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Arrestato il boss di San Giorgio Extra

f786be46cbe846b008ddff3720386fce_XLREGGIO CALABRIA – In manette il cugino dell’ex assessore del Comune di Reggio Calabria Giuseppe Plutino che si adoperò per raccogliere voti per il centrodestra.

Dopo la condanna dei giorni scorsi di Plutino a 12 anni di reclusione, la squadra mobile di Reggio Calabria ha arrestato Filippo Condemi, 53 anni, ritenuto affiliato al sodalizio ‘ndranghetista Borghetto-Caridi-Zindato operante nei quartieri di Modena, Ciccarello e San Giorgio Extra. Il provvedimento è stato emesso dal tribunale di Reggio – Sezione dibattimentale, su richiesta della Procura distrettuale antimafia, dopo la condanna inflitta a Condemi il 3 dicembre scorso al termine del processo “S.Giorgio extra” a 10 di reclusione per associazione mafiosa.

‘Peppe la mucca’ e la ‘ndrangheta da esportazione

Dopo il fermo del 18 novembre, originato dall’indagine ‘Insubria’ della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Milano, arriva oggi l’ordinanza di custodia cautelare in carcere – voluta dalla DDA di Reggio Calabria – per cinque esponenti della ‘Ndrangheta di Giffone e Grotteria legati al locale svizzero di Frauenfeld.

Le manette dei Carabinieri del ROS e del Comando Provinciale Carabinieri di Reggio Calabria sono scattate all’alba per Giuseppe Larosa, Pasquale V., Salvatore B., Antonio M., Vincenzo C. in quanto ritenuti responsabili di aver fatto parte, con altre persone allo stato non ancora individuate, dell’associazione mafiosa denominata ‘Ndrangheta, operante sul territorio della provincia di Reggio Calabria, del territorio nazionale ed estero.

Le indagini si basano sulla densa attività di intercettazione, comprensiva di riprese video, nonché sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia portate avanti dai ROS di Milano durante l’indagine ‘Insubria’ che ha portato, come abbiamo scritto, all’arresto di 40 persone ritenute affiliate alla ‘Ndrangheta in Lombardia.

L’indagine reggina ha provato il ruolo fondamentale ricoperto da Giuseppe Larosa, alias ‘Peppe la mucca’, in possesso della dote di Mammasantissima, con ruolo di vertice della ‘Ndrangheta e, in particolare – come spiega Il Dispaccio – “dell’articolazione territoriale riferibile alla Locale di Giffone, alla quale sono subordinate le Locali individuate nella Brianza comasca di Cermenate e Fino Mornasco, e quella di Calolziocorte nel lecchese, nonché altre Locali ancora non meglio individuate. Inoltre, l’organizzazione mafiosa di Giffone capeggiata da Larosa, così come documentato nel corso delle attività investigative condotte dal Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Reggio Calabria nell’ambito dell’indagine denominata ‘Helvetia’ dell’agosto scorso, è collegata con altre strutture ‘ndranghetistiche calabresi, quali la Locale di Fabrizia della provincia di Vibo Valentia e con la dipendente Società di Frauenfeld (Svizzera).

Il lavoro puntale dei ROS ha inoltre dimostrato come il panettiere incensurato Pasquale V., già arrestato a novembre, fosse in possesso della dote della Santa, e ricoprisse quindi un ruolo di rilievo nell’ambito della Locale di Giffone stando in strettissimo contatto con Giuseppe Larosa. Importante anche Vincenzo C., sempre legato a Larosa, e partecipe del locale di Grotteria, attivo sia in Svizzera che in Germania.

Tornando a Larosa, il suo ruolo in Svizzera e’ da non sottovalutare. Dalla Svizzera Larosa – si legge sull’OCC – era investito del ruolo di mantenere i contatti con le locali lombarde, funzionalmente dipendenti da quella di Giffone, nonché con gli altri affiliati residenti all’estero, tra cui Antonio Nesci a capo della locale di ‘Ndrangheta di Frauenfeld e inteso ‘cucchiarune’, alias ‘la montagna della Svizzera’, come avevamo scritto dopo il suo arresto ad agosto.

(fonte)

Confiscati bar, ristoranti, ville: a Roma anche la ‘ndrangheta pascola indisturbata

Le quote sociali e l‘intero patrimonio aziendale della Macc 4 Srl, con sede nella capitale che si occupa di acquisto, vendita e gestione di bar, ristoranti, pizzerie, rosticcerie, proprietaria del bar Antiche mura; il 30% delle quote del capitale sociale e del patrimonio aziendale, comprensivo dei conti correnti, della Colonna Antonina 2004 Srl titolare, sino al novembre 2009, del noto Bar Chigi; due immobili, tra cui un villino di pregio, a Roma; appezzamenti di terreno agricolo per oltre 12 mila metri quadri; vari rapporti finanziari bancari, postali ed assicurativi: sono i beni confiscati dalla Guardia di finanza di Reggio Calabria.
I beni, secondo le indagini del Comando provinciale di Reggio Calabria e del Servizio centrale investigazione criminalità organizzata di Roma, sono riconducibili, direttamente o indirettamente, a due affiliati di rilievo, Francesco Frisina, di 58 anni, ed il nipote Alessandro Mazzullo (31).
Frisina è figlio di Domenico, già affiliato alla cosca ucciso il 4 luglio 1979, nell’ambito della guerra di ‘ndrangheta che sino al 1990, aveva visto coinvolte le cosche Condello e e Gallico che ha mietuto più di 50 vittime. Mazzullo è figlio di Giuseppe , ritenuto uno dei “rampolli” emergenti della Cosca Gallico, al quale è stato attribuito il ruolo di intestatario fittizio dell’associazione criminale a Roma.
Dalle indagini è emerso come la cosca, proprio grazie a Frisina e Mazzullo ed ai legami da quest’ultimi, instaurati con altri soggetti di elevata caratura criminale a vario titolo collegati alla storica cosca degli Alvaro nelle ramificazioni di Sinopoli e Cosoleto rispettivamente denominate “Carni i cani” e “Testazza o Cudalonga”, già da tempo impiantate nel comprensorio romano, avesse delocalizzato il proprio centro di interessi dalla Calabria alla Capitale. I due, dopo il trasferimento a Roma, in breve tempo, erano riusciti a condurre una serie di operazioni finanziarie finalizzate all’acquisizione, diretta o indiretta, di diversi immobili, nonché alla gestione di varie attività commerciali – in primis nel settore della ristorazione – manipolando le regole di libero mercato con l’alterazione dei dettami commerciali e finanziari del contesto socio-economico romano. Inoltre è emerso che, a fronte dell’esigua capacità di reddito, i due hanno investito ingenti capitali.
Frisina e Mazzullo sono stati anche sottoposti alla sorveglianza speciale di ps per 3 anni e 6 mesi con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza o di dimora.

(fonte)

Come quell’altro: a Reggio Calabria in lista c’è l’amante del boss

Qualcuno invoca la svolta a Reggio Calabria. La invoca soltanto però. Invece, nonostante il vestito nuovo dei candidati a sindaco, le 32 liste in corsa per il Comune sciolto per mafia nell’ottobre 2012 sono ancora piene di impresentabili. Dopo due anni di commissariamento, la puzza di ‘ndrangheta ricomincia a sentirsi a Palazzo San Giorgio a dispetto delle affermazioni del sottosegretario Marco Minniti che, pochi giorni fa, ha parlato di “liste a 24 carati”. Basta leggere i nomi per rendersi conto che non è così. Se poi si incrociano con gli atti giudiziari sfornati negli ultimi anni dalla Dda, si comprende bene come il monito del procuratore Federico Cafiero De Raho è stato completamente inascoltato dai vertici del centrosinistra, che candida il giovane Giuseppe Falcomatà del Pd (figlio d’arte dell’ex sindaco Italo) e del centrodestra che candida il presidente della Camera di Commercio Lucio Dattola. Falcomatà è favorito per una vittoria al primo turno, ma a tenere banco sono gli impresentabili infilati nelle sue liste. A partire dal carabiniere Roberto Roccella, che ieri pomeriggio ha ritirato la sua disponibilità a partecipare alla tornata elettorale. Il suo nome compare nella lista “A testa alta”, vicina al Pd. Nei confronti di Roccella è stato chiesto il rinvio a giudizio per i suoi rapporti con il commercialista Giovanni Zumbo, la talpa che forniva le notizie alle cosche Ficara e Pelle. Per la par condicio, “Sud” (lista collegata a Dattola) punta su Nicolina Zumbo, l’amante del boss Checco Zindato, detenuto al 41 bis e assolto in appello dall’accusa di aver ucciso Giuseppe Lauteta, fidanzato della candidata. “Ho un’altra entrata di seicento euro al mese e gliel’ho… gliel’ho fatta girare a lei perché… per il bambino!”. La voce è quella di Zindato, intercettato in carcere con la moglie mentre parla di Nicolina Zumbo che, per gli investigatori, avrebbe ricevuto denaro proveniente dalle attività illecita della cosca legata alla famiglia Libri. Nonostante la giovane età è un habitué delle candidature Claudio Miro Suraci, estremista di destra in lista con “Fratelli d’Italia”e condannato per aver lanciato una molotov contro una sezione dei Comunisti italiani. Se l’Ncd candida l’ex assessore al patrimonio edilizio Michele Raso, condannato a 2 anni di carcere per aver indebitamente assegnato un alloggio popolare alla cognata, la lista “Reggio Futura”punta su altri due “Scopelliti Boys”: Giuseppe Agliano e Michele Marcianò. Il primo, assessore al Bilancio di Scopelliti, è indicato dal pentito Roberto Moio come vicino ai fratelli Tegano, padroni di Archi. Marcianò, invece, è stato più volte intercettato con il boss Cosimo Alvaro al quale, all’interno della sua Smart, aveva dato indicazioni su come comportarsi in caso di un eventuale posto di blocco: “Tu documenti non ne hai… Sordomuto”. Le sue intercettazioni sono finite nel fascicolo del processo “Meta”. “Prima viene il rispetto e poi viene la politica con me…”. È la frase detta da Marcianò ad Alvaro al quale aveva chiesto di trovare giovani da tesserare in Forza Italia. Nella lista sarebbe stato candidato Nicola Paris se non avesse deciso di saltare il fosso e appoggiare Falcomatà. Adesso è con il “Centro Democratico” dopo aver schivato una sentenza di incandidabilità perché fratello di Tommaso Paris, condannato a 11 anni in quanto vicino alla cosca Zindato. Nella stessa lista c’è Stefania Eraclini (figlia di un ex consigliere “incandidabile”) e il medico Giuseppe Zuccarelli, un oculista citato più volte nell’inchiesta “Zap – pa” per i suoi rapporti con il boss narcotrafficante Santo Maesano. Il 26 ottobre si vota. E tanti “in odore” sono della partita.

(Lucio Musolino per  Il Fatto Quotidiano)

Due tonnellate di cocaina a Reggio

Provate ad immaginare quante siano due tonnellate di cocaina. Divise in buste appiattite dentro una scatola. Quanti nasi da sfamare. Oggi. A Reggio Calabria.

Due tonnellate di cocaina provenienti dal Sudamerica sono state sequestrate dalla Guardia di Finanza. Nella maxi operazione in materia di contrasto al traffico internazionale di stupefacenti del nucleo di polizia tributaria di Catanzaro, coordinata dal procuratore aggiunto di Reggio CalabriaNicola Gratteri e svolta in collaborazione con numerose forze di polizia straniere, sono state emesse 24 ordinanze di custodia cautelare, in provincia di Reggio Calabria e all’estero. Alle ore 11,30 si terrà una conferenza stampa presso la procura di Reggio Calabria con il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho e il procuratore aggiunto Nicola Gratteri. “Finora abbiamo recuperato 2mila chili di cocaina – ha detto Gratteri ai microfoni di RaiNews24 – Quello della droga è un traffico da arginare molto difficile, serve un sistema omologo a livello europeo”.

Un (brutto) colpo per l’antimafia. Ancora.

Francesco-MollaceCerto siamo ancora al momento delle indagini e la Calabria è terra di ritorsioni incrociate in cui la ‘ndrangheta è molto più “politica” e “giustizia” di quanto se ne possa pensare per i non addetti ai lavori ma la notizia che scrive oggi Guido Ruotolo per La Stampa è una notizia che rimetterebbe in fila (se confermata) una serie di strane “coincidenze” sugli atteggiamenti del pentito Lo Giudice e sui risultati di alcune indagini. Io credo che sarebbe bene, per l’antimafia tutta, avere un po’ meno “sicumera” e un po’ di più di “intelligenti dubbi”:

Un colpo di scena, un altro. Per Reggio Calabria e l’antimafia è una mazzata. E anche un nuovo capitolo dei veleni che hanno intossicato il Palazzo di Giustizia. È indagato dalla procura antimafia di Catanzaro Francesco Mollace, uno dei pilastri storici della procura antimafia, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria da meno di due mesi è in servizio alla procura generale presso la Corte d’appello di Roma (e qualcuno ipotizza la precipitosa decisione di trasferirsi dettata per evitare il carcere). L’ipotesi di reato che viene ipotizzata nei confronti dell’alto magistrato è corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta.

L’inchiesta dei pm Giuseppe Borrelli, Gerardo Dominjanni e Domenico Guarascio è una costola di quella sugli autori della strategia stragista contro lo Stato del 2010, la cosca Lo Giudice, che fece esplodere ordigni sotto il portone della procura generale (3 gennaio) e nell’atrio del palazzo del procuratore generale Salvatore Di Landro (25 agosto). Infine, il 5 ottobre, fu ritrovato un bazooka sotto la procura di Giuseppe Pignatone.

Per questi attentati si sta celebrando il processo a Catanzaro, avendo individuati gli autori. Sono diverse le letture sul possibile movente. Quella più accreditata: il procuratore generale Di Landro si era da poco insediato, facendo saltare immediatamente quegli accordi non scritti tra avvocati e sostituti procuratori generali, che praticavano il patteggiamento occulto in Appello. E, dunque, le bombe come richiesta a Di Landro di ripristinare quegli accordi.

Francesco Mollace è stato lo storico titolare delle inchieste che hanno riguardato i fratelli Lo Giudice, e nessuna di queste indagini è mai arrivata a processo. Ma c’é, ci sarebbe anche dell’altro. Viene ipotizzato dagli inquirenti uno scambio corruttivo tra il magistrato e la cosca di Nino Lo Giudice.

Sì, il «nano», il mandante delle bombe del 2010. Il dottor Mollace – che non ha voluto commentare le indiscrezioni sulle indagini che lo riguardano – avrebbe tenuto la sua barca nel cantiere navale di Nino Spanò, il prestanome della cosca Lo Giudice. A processo Spanò ha dichiarato che la rata mensile per la barca del magistrato Mollace veniva pagata in contanti e che lui non la contabilizzava.

«Don Ciccio, cercate don Ciccio che mi deve difendere». Quello che è importante è ricordare che questa intercettazione è agli atti della inchiesta, genuina. Il boss comunica al suo avvocato di contattare Mollace, e sembra dire che è il suo garante.

Per l’accusa, questa intercettazione è una prova decisiva, che mette in secondo piano la interpretazione e l’attendibilità del pentito Nino Lo Giudice che prima chiama in causa il procuratore aggiunto nazionale antimafia, Alberto Cisterna, poi evade dal rifugio protetto lasciando un memoriale nel quale ritratta tutto (infine è stato catturato).

Reggio Calabria: l’ex sindaco è incandidabile ma ora è assessore (regionale!)

demetrio-arena-RIl primato della politica si dovrebbe scorgere nella forza e la capacità di prendere decisioni “prima” della magistratura. Dovrebbe. Appunto:

La Corte d’appello di Reggio Calabria ha sancito l’incandidabilità (c.d. Legge Severino) dell’ex sindaco di Reggio Calabria, Demetrio Arena. Il collegio, nei giorni scorsi, aveva già deciso lo stesso provvedimento nei confronti di Pino Plutino (detenuto per concorso esterno in associazione mafiosa), Luigi Tuccio, Walter Curatola, Giuseppe Eraclini, Giuseppe Martorano, Sebastiano Vecchio e Pasquale Morisani, tutti ex amministratori del Comune sciolto per contiguità mafiose. Arena, attuale assessore regionale alle Attività produttive, era stato eletto sindaco di Reggio il 21 maggio 2011 a capo di una coalizione di centrodestra, dopo le dimissioni di Giuseppe Scopelliti, candidatosi ed eletto nel 2010 presidente della Regione. Il tribunale di primo grado ne aveva dichiarato l’incandidabilità per un turno di elezioni amministrative. “Il Collegio – è stato il commento di Arena – così come per gli altri amministratori, ha censurato però l’operato dei giudici di primo grado che non sono entrati nel merito dei rilievi posti dai ricorrenti. Ha invece introdotto una nuova fattispecie, svincolata totalmente dagli addebiti posti a base della decisione dello scioglimento del Comune di Reggio Calabria, ritenendo che al Sindaco non e’ da ascrivere ‘l’omesso personale adempimento riguardo ai rilievi formulati’, né tanto meno ‘l’omessa vigilanza’, dando atto che la situazione organizzativa e amministrativa del Comune, nella quale il sindaco si e’ trovato ad operare, era tale da non poter pretendersi la ‘minuziosa vigilanza e il dettagliato controllo delle attività amministrative’, poiché ‘ormai compromessa, forse irrimediabilmente’. Il giudizio di incandidabilità – prosegue Arena richiamando la sentenza – si fonda, quindi, esclusivamente sulla carenza di ‘impulso d’indirizzo’ atto a stimolare ‘con l’urgenza dettata dalla gravita’ del caso, percorsi diversi finalizzati all’immediata e determinata, nonché tenace e perseverante bonifica dal malcostume e dal malaffare diffusi dell’intero impianto strutturale della propria organizzazione (poiché ormai compromessa, forse irrimediabilmente) ed al ripristino di una effettiva conformità a legge e Costituzione del suo andamento ordinario, mediante ogni opportuna dotazione normativa e regolamentare”’. “La Corte d’Appello, con sentenza notificatami alla Vigilia di Natale – ha proseguito Arena – ha confermato quindi la mia incandidabilità per le prossime elezioni amministrative. Nel prendere atto della decisione, che rispetto ma non condivido, osservo così come in quello del Tribunale, anche nel provvedimento della Corte non vi è, e d’altronde non vi poteva essere, alcun accenno a miei atti o comportamenti indicativi, nemmeno larvatamente o indirettamente, di contiguità, connivenza o vicinanza alla criminalità organizzata. La Corte d’Appello ha delineato minuziosamente il contesto in cui la mia Amministrazione si e’ trovata ad operare sin dal suo insediamento, rilevando una marcata situazione di inefficienza e degrado della macchina amministrativa comunale, non addebitando pertanto al sottoscritto alcuna responsabilità rispetto ai fatti contestati e alla più complessiva attività di vigilanza; tuttavia la decisione dell’incandidabilità si ‘fonderebbe’ sulla mancanza di una attività di impulso che nei sei mesi di attività amministrativa si sarebbe dovuta espletare per bonificare la macchina organizzativa dal malcostume e dal malaffare diffusi. Prendo atto di ciò, ma rilevo che nessuno fino ad ora mi aveva chiesto di produrre i numerosi atti ed iniziative che nei pochi mesi di mia sindacatura ho adottato per ridare efficienza ai servizi, tutti, e per correggere prassi e comportamenti distorti da parte degli uffici comunali. Credevo, invero, di dovermi difendere, nel giudizio di incandidabilità, da responsabilità mie personali e dirette, rispetto alle cause dello scioglimento per contiguità alla ‘ndrangheta della Amministrazione comunale. Mi si addebita invece una responsabilità oggettiva riguardo alla situazione amministrativa e non rispetto alle cause di scioglimento decretate dal Governo: e’ evidente che chiunque al posto mio sarebbe stato dichiarato incandidabile. Se da un lato ciò mi conforta con riferimento alla mia personale onorabilità, dall’altro non posso accettare che gli elementi utilizzati per decretare lo scioglimento dell’amministrazione comunale siano oggettivamente addebitati a colui che si trovava ad esserne il massimo rappresentante, ma che non li aveva in alcun modo determinati; con la conseguenza che tali elementi comportano la mia incandidabilità per la prossima tornata elettorale (sempre che io ne fossi intenzionato), sottraendo un diritto costituzionalmente garantito al cittadino quale è quello dell’elettorato passivo. Per questo – ha concluso Arena – impugnerò il provvedimento della Corte d’Appello davanti alla Suprema Corte di Cassazione”.

Reggio Calabria: la politica che si infiltra nella ‘ndrangheta

Sono stati “la causa efficiente dello scioglimento del Consiglio comunale”. Con una sentenza di 120 pagine, il tribunale civile di Reggio Calabria falcia quasi un’intera classe politica di centrodestra già travolta lo scorso ottobre dallo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. I giudici hanno stabilito, infatti, l’incandidabilità dell’ex sindaco Demetrio Arena, il delfino del governatore Giuseppe Scopelliti che, dopo essere stato defenestrato da Palazzo San Giorgio con la pesante accusa di guidare un’amministrazione contigua alla ‘ndrangheta, è stato premiato con la nomina ad assessore regionale alle Attività produttive.

Pesantissimo il commento del tribunale presieduto dal giudice Rodolfo Palermo sulle “scelte politico-amministrative dell’Arena” che “hanno reso fortemente permeabile un settore nevralgico come quello dei Lavori pubblici agli interessi della criminalità organizzata”. Dalla sentenza, infatti, emergono “forme di condizionamento tali da determinare un’alterazione del procedimento di volontà dell’ente”.

Il tribunale civile ha stabilito l’incandidabilità anche per gli ex assessori Pasquale Morisani (Lavori pubblici), Walter Curatola (Patrimonio edilizio) e Peppe Martorano (Protezione civile), l’ex presidente del Consiglio e poliziotto Sebastiano Vecchio (alcuni collaboratori di giustizia lo indicano come vicino alla cosca Serraino), per i consiglieri Giuseppe Eraclini e Giuseppe Plutino (quest’ultimo arrestato nell’operazione antimafia “San Giorgio”) e per l’ex assessore comunale Luigi Tuccio.

Quest’ultimo è l’ex coordinatore cittadino del Popolo della libertà entrato l’anno scorso in polemica con Roberto Benigni. Prendendo spunto, infatti, dallo show di Fiorello al quale aveva partecipato il comico toscano, Tuccio aveva commentato su facebook: “Abbiamo pagato Benigni per fargli fare l’ennesima filippica contro Berlusconi e la lode della merda! Comunista ebreo miliardario e senza contenuti!”. Ma non sono state le esternazioni fasciste di Tuccio ad aver spinto il tribunale civile di Reggio a decretare la sua incandidabilità. Il politico di centrodestra “a sua insaputa” si è ritrovato imparentato con esponenti della cosca Condello. L’ex assessore all’Urbanistica, infatti, solo il giorno dell’arresto della suocera (accusata di aver favorito un boss latitante) ha “scoperto” di essere cognato dell’ergastolano Pasquale Condello Junior, cugino e omonimo del mammasantissima conosciuto con il soprannome del “Supremo”.

“Soltanto oggi ho appreso, a seguito del fermo della signora Cotroneo Giuseppa Santa, questa triste vicenda” aveva affermato l’esponente del Popolo della libertà smentito poche settimane dopo dal decreto del ministro dell’Interno che ha disposto il 41 bis per il boss Nino Imerti, detenuto a Voghera assieme al cognato di Tuccio. Nella richiesta di sottoporre Imerti al carcere duro, il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo aveva evidenziato l’intenzione del boss di coinvolgere soggetti esterni al circuito giudiziario per ottenere benefici detentivi. Il riferimento era a Luigi Tuccio per il quale il boss Imerti, intercettato in carcere, aveva raccomandato alla cognata: “Sa pure che i voti glieli date a… o non lo sa?».

Un altro assessore incandidabile è Pasquale Morisani che, pur non indagato dalla Procura di Reggio, ha ammesso i suoi rapporti con il boss di Pietrastorta Santo Crucitti. I due erano compagni di scuola e sono stati intercettati mentre discutevano di politica e di voti in occasione della campagna elettorale per le comunali del 2007. Una lunga conversazione, all’interno dell’ufficio di Crucitti, della quale i magistrati hanno chiesto conto al politico fedelissimo di Scopelliti. Interrogato, Morisani ha candidamente spiegato che conosce Santo Crucitti, poiché sono cresciuti assieme, ma non sapeva che è ritenuto un boss della ‘ndrangheta. E comunque, quando l’ha scoperto, non ha avuto alcun problema nel mantenere il rapporto di amicizia. Da anni è impegnato in politica a Reggio Calabria ma non aveva mai sentito parlare di cosche mafiose. Non sapeva neanche che nel suo quartiere, Pietrastorta, esisteva la ‘ndrangheta. Ancora meno che il boss fosse il suo compagno di scuola intercettato mentre gli rastrella i voti del quartiere.

E se le società miste del Comune sono state travolte dalle inchieste della Direzione distrettuale antimafia, il tribunale civile presta attenzione anche ai finanziamenti concessi dall’ente alle associazioni culturali e di volontariato. Stando alle indagini, infatti, – scrivono i giudici riprendendo il contenuto della relazione della commissione d’accesso – i clan hanno “usato la veste della associazioni senza scopo di lucro, intestandole a prestanomi, per introitare i finanziamenti da parte del Comune”.

Sono usciti indenni dal procedimento di incandidabilità i consiglieri comunali Nicola Paris, Bruno Bagnato e il giovane Nicola Irto (del Partito democratico). Nei loro confronti, il tribunale ha accolto la tesi dell’avvocato Alfonso Mazzuca che, nella sua arringa in difesa di Irto, ha sottolineato, seppur imparentato con soggetti malavitosi, non ci sono elementi per poter sostenere che è stato condizionato dalla ‘ndrangheta. Come per dire, i parenti non si scelgono. Gli amici si.

Ecco la replica di Demetrio Arena, affidata all’agenzia Ansa. “Apprendo che il tribunale di Reggio Calabria ha dichiarato la mia incandidabilità limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento del Comune di Reggio Calabria, che produrrà effetti solo se sarà confermata in appello e in Cassazione. Da una prima lettura emerge la disarmante acriticità con cui il Tribunale ha ritenuto di dovere recepire pedissequamente quanto riportato nella relazione ministeriale senza valutare sotto alcun profilo le argomentazioni difensive e la copiosa documentazione ritualmente riprodotta in giudizio”.

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‘Ndrangheta, arrestato il boss Pietro Labate

725_10_mediumLa squadra mobile di Reggio Calabria ha arrestato il latitante Pietro Labate, di 62 anni, boss dell’omonima cosca egemone nel quartiere Gebbione della città. Il suo nome era stato recentemente inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi a livello nazionale. Labate, accusato di associazione mafiosa ed estorsione, era latitante dall’aprile 2011, quando sfuggì alla cattura nell’operazione «Archi» nell’ambito della quale erano stati arrestati dalla squadra mobile capi e gregari delle cosche Tegano e Labate. A luglio del 2012 è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione. Labate è stato individuato a Reggio Calabria al termine di lunghe indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia.

Domenico Leotta arrestato.

20130202_leotta-arrestoDomenico Leotta è accusato della strage di Pegli dalla pentita Giuseppina Pesce, nipote del boss Giuseppe Pesce. La donna si è pentita per «amore dei figli» dopo essere stata arrestata nell’operazione All Inside, nell’aprile 2010. Sei mesi dopo Giuseppina Pesce ha deciso di collaborare con i magistrati della dda di Reggio Calabria, raccontando la storia e le attività criminali del suo clan. Tra i ricordi della Pesce anche il triplice omicidio di Maria Teresa Gallucci, 37 anni, di sua madre Nicolina Celano, 72 e della cugina Marilena Bracalia, 22. La pentita ha fornito agli inquirenti tutti i retroscena di quel massacro e ha indicato proprio in Domenico Leotta il killer che, partito da Rosarno, raggiunse Pegli per compiere la missione di morte. Il motivo della strage sarebbe stato il riequilibrio mafioso nella zona, ma ci sarebbero stati anche motivi legati all’onore per presunti legami extraconiugali di una delle donne. Subito dopo la strage fu arrestato in Calabria Francesco Alviano, un ragazzo di 20 anni, figlio di Maria Teresa Gallucci. Il giovane fu accusato da un pentito di ‘ndrangheta, Francesco Facchinetti. I magistrati contestarono ad Alviano i tre omicidi commessi per lavare col sangue la relazione di sua madre Maria Teresa Gallucci, vedova da quindici anni, con Francesco Arcuri, proprietario di una boutique nel centro di Rosarno. A novembre del 1993, un anno prima della strage di Pegli, l’uomo fu ucciso all’interno del suo negozio con nove colpi al basso ventre. Maria Teresa si aspettava forse che lo stesso killer raggiungesse anche lei e quindi scappò da Rosarno per rifugiarsi a Pegli dalla madre. Dopo tre notti d’isolamento Francesco Alviano fu scagionato. Di quel triplice delitto non si seppe più nulla sino a quando Giuseppina Pesce non aprì la mente ai ricordi indicando in Domenico Leotta l’autore della strage. Con lui – secondo le dichiarazioni della pentita – avrebbe agito Francesco Di Marte, altro esponente del clan di Rosarno.

Oggi Domenico Leotta è stato arrestato concludendo così la sua fastidiosa latitanza. Fastidiosa non solo per la giustizia ma per il pudore. E’ una buona notizia, una mezza buona notizia, di quelle buone notizie che sarebbe meglio che non fossero state possibili eliminandone le cause piuttosto che gli effetti. Ma è una dolce sera per la memoria e l’impegno.

E i latitanti, in Italia, si arrestano anche con il Governo vacante, per dire.