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Settimo, Chivasso e Lini: la ‘ndrangheta piemontese che si bulla su facebook

Ne scrive La Stampa:

Antonio Guerra e a destra Francesco Gioffrè

C’è un triangolo di violenza tra i comuni di Settimo, Chivasso, e Leini, dove regnano violenze e intimidazioni. Contro commercianti, baristi, gestori di impianti di autolavaggio, gioiellieri. Colpi di pistola contro le serrande. Agguati e ferimenti. «Una ’ndrina con una fortissima carica di intimidazione» dicono gli investigatori, descrivendo gli effetti della violenza sui tre comuni della cintura torinese. Dove giocavano un ruolo centrale giovani rampolli di ’ndragheta che impugnano le pistole per affermare il controllo del territorio, o anche solo per divertimento, per «spaventare» per gioco qualche «pusher» clandestino. E che si facevano selfie in pose da boss sui profili Facebook.

L’altra faccia di questa «presenza criminale» è una paura che «smorza ogni collaborazione». Ed è per questo motivo che il sostituto procuratore Monica Abbatecola, nell’illustrare l’attività investigativa ha detto: «Non abbiate paura di denunciare: la magistratura e i carabinieri non vi lasciano soli». Un invito alle vittime di violenze ed estorsioni, a cogliere al volo l’occasione dell’ondata di arresti, per non rimanere in silenzio.

Nelle province di Torino, Varese, Reggio Calabria, Cosenza e Vercelli, i carabinieri di Chivasso, in collaborazione con i reparti competenti per territorio, hanno dato esecuzione a 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dal GIP di Torino, nei confronti di altrettante persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, tentato omicidio, usura, estorsione, rapina, danneggiamento, incendio, detenzione illegale di armi e munizioni.Sequestrati beni immobili, società e attività commerciali, polizze vita, conti correnti, autovetture di grossa cilindrata, cassette di sicurezza, gioielli e orologi di lusso, e contanti.

In carcere sono finiti Domenico e Francesco Gioffrè, 31 e 34 anni, Antonio Guerra, 38 anni, Luciano, Francesco e Domenico Ilacqua, 29, 38 e 59 anni, Giovanni Mirai, classe 1976, Carmine Volpe del ’63, Salvatore Grosso, 39 anni, Salvatore Calò, 47 anni. Per Valentino Amantea, invece, sono scattati gli arresti domiciliari.

Quest’ultimo è accusato, come Volpe, di avere detenuto e portato un’arma in luogo pubblico, mentre a carico dei Gioffrè, Guerra, Mirai e degli Ilacqua, il GIP ha ritenuto la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per il delitto di associazione mafiosa e di concorso, a vario titolo, nei delitti di tentato omicidio, lesioni aggravate, estorsioni aggravate anche dal metodo mafioso, detenzione e porto abusivo di armi. Si tratta di diversi molteplici reati accaduti a Chivasso, Settimo Torinese, Leini e zone limitrofe dal 2012 ad oggi.

In particolare, le indagini sono scattate nell’estate 2012 a seguito di gravissimi fatti accaduti a Chivasso tra giugno e agosto di quell’anno, come gli agguati e le sparatorie contro Giovanni Ponente (già coinvolto nel processo “MInotauro” per violazione della normativa sugli stupefacenti), Salvatore Di Maio (poi arrestato nell’ottobre di quell’anno per detenzione di armi nell’operazione “Colpo di coda”), Valentino Amantea, ferito e costretto su una sedia a rotelle.

Lo sviluppo delle indagini, condotte senza alcuna collaborazione delle persone ferite che sin dall’inizio si sono mostrate del tutto reticenti, ha evidenziato, con l’ausilio delle comparazioni balistiche, una serie di connessioni con altri reati, nei quali erano state utilizzate armi da fuoco per intimidire i negozianti di Chivasso, Settimo T.se e Leinì. Il GIP ha accolto anche le richieste di sequestro preventivo di alcune ditte, oltre che di beni mobili e immobili che, allo stato, non risultano compatibili ai redditi dichiarati. Tra le ditte figurano alcune carrozzerie ed autolavaggi riconducibili, anche attraverso intestazioni fittizie, agli arrestati.

A Torino l’ammucchiata si vuole fare partito

partitodellanazione

In un’intervista a La Stampa l’ex UDC Michele Vietti propone a Fassino di far uscire il PD “dall’arroccamento” (giuro, dice proprio così) e allearsi senza indugi con il centrodestra. Qualche giorno fa l’ex governatore del Piemonte Enzo Ghigo (Forza Italia) ha detto che non c’è differenza tra loro e il PD.

Insomma, può sempre andare peggio di così. Ricordatelo.

La ‘ndrangheta che emette regolare fattura

l pizzo dagli imprenditori emettevano regolare fattura per operazioni inesistenti.

I soldi estorti poi andavano a sostegno delle famiglie degli affiliati della ‘ndrangheta arrestati nel luglio scorso, nell’ambito dell’operazione ‘San Michele’, che aveva condotto all’arresto nel torinese di diversi esponenti della Cosca Greco di San Mauro Marchesato (Crotone).

Agivano cosi’ due esponenti della criminalita’ organizzata operanti nell’hinterland torinese:Domenico Maida, 41 anni, abitante a Venaria, portavoce di importanti affiliati della ‘ndrangheta, e Maurizio Calamita, 49 anni, abitante a Moncalieri, assicuratore e incensurato.

I due sono stati arrestati dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Torino, dopo aver incassato un assegno da 20 mila euro da due imprenditori torinesi.

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‘Ndrangheta in Piemonte: confisca alla famiglia Marando

Una ricchezza accumulata da Sud a Nord grazie “a lucrose attività criminose, rappresentante – inizialmente – da sequestri di persona a scopo di estorsione e – successivamente – dal traffico (anche internazionale) delle sostanze stupefacenti”, scrivono i giudici nel provvedimento di confisca. Un patrimonio immenso tenuto insieme fino ai numerosi arresti che hanno colpito la famiglia. È così che l’impero dei fratelli Marando è finito nelle mani dello Stato. Beni per 18 milioni di euro sono stati confiscati dalla Direzione investigativa antimafia di Torino alla famiglia della ‘ndrangheta insediata da anni a Volpiano, alleata ai Perre e agli Agresta e legata alla cosca Barbaro di Platì (Reggio Calabria). La misura è stata decisa dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Torino che ha pure stabilito di mettere sotto sorveglianza alcuni imputati, tra cui l’attuale reggente Domenico Marando, detenuto in carcere a Saluzzo, e il nipote 25enne Luigi. I beni erano stati sequestrati preventivamente nell’operazione “Marcos” di due anni fa.

Secondo gli investigatori, dagli anni Ottanta in poi i Marando sono stati responsabili di sequestri di persona e traffico di stupefacenti, anche a livello internazionale, intrecciando alleanze con Cosa Nostra e con narcotrafficanti in Turchia per l’eroina e in Colombia per la cocaina. In questo modo hanno accumulato capitali i boss Francesco “Ciccio” Marando (ucciso nel 1997 a Chianocco, all’inizio di una faida raccontata dalla sua vedova Maria Stefanelli nel recente libro “Loro mi cercano ancora”) e poi Pasquale (scomparso nei primi anni Duemila per un caso di lupara bianca). Si parla di tre società, di 27 terreni (molti in Calabria) e di 33 immobili tra Marina di Gioiosa Ionica, Volpiano, Cesano Boscone e Busto Arsizio. C’è pure una villa con piscina e un giardino immenso a Nettuno.

I Marando coi soldi ci sapevano fare anche grazie agli aiuti forniti da professionisti come un geometra, Cosimo Salerno, pure lui colpito dalle confische e dalla sorveglianza speciale. A “occuparsi” dei fabbricati c’erano poi alcune aziende tra cui due società offshore basate a Gibilterra e una, la Green Farm di Torino, per alcuni anni gestita da un prete, padre Mario Loi (conosciuto come “Padre Rambo”), “testa di legno” di Pasquale Marando e “schermo ideale in quanto sacerdote e figura quindi al di sopra di ogni possibile sospetto”. Buona parte del denaro contante invece veniva nascosto nelle banche svizzere grazie a un avvocato di Lugano, Francesco Paolo Moretti.

Il sistema, però, si è inceppato. È successo dopo la morte di Francesco, dopo le vendette che hanno portato alla condanna di Domenico e dopo la scomparsa di Pasquale. I fratelli rimasti vogliono spartirsi il bottino. Da una parte, chiuso in cella, c’è Domenico, dall’altra i fratelli rimasti liberi, Nicola e Rosario, che si sarebbero appropriati del patrimonio di Pasquale. Di mezzo una serie di fiancheggiatori (come un’educatrice del carcere) e le nuove generazioni che iniziano a darsi da fare. Infine c’è Rocco, “considerato alla stregua dell’ultima ruota del carro familiare”, osservano i magistrati. Emarginato nella spartizione e preoccupato per le sue sorti, quest’ultimo decide di collaborare con la giustizia spiegando la gestione degli affari e il contrasto tra Domenico e gli altri due, contrasto emerso pure nell’intercettazione di un colloquio in carcere l’8 novembre 2007 tra Domenico, il figlio Antonio e il nipote Luigi, figlio di Pasquale allora appena maggiorenne. Proprio questo ragazzo, ora 25enne, è “fortemente inserito nell’ambiente criminoso di appartenenza, tanto da seguire gli affari di famiglia”. Di questo ambiente “ha condiviso pienamente le logiche e si è fattivamente impegnato per conseguirne i traguardi”, annotano i giudici che lo ritengono un “soggetto dotato di pericolosità sociale” e lo sottopongono a tre anni di sorveglianza speciale.

A differenza di quanto sostenuto da altre sentenze, Rocco Marando è ritenuto un pentito attendibile per la “conoscenza approfondita delle vicende criminose”. Non lo era per i giudici del maxiprocesso “Minotauro” che negarono l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta a Volpiano e assolsero Rosario Marando dall’accusa di 416 bis. A Rosario (condannato all’ergastolo in primo grado per gli omicidi della faida contro gli Stefanelli, ma libero) e a Domenico è andata relativamente bene anche nel processo penale nato dall’operazione “Marcos” della Dia: hanno avuto condanne più lievi perché in certi episodi avrebbero commesso “autoriciclaggio”, reato all’epoca non punibile e approvato definitivamente in Parlamento soltanto pochi giorni fa.

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La ‘ndrangheta in Piemonte e la fame di TAV

A proposito di Piemonte e TAV:

Questa mattina i carabinieri del Ros, sotto la direzione dell’antimafia torinese, hanno dato esecuzione a venti ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione di stampo mafioso, a Torino, Milano, Genova, Catanzaro, nell’ambito all’operazione «San Michele», uno dei santi cari alla ’ndrangheta, ma anche il nome di un bar di Volpiano, dove gli indagati si ritrovavano a discutere. L’inchiesta è affidata ai pm Roberto Sparagna e Antonio Smeriglio. C’era un’intesa criminale tra la cosca e il “locale” di Volpiano, una delle strutture territoriali scoperte dalla maxi inchiesta Minotauro. Al centro dell’indagice c’è Angelo Greco, considerato il capo cosca, residente a Venaria, emigrato da poco dalla Calabria.

Con lo stesso provvedimento è stato disposto il sequestro preventivo di società e beni per un valore complessivo di 15 milioni di euro. Sotto sequestro anche una cava a Sant’Antonino di Susa, dove dovevano essere conferiti i rifiuti senza essere trattati preventivamente. Tra i beni sequestrati 145 immobili, conti cotrenti e anche uno yacht. «Merita di essere rimarcata la dimensione internazionale delle indagini, mettendo insieme accertamenti sulle persone e sulle cose, grazie anche alla collaborazione dell’autorità elvetica» hanno spiegato i procuratori aggiunti Sandro Ausiello e Alberto Perduca, illustrando i risultati dell’operazione al comando provinciale di Torino, sotto la guida del colonnello Roberto Massi. «Questa inchiesta – ha detto il generale Mario Parente – dimostra la propensione della criminalità organizzata ad agire in “franchising”, replicando anche al nord modelli criminali, come occupazione del territorio, intimidazioni, minacce, tipici delle zone di origine». Tra gli arrestati c’è un investigatore privato che forniva i suoi servizi di informazione alla cosca e un intermediario immobiliare. Indagati un carabiniere e un vigile urbano, per accesso abusivo al sistema informatico delle forze di polizia

Piemonte e ‘ndrangheta: la sentenza Minotauro

Raccontata da Attilio Occhipinti per generazionezero.org:

Puntuale alle 17 arriva il momento del giudizio. Oltre alla Regione Piemonte, alla Provincia di Torino e alle altre amministrazioni comunali costituitesi parti civili vi è anche don Luigi Ciotti. Sono 36 gli imputati condannati, circa la metà di loro è stata assolta. Questo è, in estrema sintesi, il bilancio di un processo che ha smascherato udienza dopo udienza il gioco della ‘ndrangheta in Piemonte.
L’operazione nata nel 2006 ha portato, nell’estate del 2011, all’arresto di 146 persone. Le indagini hanno portato alla luce il regno della malavita di stampo calabrese nel territorio piemontese, che, attraverso il favore di una certa politica piegata alla causa criminale, ha potuto godere di diversi privilegi. Il sequestro di milioni di euro di beni tra terreni, appartamenti e altri immobili, il giro degli stupefacenti, quello delle estorsioni, senza tralasciare quello del gioco d’azzardo, la speculazione attorno all’edilizia, di cui, tra l’altro, il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli aveva parlato nel programma Presa Diretta. Tutto questo è Minotauro.
Dopo il comune di Bardonecchia, sciolto per mafia nel 1995, i comuni di Leini e Rivarolo sono “saltati” nel 2012 durante il corso delle indagini. A questo proposito, tornando alla sentenza, da segnalare le condanne di 10 anni per Nevio Coral, ex sindaco di Leini, e di 2 anni (più 600 euro di multa) ad Antonino Battaglia, ex segretario del comune di Rivarolo. Invece, per l’eurodeputato Fabrizio Bertot (PdL), ex sindaco di Rivarolo, è stata disposta la trasmissione degli atti in procura, affinché si indaghi per voto di scambio. La condanna più lunga, 21 anni e 6 mesi (più 4mila euro di multa), è stata invece inflitta a Vincenzo Argirò, considerato uno dei capi del Crimine (per questo e altri termini si veda il glossario) del capoluogo piemontese, mentre Salvatore Demasi, secondo la Procura capo locale di Rivoli, è stato condannato a 14 anni (3 in libertà vigilata).

Naturalmente non possiamo citare tutti i condannati, ma abbiamo riportato gli attori più in vista di questo losco giro di affari, favori e corruzione che tiene banco nel nordovest d’Italia. Sono, infatti,  nove le locali ‘ndranghetiste che nel corso di tutti questi mesi sono venute fuori dalle indagini e chissà quante altre ancora ce ne saranno.
Le vicende piemontesi sembrano avvicinarsi più al mito del vaso di Pandora che a quello del Minotauro, ma, mitologia a parte, siamo oramai ben lungi dal credere che il potere mafioso in queste terre sia meno forte di quel che si possa credere. È facile pensare che siamo solo all’inizio.