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Roberto Maroni

Buone pratiche antimafiose (mancate): i tempi di EXPO

Eppure si sapeva fin dall’inizio: il rispetto dei tempi nei lavori sarebbe stato il modo migliore per tenere il più possibile lontane le mafie da Expo. E infatti non è andata così. Quindi bisogna stringere i tempi e inevitabilmente allentare (o “snellire”, o “velocizzare” fate voi) la burocrazia. L’allarme, a dire la verità, era stato già lanciato dalla Commissione di “saggi”: Nando Dalla Chiesa più di una volta aveva parlato dell’altissimo pericolo in Expo smentendo (giustamente) in parte il solito buonismo della Giunta Pisapia che si ostina a dichiarare Expo “mafia free” mentre già ci sono state trentatré (33!) imprese interdette perché in odore di mafia di cui sei solo negli ultimi sei mesi. Come scrive Repubblica:

Fra le novità ci sono più poteri di coordinamento affidati al prefetto, ma soprattutto un innalzamento del valore minimo degli appalti che farà scattare il meccanismo dell’informativa antimafia. D’ora in poi,si partirà da contratti che valgono non più 50mila euro (la cifra rimarrà tale per attività considerate a rischio come i servizi di pulizia o di ristorazione), ma 100mila (comunque inferiore ai 150mila indicati nel Codice antimafia). Maglie di fatto un po’ più larghe.

E non ci interessano le rassicurazioni di Pisapia, Maroni e Podestà (in uno stonatissimo unisono di larghe intese) se basta ricordare che nelle ultime indagini antimafia i clan si dicevano disposti anche di accontentasti di “tanti piccoli lavori” come ad esempio la sicurezza:

“Qui minimo per la sicurezza di Expo ci vogliono 500 uomini” dice intercettato Emanuele De Castro che per conto della ‘ndrina gestisce la “bacinella”, il fondo pensionistico che la ‘ndrangheta tiene pronto per sostenere i propri uomini e le loro famiglie. Gli risponde Vincenzo Rispoli: “Se tu su un appalto di questo ci guadagni 5 euro l’uno al giorno, vedi che cifre che si fanno”. Dopodiché discutono sul come ottenere appalti. “Un appalto diretto è impossibile che ce lo danno a noi. E quindi abbiamo bisogno di una serie di ditte tra virgolette pulite”. (dallo spettacolo DUOMO D’ONORE).

I tempi sono stati sforati, questo è il fatto. La promessa non mantenuta. La buona pratica evitata.

L’acqua calda delle mafie in Expo

Quando parlavamo di rischio ci dicevano che eravamo i soliti allarmisti che per professione devono creare ombre.

Quando abbiamo trovato delle evidenze ci hanno fatto scrivere dagli avvocati e ci hanno avvertiti nei loro metodi indiretti.

Quando abbiamo chiesto quali fossero le soluzioni adottate hanno detto “abbiate fiducia”.

Quando abbiamo chiesto a Formigoni ci hanno risposto “beh, lui si sa”.

Quando abbiamo chiesto a Maroni ci hanno risposto “non si può mettere in discussione”.

Quando abbiamo chiesto a Pisapia ci hanno detto “come ti permetti di chiedere ad uno dei nostri”.

Ora scrivono che la mafia è in Expo. Alla faccia di tutti: mafiosi, antimafiosi, di destra, di sinistra, buoni, cattivi, dilettanti allo sbaraglio, esperti e tutto il resto. Complimenti. Vivissimi.

Gli annunci sono finiti. E quello che prima era un rischio, ora è un dato di fatto. La mafia è entrata nell’affare di Expo. Testa e soldi dei boss controllano parte dei lavori e delle opere connesse. L’allarme, scaturito dall’inchiesta sull’appaltificio di Infrastrutture Lombarde (Ilspa) governato per dieci anni da Antonio Rognonitrova conferma nella relazione del Prefetto di Milano consegnata alla Commissione parlamentare antimafia in trasferta sotto al Duomo (guarda l’infografica).

È il 16 dicembre 2013, quando Francesco Paolo Tronca davanti ai parlamentari legge un appunto riservato di 56 pagine e svela “una tendenza che si sta delineando e sempre più consolidando di una penetrazione nei lavori Expo di imprese contigue, se non organiche alla criminalità organizzata”. In quei giorni davanti al presidente Rosy Bindi parla anche il procuratore aggiunto Ilda Boccassini. Dice: “In considerazione del tempo ormai limitato (…) è molto forte il rischio di infiltrazioni”. Il dato, di per sé clamoroso e inedito, diventa inquietante quando Tronca affronta la questione delle opere connesse all’evento. Tra le varie, oltre alla Linea 5 della metropolitana infiltrata dal clan Barbaro-Papalia, cita la Tangenziale esterna est, snocciolando numeri che fotografano lo stato di un’infiltrazione consistente.

“Quest’opera – sono le sue parole – presenta la maggior concentrazione di imprese già interdette, sette nell’ultimo periodo”. Più altre due. In totale nove società allontanate per sospetti di collusione con le cosche. Una di queste è la Ci.Fa. Servizi ambientali tra i cui soci compare Orlando Liaticoinvolto in un traffico illecito di rifiuti. Un nome, quello dell’imprenditore milanese, già finito nelle informative dell’antimafia lombarda per i suoi rapporti con importanti clan della ‘ndrangheta. Dal 2009 il coordinamento dell’opera è affidato alla Tangenziale esterna spa. Consigliere delegato è Stefano Maullu, ex assessore formigoniano sfiorato (e mai indagato) da alcune inchieste di mafia.

Con lui nel board societario c’è l’architetto Franco Varini in contatto con Carlo Antonio Chiriaco, l’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia condannato in primo grado a 13 anni per concorso esterno. La spa che gestisce i lavori della tangenziale è anche al centro dell’ultima indagine su Infrastrutture Lombarde. Al suo nome sono legate consulenze pilotate a favore dei legali della cerchia di Rognoni. Oltre agli appalti affidati alla cooperativa emiliana Cmb che con l’Ilspa, negli anni, ha fatto affari d’oro.

Consulenze, dunque. E non solo. Con i clan che si accomodano al banchetto di Expo. Tanto che sul sito oggi lavorano quattro società segnalate dalla Dia per rapporti sospetti con ambienti mafiosi. Spiega Tronca: “Spesso la trama dei rapporti d’affari tra le imprese non appaiono subito evidenti”. Il ragionamento del Prefetto è chiaro. Ma c’è di più. Secondo Tronca, infatti, “molte società per le quali stanno ora emergendo criticità antimafia non risultano censite dalle Prefetture competenti per territorio”. Tradotto: “In maniera elusiva, le imprese colluse hanno sempre lavorato in una zona grigia” in modo “da sottrarsi alla richiesta d’informazioni antimafia”.

Un gap che non sembra poter essere risolto nemmeno dalla cosiddetta piattaforma informatica creata per raccogliere il database delle imprese. Secondo una nota del centro Dia di Milano il sistema è “inutilizzabile a causa di vistose lacune relative alla scarsa intuitività del sistema e alla carenza della documentazione”. A tutto questo si aggiungono le problematiche dei controlli antimafia sui lavori degli stati stranieri. Il punto, sollevato dal Prefetto, segnala come in questi casi l’adesione ai controlli sia solo su “base volontaria” così come previsto da un accordo preso tra il governo Italiano e il Bie. Nessun obbligo, dunque. E tanto terreno fertile per la mafia.

Da Il fatto Quotidiano del 23 marzo 2014 (di Davide Milosa)

Infrastrutture Lombarde: adesso ci dovremmo stupire?

Chissà perché ci si dovrebbe stupire dei recenti arresti dei quadri dirigenziali di Infrastrutture Lombarde quando è evidente, da anni, che le scatole cinesi della Lombardia formigoniana (per niente modificata da Maroni) fossero un semplice tentativo di “mettere le carte a posto” per provare a legittimare una visione privatistica del bene pubblico. E chissà perché noi, in fondo, non siamo mai riusciti a raccontarlo analiticamente trasformando l’anomalia in uno scandalo politico. Ma niente: ancora una volta abbiamo dovuto aspettare la Procura.

E’ bufera su Infrastrutture Lombarde, la controllata della Regione Lombardia voluta da Roberto Formigoni per la realizzazione di opere quali ospedali, scuole ma anche Palazzo Lombardia, la nuova sede della giunta regionale, e lavori legati a Expo. Il direttore generale Antonio Rognoni, dimissionario ma formalmente ancora in carica, è stato arrestato insieme con altre sette persone (sei sono ai domiciliari) per accuse su fatti avvenuti dal 2008 al 2012 e che vanno a vario titolo dalla truffa alla turbativa d’asta e al falso e, per tutti, l’associazione per delinquere. E uno degli appalti contestati riguarda proprio Expo: quello da 1,2 milioni di euro sugli incarichi di consulenza legali. Di un “clamoroso conflitto d’interessi” si parla invece per la realizzazione di Palazzo Lombardia.

Sessantotto capi d’accusa. Rognoni, secondo il gip Andrea Ghinetti, sarebbe stato il “capo, promotore e organizzatore del sodalizio” fra gli otto indagati: gli sono stati contestati 68 capi d’accusa. Il responsabile dell’ufficio gare e appalti della Infrastrutture Lombarde, Pier Paolo Perez, l’altro indagato finito in carcere, è indicato come “organizzatore del sodalizio”. E Maurizio Malandra, direttore amministrativo della società della Regione Lombardia, è definito dal gip “partecipante che assicurava l’emanazione degli atti amministrativi necessari per il raggiungimento degli scopi del sodalizio, garantendo altresì l’impunità agli altri associati”.

La gestione “domestica” degli appalti. Gli altri indagati, ai domiciliari come Malandra – si tratta di Carmen Leo, Fabrizio Magrì, Sergio De Sio, Giorgia Romitelli (tutti avvocati) e Salvatore Primerano (ingegnere) – “partecipavano intervenendo stabilmente nell’espletamento delle funzioni pubbliche e dei procedimenti di gara, redigendo e falsificando atti di delibera e contratti di assegnazione nonché beneficiando essi stessi, fra gli altri, di reiterati conferimenti di incarichi, con modalità collusive e fraudolente”. Sempre secondo gli inquirenti sarebbe stata una “amministrazione a sfondo domestico” degli appalti, quella effettuata da Rognoni. Lo ha affermato durante una conferenza stampa il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che coordina l’inchiesta assieme ai pm Paola Pirotta e Antonio D’Alessio. Robledo ha spiegato che gli incarichi venivano assegnati ai professionisti “al di fuori di ogni regola, delle procedure” previste per gli enti pubblici, con gare “falsate e frazionate in maniera artificiosa” e con contratti “retrodatati”.

Le pressioni per Formigoni. Dopo che l’allora governatore Formigoni si era lamentato pubblicamente della gara per la “piastra” di Expo, vinta con un ribasso del 43 per cento dalla Mantovani, i vertici del Pirellone avevano invitato Rognoni a evitare allo stesso Formigoni una brutta figura che si sarebbe tradotta in una “sconfitta politica evidente”. L’ordinanza del gip riporta una intercettazione dalla quale sono emerse “alcune sollecitazioni ricevute dai vertici della Regione Lombardia, che in sostanza sembrano rimproverare di non fare abbastanza per fornire un segnale concreto all’esterno tale da venire incontro alle preoccupazioni” di Formigoni.

La telefonata di Alli. In una telefonata del 23 luglio 2011 Alli dice: “Tutto il casino che abbiamo messo in piedi con le dichiarazioni di Formigoni… adesso noi abbiamo fatto esporre Formigoni molto pesantemente, è chiaro che se viene fuori ‘volemose bene, non c’è nessun problema’ è una sconfitta politica evidente”. E a Rognoni chiede di inventarsi “qualcosa, qualche protocollo in più” per far si che Formigoni “esca a testa alta dicendo: io ho segnalato un problema reale”. Dopo questa telefonata “Rognoni esigeva dai più fidati collaboratori iniziative tese a ottenere forzatamente dall’appaltatore (facendole invece figurare come iniziative assunte su base volontaria e responsabile) garanzie accessorie manifestamente non dovute – fa notare il gip – oltre alla rinuncia dello stesso a ricorrere a subappalti, contrariamente a quanto dichiarato in sede di gara”. Garanzie che alcuni degli avvocati indagati definiscono “illecite” e un vero e proprio “ricatto” nei confronti della Mantovani.

Il caso Robledo-Bruti Liberati. L’indagine – scaturita dalla denuncia di un imprenditore che si è ritenuto danneggiato dalle procedure di affidamento di un appalto – è una di quelle segnalate nell’esposto al Csm dello stesso Robledo. Quest’ultimo aveva segnalato “violazioni” nell’assegnazione e nella gestione dei fascicoli da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. I due magistrati hanno tenuto assieme la conferenza stampa sugli otto arresti. Bruti e Robledo erano seduti uno accanto all’altro nell’anticamera del procuratore. Alla domanda se si trattasse di uno dei fascicoli oggetto dell’esposto, Robledo ha replicato: “Non voglio rispondere a questa domanda”. E a un cronista che ha provato a stemperare la tensione con una battuta (“in queste occasioni di solito ci si stringe la mano”), Robledo ha risposto: “Non siamo capi di Stato”.

Gli indagati a piede libero. I reati sono contestati in concorso con altri indagati a piede libero: Ernesto Stajano, Giovanni Caputi, Barbara Orlando, Manuela Bellasio, Cecilia Felicetti, Nico Moravia, Francesca Aliverti, Manuel Rubino, Giuseppe De Donno, Simona Trapletti, Bruno Trocca, Elena Volpi, Alberto Chiarvetto, Paola Panizza, Roberto Bonvicini, Celestina Naclerio, Erika e Monica Daccò, Marco Caregnato, Marcello Ciaccialupi, Vittorio Peruzzi, Alberto Porro, Gianvito Prontera, Alberto Trussardi, Maria Marta Zandonà, Stefano Alvarado, Massimo Viarenghi, Stefano Chiavalon e Maurizio Massaia.

L’ex colonnello e le sorelle Daccò. De Donno è l’ex colonnello del Ros al centro della cosiddetta ‘trattativa Stato-mafia’. Dopo aver lasciato l’Arma è entrato nel settore della sicurezza privata e ora, in qualità di amministratore delegato della G-Risk, è uno dei nove indagati raggiunti da misura interdittiva, il divieto di esercitare attività direttive, disposta dal gip. Per l’accusa De Donno e la G-Risk sarebbero stati favoriti tramite le gare d’appalto truccate, tra cui quella da 140mila euro per la “rilevazione e gestione del rischio ambientale” collegati ai lavori dell’autostrada Milano-Brescia. Come si legge nel provvedimento del giudice, l’ex ufficiale del Ros il 7 agosto del 2009 era stato nominato dall’ex governatore lombardo Formigoni “componente del Comitato per la legalità e trasparenza delle procedure regionali di Expo”. Le sorelle Daccò, invece, sono figlie di Pierangelo Daccò, già condannato per la vicenda del San Raffaele.

Bobo Maroni: razzista (e imbecille) a comando

Interior Minister Roberto Maroni puts hi«La Svizzera non può considerare i lavoratori lombardi come dei topi. Sono dei lavoratori che operano oltre confine, hanno una dignità che va rispettata». 

La frase è di Roberto Maroni e questa volta gli sporchi terroni sono gli italiani che in Svizzera vorrebbero stessero a casa loro. Senza entrare nella complessa questione dei frontalieri (che abbiamo seguito e approfondito già dalla scorsa legislatura in veste tutta politica in Consiglio Regionale) la dichiarazione di Maroni rasenta l’imbecillità del credo leghista che frana davanti agli interessi elettorali. Leghisti al contrario con il culo degli altri. Roba da funamboli. O da imbecilli. O da leghisti.

Che figurone Bobo Maroni in Catalogna

roberto_maroniUna nota di agenzia (ANSA) che rende lo spessore di Roberto Maroni e della Lega Nord all’estero. E che comunque dà grande lustro a EXPO, eh:

(ANSA) – MADRID, 16 GEN – ‘Una visita scomoda’: cosi’ titola oggi il quotidiano catalano La Vanguardia in un’analisi del direttore aggiunto, Eric Juliana, fra i maggiori conoscitori della realta’ italiana, della visita odierna a Barcellona del presidente della Lombardia e numero due della Lega Nord, Roberto Maroni. Invitato dalla Camera di Commercio italiana di Barcellona, Maroni presenta l’Expo di Milano in un incontro convocato al Museo Nazionale d’Arte della Catalogna (Mnac). “La Lega Nord ha un grandissimo interesse a identificarsi con la Catalogna – scrive Juliana – e le autorita’ catalane hanno pochissima voglia di apparire accanto a un movimento politico che chiama ‘orangotango’, la ministra di integrazione della Repubblica italiana, Cecyle Kyenge, nata in Congo”. L’articolo prosegue con l’elenco delle profonde differenze fra i due movimenti a favore della sovranita’. “Il catalanismo, con tutte le sue ramificazioni, complessita’ e gineprai, e’ una corrente politica e culturale con oltre cento anni di storia, europeista, democratizzatrice e tollerante”, rileva Juliana. “La Lega Nord ancora non ha compiuto 25 anni e ha dovuto inventarsi un passato medievale, dato che l’unificazione d’Italia nel 1861 fu volonta’ e impero delle regioni industriali del nord. La Lega, poi, oscilla continuamente fra la protesta fiscale, la xenofobia e l’attacco frontale all’Europa di Bruxelles”, aggiunge. Nel definire Maroni “il volto istituzionale della Lega Nord”, l’articolista passa in rivista la storia recente del partito di Bossi, gli attacchi alla ‘Roma ladrona’, “l’accordo strategico con Berlusconi chiave per l’egemonia del centrodestra nel nord d’Italia”, l’inchiesta giudiziaria che “due anni fa ha rivelato oscuri maneggi nelle finanze della Lega”. Per rilevare che il partito “si trova in ore basse e ha bisogno di nuovi riferimenti”. Per cui “mentre Salvini lavora alla connessione con il Fronte Nazionale francese, Maroni cerca il marchio catalano”. E ricorda come negli anni Novanta Jordi Pujol, lo storico leader di Convergencia i Union e “buon conoscitore della storia d’Italia”, rifiuto’ di ricevere Bossi, “cosa di cui e’ andato sempre orgoglioso”. (ANSA).

(Grazie a Chiara per la segnalazione)

Il cambiamento di Maroni (e il sindaco di Adro)

200706582-3efd515b-2616-4f01-af67-6202936d0263Aveva promesso Maroni che la Lega sarebbe diventata diversa (vi ricordate?), che avrebbe smesso di rubare (si riferiva a Bossi e ai suoi figli), di essere volgare (si riferiva alle parolacce di Bossi) e che si sarebbe concentrata sulla politica dei fatti.

Poi è arrivato Oscar Lancini, il sindaco di Adro, che ha, nell’ordine:

– riempito di simboli padani una scuola.

– lasciato senza cibo una bambino in mensa figlio di una famiglia inadempiente sventolando il fatto come una conquista.

pilotato appalti in favore degli amici secondo la Procura che ne ha deciso l’arresto.

Ora Maroni interviene e dice: è una brava persona.

Evviva.

In Lombardia si insultano tra di loro.

Grande spettacolo in Regione Lombardia, eh:

Volano gli stracci tra Roberto Formigoni e Bobo Maroni. Al Celeste non è andata giù la decisione di Regione Lombardia di costituirsi parte civile nel processo per lo scandalo Maugeri, per il quale è imputato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Ancor meno gradita la nomina di un legale esterno all’amministrazione regionale per depositare in cancelleria la costituzione di “parte lesa” nel procedimento in cui l’attuale presidente della Commissione Senato dell’Agricoltura.

L’avvocato in questione è Domenico Aiello, già legale della Lega Nord e sodale di Roberto Maroni. La cronaca giudiziaria è questa. Secondo l’accusa la Fondazione Maugeri avrebbe ottenuto da Regione Lombardia presunti rimborsi indebiti per prestazioni sanitarie, per circa 200 milioni di euro, attraverso una quindicina di delibere della giunta regionale. Parte di quei soldi, 61 milioni di euro secondo l’accusa, sarebbero stati distratti dalle casse della Maugeri, tramite il faccendiere Daccò e l’ex assessore regionale Antonio Simone. In cambio delle delibere, sempre secondo l’accusa, Formigoni sarebbe stato ripagato, attraverso i soldi distratti, con benefit di lusso per un valore di oltre 8 milioni di euro: viaggi, vacanze ai caraibi, la messa a disposizione di tre yacht, un maxi-sconto sull’acquisto di una villa in Sardegna, ma anche finanziamenti per cene e soggiorni al meeting di Comunione e Liberazione e 270 mila euro in contanti.

Se il riconoscimento dello stato di “parte lesa” da parte di Regione Lombardia non garantisce automaticamente la richiesta di danni ma solo l’eventuale partecipazione al processo, è abbastanza evidente che con l’udienza preliminare alle porte nessuno fino a ieri si era deciso a compiere il fatidico passo.

Formigoni, raccontano i suoi fedelissimi, era arciconvinto che Regione Lombardia sarebbe rimasta fuori dal procedimento. E allora scatta immediata la reazione. «Si tratta di un fatto mai visto prima e configura una scorrettezza istituzionale»,spiega in una nota l’ex presidente del Pirellone. «La vera notizia è che il Presidente Maroni ha dato l’incarico non all’Avvocatura regionale che è un organo istituzionale assolutamente qualificato e di grande efficacia, ma al suo avvocato personale al quale verrà evidentemente corrisposta congrua parcella a spese della Regione Lombardia».

Dall’entourage di Maroni si sussurra che la scelta si è resa necessaria per evitare che dipendenti scelti da Formigoni non risultassero sufficientemente “neutrali”. La replica è stizzita: «Sono professionisti che c’erano prima del mio arrivo, che hanno superato concorsi nazionali e che rispondono in prima persona delle loro azioni. E’ un insulto non attingere a tali risorse».

L’articolo di Marzio Brusini è qui. L’opposizione è lì.

Le commissioni placebo per l’antimafia

C’è qualcosa di sinistro nel silenzio che circonda la Commissione Antima­fia del Consiglio Regionale della Lom­bardia in questi mesi e, più in genera­le, nell’abitudine nazionale alle istitu­zioni antimafiose trattate come merlet­ti doverosi per consenso e smussati nell’azione: la sensazione che ci basti così.

L’istituzione di una Commissione An­timafia viene celebrata, al solito, con conferenze stampa dai toni polizieschi e severi e dalla ricorrenza di nomi eroici del passato (così difficili, del resto, da scovare nel contemporaneo) insieme alle fotografie di rito. Poi poco o nulla. Qual­che commemorazione in sale ben bardate o l’audizione formale di qualche saggio per riempire i verbali sono gli slanci che ci arrivano.

Eppure la Commissione Antimafia ha due vie possibili da seguire per essere viva e presente e quindi utile: o essere la voce pungente di una comunicazione che non vuole concedere spazi e pieghe all’indifferenza (in fondo è il cuore dell’azione di tante associazioni antima­fia da Libera fino alle più piccole realtà locali) oppure un luogo di studio silen­zioso ed operoso di pratiche amministra­tive e di analisi (il Comune di Milano sta lavorando sotto questo profilo). Il resto è solo una coccarda effimera e inutile per mettere a tacere le critiche.

Stupisce, del resto, che nel luogo in cui nel Consiglio comunale di Milano coor­dina il presidente David Gentili (che su questi temi lavora da anni nella propria esperienza politica) in Regione Lombar­dia ci sia Gian Antonio Girelli che pur essendo un ottima persona e un politico capace, per carità, viene da esperienze nel campo sanitario e nelle politiche so­ciali.

Ecco, ogni tanto assale il dubbio che la Commissione Antimafia (in tutte le sue mille declinazioni di nome che si ritrova ad avere nelle diverse amministrazioni) sia una testimonianza che “si basta sol­tanto nell’esistere” come un testimonian­za di impegno.

Qualcuno dice che comunque è un ini­zio, certo, nella Regione dell’ex assessor­e Zambetti che si comprava tranquillam­ente voti al supermercato della ‘ndran­gheta ma il dubbio, ed è un dubbio dolo­roso, è che in nome della pochezza pas­sata ci si debba accontentare del bro­dino presente.

Forse varrebbe l’adagio di Giovanni Falcone: “Se vogliamo combattere effi­cacemente la mafia, non dobbiamo tra­sformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo rico­noscere che ci rassomiglia”.

(scritto per I Siciliani Giovani)

La (silenziosa) Commissione Antimafia in Lombardia e l’occasione persa

Il mio articolo per I Siciliani che, purtroppo, si è avverato:

La sconfitta di Umberto Ambrosoli e il centrosinistra in Lombardia è (anche) una sconfitta dell’antimafia lombarda. Inutile negarlo; peggio ancora fingere di non volerlo analizzare perché sarebbe troppo totalizzante, secondo alcuni. Non c’è cultura antimafiosa nel formigonismo, non ce n’è nel percorso ciellino che ha demolito la meritocrazia nel mondo della sanità e non ce n’è nella Lega Nord che in Consiglio Regionale in passato ha negato l’istituzione di una Commissione Antimafia archiviandola con un sorriso di sufficienza.

Poi c’è stato Maroni, e su Maroni si è scritta una certa letteratura (figlia di un berlusconissimo revisionismo e di una neodeclamazione dei numeri e degli arresti) che l’ha avvicinato a rappresentazione di “antimafioso nonostante Berlusconi”.

Sarebbe inutile elencare per l’ennesima volta solamente le colpe storiche del movimento leghista che è passato dal latrato antiberlusconiano con la foto di Dell’Utri in prima pagina de ‘La Padania’ alla convivenza sopita fino alla connivenza più spietata nell’ultimo periodo del Governo Berlusconi (quello contro la magistratura, la trattativa, il reato di concorso esterno, lo scudo fiscale e troppo altro ancora). Eppure la verginella Maroni è riuscita a scrollarsi di dosso le gocce della melma e ripresentarsi candido, candidabile e perfino nuovo Governatore della regione cameriera delle mafie, ‘ndrangheta in primis: la sfiorita Lombardia.

C’è stata in campagna elettorale la solita desolante sensazione di un centrosinistra applicato ad un’antimafia di “maniera” che si è ritenuta sazia dell’avere candidato il figlio dell’avvocato Ambrosoli. Troppo facile – si diceva – vincere contro una parte politica decaduta dal governo regionale sotto le accuse di uno scambio mafioso di voti. Troppo facile – pensavano. E pensavano male.

Tant’è che mentre nel sottobosco lombardo si vive una primavera di giovani attivi, preparati e consapevoli (vengono in mente i ragazzi di Stampo  Antimafioso, per fare un esempio) il centrosinistra ha balbettato qualche ovvietà di cortesia sulla mafia che è brutta, sporca e cattiva poi qualche pensierino di memoria e carità e speravano che bastasse così. E non è bastato.

Alla fine nella Lombardia leghista qualche giorno fa Bobo Maroni ha comunque deciso di istituire una Commissione Antimafia (ex post, si direbbe) aprendo uno spazio di azione possibile. Verrebbe da pensare che i partiti (tutti i partiti) con il centrosinistra in testa colgano l’occasione per scaldare i propri uomini migliori e per chiedere ad Umberto Ambrosoli di guidare la praticata diversità e discontinuità conclamate tante volte su questo tema, ci si aspetterebbe un “tirare su le reti” delle esperienze sociali di tutti questi anni per cogliere l’eccellenza. E invece? E invece le nomine che trapelano non prevedono Ambrosoli e nemmeno un piano a lunga scadenza. E tutti qui ci auguriamo che non sia così. Perché perseverare è diabolico, no?