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La festa alle mamme

Un altro giorno da reality show è passato. Con i politici che festeggiano la mamma senza proporre soluzioni per sostenere le donne madri. Che nel 2020 in tante hanno perso il lavoro o vi hanno rinunciato per seguire i figli. Anche perché mancano gli asili nido

In questo tempo in cui tutti i giorni i politici non possono permettersi di dimenticare di onorare le feste ieri si è assistito a un profluvio di auguri dei leader (e pure di quelli meno leader) alle loro mamme e a tutte le mamme d’Italia (i patriottici) e a tutte le mamme del mondo (i globalisti). Ci siamo abituati, senza nemmeno farci più troppo caso, ad aspettarci dai politici gli stessi input di un influencer, mettiamo il mi piace alla sua foto con la mamma e ci scaldiamo per un augurio pescato su qualche sito di aforismi.

Le mamme, dunque. Su 249mila donne che nel corso del 2020 hanno perso il lavoro, ben 96 mila sono mamme con figli minori. Tra di loro, 4 su 5 hanno figli con meno di cinque anni: sono quelle mamme che a causa della necessità di seguire i bambini più piccoli hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse. D’altronde la quasi totalità – 90mila su 96mila – erano già occupate part-time prima della pandemia. È questo il quadro che emerge dal 6° Rapporto Le Equilibriste: la maternità in Italia 2021, diffuso in occasione della Festa della mamma da Save the Children. Uno studio sulle mamme in Italia che, oltre a sottolineare le difficoltà affrontate fa emergere ancora una volta il gap tra Nord e Sud del Paese.

Già prima della pandemia la scelta della genitorialità, soprattutto per le donne, è spesso interconnessa alla carriera lavorativa. Stando ai dati, nel solo 2019 le dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro di lavoratori padri e lavoratrici madri hanno riguardato 51.558 persone, ma oltre 7 provvedimenti su 10 (37.611, il 72,9%) riguardavano lavoratrici madri e nella maggior parte dei casi la motivazione alla base di questa scelta era la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze della prole.

Lo «shock organizzativo familiare» causato dal lockdown, secondo le stime, avrebbe travolto un totale di circa 2,9 milioni di nuclei con figli minori di 15 anni in cui entrambi i genitori (2 milioni 460 mila) o l’unico presente (440 mila) erano occupati. Lo «stress da conciliazione», in particolare, è stato massimo tra i genitori che non hanno potuto lavorare da casa, né fruire dei servizi (formali o informali) per la cura dei figli: si tratta di 853mila nuclei con figli 0-14enni, nello specifico 583mila coppie e 270mila monogenitori, questi ultimi in gran parte (l’84,8%) donne.

Il problema è urgente: nonostante gli asili nido, dal 2017, siano entrati a pieno titolo nel sistema di istruzione, ancora oggi questa rete educativa è molto fragile e, in alcune regioni, quasi inesistente. Una misura necessaria a dare ai bambini maggiori opportunità educative sin dalla primissima infanzia, che contribuirebbe a colmare i rischi di povertà educativa per le famiglie più fragili, ma anche a riportare le donne e in particolare le madri nel mondo del lavoro. La Commissione europea ha indicato come obiettivo minimo entro il 2030 per ciascun Paese membro di almeno dimezzare il divario di genere a livello occupazionale rispetto al 2019 ma per l’Italia, numeri alla mano, la missione sembra praticamente impossibile.

In un Paese normale nel giorno della Festa della mamma i politici non festeggiano la mamma ma illustrano le proposte. La politica funziona così: c’è un tema e si propongono soluzioni. Il dibattito politico ieri era polarizzato sui disperati che sono sbarcati (vedrete, ora si ricomincia) e su una libraia (una!) che ha liberamente scelto di non vendere il libro di Giorgia Meloni (censura! censura! gridano tutti).

E intanto un altro giorno da reality show è passato.

Buon lunedì.

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“Donna, ricordati di procreare altrimenti non ti realizzi”

A destra la concezione dell’identità di donna è sempre la stessa dai tempi di Adamo: essa per la Lega o Forza Italia ha il supremo compito di partorire come accadeva in quei tempi in cui in Italia avevamo qualche problemino con la democrazia

Antonio Tajani è coordinatore nazionale di Forza Italia, mica uno qualunque. Uno dei suoi pregi, per chi ha uso di seguire la politica, è quello di essere sornione sempre allo stesso livello mentre si ritrova a parlar degli argomenti più diversi, come se recitasse a memoria il ruolo che Forza Italia si propone nel centrodestra: essere quelli “seri”, quelli “non populisti”, quelli “libertari” e così via.

Ieri Tajani era presente alla presentazione degli eventi della festa ‘Mamma è bello’ e ovviamente gli è toccato sfoderare qualche riflessione politica sul ruolo di mamma (i politici, quelli che funzionano sono così, hanno un’idea su tutto e un mazzo di slogan per qualsiasi occasione, dalla sagra della porchetta fino al complesso tema di maternità e famiglia) e così ha sfoderato la solita frase come una tiritera, forse rendendosi poco conto di quello che stava dicendo. «La famiglia senza figli non esiste», ha detto Tajani, e poi, tanto per non perdere l’occasione di peggiorare la propria figura ha deciso anche di aggiungerci che «la donna non è una fattrice, ma si realizza totalmente con la maternità».

Ma come? Ma Forza Italia non è proprio il partito delle libertà? Niente: Tajani non si è nemmeno reso conto di essere riuscito in pochi secondi a tagliare completamente fuori migliaia di persone che avrebbero tutto il diritto di sentirsi feriti dalle sue parole. Mettere in dubbio la legittimità di un amore e di una famiglia, del resto, sembra essere diventato il giochino del momento dalle parti del centrodestra e così le famiglia che non hanno figli e quelle che non ne possono avere improvvisamente si accorgono di essere meno degne di tutti gli altri. E badate bene, qui siamo addirittura oltre al solito attacco alle coppie omosessuali: qui siamo proprio a un’idea di donna che ha il supremo compito di partorire come accadeva in quei tempi in cui in Italia avevamo qualche problemino con la democrazia.

Molti sono inorriditi, giustamente e si sono lamentati ma in fondo è proprio sempre la stessa idea di mondo, anche se esce con toni e con modi diversi, che nel centrodestra si coltiva da anni: «Le donne preferiscono accudire le persone, gli uomini preferiscono la tecnologia», ha detto ieri a Piazza Pulita (solo per citare uno dei tanti esempi) Alberto Zelger, consigliere comunale della Lega a Verona.

Insomma, anche oggi, care donne vi è stato ricordato il sacro comandamento di realizzarvi solo attraverso la procreazione. E se è vero che qualcuno potrebbe fregarsene della sparata di Tajani, come accade per le boiate di Salvini, occorre ricordare che questi sono leader di partiti che decideranno come spendere i soldi che dovrebbero servire per rimettere in piedi l’Italia, sono lì a stabilire quali dovrebbero essere le priorità. E questo, vedrete, è molto di più di una semplice frase sbagliata.

Buon venerdì.

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La sparizione del salario minimo

Solo lo scorso 16 marzo la Commissione Lavoro del Senato approvava la direttiva Ue volta a garantire l’adozione del salario minimo legale ai lavoratori degli Stati membri. Il testo impone l’individuazione di soglie minime di salario che possono essere introdotte per legge (salario minimo legale) o attraverso la contrattazione collettiva prevalente, come sottolineato anche dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando.

Il salario minimo (su cui Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno depositato diversi disegni di legge negli ultimi anni) è proprio scomparso nella versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza inviata alla Commissione europea nonostante fosse presente nel testo entrato in Consiglio dei ministri.

Nella bozza che circolava pochi giorni fa si parlava di una «rete universale di protezione dei lavoratori» e del «salario minimo legale», oltre alla garanzia di una retribuzione «proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Perfetto: è sparito tutto il paragrafo. Non si tratta di correzioni, di aggiustamenti, no, è sparito tutto.

La cancellazione difficilmente può arrivare dall’Europa vista la direttiva che è stata approvata solo un mese fa in Commissione Lavoro e viste le parole durante il proprio discorso allo Stato dell’Unione 2020, che von der Leyen aveva a riguardo, dicendo che «il dumping salariale danneggia i lavoratori e gli imprenditori onesti, mette a repentaglio la concorrenza sul mercato del lavoro – aveva aggiunto – per questo faremo una proposta per un salario minimo in tutti gli Stati dell’Unione. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso la contrattazione collettiva o con salari mini statutari, è arrivato il momento che il lavoro venga pagato nel modo equo».

Qualcuno prova a teorizzare che la cancellazione in extremis potrebbe essere il risultato degli incontri con le parti sociali nella fase finali della stesura, ipotizzando che un eventuale salario minimo possa indebolire le trattative sindacali poiché alcune aziende potrebbero così semplicemente accontentarsi di essere a norma di legge. Peccato che sia da tempo sotto gli occhi di tutti la moltiplicazione di accordi sottoscritti da soggetti non del tutto rappresentativi che hanno contribuito alla corsa al ribasso per certe categorie. Del resto il problema dei contratti pirata (soprattutto nelle zone più depresse del Paese) è sempre poco dibattuto nonostante abbiano affiancato spesso il lavoro nero.

L’ex ministra del lavoro Catalfo disse: «Il salario minimo è da sempre un obiettivo mio e di tutto il Movimento 5 Stelle. Una risposta essenziale per contrastare il cosiddetto dumping salariale, riequilibrare il sistema di concorrenza interna fra le imprese e ridare dignità e futuro ai “working poor” (i lavoratori poveri) e alle loro famiglie. Una risposta che la crisi innescata dalla pandemia ha reso ancora più urgente e necessaria e sulla quale, come Italia, dobbiamo investire con determinazione nel nostro progetto di rilancio».

E quindi? E ora? Il Pd e il M5s che dicono?

Buon giovedì.

(nella foto il ministro del Lavoro Andrea Orlando)

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Da lunedì 3 settimane chiusi in casa ma nessuno ha il coraggio di chiamarlo per quel che è: lockdown

Avete seguito la conferenza di stampa di Draghi in cui ha illustrato il peggioramento dei colori delle regioni che di fatto istituisce il (doveroso, vista la situazione) lockdown praticamente su quasi tutto il territorio nazionale e che prevede nuove restrizioni in occasione delle prossime festività pasquali? No, perché non c’è stata nessuna conferenza stampa.

Avete sentito le voci di sdegno dei giornalisti che rivendicano (giustamente) il diritto di porre delle domande e di ottenere delle risposte, quelli che lamentavano (giustamente) lo storytelling imposto da Casalino senza nessuna possibilità di contraddittorio? No, perché non ce ne sono state.

A proposito: cosa ne dite delle comunicazioni al Parlamento (lungamente invocate) sulle prossime chiusure e della ricchissima discussione parlamentare che ne è seguita? Niente, nemmeno qui. Non ci sono state. Avete sentito, a proposito, gli strepiti di Salvini che contesta la dittatura sanitaria e che invita il ministro Speranza (è sempre lui il ministro, eh) ad andare a casa perché incapace di prendere qualsiasi altra decisione che non sia una chiusura totale? Niente, niente di niente. Zero.

L’Italia è nel pieno della terza ondata, lo dimostrano i numeri e purtroppo coloro che sono stati apostrofati come “catastrofisti” hanno avuto ragione e ancora una volta il governo è costretto (come accade in tutti i Paesi del mondo) a correre ai ripari con nuove restrizioni.

Si può discutere per giorni se è stato fatto tutto il possibile per mettere in sicurezza il Paese, si può (e si deve) controllare passo per passo la campagna vaccinale e la prontezza delle risposte del sistema sanitario ma la grande differenza del governo Draghi (che inevitabilmente si ritrova a dover prendere le stesse misure di prima) sembra essere un condono comunicativo che si dovrebbe accettare in nome di una non precisata presenza di “tecnici” a cui è permesso non comunicare.

Così accade che qualsiasi provvedimento necessario ma impopolare scivoli liscio come se fosse un naturale meccanismo che non ha bisogno di spiegazioni e che gode di una silenziosa accondiscendenza. Ma il punto sostanziale rimane uno: essere presidente del Consiglio significa ricoprire un apicale ruolo politico e la politica ha il dovere di accompagnare le azioni con esaurienti spiegazioni e con l’assunzione di responsabilità per il presente e per il futuro.

Draghi può essere “un tecnico” ma non può permettersi di fare “il tecnico” nel ruolo che ricopre. Non durerà a lungo questo velo, no, qualcuno glielo dica, per il suo bene e per il bene del governo.

Leggi anche: 1. I ristori ancora non si vedono, ma c’è Draghi e va tutto bene / 2. Prima si lamentavano per la “dittatura sanitaria”. Ma ora che le chiusure le fa Draghi va tutto bene

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La pandemia economica non ha bollettini quotidiani, ma in Italia ci sono un milione di poveri in più

La pandemia economica non ha bollettini quotidiani, ma in Italia ci sono un milione di poveri in più

Scusate se insisto ma c’è una pandemia parallela, figlia di quell’altra, che infesta tutto il territorio nazionale ma che non ha bollettini quotidiani a puntellare il dibattito e l’informazione, che non crea allarmi pruriginosi convenienti per vendere la paura e che viene declinata al massimo in qualche singola storia per coprire qualche ospitata.

Qualche giorno fa sono state rese pubbliche le stime preliminari Istat sulla povertà per il 2020 e sono numeri che sanguinano: ci sono 2 milioni di nuclei famigliari in povertà, 5,6 milioni di individui, 1 milione in più di contagiati dall’indigenza rispetto all’anno precedente.

Visto che vanno di moda le percentuali si potrebbe scrivere così: nel 2019 il 7,7 per cento della popolazione era “povero” e ora siamo al 9,4 per cento. Nel Nord Italia ci sono 720 mila nuovi poveri e 184 mila al Sud. A pagare lo scotto sono le famiglie più numerose, quelle con almeno cinque componenti nel nucleo famigliare in cui l’incidenza è aumentata di quattro punti arrivando al 20,7 per cento.

E poiché va di moda parlare, spesso con vanveristiche banalizzazioni, di futuro allora vale la pena ricordare che le più colpite sono persone tra i 35 e i 44 anni, per la metà operai o assimilati, un quinto sono lavoratori in proprio. Sempre a proposito di giovani: i bambini e i minorenni in povertà assoluta sono aumentati in maniera drammatica toccando quota 1,3 milioni, sono 209 mila in più rispetto all’anno precedente.

Questi numeri, anche questo vale la pena ricordarlo, sono limitati dal reddito di cittadinanza e dal Rom (il reddito di emergenza introdotto a maggio), quelle misure che più di qualcuno al governo sta mettendo sotto accusa dimenticandosi però molto spesso di dirci come abbia intenzione di risolvere un problema che sta assumendo proporzioni che avranno bisogno di soluzioni tempestive e urgenti.

Per rimanere sui numeri vale la pena anche sottolineare come la spesa media delle famiglie sia diminuito del 9,1 per cento rispetto al 2019, rimangono stabili solo le spese alimentari e per la casa mentre diluiscono del 19,2 per cento quelle per tutti gli altri beni e servizi. Qui non si tratta solo di riaprire le attività, c’è da mettere in condizione le persone di poter spendere e sopravvivere.

C’è un tema enorme che qualcuno vorrebbe fare passare come priorità della futura ripresa e invece è presente e straziante qui, ora, subito e che ha bisogno della stessa tempestività che si adopera per l’emergenza. La pandemia economica è già qui e miete le sue vittime.

Leggi anche: L’allarme dell’Fmi: “Col Covid bruciati 22mila miliardi di dollari, 90 milioni di persone verso la povertà estrema”

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L’estate a scuola? Se lo propone Azzolina è una scemenza, se lo dice Draghi ha perfettamente senso

Confessiamolo, non è un gran momento per assistere a discorsi lucidi sulle proposte politiche: la spasmodica attesa e le grandi aspettative del possibile prossimo governo Draghi e il fatto che per il momento sembrano volerci entrare praticamente quasi tutti i partiti hanno sdoganato posizioni fideistiche che confidano sul potere taumaturgico del governo che verrà.

E invece un po’ di lucidità fa bene a noi e può essere d’aiuto anche a Mario Draghi, sicuro. In queste ore sta ottenendo lodi sperticate la proposta del premier incaricato di tenere aperte le scuole fino alla fine di giugno “per recuperare le giornate perse” durante la pandemia (riferiscono così i parlamentari che hanno partecipato alle consultazioni).

Si alzano i cori: “Prolungare la scuola è il vero messaggio al Paese”, scrive l’ex senatore del Pd Stefano Esposito. “Dopo un anno la cui preoccupazione del Governo è stata la chiusura delle scuole […] la capite la differenza?”, fa notare l’ex deputato Fabio Lavagno.

E via così: il giornalista de La Stampa Iacoboni scrive del passaggio “dalla propaganda a delle sane, semplici idee di governo” e gli editorialisti esultano.

Tutto bene, per carità. Ma c’è un punto che forse vale la pena rimarcare: la proposta di prolungare l’anno scolastico fino a fine giugno era già stata lanciata dalla ex ministra Azzolina proprio a dicembre dell’anno scorso, poche settimane fa.

In quel caso la reazione della stampa e della politica fu diametralmente opposta (cadendo spesso nella derisione) e il mondo della scuola pose obiezioni che valgono ancora oggi: la Cisl parlò di idea “inopportuna” chiarendo come ci fossero “scuole dove l’attività non si è mai interrotta, anzi, ci sono scuole in cui si è sempre lavorato tra mille difficoltà”. “Le scuole sono aperte, nessuno ha chiuso”.

Il coordinatore nazionale della Gilda Insegnanti, Rino Di Meglio, parlò di “proposta offensiva verso i colleghi che stanno sgobbando con la dad”. La Uil rifiutò la proposta invitando il Governo a “uscire dall’estemporaneità per il lavoro straordinario e confuso”.

Venne poi fatto presente il problema della sovrapposizione degli esami e dei problemi di salubrità climatica di molte classi del sud. Qualcuno fece notare che il problema della scuola in tempi di pandemia sono i dispositivi di sicurezza, i trasporti e l’areazione delle classi (che sarebbe costata meno dei banchi a rotelle).

Un po’ di lucidità, insomma, perché osannare le stesse proposte dell’altro Governo dopo averle derise non fa bene al clima generale e alla presunta serietà che si vorrebbe imporre. E questo non è un problema di Draghi: questo ha a che fare con la credibilità di tutti gli altri intorno.

Leggi anche: 1. Borghi (Lega) a TPI: “Sostegno a Draghi è la scelta più sovranista che possiamo fare” / 2. La moltiplicazione dei pani, dei pesci e dei titoli derivati: Mario Draghi santo subito (di Alessandro Di Battista)

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Dino Giarrusso (M5S) a TPI: “Avanti con Conte senza Renzi, ora trattiamo per un governo con altri partiti. Ma no impresentabili”

Sulla crisi di governo in corso abbiamo intervistato per TPI Dino Giarrusso, parlamentare europeo del Movimento 5 Stelle.
Giarrusso, a che gioco a sta giocando a Renzi?
“Sta giocando al gioco ‘fai male all’Italia’, un gioco che non mi piace per niente. Qui il problema sono gli italiani e le loro vite: nessuno dotato di coscienza può pensare di provocare una crisi di governo in questo momento. Lo sappiamo tutti. Lo dicono gli osservatori europei. Siamo stati anni a dire ‘ce lo chiede l’Europa’ e ora sappiamo benissimo che l’Europa, i mercati, il mondo, ci chiedono stabilità, non certo di andare alla crisi o alle elezioni. Benché tutti sappiamo che questa è una scelta che fa male agli italiani, viene dato un enorme spazio mediatico a Renzi e al suo modo, suggestivo e imbarazzante ad un tempo, di raccontare le cose. Ha giornalisti molto amici che sostengono questa visione delirante della realtà. È un profluvio di spazio dato a Renzi e ai suoi fedelissimi in tv e sui giornali, ma parliamo di un partito al 2%. Come mai?”.

Cosa ha in mente? Cosa vuole?
“Questo facciamo fatica a capirlo tutti. Questa è la verità. Perché, finché chiedi qualcosa di più per te e per i tuoi, è un atteggiamento squallido ma farebbe parte delle cose della politica. Magari cerchi di ottenere quanto più possibile. Invece questo atteggiamento distruttivo è faticoso anche da comprendere. Che cosa vuole? Non sono in tanti ad averlo capito. A me sembra uno di quelli che al tavolo da gioco hanno perso tanto e, nella disperazione, continua a fare mosse sconsiderate. Sicuramente riesce a fare parlare di sé. Se si va a vedere il sentimento degli italiani nei suoi confronti si vede che sta sulle scatole a tutti”.

Però quello che conta sono i voti in Senato…
“Noi oggi stiamo assistendo a una crisi di governo portata avanti da un partito che conta 18 senatori, ma questo partito non era presente alle elezioni che hanno formato questo Parlamento. Nella scheda elettorale questo partito non c’era, capisce? Dal punto di vista democratico questa cosa va bene? Dobbiamo chiederci se sia ancora normale creare gruppi parlamentari di partiti che non erano presenti alle elezioni. È una cosa sana? Non mi pare che rispecchi la volontà degli italiani. E una riflessione in tal senso sui regolamenti parlamentari andrebbe fatta. Mi sembra la cosa più evidente in questo momento, ma nessuno ricorda che la crisi è causata da un partito che gli italiani non hanno votato, poiché non era sulla scheda”.

Come vede lo scenario futuro?
“Prevedo che sia impossibile, se questo governo cade, una maggioranza ancora con Renzi, dopo questo comportamento. Allo stesso tempo mi sembra ingiusto pensare a un futuro governo senza Conte, protagonista di una buona stagione di governo in Italia. Mi auguro che ci sia la possibilità di andare avanti con Conte”.

Quindi vi affidate ai responsabili? Imbarcate qualcuno?
“La parola ‘responsabili’ mi piace fino a un certo punto. Nel teatrino dell’assurdo a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni ho sentito dire ad alcuni renziani che è sbagliato da parte di Conte cercare degli Scilipoti in giro. Ma sono loro a essere gli Scilipoti: sono loro che non esistevano alle elezioni e hanno tradito il partito con cui sono stati eletti. Non si possono accusare gli altri di propri comportamenti, è surreale. Tornando alla domanda: bisogna vedere innanzitutto se tutti i senatori di Renzi lo seguiranno. Bisogna capire se gli ex senatori del M5S vogliono sostenere Conte. Che cosa faranno quelli nel Gruppo Misto? Vedremo. E poi capire le opportunità che possono esserci con altre forze politiche. Perdere Conte sarebbe una follia, ma bisogna vedere che carte ha in mano chi vuole entrare in maggioranza. C’è il rischio di avere personaggi poco raccomandabili dentro il governo, ma a riguardo mi fido dei miei colleghi in Parlamento: se ci sarà un governo con i voti M5S non possono esserci impresentabili”.

Leggi anche: 1. I 5 Stelle uniti in blocco a sostengo di Conte. E con i renziani mai più, meglio Forza Italia / 2. Di Battista sposa la linea Conte: “Se Renzi apre la crisi, mai più un Governo con lui” / 3. I 3 scenari che trasformano Giuseppe Conte in Giovanna d’Arco (di Luca Telese) / 3

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Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare…

Ora almeno ci sono anche dei numeri, pochi, pochini e perfino poco chiari. Dopo mesi in cui tutti chiedevano aggiornamenti l’altro ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il suo rapporto per il periodo dal 31 agosto al 27 dicembre sui contagi a scuola mettendo nero su bianco che si tratta di 3.173 focolai di coronavirus pari al 2% del totale. Si tratta di bambini e ragazzi in età scolare (dai 3 ai 18 anni): la maggior parte dei casi, ben il 40%, si è verificata negli adolescenti dai 14 ai 18 anni. Si potrebbe partire da qui ad aprire un serio dibattito sul futuro, sul presente e sul passato recente delle scuole italiane in tempo di pandemia se non fosse che l’Iss non sa dire nulla sul fatto che il contagio avvenga in classe oppure nei (troppo pochi) trasporti prima e dopo le ore di lezione. Il nodo dei mezzi pubblici rimane un grosso punto interrogativo. Stesso discorso sulla reale efficacia della chiusura delle scuole per frenare la diffusione del Covid: «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro», si legge nel rapporto.

E quindi? E quindi sulla scuola si continua con l’indecente balletto di favorevoli e contrari, di opposte tifoserie che si scontrano per opposte fazioni spesso dimenticando di proporre soluzioni. In mezzo un governo che sulla questione continua a balbettare e appare piuttosto disunito: la ministra alla scuola Lucia Azzolina pretenderebbe un rapidissimo rientro in presenza mentre altri membri del governo, Dario Franceschini in testa, propendono per la linea della cautela a oltranza. La sintesi non c’è. Meglio: la sintesi è una sbiadita mediazione che per ora dal Consiglio dei Ministri dà il via libera in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì 11 gennaio mentre per le scuole primarie e secondarie di primo grado fissa la ripresa dal 7 gennaio in presenza. Peccato che intanto le Regioni vadano ognuna per conto suo con la Liguria che annuncia che non aprirà, la Sardegna che posticipa al 15 gennaio, il Veneto che rimanda al 31 come Calabria, Friuli Venezia Giulia e Marche, tutte in ordine sparso. La sensazione diffusa è che il molto probabile aumento dei contagi nei prossimi giorni cambierà di nuovo le carte in tavola.

«Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie», avverte Azzolina ma che il peso della ministra sia debole all’interno dell’esecutivo è molto più di una sensazione.
Poi ci sarebbe anche il pensiero degli studenti, raccolto da un’indagine Ipsos per Save The Children tra ragazzi dai 14 a 18 anni che racconta di come il 42% di loro ritenga ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro mentre loro non possono frequentare la scuola. Il 46% considera quello trascorso finora “un anno sprecato”. Save the Children stima che almeno 34mila studenti delle superiori, a causa delle assenze prolungate, potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Ad oggi, più di uno studente su tre (35%) si sente meno preparato di quando andava a scuola in presenza.

Poi si potrebbe parlare dei trasporti che ancora mancano, del tracciamento e dei presidi sanitari e dei tamponi che avrebbero garantito sicurezza e soprattutto di un sistema di ventilazione nelle aule che avrebbe potuto garantire più sicurezza. Ma di visoni strutturate e lunghe sulla scuola non se ne vede l’ombra. Intanto il personale scolastico si arrabatta e resiste, in attesa della prossima decisione poche ore prima di aprire i cancelli.

L’articolo Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare… proviene da Il Riformista.

Fonte

E i tamponi?

Nell’ultimo mese il numero dei tamponi si è quasi dimezzato rispetto a novembre. E fatichiamo a inseguire le tre “t”. Mentre si festeggia per il vaccino si ha la sensazione che si sia mollata la presa sul controllo

Ci sono dei numeri su cui vale la pena riflettere e che scompaiono dalla discussione generale: nell’ultimo mese il numero dei tamponi eseguiti a settimana si è quasi dimezzato da circa 1,5 milioni di novembre ai 900mila di questo mese. La ricerca è del fisico Giorgio Sestili che a marzo di quest’anno ha fondato il progetto “Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche” e si occupa di comunicazione scientifica.

″È un calo molto importante, che può essere positivo se legato al fatto che si abbassa la curva dei contagi, in quanto se meno persone hanno i sintomi c’è meno richiesta, ma è negativo se vediamo salire il rapporto fra casi positivi e tamponi, come sta accadendo in questi giorni”, dice Sestili.

E che non sia un calo positivo lo dice l’altissimo tasso di positività del 27 dicembre che ha toccato il 14,9%, come non accadeva dallo scorso 23 novembre mentre il rapporto fra i casi positivi e i casi testati (ossia il numero dei tamponi al netto di quelli fatti più volte alla stessa persone) ha raggiunto il 36%, “in assoluto il valore più alto della seconda ondata”.

È sempre la vecchia storia delle tre “t” (trattamento, tracciamento, tamponi) che da mesi fatichiamo a inseguire. E a proposito del tracciamento il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano, dice: “fino a un mese fa – ha osservato – si facevano più tamponi, mentre adesso dopo 21 giorni di isolamento alle persone positive asintomatiche il tampone non viene più fatto in quanto sono ritenute non contagiose”.

Quindi mentre si festeggia per il vaccino si ha la sensazione che si sia mollata la presa sul controllo, come se la possibile soluzione futura sia diventata la panacea anche per il presente. E si ha la sensazione di incorrere negli stessi errori di leggerezza del passato. Augurandosi di sbagliarsi, ovviamente.

Buon martedì.

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Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

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