per gioco, rileggendo Lamento, ho pensato a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Anche là c’è una famiglia ebraica, i Levi, che si rintanano e rincorrono tutto il santo giorno. Ma la loro famigliarità è così saldata alla finezza e al controllo del vocabolario e dove quindi sarebbe inammissibile raccontare dello shlong (pene del padre) come fa Alex, che «richiama alla mente le pompe antincendio arrotolate lungo i corridoi della scuola».

Come è così distante la fantasia che ci riporta a Il giovane Holden. Holden è un disarticolato, brufoloso, imploso, in rivolta contro il mondo degli adulti. Invece il Lamento di Portnoy è una compulsione di corpi che vivono su un confine esplosivo. Alexander vorrebbe scindersi e tagliare il cordone ombelicale: non ce la farà mai.

Andrà avanti ripetendo, come nella sfrenata passione masturbatoria: «Ebreo ebreo ebreo ebreo ebreo ebreo!».

Solo quando raggiungerà la Terra Promessa, in Israele, a Tel Aviv, e proverà le sue esibizionistiche, predatorie e ossessive attività falliche – prima con una soldatessa e poi con una ragazzona colona e spartana – farà cilecca. Come se il sesso della Terra Promessa fosse unico e insuperabile.

Rileggendo Lamento di Portnoy mi è tornato alla mente la follia del membro che agitava un compagno randagio del Miller parigino di Tropico del Cancro. Quel tipo al quale si era gonfiato l’organo e a ogni angolo di strada lo tirava fuori dalla patta per controllarne lo stato. Anche Alexander, a Tel Aviv, ricorda che a Roma (anche lui in via Veneto) con la Scimmia si è lasciato andare a un accoppiamento a tre, con la terza puttana pescata sulla strada famosa. Il sesso della famiglia interamente ebraica, senza alcuna interferenza di altre culture e mondi, lo sovrasta, gli acceca l’unica e definitiva molla che possiede: il corpo e dunque il sesso. Mi è venuto di pensare che come Honoré de Balzac scrive La commedia umana, così per tutta la vita Philip Roth scriverà La commedia del corpo.

Mollerà di narrare, infatti, proprio quando avvertirà che il corpo, cioè il sesso non può più sostenere la scrittura. Infine, nell’intera esplosione di nervi, sangue, sperma, contestando «la famiglia» e quindi la famiglia per antonomasia, quella ebraica, Roth, in tutti i suoi dinieghi e aborti ha preteso di rimanere solo. Sorge allora il dubbio che egli volesse rappresentare fino alle estreme conseguenze la condizione dei Patriarchi, dei capi delle Tribù.

Non nella proliferazione della famiglia, bensì nella fedeltà comunque alla sua famiglia, simbolo della grande famiglia ebraica. Egli non ha concimato, però si è tenuto in grembo il seme. Incredibile, Roth, da Lamento di Portnoy in poi, non ha ammassato figli nell’Arca. Li ha dispersi nell’ossessione dell’orgasmo. Ha preteso di creare in solitudine, da Patriarca, la sua Tribù. E in ciò si custodisce il segreto della sua vita e della sua opera.

Tra tutti, l’amico più interessante di Philip Roth

Philip Roth aveva amici importanti e famosi, questo lo si sa: era amico di John Updike, che vedeva poco ma sentiva spesso, di Mia Farrow ed era particolarmente legato a Norman Manea, lo scrittore romeno. A due settimane della sua morte, però, è saltata fuori una storia di cui prima si sapeva ben poco: Roth era anche amico del proprietario di una bancarella di libri, che ha frequentato negli ultimi suoi trent’anni di vita, e che ha aiutato firmando, ogni volta, decine di copie di libri, che questi rivendeva senza sovrapprezzo. La storia è stata raccontata qualche giorno fa da Spectrum News NY1, il sito legato alla televisione locale newyorchese.

Enrico Adelman, questo il nome dell’amico di Roth, gestisce da decenni una bancarella di libri nell’Upper West Side, non lontano da Zabar’s, lo storico negozio gourmet. Nel 1989, si ferma davanti alla sua bancarella un tizio che somigliava incredibilmente a Philip Roth: infatti era Philip Roth. I due si rincontrarono qualche giorno dopo a una festa, iniziarono a chiacchierare e divennero amici. Adelman gli chiese di firmare qualche decina di copie, che avrebbe poi venduto alla sua bancarella: lo scrittore acconsentì e, da allora, divenne una tradizione tra i due.

Ogni volta che Roth pubblicava un libro, Adelman gli faceva firmare svariate copie: le vendeva al prezzo standard, ma pubblicizzando bene che alla sua bancarella si trovavano i libri firmati dal celebre autore. Ogni tanto, sostiene New York One, i due pranzavano anche insieme. L’ultima volta che si sono visti era lo scorso aprile, quando il libraio andò a casa dello scrittore con trecento volumi da firmare. L’ultima volta che si sono sentiti è stato lo scorso 18 maggio, quando Roth ha mandato ad Adelman un messaggio al cellulare: «Sono in ospedale». Quattro giorni dopo, è morto. Adelman ha partecipato al funerale.

(fonte)