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Italia, anno 2020: “Cari culattoni con l’AIDS”. La lettera omofoba anonima a due ristoratori

Accade a Torino. Gaetano e Stefano sono i titolari della pizzeria 150 di via Nizza 29 e al mattino nel plico della posta ritirata trovano una lettera. Strano, non è epoca di lettere questa. Dentro ci trovano una missiva scritta a macchina che dice testualmente così: “È un peccato che non vogliate riaprire a pranzo in un momento in cui tutti hanno voglia di riaprire e ricominciare, ma considerando che ho saputo che siete due noti culattoni  penso che il male maggiore ce l’abbiate in corpo, l’aids, per cui siamo noi clienti ad aver paura a venire da voi”. La lettera ovviamente non è firmata: gli omofobi di ogni specie e grado sono molto spesso anche vigliacchi, offendono anonimamente oppure alzano le mani in gruppo, è la cronaca di questi anni a raccontarcelo.

Gaetano e Stefano però non ci stanno e decidono di rendere pubblica la lettera dal loro profilo Facebook e di rispondere per le rime: “Ci siamo sforzati – scrivono Gaetano e Stefano – di trovare un nesso tra la mancata riapertura del negozio a pranzo e la nostra vita privata , dopo qualche ora siamo giunti alla conclusione che probabilmente avresti bisogno di uno psichiatra , fai tesoro dei consigli che ti diamo. In genere, abituati da sempre a vivere la nostra vita liberi e felici caro il nostro frustrato e probabilmente anche insignificante nella vita, abbiamo serie difficoltà a considerare le tue parole offensive, non ci hai messo neanche la faccia!!!! Ti nascondi dietro una letterina ina ina, perché mancando di palle, non sei in grado di sostenere ciò che pensi, già questo ci dice abbastanza di te, tra l’altro, mentre noi si vive felici e contenti, tu spendi tempo per metterti li a scrivere a macchina, imbustare, uscire di casa fino alla posta, spendere dei soldi per un francobollo, per cosa poi?”.

Sfugge in effetti la logica che possa spingere un vile omofobo nel perdere tutto quel tempo per offendere qualcuno, prendersi addirittura la briga di confezionare una lettera solo per poter esercitare un po’ di omofobia. Accade però anche altro: la notizia di quel gesto vigliacco viaggia sui social e Gaetano e Stefano vengono travolti dalla solidarietà di tanti che promettono di passare presto da loro a mangiarsi una pizza. È la solidarietà che trasforma un gesto indegno rovesciandolo in vicinanza. E così il piccolo oliatore scribacchino ora si sorbisce anche la tortura di essere stato un ottimo veicolo pubblicitario. Ben fatto, campione!

Leggi anche: Il linguaggio di certi giornali sul caso di Caivano rivela l’arretratezza italiana sull’omotransfobia (di G. Cavalli)

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Di depressione si parla sempre poco, ma in Italia ne soffrono più di 3 milioni di persone (di Giulio Cavalli)

E allora proviamo a ritirarlo fuori questo mostro di cui si parla sempre poco, che rimane nascosto tra le pieghe degli articoli scientifici come se non fosse un’emergenza sociale, politica e economica. Parliamo di fenomeni depressivi in Italia in questo 2020, parliamo dei più di 3 milioni di persone ammalate nel nostro Paese, della malattia che ha il maggior impatto sulla vita quotidiana e del fatto che Sip (Società italiana di Psichiatria), Sinpf (Società italiana di Neuropsicofarmacologia), Sips (Società italiana di Psichiatria Sociale) e Società italiana di Medicina generale e delle Cure primarie abbiano messo in atto una campagna (“La depressione non si sconfigge a parole”). Perché lo stigma del depresso impedisce a metà dei malati di riconoscere la propria malattia, di parlarne con i propri famigliari e di parlarne con un medico.

Secondo recenti stime dell’OMS, il 20 per cento di bambini e adolescenti nel mondo soffre di disturbi mentali, mentre nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le patologie cardiovascolari. La presidente della Società Psicoanalitica Italiana Anna Maria Nicolò scrive che “i dati raccolti finora hanno evidenziato i bisogni diffusi nella popolazione, nelle famiglie, nei singoli, nel personale sanitario direttamente impegnato nella cura dei pazienti COVID-19” e che hanno “anche evidenziato la scarsa oggettiva recettività da parte dei Servizi Pubblici, gravati dall’elevato numero di richieste e dalla scarsissima quantità di professionisti – psicologi e psicoterapeuti – disponibili.”

Due dati drammatici testimoniano il rischio di una mancata presa in carico di questa patologia: in Europa il 60 per cento dei suicidi viene commesso da persone che soffrono di depressione e il 15-20 per cento di tutti i malati di depressione tenta il suicidio. Oltre a quello puramente sanitario, anche l’impatto economico di questa patologia è molto rilevante: si stima che in Italia il costo sociale della depressione, in termini di ore lavorative perse, sia complessivamente pari a quattro miliardi di euro l’anno, con i pazienti affetti da depressione resistente che perdono mediamente 42 giornate di lavoro all’anno, in pratica circa un giorno a settimana.

“L’iter di conversione in Legge del Decreto “Rilancio” e l’utilizzo dei fondi dell’Unione Europea per il sostegno alle Nazioni più colpite dalla pandemia devono essere l’occasione per garantire alla nostra popolazione in modo strutturato e permanente il diritto naturale alla salute psicologica”, dice la Professoressa Rita B. Ardito, presidente della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Dai, parliamone, su.

Leggi anche: 1. The big dilemma: la dipendenza dai social va ben oltre i like, è un’assuefazione dallo schermo 2. Michelle Obama confessa: “Soffro di una lieve forma di depressione”

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Contrordine, sovranisti: ora la mascherina va messa. La ridicola retromarcia di Trump e Salvini

Dice Trump che chi usa la mascherina è un vero patriota. Dice Salvini che bisogna usare la testa (è credibile come un bradipo che ci insegna come correre lesti) e che bisogna mettere la mascherina nei posti chiusi. Contrordine camerati! La mascherina non è più la spada con cui il sovranismo combatte la sua sacra guerra contro l’ordine mondiale e ora di colpo si diventa tutti responsabili. Bellissimi i messaggi disorientati di quelli che hanno creduto al Covid come una messinscena e avevano trovato i loro falsi profeti. Non hanno mica capito che Trump, Salvini e compagnia cantante hanno come arma di propaganda quella di leccare i complotti ma poi non hanno nemmeno il coraggio di cavalcarli davvero, con la faccia tosta di chi ci mette almeno la faccia.

No, Salvini butta l’amo e poi lo ritira subito, giusto in tempo per pescare in superficie i pesci che abboccano. Non hanno idee: sono opinioni omeopatiche che durano il tempo di qualche mi piace su Facebook o di qualche retweet ma poi sono pronti a cambiare fronte se i sondaggi scendono. E così quando i collaboratori del Trump originale e del nostro Trump in versione discount gli hanno fatto notare che con questa storia della mascherina stavano perdendo voti (presumibilmente anche solo quelli dei malati, dei famigliari delle vittime e degli amici dei malati, che nel nord Italia e che negli USA sono numeri considerevoli) allora hanno inforcato la retromarcia. E così il loro bullismo suona ancora più goffo, più stonato, risibile e estremamente pericoloso.

Avere dei leader di partito che come giochetto non fanno nient’altro che dire il contrario di quello che dicono i loro avversari politici li costringerà presto a affermare che il nero è bianco, che gli alberi hanno le ruote e che i tram crescono sotto i cavoli. Un trucco di propaganda talmente banale che li mostra per quello che sono: banalissimi propagatori di bufale che devono far credere che un nemico invisibili giochi tutto il giorno per portarli alla sconfitta.

La retromarcia sulle mascherine è un manifesto politico: prima era tutto un “non usatele, non usatele, viva la libertà” e ora che si sono ammalati gli altri è tutto un correre ai ripari per salvarsi la pelle. Del resto il vero sovranista ha un’unica Patria: se stesso. E per la propria autopreservazione sono disposti a tutto, anche a apparire più ridicoli di quello che sono già stati. E continueranno così finché ci sarà una nuova bufala da cavalcare per fomentare un po’ di gratuita indignazione.

Leggi anche: Lauree in Albania, soldi scudati in Svizzera: quando “serve” la Lega diventa internazionale (di G. Cavalli)

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Decidere di non decidere

Sul ponte di Genova si consuma un errore politico che abbiamo vissuto più volte e che tutte le volte sembra che ci dimentichiamo con facilità: promettere, parlare, dire e ridire, accusare e poi non fare

Blocchiamo subito tutti quelli che ci dicono che con quegli altri (Salvini e compagnia cantante) sarebbe stato molto peggio: lo sappiamo, lo sappiamo benissimo ma non ci basta per stare zitti e non vogliamo stare zitti. Sul ponte di Genova si consuma un errore politico che abbiamo vissuto più volte e che tutte le volte sembra che ci dimentichiamo con facilità e ci incagliamo di nuovo: promettere, parlare, dire e ridire, accusare e poi non fare.

Decidere di non decidere è comodissimo, mica solo in politica, proprio nella vita: c’è gente che decide di non decidere, di rompere amicizie che andrebbero rotte e se le trascina per anni e ogni volta che accade qualcosa ritira fuori dal cilindro tutte le colpe degli anni precedenti. Accade anche nei rapporti di coppia. È il metodo perfetto per incancrenire le relazioni e per distruggere chirurgicamente tutto quello che è stato. Non si decide di prendersi le proprie responsabilità ma si rimane comodamente nella posizione di chi può in qualsiasi momento recriminare. Bello comodo, eh?

Sul decidere di non decidere poi, se ci pensate, si gioca anche la vita di molti incompiuti: sono quelli che per non fare accadere le cose, perché non ne hanno il fegato, fanno in modo che le facciano accadere gli altri. In pratica: non faccio succedere qualcosa ma faccio di tutto perché succeda ma non se ne possa dare a me la responsabilità.

Sul ponte di Genova è accaduto lo stesso: mentre quelli costruivano il ponte si diceva che i Benetton erano sporchi e cattivi ma nel frattempo nessuno si dedicava a sistemare le carte e le regole perché le cose cambiassero.

Così ci ritroviamo qui: il ponte di Genova, il nuovo ponte, è finito e i concessionari sono ancora gli stessi ritenuti colpevoli del disastro. Sappiano i nostri politici che possono fare tutto il chiasso che vogliono ma qui da fuori tutto risulta goffo, inutile e piuttosto ridicolo.

Buon giovedì.

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Il gran rifiuto

Il ministro per il Sud Peppe Provenzano ritira la sua partecipazione a un convegno sul futuro del Paese in cui i relatori sono tutti maschi. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza

“Me ne accorgo solo ora, è l’immagine non di uno squilibrio, ma di una rimozione di genere. Mi scuso con organizzatori e partecipanti, ma la parità di genere va praticata anche così: chiedo di togliere il mio nome alla lunga lista. Spero in un prossimo confronto. Non dimezzato, però”.

Sono le parole con cui Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la coesione territoriale. ha declinato l’invito a un tavolo virtuale in cui avrebbe dovuto confrontarsi con sindaci e docenti universitari e esperti sul futuro del Paese. Uno dei tanti convegni in cui gli invitati sono tutti maschi e in cui vengono superate a spallucce le critiche di chi fa notare che spesso si attua una totale rimozione di genere dagli eventi come se fosse una cosa normale e scontata.

Il gesto del ministro Provenzano però ci insegna anche qualcos’altro, prezioso di questi tempi: per contestare pratiche che non accettiamo e per reclamare diritti che rimangono troppo nascosti si può anche decidere di rifiutarsi di partecipare. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza: l’assenza va dosata con intelligenza e con cura e contiene molti sensi.

Decidere ad esempio di non appartenere a un parterre che dell’appartenenza di genere fa il suo marchio di fabbrica è un gran rifiuto, composto e significativo, che ha molto da insegnarci. Spinge l’occhio a notare come il tuttimaschi sia una costante anche in ambienti dove esistono talenti e professionalità femminili. E le polemiche fatte sottovoce ogni tanto sono un’ottima lezione.

Buon martedì.

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La mia carezza quotidiana mi ritira la spazzatura

Ci sono mestieri che attraversiamo senza nemmeno accorgercene, li incrociamo per strada e non catturano nemmeno per un istante il nostro sguardo. Sono i mestieri che stanno tenendo in piedi questo Paese e che lo tenevano in piedi anche prima del virus

Per una serie di motivi sono in isolamento, quella quarantena isolata, da solo, in cui non si può nemmeno mettere la testa fuori dalla porta, come decine di migliaia di italiani. La solitudine è qualcosa che ti mostra il mondo intorno come se lo guardassi dal fondo di un bicchiere, ingrandito e con i bordi sfumati. La quarantena per molti italiani, quelli che non vengono raccontati dalla narrazione che va per la maggiore, non è qualcosa di romantico terapeutico ma è una paura passata tutto il tempo ad ascoltare i segnali del proprio corpo, penzolando tutto il giorno intorno a un termometro e sperando di non avere bisogno di altri, di altro.

Tutti i giorni viene a ritirarmi la spazzatura un addetto. Un ragazzo giovane, con capelli e occhi neri come onice, ha poco più di vent’anni, è bardato come un personaggio di Guerre Stellari con una mascherina ipertecnologica che gli ridisegna il viso, due proboscidi di gomma. Si vedono gli occhi, nerissimi. È il lavoratore che tutte le mattine fa il giro delle persone in isolamento e si vede lontano un chilometro che ha una paura blu, seduto nel suo camioncino chiuso dentro come se fosse un fortino, abbassa il finestrino solo per porgere il sacco che servirà per domani. Ogni giorno sorride. Nonostante tutto. Nonostante quel mestiere invisibile che l’ha portato sull’orlo del burrone, nonostante non sia uno di quelli che viene romanticizzato durante questa quarantena.

Nei momenti in cui tutto sembra sul punto di crollare improvvisamente gli invisibili mostrano quanto siano fondamentali, anche se silenziosi e nascosti. Quel sorriso è la mia carezza quotidiana, è il mio cordone ombelicale con il mondo che c’è lì fuori. Lui non lo sa ma è il mio ossigeno quotidiano. Se è classe dirigente quella che ha il potere di modificare il nostro quotidiano allora la mia classe dirigente è quel camioncino che passa tutte le mattine e quella voce che mi avvisa, sto arrivando, mi dice.

Ci sono mestieri che attraversiamo senza nemmeno accorgercene, li incrociamo per strada e non catturano nemmeno per un istante il nostro sguardo. Sono i mestieri che stanno tenendo in piedi questo Paese e che lo tenevano in piedi anche prima del virus. Sono i cosiddetti lavori bassi e invece quanto siamo bassi noi quando iniziamo a dare per scontata anche la fatica delle persone.

Grazie, ragazzo.

Buon mercoledì.

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Niente Coppi senza i Carrea

In morte di Andrea Carrea, detto Sandrino forse per affrontare con un diminutivo la solennità del suo corpaccione contaidno, 89 anni, nato a Gavi ma cresciuto a Cassano Spinola, si è ricordato l ultimo gregario storico di Fausto Coppi e quindi di un certo ciclismo. Il penultimo ad andarsene era stato, poco più di un anno fa, Ettore Milano, 86 anni, anche lui di quella provincia di Alessandria che ha dato allo sport italiano campioni enormi di ciclismo e calcio, con una concentrazione di talenti che forse meriterebbe un qualche studio serio: Girardengo, Coppi, Baloncieri, Giovani Ferrari, Rivera

Milano, erre “roulée” alla francese proprio come Rivera e come tanti di quella provincia (idem per Parma), era in corsa il paggio psicologo di Coppi, Carrea era il suo diesel da traino e spinta.

Scelti entrambi, per aiutare il Campionissimo, da Biagio Cavanna detto l orbo di Novi Ligure, il massaggiatore cieco che tastava i muscoli e indovinava le carriere (e a Milano diede pure la figlia in sposa).

I due non avevano vinto mai in prima persona, Fausto vinceva anche per loro che lavoravano per lui portandogli in corsa acqua,panini,conforti vari, tubolari, amicizia. Un giorno al Tour de France del1952 Carrera si trovò, ”a sua insaputa”come uno Scaiola del ciclismo, in maglia gialla.

Un gendarme lo pescò in albergo per portarlo alla vestizione. Carrrea si scusò con Coppi per eccesso di iniziativa, avendo fatto parte di un gruppetto, teoricamente innocuo, di fuggitivi non ripresi.

Il giorno dopo il suo capitano gli prese, come da copione, la maglia gialla scalando l Alped Huez e arrivò da dominatore a Parigi. Un cantante ciclofilo, Donatello, che ha fatto anche Sanremo, ha composto una canzone splendida che è un sogno di bambino e dice: “Un giorno, per un giorno, vorrei essere Carrea”.

Il gregario nel ciclismo non c è più, almeno nel senso classico: libertà di rifornimento continuo dalle ammiraglie, licenza per ogni assistenza tecnica in corsa, severità della giuria quando, specialmente in salita, ci sono troppe spinte per i capisquadra, che facevano chilometri senza dare una pedalata, hanno procurato dignità aduna collaborazione che non è più umiliante e servile, e che consiste soprattutto nel pedalare con accelerazioni giuste al momento giusto, nell aiutare, aprendogli un tunnel nell aria, il capitano quando è il momento di tirare per rimediare aduna sua défaillance o rafforzare una sua iniziativa. Nello sport tutto i gregari sono di tipo nuovo.

Diceva Platini genio del calcio: “Importante non è che io non fumi, è che non fumi Bonini”. Il quale Bonini gli gocava dietro, riempiva il campo del suo gran correre, cercava palloni per servirglieli. Adesso i grandi gregari del calcio, alla Gattuso, guadagnano bene, sono stimati, cercati. Coppi lasciava comunque ai gregari tutti i suoi premi, e così li ha fatti ricchi.

Chi è adesso il gregario? Nell automobilismo il pilota che esegue gli ordini di scuderia, lascia passare il compagno che ha bisogno di punti, fa da “tappo” mettendosi davanti a chi lo insegue, e al limite “criminoso” sbatte fuoripista il concorrente pericoloso.

Nel ciclismo è ormai quello che sa propiziare il sonno al campione nelle dure prove a tappe, sa dargli allegrie o comunque distensione in corsa. Nel mondo dell atletica il gregario si chiama lepre, ed è pagato, nelle corse lunghe,per tenere alto il ritmo nella prima parte, sfiancando gli avversari e propiziando un tempo di finale di eccellenza: poi può ritirarsi. Sta sul mercato, è ingaggiabile anche al momento, per una corsa sola.

Nella scherma magari è quello che tiene per il campione il conteggio delle vittorie regalate in tornei di ridotta importanza o comunque prospettanti al campione stesso una eliminazione ormai sicura, gli fa il calcolo dei crediti e dei debiti così messi insieme nel rapporto con avversari importanti, gli dice quando è tempo di “passar vittoria”.

Il gregario nuovo può anche arrivare a sperimentare su se stesso il prodotto dopante o il prodotto coprente, correndo dei rischi. Ma la sua funzione diventa sempre meno materiale. E si deve ricordare che il prototipo altamente psicologico del gregario che dà serenità, oltre a procurare una buona compagnia negli allenamenti, tiene quattro gambe anzi zampe. E un cavallo: si chiamava Magistris, era un quasi brocco, ma senza di lui vicino, in pista come nella stalla,il favoloso Ribot era nervoso, tirava calci e nitriva di rabbiosa tristezza.