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Ci avete chiesto sacrifici per 1 anno: ora vaccinate, lavorando giorno e notte. Non ci sono scuse

Hanno chiesto sacrifici a tutti gli italiani e gli italiani, per la stragrande maggioranza, si sono messi a testa bassa a rispettare le regole. Non solo regole di comportamento, come mascherina e distanziamento, ma anche privazioni di libertà personale e enormi danni dal punto di vista lavorativo. Hanno chiesto e continuano a chiedere enormi sacrifici a medici, infermieri e operatori sanitari che hanno lavorato e continuano a lavorare in condizioni vicine allo stremo, con ospedali intasati e con turni massacranti. Il sistema sanitario, depauperato da anni di disattenzione, ha risposto in tutto il Paese.

Hanno chiesto di sottoporsi a sacrifici economici enormi interi settori che non hanno mai riaperto e che non sanno nemmeno ora quando potranno ripartire. Hanno compresso gli studenti e il sistema scolastico.

Sappiamo tutti, ormai l’abbiamo imparato bene, che solo con il vaccino si può presumere un graduale ritorno a una vivibile normalità, ma ora è il momento di dimostrare che anche le Regioni e lo Stato si sacrifichino con tutti i mezzi a disposizione per fare l’unica cosa che c’è da fare. È una questione che riguarda il salvataggio urgente di più vite umane possibili ma è anche una questione di credibilità politica, perfino di opportunità elettorale.

Bisogna vaccinare, vaccinare, vaccinare. Fatelo con le primule, fatelo con le canzoncine, metteteci tutti i loghi che volete, fatelo negli ospedali, nei presidi, nelle caserme, nelle scuole, nei municipi, negli ambulatori, fatelo dappertutto. Ma vaccinate. Vaccinate giorno e notte, richiamate medici, infermieri, usate l’esercito, mostrate i muscoli come quando inseguivate con i droni i corridori solitari nelle spiagge, ma non esiste un motivo al mondo, un solo motivo qualsiasi, per non mettere in campo tutte le forze ordinarie e straordinarie per velocizzare il percorso necessario per dimostrare che non venga sprecato un solo minuto, un solo grammo di energia, un solo sorso di credibilità.

È anche e soprattutto una questione etica: ogni vita umana persa per il ritardo sui vaccini è una responsabilità che non si può permettere un Paese che si voglia definire civile. Fatelo di giorno. Fatelo di notte, fatelo 24 ore al giorno ma per favore no, non venite a parlarci di festività, non venite a parlarci di problemi logistici, non raccontateci di problemi organizzativi.

La credibilità del governo si gioca tutta in queste prossime settimane. Il resto sono solo chiacchiere di palazzo che non hanno nessuna incidenza con quel oche accade qui fuori.

Leggi anche: 1. Vaccini Lombardia, la Lega prende le distanze dalle dichiarazioni di Gallera: “Non rappresentano il pensiero del governo della Regione” / 2. Vaccino, l’elenco completo dei centri di somministrazione in Italia “è ancora in divenire”. Il documento di Arcuri

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Buon anno buono

Forse abbiamo imparato che quello che accade agli altri conta anche per noi. E forse abbiamo imparato che le nostre azioni e i nostri comportamenti a volte infliggono. L’abbiamo imparato con il virus ma vale per tutto, per le cose buone e per le cose cattive, vale per i nostri gesti, per i nostri comportamenti. Spostandosi, lavorando insieme, incrociandoci ci passiamo aliti che potrebbero anche non portare virus ma che potrebbero costruire relazione, lasciare afflati positivi, cambiare le prospettive se diventano virali. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui ci si scambia germi buoni, si smette di strofinarsi addosso come isole. Nessun uomo è un’isola, ci ha detto il 2020.

Forse abbiamo imparato che le cose semplici non sono banali. Forse abbiamo imparato che ci capita, eccome se ci capita, di intendere come acquisiti i benefici di una compagnia, di un vezzo che ci concediamo, di un diritto a cui non facciamo caso, di un’abitudine o di un’azione. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui affiliamo il gusto di sentire tutto quello che ci passa con i pori tutti aperti, di dare valore al nostro tempo e al nostro spazio. E chissà che non si pretenda che ne abbiamo cura del nostro tempo e del nostro spazio.

Forse abbiamo imparato che il futuro non firma contratti, che tutto è molto caduco e che il diritto di attraversare le intemperie è qualcosa che interessa anche a persone che non pensavano di averne mai bisogno. Essere garantiti non significa essere dei privilegiati ma significa avere uno scafo abbastanza sicuro per superare anche le onde più alte e impreviste. Chissà che il 2021 non sia l’anno in cui finalmente si decida di fissare degli standard minimi, come dicono i dirigenti, quelli che in italiano si chiamano dignità, che è una parola faticosa ma liberatoria, la dignità.

Ci auguro un anno in cui si rimettano in moto quegli ingranaggi azzurri della speranza, quella voglia di attraversare i giorni per lasciare impronte dappertutto, in cui si assapora il gusto di essere comunità, una comunità larghissima, con la voglia di essere una comunità onnicomprensiva. Noi qui a Left abbiamo provato a fare seriamente la nostra parte, abbiamo tornito le parole proprio in quest’anno in cui le parole sono diventate pesantissime perché ci è mancato molto del resto. E nel nostro piccolo ci siamo fatti comunità.

Buon 2021, che sia un anno buono.

L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52

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Leghismo in briciole, a Lodi

Il regolamento del Comune a guida leghista discriminatorio nei confronti dei bambini stranieri, impedendo loro l’accesso a servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano. Che ha anche condannato il Comune a pagare le spese legali sostenute da un comitato di cittadini

Il Canto di Natale quest’anno è stato scritto a Lodi, città incastrata nelle campagne lombarde e che ci porta un dono di fine anno significativo perché rimette i sensi a posto, restituisce alle parole il suo significato e perché racconta una vicenda che è un vocabolario politico per comprendere come il leghismo ma più in generale il cattivismo, la voglia di disgregazione e l’arroccamento ignorante franino di fronte alla realtà degli eventi e delle leggi.

Qui a Lodi nel 2017 la sindaca Sara Casanova aveva pensato di ritagliarsi un po’ di notorietà con un nuovo regolamento comunale che discriminava l’accesso dei bambini stranieri ad alcuni servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Aveva pensato, quel gran geniaccio di sindaca, di imporre delle regole apposite per i genitori degli alunni stranieri prevedendo l’accesso alle tariffe agevolate (che in Italia vengono stabilite in base al reddito) richiedendo dei documenti aggiuntivi che certificassero chissà quali ricchezze nascoste nei loro Paesi di origine. Del resto era un ottimo modo per inoculare il dubbio che gli stranieri scappino dalla guerra lasciando enormi ricchezze. Una persona normale ci riderebbe su, i sovranisti invece, poverini, ci scrivono golosi teoremi e profondi editoriali.

La vicenda era odiosa perché metteva di mezzo gli stranieri ma soprattutto perché se la prendeva con i bambini. Del resto è tipico dei leghisti fare i forti con i deboli, loro ci riescono solo così. E si sentono perfino dei condottieri, poveretti, quando sono solo gli scherani di una poraccitudine che affila i denti sulle prede indifese. Era andata a finire che molti genitori avevano chiesto di condividere i pasti dei propri figli con i bambini stranieri. Del resto dividersi il pane dovrebbe essere l’atto politico più alto e nobile. Dovrebbe.

Nel 2018 l’Asgi, associazione degli studi giuridici sull’Immigrazione, e il Naga, associazione volontaria di assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti, presentò un ricorso contro il regolamento del Comune di Lodi. Il 13 dicembre 2018, un’ordinanza del tribunale di Milano stabilì che il regolamento era discriminatorio e chiese il ripristino dei precedenti criteri di accesso alle agevolazioni per le mense e il trasporto scolastico.

La sindaca Casanova insiste, presenta ricorso. Ora la Corte d’appello di Milano ha respinto il ricorso. Nella sentenza si legge: “La differenziazione introdotta dal regolamento del Comune di Lodi introdotto con Dgc 28/2017 in punto di documentazione su redditi/beni posseduti (o non posseduti ) all’estero costituisce una discriminazione diretta nei confronti dei cittadini di Stati extra Ue per ragioni di nazionalità perché di fatto, attraverso i gravosi oneri documentali aggiuntivi richiesti, rende loro difficoltoso concorrere all’accesso alle prestazioni sociali agevolate, così precludendo ai predetti il pieno sviluppo della loro persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza; ne consegue il respingimento dell’appello presentato dallo stesso Comune”. Il Comune di Lodi è stato anche condannato a pagare le spese legali sostenute dal Comitato Uguali Doveri, una rete di cittadini che in quei giorni si è costituita per difendere il diritto di essere uguali.

Sconfitti e costosi: eccoli i sindaci leghisti. E quei giorni orrendi sono diventati un manifesto d’umanità.

Buon giovedì.

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Altro che culla della democrazia: Londra abbandona in carcere in Iran una sua cittadina

Il ministro degli Esteri britannico, intervenendo sul caso di Nazanin Zaghari-Ratcliffe, ha affermato di non essere “legalmente obbligato a fornire assistenza” alla donna britannica-iraniana detenuta in Iran. Il Regno Unito, in sostanza, decide di abbandonare una propria cittadina all’estero, disinteressandosi di giustizia e di diritti. Proprio loro che del diritto e della democrazia si ergono a cultori in Occidente.

Era il 3 aprile del 2016 quando Nazanin Zaghari-Ratcliffe fu arrestata mentre stava lasciando l’Iran con sua figlia Gabriella, che aveva 22 mesi, per tornare nel Regno Unito dopo avere visitato la sua famiglia a Teheran.

Dopo essere stata detenuta per oltre cinque mesi, di cui i primi 45 giorni in isolamento e senza avere nessuna possibilità di mettersi in contatto nemmeno con il suo legale, la donna ha subito un processo che molti osservatori internazionali hanno definito profondamente iniquo ed è stata condannata a 5 anni di carcere per “appartenenza di un gruppo illegale”, riconosciuta colpevole di voler rovesciare il governo del Paese.

Nel 2016 l’Iran, vale la pena ricordarlo, ha detenuto arbitrariamente almeno 200 difensori dei diritti umani condannandoli a carcerazione e fustigazione.

Fino al momento del suo arresto Nazanin lavorava come project manager della Thomson Reuters Foundation, un ente non-profit che promuove il progresso socio-economico, il giornalismo indipendente e lo stato di diritto.

Nel corso di questi anni di detenzione le condizioni fisiche e psichiche della donna sono continuamente peggiorate, fino a rendere necessario il suo trasferimento dalla prigione di Evin al reparto psichiatrico dell’ospedale Imam Khomeini, nella capitale Teheran.

Nazanin ha intrapreso scioperi della fame e ha anche mostrato preoccupanti segnali di suicidio. La sua è una storia come quella di tanti attivisti dei diritti umani che si ritrovano ingiustamente oppressi in Iran, ma è anche una vicenda di pressioni diplomatiche dell’Iran nei confronti del Regno Unito.

A marzo di quest’anno Nazanin Zaghari-Ratcliffe è stata rilasciata con un permesso temporaneo, ospite in casa della madre con un braccialetto elettronico che non le permette di allontanarsi oltre i 300 metri e il governo iraniano aveva lasciato intendere una sua possibile liberazione.

Tutto invece precipita quando la donna è accusata di essere una spia: ora rischia un nuovo processo e una condanna fino a 16 anni. Il Regno Unito, dal canto suo, lascia intendere di volerla abbandonare al proprio destino.

Leggi anche: 1. La Regina delle capre felici. Storia di un’etiope in Italia e del suo sogno infranto / 2. Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni

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Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni

Questa volta niente cerimonia strombazzata con foto d’ordinanza e saluto militare. Lo scorso 23 dicembre, presso i cantieri di Muggiano, a La Spezia, mentre tutta l’Italia si affrettava per gli ultimi acquisti di Natale e il governo si concentrava su zone arancioni che sarebbero diventare rosse, Fincantieri ha consegnato agli ufficiali della Marina Militare dell’Egitto la fregata multiruolo Fremm Spartaco Schergat, ora ribattezzata “al-Galala”.

Se cercate in giro non troverete nessun comunicato, niente di niente: l’imbarazzo del governo è evidente e la morte di Giulio Regeni, con l’assurda carcerazione di Patrick Zaki, pesa come un macigno.

La consegna è solo il primo passo della vendita di due fregate Fremì all’Egitto di Al-Sisi che avrebbero dovuto essere destinate originariamente alla Marina Militare italiana e che invece sono state vendute all’Egitto senza nessuna comunicazione ufficiale al Parlamento.

La Rete Italiana Pace e Disarmo parla di una vendita “inammissibile” tenendo conto che è avvenuta “senza alcun dibattito in Parlamento in chiara violazione della legge 185 del 1990”. La legge infatti regolamenta le esportazioni militari e prevede il divieto “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i princìpi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”.

Del resto lo scorso 16 dicembre anche il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che denuncia l’aumento delle esecuzioni in Egitto, il ricorso alla pena capitale e le sistematiche violazioni di libertà. Proprio in quella risoluzione si esortano gli Stati membri dell’Ue a sospendere la vendita di armi all’Egitto.

Consiglio evidentemente inascoltato, se è vero che (lo dice Rete Italiana Pace e Disarmo) le forniture ipotizzate sono “di altre quattro fregate, 20 pattugliatori, unitamente a 24 caccia multiruolo Eurofighter e 20 aerei addestratori M346 ed altro materiale militare del valore tra i 9 e gli 11 miliardi di euro”.

Sullo sfondo risuonano le parole di indignazione del ministro Di Maio (“l’Italia è un Paese fondatore dell’Ue e sul tema dei diritti umani non è concesso fare passi indietro”), del presidente Conte e del presidente della Camera Roberto Fico, che parlò di “attuare decisioni dure contro l’Egitto”.

Parole che vengono rovesciate a fiumi sui giornali e che poi scompaiono quando si tratta di consegnare il prossimo armamento. La verità e la giustizia, intanto, attendono.

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto (di G. Cavalli)

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Cosa non cura il vaccino

Bisogna curare le disuguaglianze sociali, la frattura che si è creata in questa pandemia che ha reso i poveri ancora più poveri, i precari ancora più precari, gli sfruttati ancora più sfruttati. Il vaccino va fatto ma c’è molta altra strada da percorrere

Con una gran fanfara è arrivato il vaccino. Sono solo le prime dosi, quelle che il commissario Arcuri definisce “simboliche”, ma non si può non riconoscere la portata storica del momento. Dopo nemmeno un anno dall’inizio della pandemia la scienza ha trovato il primo argine per combattere il virus. Non sarà facile, non sarà breve: c’è un’enorme mole di organizzazione e di lavoro qui dove troppo spesso l’organizzazione del lavoro è risultata deficitaria, c’è un progetto culturale per iniettare credibilità insieme al vaccino che non può essere sminuito a una semplice battaglia tra favorevoli al vaccino (che quegli altri chiamano “pecore” e “servi”) e contrari al vaccino (che quegli altri chiamano “ignoranti” e “irresponsabili”). Bisogna non cedere all’errore (in cui siamo già incorsi) di credere che sia già tutto risolto, tutto finito: ci vorranno mesi, se tutto andrà bene, per raggiungere l’immunità di gregge necessaria a un presumibile ritorno a una parvente normalità. Ci salva la scienza, ci salvano quelli che per anni hanno messo la testa sui libri e si sono dedicati allo studio, ci salvano le competenze. Segnatevelo.

Il vaccino però non cura le disuguaglianze sociali, quelle no. Non cura la frattura ancora più larga che si è creata in questi mesi di pandemia, in Italia e nel mondo, e che ha reso ancora più poveri i poveri, ancora più precari i precari, ancora più sfruttati gli sfruttati, ancora più abbandonati gli abbandonati, ancora più soli i soli. E nella fetta di nuovi poveri ci sono finite famiglie che fino allo scorso febbraio pensavano di avere davanti una vita almeno tranquilla, un futuro almeno immaginabile e ora non hanno più immaginazione.

Il vaccino non cura il sistema sanitario nazionale, quello che ha ceduto troppe volte sotto i colpi di una cronica carenza di mezzi e di persone e che ha fatto scontare le sue falle mica solo ai malati di Covid ma anche a tutti quei malati che non hanno trovato più lo spazio di cui hanno diritto per essere curati. Il vaccino non cura nemmeno la privatizzazione sfrenata. No, non cura.

Il vaccino non cura le serrande abbassate, le partite iva con l’acqua alla gola, le imprese che non ce la faranno a fingersi salvate e vaccinate.

Il vaccino non cura l’odio sociale, fomentato anche in tempi di pandemia, appuntito dalla paura crescente, quello che si è riversato sui soliti disperati che tornano sempre buoni per essere obiettivi fin troppo facili. La disperazione non si sconfigge portando pacchi a Natale.

Il vaccino non cura la risibilità delle politiche ambientali, la pandemia che non vediamo e che non vogliamo vedere e che costerà (sta già costando) molto più di un Coronavirus e che non si risolve trovando una buona fiala ma che ha bisogno di soluzioni strutturate, di pensieri complessi, di visioni strutturate.

Il vaccino non cura il disagio psicologico che è sceso come una mannaia e che rende più difficile una situazione già difficile. Non cura la disperanza, non cura l’afflizione, non cura gli scogli che non si riescono a superare.

Il vaccino non cura l’impianto economico che arricchisce pochi, sfrutta molti e tutela troppo poco.

Il vaccino non cura dall’avere una classe dirigente spesso imbarazzante, quasi mai all’altezza, troppe volte incapace di leggere la realtà.

Il vaccino non cura dalle macerie che vanno ricostruite, seriamente e in fretta.

Il vaccino va fatto, va distribuito ma c’è molta altra strada da percorrere: discutere della “normalità” a cui si vuole tornare è uno dei momenti più delicati e importanti di tutti questi ultimi anni. La scienza è stata all’altezza, il resto è tutto da vedere.

Buon lunedì.

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Il senso del lavoro di Sgarbi

Vittorio Sgarbi, da sempre incapace di entrare nel merito nelle sue baldanzose e sconclusionate uscite in cui attacca gli avversari politici di turno, ha pensato bene di criticare Virginia Raggi con una bella provocazione classista delle sue, dicendo: «Secondo me prima di fare il sindaco era una cameriera nell’ufficio di avvocati e guadagnava 600 euro al mese». Essere cameriera e guadagnare 600 euro al mese evidentemente per il critico d’arte è elemento di vergogna e di inettitudine. Del resto, mica per niente, Sgarbi da sempre è l’assiduo frequentatore di immorali imprenditori. Virginia Raggi, da canto suo, ha risposto parlando della dignità dei camerieri e tutto il resto, seguita a ruota da Di Maio.

Ma c’è un aspetto interessante in tutto questo: Sgarbi ha pronunciato la sua infelice frase mentre si candidava come sindaco di Roma (e già cerca di attaccarsi ai pantaloni di Calenda) e praticamente in contemporanea ha annunciato la sua candidatura in Calabria. Del resto che Sgarbi sia terrorizzato dall’idea di dover lavorare senza politica lo racconta benissimo la sua storia politica che Fondazione Critica Liberale ha messo tutta in fila e che letta tutta d’un fiato fa parecchio spavento:

«1) Unione monarchica italiana; 2) Partito comunista italiano, accettando la proposta di candidarsi al consiglio comunale di Pesaro, nel 1990, candidatura poi fallita per avere contemporaneamente accettato anche la proposta di candidato per il Psi; 3) Partito socialista italiano, per il quale è stato eletto nel 1990 consigliere comunale a San Severino Marche; 4) Dc-Msi, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di San Severino Marche nel 1992; 5) Partito liberale italiano, per il quale è stato deputato nel 1992; 6) Forza Italia, con la quale è stato eletto deputato nel 1994, nel 1996, nel 2001 e 2018; 7) Partito federalista, che ha fondato nel 1995 e poi lasciato per aderire alla 8) Lista Pannella-Sgarbi; 9) “I Liberal – Sgarbi”, movimento da lui fondato nel 1999; 10) Polo laico, movimento effimero esistito nel 2000 per garantire una rappresentanza alle elezioni dell’anno successivo ai Liberali e ai Radicali Italiani; 11) Lista consumatori, con la quale si è candidato, per le Politiche del 2006, senza essere eletto; 12) Udc-Dc, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di Salemi nel 2008; 13) Movimento per le autonomie con il quale è stato candidato alle elezioni europee del 2009 nel cartello elettorale L’Autonomia nella Circoscrizione Isole; 14) Rete Liberal Sgarbi-Riformisti e Liberali nelle elezioni regionali 2010 del Lazio; 15) Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, movimento politico fondato dallo stesso Sgarbi ufficialmente il 14 luglio 2012; 16) Intesa popolare, partito fondato nel 2013 assieme a Giampiero Catone; 17) i Verdi, in occasione delle elezioni comunali a Urbino del 2014, hanno sostenuto la sua iniziale candidatura a sindaco e poi la proposta al sindaco eletto di nominarlo assessore alla Cultura del Comune di Urbino, a seguito dell’alleanza tra i Verdi e la coalizione di Centrodestra, guidata da Maurizio Gambini; 18) Rinascimento, partito da lui fondato con Giulio Tremonti nel 2017 con il quale inizialmente si candida come governatore alle Regionali in Sicilia; in seguito appoggerà la candidatura di Nello Musumeci per la coalizione di centrodestra, che risulterà eletto. In vista delle elezioni politiche del 2018 il partito si federa con Forza Italia; 19) Alleanza di centro, il 12 dicembre 2019, nel gruppo misto della Camera, sei giorni dopo che Sgarbi ha lasciato il gruppo di Forza Italia, si costituisce la componente “Noi con l’Italia – Usei – Alleanza di Centro”, poi divenuta, il successivo 18 dicembre, “Noi con l’Italia – Usei – Cambiamo! – Alleanza di Centro”».

Eccolo il senso del lavoro per Sgarbi: navigare da un partito all’altro in cerca di un ruolo pubblico. Poi si potrebbe ricordare la condanna in via definitiva a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, per produzione di documenti falsi e assenteismo nel periodo 1989-1990, mentre era dipendente del ministero dei Beni culturali.

Poi, oltre a quello che fa, c’è quello che dice e come lo dice. Ma qui si cadrebbe in un dirupo, sarebbe troppo, anche per un buongiorno.

Buon giovedì.

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“Vaccino? Un lombardo vale più di un laziale”: l’eurodeputato Ciocca e l’infinito odio della Lega

Centinaia di magliette, migliaia di manifesti, quintali di retorica: la Lega di Salvini che vorrebbe diventare “nazionale” ha usato tutti gli strumenti possibili in questi ultimi anni per convincerci che la sua matrice padana fosse solo un lontano ricordo, che fosse diventato un movimento interessato alle esigenze di tutti, che davvero fosse distante il ricordo di Bossi (e Salvini stesso) che se la prendevano con i terroni scansafatiche e con i romani ladroni.

Poi basta lasciarli parlare un po’, aspettare solo che mollino la frizione e alla fine il loro pensiero viene fuori e ritorna, mostruoso, disuguale e razzista come sempre, senza che sia cambiata una virgola. A cadere nella trappola questa volta ci pensa Angelo Ciocca, uno di quelli che più di una volta ha faticato nel tenersi a freno e uno di quelli che sa bene come funzioni nella Lega: dire una boiata, spararla grossa, è il modo migliore per farsi notare dai propri seguaci e mal che vada si finge di porgere delle tiepide scuse oppure si dichiara di essere fraintesi.

Dice Ciocca, eurodeputato della Lega, che “se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia” e quindi che bisogna vaccinare in base all’importanza economica del territorio. Niente vaccino quindi per chi non fattura, non produce e non torna utile alla produttività. La dichiarazione del resto non è molto distante da ciò che ha detto Guzzini di Confindustria Macerata qualche giorno fa, poi fortunatamente dimessosi per la pessima figuraccia per la frase sugli “affari che devono andare avanti e se muore qualcuno, pazienza”.

Ciocca, vale la pena ricordarlo, è lo stesso che a ottobre disse che il Covid era più diffuso in Francia e in Spagna “perché noi italiani siamo più puliti” e perché “abbiamo il bidet”. Il punto è che la Lega continua a contenere nella pancia quel germe del razzismo che quando non riesce a puntare verso gli stranieri devia inevitabilmente nella suddivisione fra gli italiani. È sempre così: a forza di odiare diventano tutti potenzialmente odiabili, è solo questione di tempo.

Ma la sensazione peggiore, quella che intossica questo tempo, è che in fondo Ciocca sia solo stato talmente ingenuo da avere detto ciò che in molti pensano. Sarebbe curioso sapere quanto quel suo ragionamento sia popolare tra pezzi di classe dirigente che al contrario di Ciocca hanno semplicemente la furbizia di non dire ma forse condizionano il proprio fare.

Leggi anche: 1. Matteo Salvini al Senato evoca il complotto sul Covid: “Tutto è cominciato in un laboratorio cinese” | VIDEO / 2. Vaccino Covid in Italia entro la Befana: l’Ema anticipa la data di approvazione al 21 dicembre / 3. Covid, lo sfogo di Ricciardi: “Siamo in guerra, più morti oggi che nel 1944. Cos’altro serve per il lockdown?” | VIDEO

4. Conte: “A Natale serve una stretta. Ma l’Italia non può reggere un nuovo lockdown” / 5. I vaccini no-profit di Cuba che salveranno i Paesi in via di sviluppo / 6. Milano anti-Covid, scatta il numero chiuso in Galleria Vittorio Emanuele

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Caserma, manette, botte

Troppe cose non tornano nel caso di Emanuel Scalabrin, morto a 33 anni nella caserma dei carabinieri di Albenga

Ci sono tutte le caratteristiche per essere una di quelle brutte storie a cui purtroppo ci siamo abituati e per questo la vicenda di Emanuel Scalabrin va raccontata per bene, punto per punto, compresi i lati oscuri che ci sono tutti intorno.

Emanuel ha 33 anni e fa il bracciante agricolo. Ha problemi di dipendenza. Il suo arresto lo raccontano i suoi famigliari nelle parole pubblicate dalla Comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, «Secondo il racconto dei parenti il 4 dicembre Emanuel verso le 12.30 si trova nella sua casa di Ceriale insieme alla compagna Giulia, mentre il loro figlio minore di 9 anni si trova presso una famiglia di amici. Ad un certo punto mentre si apprestano a pranzare viene a mancare la corrente elettrica ed Emanuel esce dalla porta di casa per verificare se si tratta di un’interruzione o altro. Improvvisamente viene spintonato all’interno dell’alloggio da alcuni agenti in borghese che erano lì appostati per l’irruzione, lui viene trascinato all’interno della casa fino alla camera da letto e qui gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità».

Emanuel urla e chiede aiuto, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi.

L’arresto dura 30 minuti. Il ragazzo viene portato nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga. Non si sente bene. Alle 21 viene chiamata la Guardia medica che lo visita per un’ora e che chiede di trasferire Emanuel in ospedale. Viene portato con l’auto di servizio dei Carabinieri e al Pronto Soccorso ci rimane per 5 minuti. Cinque. Non viene fatto nessun accertamento. Gli viene solo dato del metadone perché i medici del Pronto soccorso ipotizzano che si tratti di una crisi di astinenza.

Rientra in cella verso mezzanotte. Da lì, il buio. Verrà ritrovato morto alle 11 del mattino del giorno successivo, il 5 dicembre. Cosa sia successo quella notte non si può sapere perché la videocamera di sorveglianza della cella non aveva l’hard disk e quindi le immagini non sono state registrate.

La Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Il pubblico ministero Chiara Venturi, appena giunta sul posto, ha prontamente chiesto non solo una ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto.

Cosa è successo? Sperando di non ritrovarci di fronte ancora alla retorica delle mele marce. Intanto lo raccontiamo, vigiliamo, aspettiamo.

Buon venerdì.

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La stalla e il verme

Dormivano in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Una storia disumana di sfruttamento scoperta in provincia di Viterbo dopo la morte di un bracciante

Ci sono stalle fuori dai presepi che si portano addosso delle storie che sanguinano. Nel piccolo comune di Ischia di Castro, in provincia di Viterbo, dentro la stalla ci stavano uomini, braccianti. Solo che non erano uomini, no, erano cani, vermi, servi, li chiamavano così i loro “datori di lavoro” che li pagavano 1 euro all’ora per giornate che potevano durare fino a 17 ore nei campi.

Dormivano nelle stalle, in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Non esistevano nemmeno i giorni: festivi, straordinari, turni notturni erano compresi nel prezzo, porzioni di lavoro da regalare al proprio padrone. Gli investigatori scrivono che «lo sfruttamento della manodopera è stato reso possibile dalla determinazione con cui la famiglia imprenditrice ha sfruttato le condizioni delle vittime, spesso quasi ai limiti dell’indigenza, fino ad assoggettarli completamente, poiché cittadini stranieri per lo più soli, con le famiglie da mantenere nei loro luoghi di origine, bisognosi della paga che veniva loro elargita come unica forma di sostentamento ed isolati dal resto della comunità, poiché di fatto impossibilitati per mancanza di tempo e di mezzi con cui muoversi ad uscire dall’azienda in cui vivevano e lavoravano».

Qui non c’è nessun bambinello. C’era un 44enne albanese, che si chiamava Petrit Ndreca e che avrebbe dovuto essere morto in auto con alcuni suoi famigliari. Questa è stata la versione dei fatti riportata ai carabinieri dopo la chiamata, solo che le forze dell’ordine si sono insospettite per la presenza sul posto anche dei due imprenditori agricoli e hanno avviato le indagini. Così alla fine la verità è venuta fuori: Petrit è morto in modo indegno all’interno dell’azienda dopo avere accusato un malore e i suoi datori di lavoro con le minacce sono riusciti a convincere i suoi famigliari a trasportarlo lontano da lì avvolto in una coperta. «Il corpo di Petrit è stato trattato come quello di una pecora», ha raccontato il cognato quando è crollato di fronte ai carabinieri. E così si è scoperto che nelle stesse condizioni di Petrit lavoravano altre 17 persone.

Quella stalla è il presepe della schiavitù che si consuma e della vita umana cha non vale niente. Se poi lo schiavo è straniero e senza documenti allora il gioco viene fin troppo facile. Auguri, a tutti.

Buon giovedì.

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