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politiche sociali

La sparizione del salario minimo

Solo lo scorso 16 marzo la Commissione Lavoro del Senato approvava la direttiva Ue volta a garantire l’adozione del salario minimo legale ai lavoratori degli Stati membri. Il testo impone l’individuazione di soglie minime di salario che possono essere introdotte per legge (salario minimo legale) o attraverso la contrattazione collettiva prevalente, come sottolineato anche dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando.

Il salario minimo (su cui Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno depositato diversi disegni di legge negli ultimi anni) è proprio scomparso nella versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza inviata alla Commissione europea nonostante fosse presente nel testo entrato in Consiglio dei ministri.

Nella bozza che circolava pochi giorni fa si parlava di una «rete universale di protezione dei lavoratori» e del «salario minimo legale», oltre alla garanzia di una retribuzione «proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Perfetto: è sparito tutto il paragrafo. Non si tratta di correzioni, di aggiustamenti, no, è sparito tutto.

La cancellazione difficilmente può arrivare dall’Europa vista la direttiva che è stata approvata solo un mese fa in Commissione Lavoro e viste le parole durante il proprio discorso allo Stato dell’Unione 2020, che von der Leyen aveva a riguardo, dicendo che «il dumping salariale danneggia i lavoratori e gli imprenditori onesti, mette a repentaglio la concorrenza sul mercato del lavoro – aveva aggiunto – per questo faremo una proposta per un salario minimo in tutti gli Stati dell’Unione. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso la contrattazione collettiva o con salari mini statutari, è arrivato il momento che il lavoro venga pagato nel modo equo».

Qualcuno prova a teorizzare che la cancellazione in extremis potrebbe essere il risultato degli incontri con le parti sociali nella fase finali della stesura, ipotizzando che un eventuale salario minimo possa indebolire le trattative sindacali poiché alcune aziende potrebbero così semplicemente accontentarsi di essere a norma di legge. Peccato che sia da tempo sotto gli occhi di tutti la moltiplicazione di accordi sottoscritti da soggetti non del tutto rappresentativi che hanno contribuito alla corsa al ribasso per certe categorie. Del resto il problema dei contratti pirata (soprattutto nelle zone più depresse del Paese) è sempre poco dibattuto nonostante abbiano affiancato spesso il lavoro nero.

L’ex ministra del lavoro Catalfo disse: «Il salario minimo è da sempre un obiettivo mio e di tutto il Movimento 5 Stelle. Una risposta essenziale per contrastare il cosiddetto dumping salariale, riequilibrare il sistema di concorrenza interna fra le imprese e ridare dignità e futuro ai “working poor” (i lavoratori poveri) e alle loro famiglie. Una risposta che la crisi innescata dalla pandemia ha reso ancora più urgente e necessaria e sulla quale, come Italia, dobbiamo investire con determinazione nel nostro progetto di rilancio».

E quindi? E ora? Il Pd e il M5s che dicono?

Buon giovedì.

(nella foto il ministro del Lavoro Andrea Orlando)

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Le secondarie in Lombardia

A-N-jEZCQAEoUfy.jpg-largeSono le elezioni che ci interessa vincere: le secondarie in Lombardia. Ieri hanno votato 150.000 persone (a pochi passi dal Natale, sotto la neve e poco dopo una chiamata ai seggi per le primarie nazionali): il dato è più alto delle aspettative e si assesta circa ad un terzo del dato delle primarie nazionali. Nonostante la milanocentricità che tutti prevedevano queste primarie (che siano state civiche, politiche o qualsiasi altra cosa) consegnano alla Lombardia un candidato costruito su un consenso reale e spesso nelle percentuali. Forse alla fine avevamo ragione a chiedere le primarie come passo indispensabile per una candidatura che fosse realmente riconosciuta.

Il risultato di Di Stefano non è una sorpresa, no: i temi dell’ambiente, dell’intollerabile privatizzazione di scuola e sanità, del reddito minimo garantito sono argomenti sentiti e veri anche qui dove il centrodestra (e il centrocentrocentrosinistra) ha finto di non sentirci ed è inevitabile che l’alternativa al formigonismo debba passare da politiche sociali, sanitarie, di infrastrutture e di lavoro che siano realmente diverse. L’augurio che ci possiamo fare per la prossima Lombardia è che i temi dei candidati rimangano tutti in campo (lo scrivevo ieri).

Ora è il caso di uscire dall’autismo di coalizione e ripartire da quei 150,000 voti e dai volontari sui territori: sono il capitale “sociale” su cui costruire la Lombardia.

Buon lavoro, Umberto e buon lavoro a noi.

(mi concedo un post scriptum polemico perché mi piaccio così: ho appoggiato Umberto con convinzione per l’amicizia che ci lega, per la discontinuità che può garantire in Lombardia e per quello che scrivevo qui,  e perché questa è la posizione nazionale del partito che mi onoro di rappresentare in Consiglio Regionale. Avete letto bene: posizione nazionale. Poi in queste ultime settimane ho visto di tutto: chi appoggiava Pizzul perché era vicino ai temi di SEL che è passato dal sostenere Ambrosoli al dichiarare il “liberi tutti” per poi tornare ad essere ambrosoliano e da ieri distefaniano innamorato. Insomma, vale tutto per ritagliarsi un posto al sole: l’accusa che “qualcuno” soffiava nelle orecchie riferendosi a me e Pippo Civati. Ora li vedrete tutti come cavallette nella postura del scendiletto per una manciata di voti in più.

Poi se vogliamo confrontarci sul ruolo che SEL può avere nel quadro che va delineandosi, ben venga. Perché la politica è dibattito pubblico e aperto e le piccole beghe di bottega smazzate tra pochi fanno sorridere. Ma davvero.)

 

La chiamano razionalizzazione ma sono tagli: le risorse alle politiche sociali in Lombardia

Una relazione (che è anche il nostro programma) su quello che avviene in Lombardia. Di Siria Trezzi.

RISORSE POLITICHE SOCIALI

FONDO NAZIONALE POLITICHE SOCIALI

ANNO trasferimento
2008 94.915.901,37
2009 73.000.000,00
2010 53.801.546,00
2011 24.774.392,36
2012 1.536.000,00

Il riparto del fondo 2012 (che si ripercuote su utilizzo 2013) è praticamente inesistente. Le manovre che si sono seguite negli anni hanno di fatto cancellato il fondo sociale per le politiche sociali. Se dovesse confermarsi il dato di fine luglio, i comuni avrebbero dei trasferimenti ridicoli dallo stato.

Pochi e non consistenti finanziamenti restano invece sulle politiche familiari (circa 40 milioni di €) a seguito dell’approvazione del Piano famiglia da parte del Governo. Inoltre resta un piccolo finanziamento sulle Pari Opportunità di circa 15 milioni di € sempre dal Governo, entrambi ad oggi non sono ancora stati ripartiti.

FONDO SOCIALE REGIONALE

ANNO STANZIAMENTO
2009 85.900.000,00
2010 85.900.000,00
2011 70.000.000,00
2012 70.000.000,00

Dal 2011 lo stanziamento iniziale è stato di 40 milioni di € e solo in seguito a proteste delle associazioni di disabili e dei Comuni nell’ assestamento (in genere a luglio) sono stati recuperati i 30 milioni di € mancanti. Ovviamente non poter disporre della cifra complessiva fin dall’inizio porta disagi alla programmazione dell’offerta e difficoltà nell’erogare adeguatmente i servizi sui territori, trasformandosi di fatto in un risparmio per il bilancio regionale. Inoltre dal 2009 c’è stato comunque un taglio.

Bisogna sottolineare che quest’anno per la prima volta anche nel fondo regionale è stato previsto ‘utilizzo dei voucher per servizi rivolti a persone con disabilità (comunità alloggio, CSE e SFA; assistenza domiciliare).Si tratta di una novità non prevista e che vede i comuni in difficoltà nel rispettare la tempistica data e le modalità proposte. In genere il FSR serviva completamente a sostenere le spese dei servizi sui territori. Si tratta di un cambiamento importante, che con molta probabilità anticipa “il nuovo patto per il welfare lombardo”.

Sempre a luglio sono stati stanziati 24 milioni di € (sempre con assestamento) per minori in  comunità con situazioni di abuso e maltrattamento e per famiglie con ragazzi in affido. Anche in questo caso non si tratta di risorse fresche, ma di un pacchetto di risorse che ciclicamente Regione utilizza per forme di finanziamento differenziate: negli ultimi anni era stato utilizzato per il buono famiglia erogato dalle asl (prima 25 milioni di €, poi 17 milioni di €)

FONDO PER LA NON AUTOSUFFICIENZA

ANNO STANZIAMENTO
2009 44.083.734,18
2010 58.827.457,99
2011 56.494.672,88
2012 ZERO

In questo caso si tratta di un vero e proprio taglio che colpirà in modo drammatico  servizi rivolti alle persone più fragili (anziani e disabili) e che i comuni non sono assolutamente in grado di coprire con risorse proprie. Alcune Regioni hanno creato un fondo specifico per la non autosufficienza che in questo caso poteva servire per contenere i danni.

Stiamo parlando di servizi essenziali, di sostegno al mantenimento al domicilio di persone con una grave fragilità (es buono badante, sostenuto in precedenza anche dalla Regione con i fondi della circolare 41 sulla regolarizzazione delle assistenti familiari), di mantenimento di un minimo di autonomia (buoni trasporto, per assistenza), di garanzia di un stile di vita sufficientemente dignitoso (sollievo, vacanze protette, integrazioni economiche).

Considerazioni 

  • Con evidenza stiamo parlando di tagli drastici che non permetteranno di garantire la sostenibilità economica dei servizi, anche di quelli essenziali. Inoltre si aggiungono gli effetti delle spending review sui bilanci dei comuni che , a questo punto, non potranno nemmeno più compensare con risorse proprie la diminuizione dei trasferimenti. Ciascuno deciderà da solo a cosa dovrà rinunciare? Si potrà parlare direttamente di tagli secchi o continueremo a parlare di razionalizzazione della spesa e ottimizzazione delle risorse?
  • Regione Lombardia negli ultimi anni ha stanziato circa 40 milioni di € sulle politiche di conciliazione (dote conciliazione, leggi sui tempi di vita, bandi conciliazione alle imprese, etc…) che hanno di fatto creato un welfare sostitutivo, invece che incidere sulla situazione occupazionale-economica. Un uso “ipocrita” di risorse che non ha prodotto i risultati sperati e che quindi deve essere rivisto;
  • Vengono stanziate risorse “specialistiche” su alcuni temi, con risultati poco verificabili e sganciati da un sistema di offerta stabile; es buono per la SLA e le malattie del motoneurone, sperimentazioni su residenzialità di vario genere, etc…).
  • Qualche riflessione su consulenze davvero faraoniche andrebbe denunciato (es 5 milioni di € per lo studio e proposta su nuovo welfare,) e proposto un utilizzo più oculato degli esperti che già lavorano e operano in questi settori: Penso ai dirigenti dei Comuni, ad alcuni testimoni privilegiati e competenti del terzo settore, al mondo della conoscenza e dell’università, etc..).

Prospettive

  • A fine settembre dovrebbe chiudersi il percorso di consultazione per la sottoscrizione di “un nuovo patto sul welfare”. Molti sono i punti critici della proposta in campo, ma alcuni rischiano di essere davvero preoccupanti:
  1. Passare dall’offerta alla domanda significa avere una lettura del bisogno precisa e puntuale. I territori non sono gli stessi per composizione demografica, complessità, dati epidemiologici e condizioni economiche. Il modello non può essere standard e nemmeno l’offerta (Milano non è uguale a Varese)
  2. La centralità della famiglia è un concetto sempre più sfruttato da Regione. La famiglia. o meglio le famiglie, non possono trasformarsi un welfare sostitutivo e meno costoso. La famiglia è luogo di relazioni e di coesione sociale prezioso, è risorsa che deve essere valorizzata, ma non è né erogatore di servizi né sostituivo delle funzioni dei servizi pubblici. Inoltre in una condizione di crisi economico-occupazionale come questa è rischioso riversare sulle famiglie, già caricate di troppi oneri, anche le funzioni del “prendersi cura”. La centralità della famiglia rischia di far perdere l’attenzione sulla persona e sui suoi bisogni.
  3. Il riferimento anche per i servizi alla persona sarà la “dote welfare”. Il sistema di Regione Lombardia, ormai basato esclusivamente su doti, buoni e voucher, rischia di compromettere definitivamente il concetto di “presa in carico” della persona con fragilità (come previsto dalla Legge regionale 3) e mina definitivamente la titolarità della programmazione pubblica dei servizi. Senza un sistema che permetta di definire tempi, modalità, risorse per la presa in carico e la definizione di un progetto di aiuto chiaro rischia di trasformarsi in un disorientamento. La presa in carico non può essere sostituita dalla competizione fra i soggetti erogatori di buoni o voucher.
  4. Il piano di zona, che doveva essere il luogo della programmazione del offerta integrata dei servizi e lo strumento per superare la frammentarietà dei comuni rischia di essere privato delle sue funzioni e di terminare l’esperienza, delegando di fatto alle asl le proprie competenze.
  • Da tempo si dichiara a necessità di un’integrazione socio-sanitaria, che però stenta a realizzarsi. Troppi fondi differenziati, risorse parcellizzate, una programmazione non integrata ed efficace. Sarebbe necessaria unificare le deleghe e ripensare il bilancio delle due direzioni in un’ottica integrata, puntando sulla prevenzione, non solo alla malattia, ma anche al disagio.
  • Valorizzare ed incentivare la rete territoriale per creare veramente l‘offerta integrata di servizi alla persona, con una titolarità pubblica della programmazione ed una gestione associata dei servizi. Questo permetterebbe la presa in carico complessiva della persona fragile, senza trasformare la risposta ai bisogni in un semplice buono spesa in mano alle persone.
  • Individuare un principio di equità nell’utilizzo delle risorse (tema della compartecipazione della spesa) e prevedere una proposta di definizione dei liveas, almeno in materia assistenziale.
  • Coordinare e armonizzare i servizi rivolti ad alcune categorie che risultano distribuiti e spezzettati tra troppi interlocutori e enti di competenza (si pensi ad esempio alle persone con disabilità per quanto riguarda i temi sociali, dall’istruzione, al lavoro, al trasporto, sullo stesso tema hanno competenze dirette stato, regione , provincia, comuni)