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repubblica

Non ci si scusa per il dolore che si prova

Mi hanno colpito le parole di Valeria Kadija Collina, madre di Youssef, uno degli attentatori di Londra. Mi ha colpito, moltissimo, quella loro casa a Castaello si Serravalle, paese di provincia dell’entroterra bolognese: fiori curati ai lati del vialetto in giardino.

“Mio figlio me lo ha portato via l’ignoranza e la cattiva informazione. Il cattivo Islam e il terrorismo sono questo. Ignoranza e cattiva informazione”, dice nella sua intervista a Repubblica Valeria: ha fatto una cosa “atroce”, che “non può e non deve essere giustificata”. E ha provocato un dolore talmente grande “che chiedere perdono ai familiari delle vittime sembra quasi banale”.

Racconta di come, da madre, ha perso contatto con il proprio figlio: Quando mi parlava della Siria e del fatto che voleva trasferirsi in quel Paese, non lo diceva certo perché volesse andare a combattere per l’Isis, ma perché sosteneva che in quella parte del mondo si poteva praticare l’Islam puro e perché voleva mettere su famiglia. Lo diceva sorridendo e io sorridendo gli divevo che era fuori di testa e che io non lo avrei seguito mai perché stavo bene dove sono”. Poi il cambiamento: “La radicalizzazione secondo me è avvenuta in Marocco attraverso internet e poi a Londra, frequentando gente che lo ha deviato facendogli credere cose sbagliate. Suo padre è un moderato, sua sorella non ha abbracciato la nostra fede, nessuno nella nostra famiglia è vicino in alcun modo con quel mondo fatto di stupidi radicalismi”.

E sembra, ad ascoltarla, una storia così simile alle tante che ci capita di leggere quando ci sono madri che si arrendono alla disperazione di non essere riuscite a salvare i proprio figli dalla droga, dal malaffare o dalle mafie: ha lo stesso dolore , lo stesso colore e la stessa naturale (seppur ferocissima) tragica fine.

Così, di colpo, il terrorismo assume anche una dimensione nuova e così lontana dalla retorica degli analisti di prima mano e cola una disperazione folle e pericolosa come tutte le disperazioni.

Buon giovedì.

(continua su Left)

Anche una sola applicazione di un diritto è un successo

Repubblica oggi spara un titolo che mette i brividi:

Evidentemente da quelle parti non sanno che i diritti sono quasi sempre quelli degli altri e si fatica a ribadirli e rivendicarli perché troppo spesso appartengono a una minoranza che fatica a trovare rappresentanza. Strano, perché il processo di trasformazione che porta alla consapevolezza culturale di un diritti (oltre alla sua applicazione) una volta da queste parti era roba anche della stampa e degli intellettuali. O forse non è strano proprio per questo.

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

L’educazione di lasciarli fare

Dopo alcuni giorni convulsi ho avuto modo di leggere il botta e risposta tra Eugenio Scalfari e Stefano Rodotà. Anzi: ho letto l’attacco bilioso di Scalfari a Rodotà in un editoriale “normalizzante” che ancora una volta lascia a Repubblica il diritto di decidere la dignità politica di qualcuno. Il passaggio di Scalfari che testimonia la temperatura dell’arroganza potrebbe essere questo:

L’Italia l’hanno fatta Mazzini, Cavour e Garibaldi, diversissimi tra loro ma oggettivamente complementari. E se vogliamo giocare alla torre e si deve scegliere tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci. E se debbo scegliere tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer. Infine scelgo Napolitano perché, purtroppo per noi, non trovo altro nome da contrapporgli. Ti chiedo scusa, caro Stefano, con tutto l’affetto e la stima che ho verso di te, ma il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente.

La sensazione (terribile per una certa stampa politica che vorrebbe smarcarsi dalla “rete” e ci riesce solo per l’evidenza dei condizionamenti) è ancora una volta che si costruisca un’ipotesi di Governo e poi si cerchino le parole per una narrazione credibile di un percorso logico. Ma trovare una certa logicità al “niet” su Rodotà che non ha avuto nessuna spiegazione chiara e discutibile (cioè: da potersi discutere) lascia il terribile sospetto che alla fine sia successo ciò che non auguravo al centrosinistra italiano proprio qui.

Fin troppo facile per Rodotà rispondere (sempre su Repubblica):

Non contesto il diritto di Scalfari di dire che mai avrebbe pensato a me di fronte a Napolitano. Forse poteva dirlo in modo meno sprezzante. E può darsi che, scrivendo di non trovare alcun altro nome al posto di Napolitano, non abbia considerato che, così facendo, poneva una pietra tombale sull’intero Pd, ritenuto incapace di esprimere qualsiasi nome per la presidenza della Repubblica.
Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità.

Ma è la controreplica di Scalfari che chiarisce perfettamente lo status quo politico:

4. Resta il fatto che il governo che sta per nascere non deriva da una concertazione tra i partiti che lo appoggiano. Sarà un governo del Presidente e i voti per fiduciarlo verranno dati a quel governo. Un tempo si chiamavano “convergenze parallele” e questa credo sarà la natura politica del governo stesso, né più né meno come il governo Monti quando nacque nel novembre 2011.

5. Se il risultato sarà positivo ai fini dell’uscita dalla recessione ed anche dalla costruzione di un’Europa federale che è a mio avviso indispensabile in un mondo globalizzato, allora questo governo che a Rodotà sembra scellerato riconsegnerà il proprio mandato con un Paese finalmente rafforzato e solido. Chi verrà dopo  –  sempre che i risultati corrispondano alle aspettative  –  dovrà lodarlo insieme al Capo dello Stato che l’ha reso possibile ma, per l’esperienza che ho, posso fondatamente supporre che sarà invece ricoperto dai vituperi di chi senza essersi sporcate le mani riceverà un bel dono che non gli sarà costato sicuramente nulla.

Ecco, insomma: ci dicono lasciateci fare, come avete fatto con Monti in nome delle “convergenze parallele” senza rendersi conto che ci siamo stancati di non vederne la fine. E sospettarne il fine, però.

Quelli che vogliono abbattere Formigoni per i calzini

Scusate, l’ora è tarda e l’argomento antipatico per tanti democratici, vip antimafia e uomini di centrosinistra. Ma dopo la nausea per i calzini viola di Mesiano (ve lo ricordate? qui per rinfrescarvi) leggere dei calzini bianchi di Formigoni su Repubblica mi lascia basito. Perché l’opposizione fatta su camicie, slogan e (solo) hashtag su twitter è offensiva per la politica. E scrivere dei calzini di Formigoni non ha nessuna differenza con Claudio Brachino che cerca di sputtanare il giudice del Lodo Mondadori.

Non so voi. Non so se è politicamente corretto. Ma il berlusconismo mi sembra più vivo nell’area democratica che nel suo morituro partito.

Vedere qui per credere.

Il partito di giornale

Una riflessione di Vauro che (anche se “spinta”) dovrebbe instillare almeno qualche dubbio. Dico, Vauro, mica Giuliano Ferrara, l’ha scritta:

Un tempo c’erano i giornali di partito. Poi quel tempo è finito. Adesso ci sono i partiti di giornale. Finora con i giornali si era fatto un po’ di tutto: cappelli da muratore, aeroplanini, barchette, coperte per i barboni ed un altro uso non troppo nobile ma utilissimo in caso di inderogabili emergenze. 
Insomma, non si può dire che i giornali siano fatti solo per essere letti, anche perché spesso non c’è scritto un cazzo per cui ne valga la pena. Ma comunque, come abbiamo visto, a qualcosa servono sempre.
Un vecchio giornalista comunista, Luigi Pintor, diceva: “Un giornale il giorno dopo è buono solo per incartare il pesce”.
E cosa ti vanno a fare invece Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari con il giornale? Un partito. Un bel partito di carta, dopo tanti anni in cui siamo stati governati da un partito di plastica. Se ne sentiva proprio il bisogno. La carta è leggera e segue il vento, è biodegradabile e riciclabile. Questa ultima caratteristica poi la rende particolarmente adatta all’impiego in politica. Intellettuali, cantanti, comici, scrittori, roberti saviani e tutta la buona società plaudono oggi entusiasti al nuovo partito di giornale.
E domani? Ci si domanda.
Sarà sempre buono per incartare il pesce.

Vauro

Adesso sventoliamo la Costituzione

C’è un passaggio importante, una linea per nulla sottile, in un Governo che si affloscia come una torta cotta male appena uscita dal forno: le regole. Non cadiamo nell’errore di credere (e di farci credere) che il divorzio che si è consumato tra i berluscones e i finiani sia una questione politica. Nel deserto democratico di questi ultimi anni un processo strategico di disinformazione e disarticolazione delle Istituzioni, princìpi fondamentali come la Giustizia, l’Uguaglianza e le uguali opportunità (nel lavoro, ma più largamente nel vivere sociale) sono stati violati nella loro obbligatorietà costituzionali e rivenduti come mere “visioni diverse” nella gestione dello Stato.

L’accusa del generale Fini non è sui programmi, sui progetti o sui modelli di gestione, ma più drammaticamente, sulla legittimità e legalità di un uomo al governo. Non siamo alla scissione dell’atomo o dei particolarismi da politicanti, siamo di fronte al riconoscere pubblicamente che quei vecchi confini tra i partiti dell’arco costituzionale oggi sono diventati un dirupo chiaro, un burrone che obbliga a scegliere: o si sta dalla parte delle regole o con chi le regole se le compra e le subaffitta. Senza se, e senza ma.

In poche parole: dalla parte della nostra Costituzione. Senza cittadini meno uguali degli altri, senza federalismi fumettistici, senza protoneofascismi rivenduti come libertari, senza atteggiamenti antisolidali in nome di un falsa sicurezza, senza nuovi idoli dell’ultim’ora con le cravatte che puzzano di Prima Repubblica. E nessuna si prenda i meriti di un’infezione che è ben lontana dall’essere una rivoluzione. Il “Futuro e Libertà” sventolato dai finiani come vessillo della vittoria (mentre è il tovagliolo della carcassa piena di mosche delle scelte di cui si sono resi camerieri) è già scritto nella nostra Costituzione, lottato in un “passato e oppressione” dai Padri di questo paese. Padri costituenti che non hanno bisogno di spille sulla giacca ma, banalmente, di figli assennati. Con giudizio, prudenza e maturità.

Martirio in scatola per la telepromozione

marmellatasanguePrimo punto inossidabile e scritto. Condanna all’atto folle di un’inciviltà criminale anche se malata.

Quando esce sangue gocciola anche il pelo e la parte peggiore di un paese. Siamo un paese che si è abituato a bere sangue di tutti i gusti, da sempre, con questa nostra sciagurata abitudine ad abituarci a tutto per sopravviverci ferendosi di seguito. Abbiamo bevuto sangue di chi ci hanno detto che comunque alla fine se l’è cercato,  abbiamo bevuto sangue in ampolla da via D’Amelio che non ci hanno nemmeno lasciato il gusto, abbiamo mangiato sangue di rivolte e rivoltosi condannati al sugo, abbiamo pulito sangue con la pelle di daino mentre si riscrivevano i processi; eppure il sangue in vasetto messo in promozione per la televendita politica è una vetta solo recente. L’atto contro Silvio Berlusconi è puzzolente e orrido come qualsiasi atto dalla tela criminale; la confettura che coagula in un grumo (bipartisan?) per tirare voti giù dal buco del water è l’estrema campagna pubblicitaria di una politica pronta a comprarsi uno stacco per non lasciare invenduta nemmeno l’estrema unzione della dignità.

Un sangue sleale, nemmeno qui giù, si era mai visto.

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“Un monopolista delle Tv che si dichiara vittima della informazione di sinistra puo’ dire e soprattutto fare qualsiasi cosa anche la piu’ estrema. Sara’ davvero il caso di mettersi subito al lavoro per realizzare quella vasta convergenza democratica tra tutte le forze che credono nel patriottismo repubblicano e nella revisione dei poteri architrave della nostra Costituzione. La lotta politica tuttavia non puo’ e non deve mai degenerare in rissa, in aggressioni che non debbono trovare giustificazione alcuna”

Giuseppe Giulietti, di Articolo 21

Recessione e mafie (1). È l’Eldorado delle economie illegali?

RUSSIA-EONOMY-BUSINESS-DERIPASKAdi Carlo Ruta

È il caso di partire da un dato. Nell’attuale crisi, la sola che riesce a evocare quella drammatica del 1929, un peso non da poco hanno avuto i flussi di capitali anomali, di origine illegale, per il rilievo del tutto particolare che i medesimi hanno recato nell’estendersi delle bolle speculative. Si consideri il caso della Russia, dove la forbice delle ricchezze ha assunto ampiezze iperboliche, anche al cospetto di paesi di tradizione liberal. Dopo il trauma dell’89, uomini d’affari legati spesso all’Organizatsya, la mafia di quelle regioni, hanno potuto dettare regole, fare accordi alla pari con pezzi di stato, fino al capolinea del Cremlino. Sono andati quindi letteralmente all’assalto, puntando sull’industria metallurgica, sul petrolio, ma pure, con decisione, sul grande mercato immobiliare: tutto da ridisegnare dopo decenni di edilizia pianificata dalle burocrazie sovietiche. Con tali numeri si sono riversati altresì lungo i continenti, mettendo radici negli Stati Uniti, nell’oriente asiatico, in Israele, nell’Europa occidentale, Italia inclusa. Hanno alimentato trame speculative, incettato territori, animato paradisi già esistenti o in ascesa tumultuosa, come quello di Dubai, finendo per crearne di propri, come quello di Goa, in India, dove hanno avocato a sé, con guadagni d’oro, gran parte del territorio, combinando ad arte le suggestioni dell’effimero e il cash, la forza del contante.

Si tratta evidentemente di uno scorcio, solo rappresentativo di uno scenario multiplo, euforico, che ha visto del tutto ridisegnate le mappe delle fortune. È fin troppo sintomatico che nella lista dei più ricchi al mondo compilata da “Forbes” emergano oggi non soltanto nababbi russi dal profilo equivoco, come Oleg Vladimirovič Deripaska, notoriamente legato alla mafia moscovita dei fratelli Lev e Michail Černye, ma anche autentici gangster, come il narcotrafficante messicano Joaquin Guzman Loera, che dopo l’uccisione del colombiano Pablo Escobar ha avocato a sé il mercato della cocaina negli Stati Uniti. In sostanza, una genia riconoscibile di uomini d’affari, di radice criminale, proveniente da tutti i continenti, ha potuto partecipare a pieno titolo ai processi, li ha in parte sospinti, ha corroborato un metodo, imprimendo agli scambi velocità inconsuete, radicalizzando quindi il senso dell’azzardo. Ne sono un riscontro i paradisi del riciclaggio che, sorretti da potenti cartelli, proprio negli ultimi due decenni hanno potuto operare al massimo di giri. Se quelli della tradizione, dal Liechtenstein a Panama, dal Lussemburgo alla Svizzera, hanno guadagnato infatti in scioltezza, soprattutto i più recenti, meglio attrezzati alle situazioni, hanno fatto per certi versi il nuovo catechismo della finanza internazionale.

In sostanza, tali siti, pur connettendosi con la tradizione inesausta dell’evasione fiscale, hanno mutato carattere e modi, per certi versi specializzandosi, rendendosi sempre più organici alle economie propriamente criminali: in particolare ai traffici di narcotici, armi, esseri umani. Le contiguità, pure dirette e materiali, indotte da tali paradisi hanno contribuito altresì a superare remore e slargare gli orizzonti operativi. Evidentemente, le isole Cayman, che, come testimoniano le vicende della Bank of Credit and Commerce International e non solo, a lungo hanno costituito un punto di condensazione fra mafie ed economie ufficiali, sono solo l’emblema di un modo d’essere. Come può esserlo Lefkose, capitale della repubblica cipriota vassalla della Turchia, in cui, all’ombra di un centinaio di banche off-shore e di ben 18 casinò, da qualche decennio vengono organizzate le tratte dei migranti, e degli schiavi, che dall’oriente asiatico e dall’Africa si versano in Europa, dalle porte balcaniche, spagnole, siciliane. Dalle cose emerge insomma che i paradisi vecchio stampo, immobili, perfino riconoscibili, hanno lasciato il posto a un mondo ubiquo, mobile, al passo con i tempi, largamente impermeabile alle stesse rilevazioni dell’Ocse, e comunque irriducibile, malgrado il sommarsi di accordi, perlopiù incoerenti, fra governi dopo il varo del Patriot Act statunitense nel 2001.

Tutto questo, ovviamente, non può essere estraneo alle bolle speculative, che, impinguate pure dalla politica economica americana di questi anni, volta ad alzare valli di difesa e a pianificare assalti “preventivi”, alla fine sono esplose in modo catastrofico. E qui si innesta un paradosso. Se l’economia illegale ha contribuito, seppure da comprimaria, a generare la depressione economica dei nostri giorni, è quella che di più può beneficiarne. Le mafie del resto hanno sempre guadagnato dalle crisi, non soltanto economiche, dell’ultimo secolo. Quella italiana ha tratto vantaggi immensi dalle cesure del 1943-45. Quella russa e le altre slave hanno tratto uno slancio supremo dall’89. L’illegalità economica statunitense può essere detta figlia della grande crisi del 1929, perché proprio in quello snodo, nei primi anni trenta, i boss raccolsero maggiormente i frutti del contrabbando che aveva caratterizzato il decennio precedente, del proibizionismo: Al Capone in testa, che dall’hotel Lexington di Chicago, suo quartier generale, dettava legge alle ufficialità, mentre nei propri ristoranti offriva pasti caldi ai poveri che più erano stati colpiti dalla recessione.

In che modo, allora, gli imperi economici illegali stanno beneficiando della recessione? Il caso italiano, di certo fra i più rappresentativi per numeri e presenze in campo, consente di tracciare delle coordinate. È stato documentato che clan mafiosi stanno acquisendo proprietà d’immobili in tutta la Liguria, facendo leva sulla loro disponibilità di contante. È stato segnalato inoltre, con dovizia di dati, che è in crescita l’usura, quindi il passaggio di mano di attività economiche legali ad ambiti illegali. Allarmi in tal senso sono stati quindi lanciati dalla Direzione Nazionale Antimafia e da varie procure, oltre che da numerose associazioni, lungo tutta la penisola. Se si allarga tuttavia il quadro affiora dell’altro. Le mafie italiane, che secondo la Confesercenti muovono capitali per diverse centinaia di miliardi di euro, pari al 6 per cento del PIL, hanno sempre avuto un feeling con l’edilizia, come del resto quelle di ogni altro paese. Mai però come in questi anni, che proprio nella vicenda immobiliare hanno visto le accensioni economiche più telluriche, si sono dimostrate lungimiranti. Si sono rese artefici infatti di un importante progetto di diversificazione, che sta recando dei punti fermi in tre ambiti divenuti eminentemente economici: l’acqua, il ciclo dei rifiuti, le energie, incluse quelle che vengono dette alternative, come nel caso delle eoliche. E tali affari, a conti fatti, non possono conoscere crisi né in Italia né altrove, almeno nei modi e nei numeri che adesso, a titolo generale, si registrano.

Tale paradigma non può valere d’altronde solo per questo paese. La crisi, che ha avuto l’epicentro negli States ma si è propagata ovunque per le interdipendenze del sistema, è stata originata soprattutto dalle bolle speculative, abnormi, che hanno interessato il mercato immobiliare. Non c’è ragione quindi di ritenere che le economie illegali di stati come Colombia, Russia e Stati Uniti, non prive peraltro di nessi con quella italiana, si siano mosse diversamente. E alcuni dati ne danno conto. È documentato che la mafia russa e quella cecena sono presenti nel business del petrolio, dei materiali radioattivi, del gas. È emerso in particolare che il controllo esercitato dalla neftemafiya sulle esportazioni di greggio, ha provocato alla Federazione Russa perdite annue per miliardi di dollari. I dati delle maggiori borse internazionali, inclusa quella di Piazza Affari, confermano d’altronde che i titoli dell’acqua, del gas e dell’energia elettrica, le cosiddette Utilities, hanno retto meglio di altri, inclusi quelli del mitico Nasdaq, ai colpi della recessione. Prova ne è che i fondi EFT, contenenti i titoli delle 30 maggiori società multinazionali dell’acqua, sono fra i pochi in questi tempi a garantire degli utili. 10 mila dollari investiti in tali titoli agli inizi del 2002, sono diventati infatti 20 mila a fine 2008. Mentre altri fondi, soprattutto a causa dei rovesci del biennio 2007-2008, hanno dato di massima risultati negativi.

Cronache da Bengodi: tutti allegri al nucleare comunale

giullarePrima notizia, non si è ancora calmato il ciondolo semipendulo del re che il governo di Bengodi ci regala una perla da rizzare anche i più distratti: si torna al nucleare. L’aveva dichiarato il ministro Scajola qualche mese fa ma in fondo ci avevano fatto caso in pochi, anche perchè ci eravamo costretti a non dare troppo peso a tutte le scajolate del ministro almeno per una forma di igiene mentale.

Per inquadrare la statura politica del nostro basta ripercorrere alcuni passi  della sua fulminante carriera verbale: dall’equilibrio dimostrato in occasione del G8 di Genova «Durante il G8, la notte in cui c’è stato il morto, ho dovuto dare l’ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa. A Genova, in quei giorni si giocava una partita seria, lo hanno capito tutti dopo l’11 settembre», passando per la sensibilità sulla vicenda Biagi «Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza», da esperto di diritto del lavoro e processi addirittura senza bisogno di leggere le carte come sul caso Thyssen “Sinceramente, con tutto il rispetto per il procuratore e per il gup torinesi, e non conoscendo le carte processuali, mi riesce difficile immaginare che l’amministratore delegato della Thyssen abbia voluto provocare la morte dei suoi dipendenti. Agli altri indagati è stato infatti contestato l’omicidio colposo. Ed è un’accusa gravissima, intendiamoci”.

Insomma il giusto Ministro al Disastro Ambientale per una Bengodi che si rispetti.

Ora con la nuova Legge Sviluppo (indispensabile in un momento in cui diventa urgente raggiungere quanto prima almeno la maggiore età) si rilancia quel nucleare che più di qualche decennio fa si era perso tempo a rifiutare con un referendum. Infatti oggi il nuovo referendum se l’è fatto da solo il Ministro con il proprio omino del cervello e dai suoi calcoli sembra proprio che abbia vinto il sì, nonostante lui si sia astenuto. Tutti allineati quindi per rilanciare il nucleare come l’energia del futuro con giornali e televisioni allineati a fare festa in questa perversione di futurismo archeologico dell’informazione che ci regala pezzettoni di vomito vendendoceli come bigné.

IL NUCLEARE E’ RINNOVABILE! urlano gli strilloni del re con contratto  a progetto Co.Co.Prot. Da fonti interne dei servizi segreti sembra infatti che Scajola sia riuscito a trovare la formula segreta per produrre uranio all’infinito grazie ad una ricetta della nonna con uova, farina, un pizzico d’olio e una coda di gatto nero. E saranno felici sicuramente anche tutti quelli che l’hanno acquistato negli ultimi anni pagandolo in crescendo fino a 7 volte il prezzo che costava qualche anno fa (per una banalissima regola di mercato che dovrebbe suggerirci che probabilmente si stava esaurendo). Ora con la soluzione di pastafrolla siamo tutti più tranquilli.

IL NUCLEARE E’ PULITO! Certo caro Scajola, se lo scrivi 100 volte con un pastello a cera su un foglio di carta riciclata ancora meglio. E infatti sono le scorie che sono sporche. Quelle scorie che nessuno sa dove mettere e che dovrebbero essere avanzate anche da noi sotto il tavolo per aver provato a costruire qualche centralina qualche anno fa. Ma Scajola è tranquillo. Per le scorie al massimo basterà fare una mezza telefonata all’esercito di insabbiarifiuti del Ministero della Monnezza di Schiavone e Bidognetti o chi per loro e voilà in un batter d’occhio è come se non ci siano mai state. Al massimo subiremo qualche rave-party di un migliaio di mozzarelle un po’ troppo adrenaliniche. E comunque per eliminare scorie e diossine il re ha un metodo infallibile sul “letto quello grande”.

IL NUCLEARE E’ ECONOMICO! Sì, certo. E Rocco Siffredi è gay, l’onorevole Salvini è astemio e Emilio Fede è un ribelle. Chiedete ai finlandesi un paio di opinioni sulla centrale nucleare più grande del mondo Olkiluoto-3. Leggete qui.

IL NUCLEARE E’ SICURO! E a questo punto, a Bengodi, nessuno ha più avuto il coraggio di continuare la conversazione.

Da lontano Scajola urlava sul palchetto “Chi subira’ il disturbo psicologico (perche’ solo di questo si tratta) di ospitare una centrale dovra’ essere premiato e non si tratta solo di premiare il Comune o la Provincia che certamente dovranno avere delle royalties, ma dobbiamo andare direttamente sui cittadini che dovranno pagare l’energia molto, molto, meno che negli altri posti, grazie a bollette piu’ leggere”. Mentre da lontano il tramonto colorava il cielo di porpora.

Speriamo almeno non sia un fungo nucleare, disse il nonno al bambino.

Puf!