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Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente…

L’ultimo è di qualche giorno fa: un ragazzo ventiduenne suicida nel carcere di Brescia in una vicenda da chiarire in molti suoi particolari. Il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo avere denunciato le violenze sessuali subite da un imprenditore che gli offriva capi d’abbigliamento in cambio di prestazioni sessuali. La Procura di Brescia proprio in questi giorni stava chiudendo le indagini ma il giovane si è tolto la vita nella sua cella.

Ma i suicidi in carcere continuano a essere una tragedia silenziosa che si ripete con feroce regolarità. Il 2 ottobre scorso si è tolto la vita Carlo Romano, detenuto a Rebibbia da sei mesi: aveva 27 anni e conclamati problemi psichici che l’avevano già spinto a tentare il suicidio e per questo era passato alla sorveglianza a vista che gli era stata revocata proprio il giorno precedente. La Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni sottolinea che si tratta dell’ennesimo caso di una persona «che forse poteva essere curata all’esterno». Lo scorso 28 settembre è toccato a un uomo di origini albanesi che era in attesa di giudizio nel carcere di Bologna, il compagno che condivideva la camera con lui non si sarebbe accorto di nulla. Solo il giorno precedente, il 27 settembre, nel carcere di Castrovillari (CS) un detenuto marocchino ha approfittato del cambio turno della polizia penitenziaria per impiccarsi con un lenzuolo. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto si è impiccato nella sua cella, dove si trovava solo, Omar Araschid, di origini marocchine, era recluso nell’area dei “sex offenders” e avrebbe nuovamente guadagnato la libertà nel 2021.

Il 27 agosto nel carcere di Pescara il 63enne Dante Di Silvestre aveva ricevuto da due giorni il diniego di lavorare fuori dal carcere dal magistrato dell’Ufficio di sorveglianza, per lui è stato un colpo durissimo, ha messo da parte gli effetti personali e un biglietto per la moglie e approfittando del regime di semilibertà che gli era stato riconosciuto per il suo comportamento esemplare, nel cortile del carcere ha utilizzato una corda che usava per il lavoro e si è impiccato a una sbarra. Di Silvestre era in carcere dopo la sentenza definitiva a 11 anni, con i benefici di legge aveva già scontato quasi metà della pena e aveva ottenuto la semilibertà. Poi, ancora: a Milano un 42enne algerino era stato fermato per tentato furto, era in una stanza da solo in Questura in attesa di fotosegnalamento. Si è tolto la maglietta, l’ha legata alle grate della finestrella della stanza vuota e l’ha stretta al collo. Quando gli agenti l’hanno trovato era già troppo tardi. Il 20 agosto si è impiccato al carcere Pagliarelli di Palermo Roberto Faraci, 45 anni, entrato in prigione da pochi giorni, anche lui sfruttando il fatto si essere stato lasciato solo.

È una moria di storia e di persone impressionante, che si ripete con cadenza mostruosa. Il 19 agosto un suicidio nel carcere di Lecce, il 17 Giuseppe Randazzo a Caltagirone, il 12 agosto sempre al Pagliarelli di Palermo (dove sono avvenuti ben 3 suicidi nel solo mese di agosto) si è impiccato (il solito drammatico cliché) Emanuele Riggio. Il 30 luglio nel carcere di Fermo si è suicidato un 23enne, di cui dalle cronache non si riesce nemmeno a risalire al nome. Aveva 23 anni anche Giovanni Cirillo che si è ammazzato il 26 luglio a Salerno e ne aveva 24 invece il detenuto che si è ammazzato a Como nello stesso carcere dove un mese prima in un’altra sezione si è tolto la vita, impiccandosi con la corda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita. La conta dal 17 gennaio di quest’anno (quando si verificò il primo suicidio nel carcere di Monza) a oggi è incivile: 45 suicidi dall’inizio dell’anno, tutti per impiccamento tranne 4 casi di suicidi per asfissia provocata da gas. A questi numeri si aggiungono 27 casi di morti da accertare, tutt’ora al vaglio degli inquirenti.

Secondo il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, sarebbero 1100 i tentativi di suicidio ogni anno evitati dagli agenti. Il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, adottato il 21 luglio del 2017, non ha rallentato la catena di suicidi: 52 nel 2017, 67 nel 2018, 53 nel 2019. La frequenza dei suicidi in carcere è di 20 volte superiore alla norma, mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine. Secondo il sito ristretti.it «è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine».

Ma la notizia fatica sempre ad arrivare ai giornali e fatica infilarsi nel dibattito pubblico. Rimangono le brevi di cronaca date ogni tanto su qualche sito locale: la politica fa spallucce (se addirittura non invoca ancora meno diritti) e l’opinione pubblica è colpevolmente distratta. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri – sosteneva Voltaire – poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione»: qui la situazione è sempre nera, nerissima ma i palazzi sembrano non accorgersene.

L’articolo Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente… proviene da Il Riformista.

Fonte

La maionese è impazzita

Dai cinque parlamentari che hanno fatto richiesta del bonus di 600 euro alla guerra alla politica senza senso della misura. E l’antipolitica è una pessima notizia

Ecco qua. Ci sono cinque parlamentari senza dignità che alla faccia nostra incassano i 600 euro che sarebbero serviti a persone certamente più bisognose e ora la guerra si allarga e si assiste al solito assolutismo italiano, quello che è l’ingrediente perfetto per scivolare ancora più in basso rispetto a dove siamo.

Sia chiaro, i cinque sono imperdonabili. Imperdonabili. Ne abbiamo parlato giusto nel buongiorno di ieri.

Ma si legge in giro qua e là che “addirittura dei sindaci, assessori e consiglieri comunali” avrebbero aderito al bonus Covid, come se davvero la gente fosse talmente cretina da non sapere che un consigliere comunale o un sindaco di un piccolo paese deve lavorare (eh, sì, incredibile, lavorare) per fare politica perché non può permettersi di vivere di quella. Così si butta tutto nel calderone.

Ieri una consigliera comunale di Milano, Anita Pirovano, ha provato a spiegarlo con calma: «Mi autodenuncio. Non vivo di politica perché non voglio e non potrei. Non potrei perché ho un mutuo, faccio la spesa, mantengo mia figlia e – addirittura – ogni tanto mi piace uscire e durante le ferie andare in vacanza. In più ho studiato fino al dottorato e all’esame di stato per diventare psicologa e ricercatrice sociale, professione in cui negli ultimi tempi mi sembra spesso di essere “più utile” alla società che in consiglio comunale (attività a cui comunque dedico tutto il tempo non lavorato e la passione di cui sono capace). Infine e soprattutto pur non cedendo alle sirene antipolitiche ho capito sulla mia pelle che avere un lavoro (nel mio caso più d’uno in regime di lavoro autonomo) mi consente di essere “più libera” nell’impegno politico presente e ancora più nelle scelte sul futuro, per definizione incerto. Come tanti mi indigno – perché è surreale – se un parlamentare in carica fruisce ammortizzatori sociali e penso sia paradossale che una misura di sostegno al reddito non preveda nessuna soglia di reddito».

Niente, è una guerra continua alla politica senza senso della misura e senza cognizione. Magari il presidente dell’Inps Tridico potrebbe anche spiegarci come mai non siano stati comunicati i furbetti delle casse integrazioni inventate o del Reddito di Cittadinanza. Sia chiaro, non è benaltrismo, è che vorremmo conoscerli tutti i furbetti. Tutti. Per avere cognizione di causa.

Intanto veleggia l’antipolitica, ancora una volta. Ed è una pessima notizia. Peggiore di quei cinque cretini.

Buon martedì.

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Che affare, la pandemia

La pandemia no non ci ha reso tutti uguali e secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’economista francese Thomas Piketty «ha esacerbato le diseguaglianze». «Le stesse grandi compagnie di Internet, fino a ieri impegnate in pratiche di elusione fiscale, sono state le principali beneficiarie del coronavirus», ha detto Stiglitz durante la conferenza stampa virtuale convocata dalla Commissione indipendente per la riforma della fiscalità internazionale d’impresa (Icrict) e dall’Ong Oxfam.

Facebook, Amazon, Apple, Alphabet, Google nel cuore dell’Europa, in Irlanda, «pagano tasse su una frazione del loro fatturato», dicono i due economisti che propongono anche un soluzione: un regime fiscale minimo. «Sarà molto difficile», ha detto Piketty, ma il fatto che tutta l’Europa stia riflettendo sul debito e stia muovendo somme impensabili potrebbe fare ritrovare il coraggio di parlarne una volta per tutte.

Eppure se ci pensate sono molte le disuguaglianze di cui si è discusso durante l’epidemia, quando davvero si credeva che potesse essere messo in discussione almeno un pezzo di sistema e invece è tornato già tutto nei binari normali. Anche gli eroi si sono già normalizzati, rientrati nei ranghi. Infermieri, insegnanti e perfino i rider, quelli che ringraziavamo ogni giorno su tutte le prime pagine dei giornali, sono finiti ancora nelle retrovie. La scuola è rimasta l’ultima preoccupazione del governo che non ha riaperto le aule e che non sa ancora quando e come si riapriranno mentre ci si assembra sui campi da calcio e nelle manifestazioni politiche. Gli artisti che hanno addolcito la quarantena sono lasciati a inventarsi qualcosa. Lo spettacolo dal vivo è ripartito claudicante.

Tutto bene, tutto normale. Che affare, la pandemia, per i ricchi che sono rimasti ricchi e non sono nemmeno stati messi in discussione. Che affare, la pandemia, per gli eroi che hanno avuto i loro 5 minuti di notorietà e ora devono tornare ai loro posti.

Buon mercoledì.

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Come ti sconsiglio l’aborto in Umbria

In Umbria governa Donatella Tesei  la quale ha pensato bene che uno dei più annosi problemi da risolvere nella regione fosse allungare il tempo di ricovero per l’interruzione di gravidanza volontaria farmacologica, da sempre come sapete una delle fobie di leghisti e destrorsi vari che sognerebbero di abolirlo per intero, l’aborto.

Nel 2018 la Regione Umbria aveva introdotto la possibilità di abortire grazie alla pillola Ru486 entro la settima settimana di gravidanza e aveva chiesto a tutti gli ospedali di organizzarsi in modo che le donne potessero effettuare l’interruzione della gravidanza grazie a una prestazione di day hospital o anche solo grazie a un servizio di assistenza domiciliare. La possibilità di rinunciare alla gravidanza con la pillola Ru486 è utilizzata oltre il 90% dei casi in nord Europa, per il 60% in Francia e solo per il 18% in Italia.

Ora la Tesei e la sua Giunta hanno deciso che serviranno almeno tre giorni di ricovero obbligatori per accedere all’interruzione di gravidanza farmacologica, cianciando di non si sa bene quale maggiore tutela considerando che in nessun Paese al mondo l’aborto farmacologico avviene al di fuori del regime di day hospital. Per scoprire perché un’azione sia stata intrapresa basta osservare chi è il primo che esulta: in Umbria ha esultato tantissimo il senatore ultraconservatore della Lega Simone Pillon, promotore del Family Day nonché commissario della Lega in Umbria.

Sono riusciti a rendere ancora più difficilmente sostenibile, soprattutto psicologicamente, il ricorso all’interruzione di gravidanza. Non è un caso, no, è una lucida strategia che si inventa qualsiasi passaggio punitivo pur di scoraggiare un atto che non hanno il coraggio di discutere deliberatamente faccia a faccia con le donne. Il fatto poi che in tempi di Covid si aumentino i giorni di degenza, mentre i malati non riescono nemmeno a ottenere le cure che gli spettano, rende tutto talmente goffo da risultare tragicamente imbarazzante.

Buon martedì.

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Con l’Egitto non servono “progressi”: serve la verità

Vendereste armi a qualcuno che vi ha massacrato un giovane studente e che si è inventato di tutto prima di ammettere a mezza bocca solo che tutto quello che aveva cercato di dire per depistare è falso? Pensateci bene. Vendereste armi a un Paese che ha poi ripetuto lo stesso schema con uno studente, questa volta non italiano ma praticamente adottato dalla città di Bologna dove studiava all’università, arrestato lo scorso 7 febbraio e tutt’ora in attesa di un giusto processo e sottoposto a una detenzione che solleva più di qualche dubbio?

Il Paese in questione è l’Egitto e i due studenti sono Giulio Regeni e Patrick Zaky. A Regeni, come sappiamo tutti, è andata molto peggio e non è un caso che i suoi genitori giusto pochi giorni fa abbiano ribadito di essere molto delusi dalle istituzioni italiane.

Con l’Egitto l’Italia sta trattando per un affare militare del valore di 9-11 miliardi di euro e il presidente del Consiglio Conte qualche giorno fa ha dato il via libera per la vendita di due fregate Fremm. Vendere armi a un regime è già qualcosa di orrendo, venderle a un Paese che insiste a prenderci in giro sulla morte di Regeni è qualcosa di insulso.

Ieri Liberi e Uguali ha presentato un’interrogazione al ministro Di Maio (se vi chiedete se governino insieme la risposta è sì, torniamo al #buongiorno di ieri della simbologia che annoia) in cui chiedeva conto di questa torbida situazione con Al-Sisi e il ministro Di Maio ha risposto precisando che «resta ferma la nostra incessante richiesta di progressi significativi nelle indagini sul caso del barbaro omicidio di Giulio Regeni. Il governo e le istituzioni italiane continuano ad esigere la verità dalle autorità egiziane attraverso una reale, fattiva ed efficace cooperazione».

Ed è una frase che non vuol dire nulla. Non c’è nessuna cooperazione tra Egitto e Italia sulla questione Regeni: l’hanno detto in molti, tra cui quelli che indagano. Esigere la verità stringendo accordi è quantomeno curioso. Di Maio ha anche aggiunto: «l’Egitto resta uno degli interlocutori fondamentali nel quadrante Mediterraneo, nell’ambito di importanti dossier, come il conflitto in Libia, la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti, nonché la gestione dei flussi migratori e la cooperazione in campo energetico».

Ecco, no, non ci siamo proprio. Qui non servono “progressi”, non ci si avvicina ad annusare la verità. La verità è una, limpida e manca.

Grazie.

Buon giovedì.

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Il paradiso ai piedi delle donne

Il libro è di Francesca Caferri. E vale la pena leggerlo per capire che forse tutto quello che crediamo vero non lo è.

«Eravamo cinque donne. Sedute intorno a un tavolo, in una sera di primavera, a mangiare all’aperto: abbiamo riso e scherzato su tutto. Le calorie e la golosità, le prossime vacanze, le richieste dei figli, la difficoltà di conciliare vita privata e lavoro, i vestiti e le scarpe. Poi siamo passate ai discorsi seri: un divorzio, un marito troppo geloso ma amatissimo, la politica. Non la finivamo più. A un certo punto il cameriere, divertito, ci ha portato una seconda porzione di dolci, omaggio della casa: sul vassoio non ne abbiamo lasciato uno. La serata si è conclusa con una foto ricordo che conservo ancora. Cinque volti sorridenti. Tre con i capelli appena coperti da un velo nero, gli altri due scoperti: sfacciatamente simili nell’allegria di quel momento.

Questo libro è nato lì, nel febbraio 2010, sulla terrazza del Ristorante O a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. Dalla cena con le tre amiche saudite che ci avevano aperto i loro cuori e le loro vite, io e la collega americana che mi accompagnava tornammo incredule. Entrambe, senza incontrarci prima, avevamo percorso in lungo e in largo il Medio Oriente e i paesi dell’Islam, raccontando di guerre e violenze. Ma anche di studentesse testarde, decise contro tutto e contro tutti a studiare per costruirsi un futuro, di donne che andavano al lavoro ogni giorno anche se minacciate di morte per questo, di rivoluzionarie, di madri di famiglia indomite. Eppure mai come quella sera ci sembrava di avere scoperto un mondo. Come se l’ironia delle tre amiche e le loro battute sulle abaye, le lunghe tuniche nere che – come noi visitatrici – erano costrette a indossare ogni volta che mettevano il piede fuori di casa, avessero acceso un raggio di luce sulle decine di storie che ciascuna di noi aveva raccolto nei suoi viaggi.

Di viaggi in questi anni ne ho fatti parecchi. Sono una giornalista. Ho sempre voluto occuparmi di altri mondi, parlare di come si vive là fuori: circa dieci anni fa il mio sogno si è realizzato. Ho lasciato l’arido ma istruttivo mondo del giornalismo finanziario e sono approdata alla mia vera passione: gli esteri. Era il 2001, l’anno che ha cambiato tutto. Frotte di reporter si precipitarono a raccontare il mondo da cui il disastro dell’11 settembre aveva preso origine: l’Arabia Saudita dei severi wahabiti, l’Egitto degli ambigui Fratelli musulmani, il Pakistan culla dell’estremismo. E, su tutti, l’Afghanistan dei barbari talebani, un paese che dal 1996 viveva nella stessa disastrosa condizione economica e sociale, e che per anni la stampa aveva – con qualche lodevole eccezione – ignorato. Il risultato furono fiumi di inchiostro e ore di trasmissioni radio e tv: alcuni notevolissimi, altri francamente da dimenticare.

Da allora e per anni, ho avuto l’impressione che la maggior parte dei giornalisti raccontasse la stessa storia, come un disco rotto: l’estremismo fanatico, le scuole religiose che incitano all’odio, la sottomissione del sesso femminile, le poche eroine controcorrente. Così, un po’ per spirito di contraddizione, un po’ per rabbia sono arrivata a occuparmi di mondo musulmano e di donne.

Da tempo viaggiavo in Medio Oriente e in Asia per interesse personale: eppure, quando ne leggevo sui giornali, mi sembrava che di alcuni paesi non ci arrivasse che un ritratto parziale, che non coincideva, se non in parte, con la mia esperienza. Continuavo a chiedermi come mai non ci fosse qualcosa di più da dire, un passo avanti da fare: come poteva l’Islam che aveva nutrito il genio medico e filosofico di Averroè, creato quella meraviglia assoluta che è la moschea di Cordoba, dato vita ai tesori di conoscenza ancora oggi nascosti fra le sabbie di Timbuctu essere diventato solo terrore e minaccia? Come era possibile che le eredi di Khadja e Aisha, le amatissime moglie del Profeta, si fossero trasformate negli esseri miseri e passivi di cui leggevamo sui giornali? Davvero quello stesso Corano che lodava la saggezza di Bilqis, regina di Saba, al cospetto del re Salomone, imponeva la sottomissione delle donne? Interrogativi come questi negli anni hanno guidato i miei viaggi: alla ricerca delle risposte, ho conosciuto persone da cui ho appreso enormi lezioni di vita e di dignità.

Molte di loro sono donne. Giovani o anziane, che percorrono le strade del mondo a modo loro, non come vorremmo noi. Che spesso non rientrano nei nostri schemi e per questo non sempre ci piacciono: persone come Nadia Yassine, figlia dello sceicco Abdessalam Yassine, oggi alla testa di Giustizia e Carità, il più popolare movimento politico marocchino, messo al bando perché di stampo islamico e critico nei confronti della monarchia. Nadia – a cui è stato più volte negato il visto per l’Europa, a causa delle sue idee controverse – è la figura femminile più popolare del paese, molto più della principessa Lalla Salma, moglie del re Mohammed VI, idolatrata dai magazine. È a lei e, sul fronte opposto, alle giornaliste scomode di “Femmes du Maroc”, il settimanale che nel 2009 ha messo in copertina per la prima volta nel mondo arabo una donna nuda e incinta, che dobbiamo guardare per provare a capire dove va il Marocco. 

Oppure ragazze come l’egiziana Asma Mahfouz, l’eroina – velata – del 25 gennaio 2011, un’impiegata ventiseienne che, con un video girato da sola e messo su YouTube, ha spinto in strada migliaia di compatrioti contro il regime del presidente Mubarak. E che in piazza si è ritrovata fianco a fianco con Nawal al-Sa’dawi, 80 anni, psichiatra, laica, femminista, per anni esiliata per aver affiancato nei suoi scritti parole come donna e sessualità. O, infine, donne come Tawakkol Karman, la giornalista yemenita che ha guidato in maniera pacifica la rivolta del 2011 in uno dei paesi con il maggior numero di armi pro capite al mondo: per il suo ruolo nella Primavera di Sana’a, Karman ha ottenuto il premio Nobel per la Pace, prima araba a ricevere questo riconoscimento. 

È di loro che questo libro vuole parlare. Donne come Nadia, Asma e Tawakkol negli ultimi dieci anni le ho incontrate in Pakistan, in Yemen, sotto le abaye dell’Arabia Saudita e in tanti altri paesi. Sono l’avanguardia di un movimento che con molta fatica, ma con successo, sta cambiando la faccia del mondo musulmano e che ancora di più lo farà nel futuro. Lo sta facendo negli uffici e nelle università, nelle piazze dove manifesta e nei Parlamenti ai quali è riuscito a imporre leggi più favorevoli alle donne; non tutte vengono applicate, ma oggi sono scritte sulla carta. E rispetto al passato è già un passo avanti.

Questo movimento rivendica le sue origini, le sue tradizioni, la sua religione; e non si limita a scimmiottare il modello occidentale. Nella Sunna, la tradizione che raccoglie gli hadith, i detti di Maometto, ovvero gli episodi della sua vita e i pareri che diede a chi andava a parlare con lui, c’è la storia di un giovane che si recò dal Profeta per chiedergli consiglio prima di unirsi a una spedizione militare: “E la sua risposta fu: ‘Tua madre è viva?’. ‘Sì’ disse il giovane. ‘E allora resta con lei, perché il Paradiso è ai suoi piedi.’”. La visione dell’Islam a cui le protagoniste del mio libro si ispirano è questa».

Qui un’intervista all’autrice.

I Signori della libertà

Ali Ferzat, il celebre vignettista siriano noto per la sua satira contro il regime, a cui hanno spezzato le mani, sta meglio. Mentre lo picchiavano pare gli urlassero “questo è perché disegni per la libertà! E questo è perché disegni contro i tuoi signori”. Mettere accanto la parola ‘libertà’ alle parole ‘i tuoi signori’ è la millenaria barzelletta padronale della democrazia con la condizionale. Solo che la tollerano tutti, anche se non ride nessuno. E infatti gli hanno spezzato il dito senza riuscire a vedere la luna. Buona ripresa, Ali.