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Roberto Scarpinato

Roberto Scarpinato: «voto no a questa Costituzione alternativa e antagonista»

Con la riforma si introduce una Costituzione alternativa e antagonista
di Roberto Scarpinato*

Il mio dissenso nei confronti della riforma costituzionale è dovuto a vari motivi che, per ragioni di tempo, potrò esplicare solo in piccola parte.
In primo luogo perché questa riforma non è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini.
Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione.
Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’articolo 58 della Costituzione vigente che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Nella diversa organizzazione del potere prevista dalla riforma, questo potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali.
Poiché, come diceva Hegel, il demonio si cela nel dettaglio, questo dettaglio – se così vogliamo impropriamente definirlo – racchiude in sè e disvela l’animus oligarchico e antipopolare che – a mio parere – attraversa sottotraccia tutta la riforma costituzionale, celandosi nei meandri di articoli la cui comprensione sfugge al cittadino medio, cioè a dire alla generalità dei cittadini che il 4 dicembre saranno chiamati a votare.
I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, questione sulla quale si può concordate in linea di principio, ma glissano su un punto essenziale: Perché pur riformando il Senato avete ritenuto indispensabile espropriare i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori?
Il bicameralismo così come lo volete riformare non poteva funzionare altrettanto bene lasciando intatto il diritto costituzionale dei cittadini di eleggere i senatori?
Perché questo specifico punto della riforma è stato ritenuto tanto essenziale da determinare addirittura l’epurazione dalla Commissione affari costituzionali dei senatori del Pd – Corradino Mineo e Vannino Chiti – che si battevano per mantenere in vita il diritto dei cittadini di eleggere i senatori?
Forse uno degli obiettivi che si volevano perseguire, ma che non possono essere esplicitati alla pubblica opinione, era proprio quello di restringere gli spazi di partecipazione democratica e di estromettere il popolo dalla macchina dello Stato?
Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza?
Questo travaso di potere dai cittadini alle oligarchie di partito non riguarda solo il Senato, ma anche la Camera dei Deputati e viene realizzato mediante sofisticati meccanismi che sfuggono alla comprensione del cittadino medio.
La nuova legge elettorale nota come l’Italicum, che costituisce una delle chiavi di volta della riforma, attribuisce infatti ai capi partito e ai loro entourage il potere di nominare ben cento deputati della Camera, imponendoli dall’alto senza il voto popolare.
Questo risultato viene conseguito mediante il sistema dei capilista bloccati inseriti di autorità nelle liste elettorali presentate nei 100 collegi nei quali si suddivide il paese, e che vengono eletti automaticamente con i voti riportati dalla lista, senza che nessun elettore li abbia indicati. Gli elettori potranno esprimere un voto di preferenza per un altro candidato oltre il capo lista, ma i voti di preferenza così espressi saranno presi in considerazione solo se lista da loro votata avrà ottenuto più di cento deputati in campo nazionale, perché i primi cento posti sono bloccati per le persone “nominate” dai gruppi dirigenti del partito in base a particolari vincoli di fedeltà.
Così per formulare un esempio, se una lista ottiene un totale nazionale di voti pari a 100 deputati, nessuno dei candidati scelti dagli elettori dal 101 in poi con il voto di preferenza potrà essere eletto alla Camera, perché tutti i posti disponibili sono stati esauriti.
Ora poiché il premio di maggioranza previsto dall’Italicum attribuisce al partito vincitore delle elezioni 340 deputati su 630, tutti i partiti della minoranza potranno portare alla Camera nel loro insieme complessivamente 290 deputati, e, quindi, ciascuno solo una quota di deputati intorno a 100 o ad un sottomultiplo di cento.
Il che significa che entreranno alla Camera per le minoranze solo i capilista bloccati, nominati dai capi partiti. Nessuno o quasi dei candidati scelti dagli elettori oltre i cento con i voti di preferenza, farà ingresso in Parlamento.
Ne consegue che ben due terzi dei cittadini italiani votanti, tanti quanti sono rappresentati dalla somma dei partiti della minoranza nell’attuale panorama tripolare nazionale, saranno di fatto privati del diritto di scegliere i propri rappresentanti alla Camera.
Se questa è la sorte riservata ai cittadini elettori delle minoranze, è interessante notare come il congegno dei cento capilista bloccati, unito ad altri, consegua poi l’ulteriore risultato antidemocratico di determinare una distorsione della rappresentanza parlamentare anche nel partito di maggioranza, e di realizzare una sostanziale abolizione della separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo.
Per spiegare come ciò verifichi, occorre comprendere come opera il combinato disposto della riforma e dell’Italicum.
L’articolo 2 comma 8 dell’Italicum stabilisce: “I partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Come è stato osservato, sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
Ciò posto, tenuto conto che, come accennato, 1’Italicum attribuisce alla medesima oligarchia di partito che esprime il leader della forza politica candidato a capo del governo, la possibilità di nominare cento deputati della Camera, è evidente che tale gruppo oligarchico nominerà capilista, e quindi deputati ipso facto, tutti i componenti del gruppo ed i fedelissimi del leader. Si tratta di un numero di deputati che già di per sè attribuisce al futuro capo del governo la Golden share per il controllo della maggioranza alla Camera dei deputati, perché equivale a circa un terzo dei deputati eleggibili dal partito. Qualunque studioso di diritto societario sa bene che l’amministratore delegato di una azienda che detiene un terzo della quota azionaria, è in grado di controllare l’intera azienda. Ma non finisce qui. Il leader futuro capo del governo ed il suo entourage dopo avere nominato 100 deputati, tanti quanti sono i collegi elettorali del paese, sono gli stessi che formano la lista degli altri candidati non bloccati, per i quali gli elettori hanno la possibilità di esprimere una preferenza o due a condizione che si votino candidati di sesso diverso.
La riforma costituzionale non prevede alcuna norma che imponga (così come, ad esempio, l’art. 21 della Costituzione tedesca) che l’ordinamento interno dei partiti debba essere conforme ai principi fondamentali della democrazia e che garantisca, di conseguenza, una selezione democratica dei candidati da inserire nelle liste elettorali. Dunque la stessa oligarchia partitica che elegge se stessa con il sistema dei 100 capilista bloccati, ha la possibilità di cooptare, inserendoli nella lista dei candidati votabili, solo personaggi ritenuti affidabili e obbedienti, escludendo dalla lista gli indipendenti e gli esponenti delle opposizioni interne, oppure relegandoli in posizioni marginali.
Ma non finisce qui. L’Italicum ha in serbo un altro congegno a disposizione delle oligarchie di partito per selezionare persone da cooptare nella maggioranza parlamentare del futuro capo del governo. Si tratta della possibilità di candidare la stessa persona in ben dieci diversi collegi contemporaneamente. Il candidato eletto in più collegi deve scegliere il collegio che preferisce. In quello in cui rinuncia, al suo posto viene eletto il candidato che ha ottenuto più voti di preferenza dopo di lui. Il gruppo oligarchico che esprime il leader futuro capo del governo ha in questo modo la possibilità di neutralizzare eventuali candidati espressi dai territori e ritenuti non affidabili, stabilendo che il candidato eletto in più circoscrizioni e fedele alla leadership, scelga la circoscrizione nella quale altrimenti al suo posto verrebbe eletto il candidato non gradito, che viene così escluso dalla Camera.
Grazie a questi congegni elettorali, Io stesso gruppo oligarchico che designa come capo del Governo il capo del partito di maggioranza, acquisisce la possibilità di controllare contemporaneamente sia il Governo che la Camera dei deputati.
Si realizza così un continuum tra Camera dei deputati e Governo espressione entrambi dello stesso gruppo oligarchico che abolisce di fatto la separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo, e la Camera si trasforma da organo espressione della sovranità popolare che controlla il governo dando e revocando la fiducia, in Camera di ratifica delle iniziative legislative promosse dal Capo del Governo, il quale è allo stesso tempo capo del partito di maggioranza.
Il capo del Governo/capopartito oltre ad avere una supremazia di fatto sulla Camera nei modi accennati, ha anche una supremazia istituzionale in quanto la riforma gli attribuisce il potere di dettare l’agenda dei lavori parlamentari con il meccanismo delle leggi dichiarate dal Governo di urgenza che devono essere approvate entro 70 giorni.
Interessante notare che la stessa corsia preferenziale non è prevista per le leggi di iniziativa parlamentare, così che il governo è in grado di colonizzare ancor di più l’attività legislativa del parlamento.
Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.
E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel paese, assommando i voti di due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del governo.
Grazie alla lampada di Aladino del combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico autoreferenziale in grado di auto cooptarsi prescindendo in buona misura nei modi accennati dai voti di preferenza espressi da una minoranza del paese, pari a circa un terzo dei votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il gestore oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e del Governo.
Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido contro bilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti, e via elencando. Si pongono così le premesse per realizzare uno spoil system generalizzato, finalizzato a garantire l’autoriproduzione del gruppo oligarchico mediante la nomina ai vertici degli apparati che contano solo persone di provata consonanza politica e fedeltà.
Tramite questi e molti altri sofisticati meccanismi che per ragioni di tempo non posso spiegare, si pongono così a mio parere le premesse per una transizione occulta da un repubblica parlamentare imperniata sulla sovranità popolare, sulla centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri, ad un regime oligarchico nel quale il potere reale si concentra nelle mani di una oligarchia che occupa il cuore nevralgico dello stato.
Per giustificare la sostituzione della Costituzione vigente con una nuova Costituzione, i promotori della riforma si sono appellati ad argomenti che si rivelano non ancorati alla realtà e che, proprio per questo motivo, suscitano, a mio parere, serie perplessità, giacché se le ragioni della riforma
dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare.
Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della politica e sarebbe necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese. Quanto all’inconsistenza del primo argomento – cioè lo scopo di tagliare i costi della politica – non ritengo di dovermi soffermare. La Ragioneria dello Stato in una relazione trasmessa al Ministro per le riforme in data 28 ottobre 2014 ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a 57,7 milioni di curo, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della corruzione, i costi della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia.
Il secondo argomento dei sostenitori del Sì è – come accennavo – che la riforma è necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese, in quanto il bicameralismo paritario determina un patologico rallentamento del processo legislativo, ed in quanto l’attuale assetto costituzionale impedisce una governabilità del paese agile, flessibile, necessaria per reggere le sfide della globalizzazione.
Se questo è lo scopo dichiarato, non risulta che siano stati indicati dai fautori del Sì i problemi del paese che sarebbero stati causati in passato dalla farraginosità dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione vigente e che, invece, troverebbero immediata soluzione con la riforma della Costituzione.
Forse la completa assenza di una politica industriale che perdura da oltre un quarto di secolo e a causa della quale dal 2008 ad oggi sono passati al capitale straniero più di 500 marchi storici di tutti i settori strategici dell’industria nazionale?
Dall’elettronica, alle automobili, alle comunicazioni, agli elettrodomestici, alle ferrovie, all’aerospaziale, all’agroalimentare, alla moda, l’elenco dei marchi passati al capitale straniero dà la sensazione di una silenziosa Caporetto nazionale: Pirelli, Pininfarina, Indesit, Ansaldo Breda, Italcementi; Edison, Buitoni, Parmalat, Fendi, Bulgari, Gucci, Valentino, etc.
Forse la disoccupazione giovanile che raggiunge livelli record in ambito europeo e l’emigrazione all’estero di centinaia di migliaia di giovani laureati che nel nostro paese non hanno alcun futuro?
Forse la gigantesca evasione fiscale (la terza del mondo dopo Messico e Turchia) con un mancato introito per le casse dello stato che mette in ginocchio l’erogazione dei servizi sociali?
Ciascuno può allungare a piacimento la lista dei gravi problemi nei quali versa il paese e che lo stanno avvitando in una spirale di declino che sembra senza fine, e stilare dal suo punto di vista una diversa gerarchia della gravità di tali problemi.
Ma pur nella diversità delle opzioni, un fatto è certo: nessuno di questi problemi è addebitabile al bicameralismo paritario e alla Costituzione del 1948. Una classe dirigente che si è rivelata inadeguata a reggere le sfide della complessità e che si è resa responsabile del declassamento economico e sociale del paese, ora tenta di scaricare le proprie responsabilità sul capro espiatorio di una Costituzione del 1948 che nulla ha da spartire con le cause della crisi economica.
Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera dei Deputati ed il Senato, quando una delle due camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati dall’altra.
In questa legislatura sono state sino ad oggi approvate 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. I tempi medi approvazione delle leggi sono i seguenti: ogni legge ordinaria viene approvata in media fra Camera e Senato in 53 giorni; ogni decreto viene convertito in legge dalle due Camere in 46 giorni; e ogni legge finanziaria passa, con la “doppia conforme”, in 88 giorni.
Se una legge si incaglia in parlamento non è per colpa del pur discutibile bicameralismo paritario: ma dei dissensi politici dentro le coalizioni di maggioranza. E’ pur vero che vi sono leggi che invece sono state approvate in tempi molto lunghi. Ma se si approfondisce l’analisi si comprende bene che le ragioni di questi tempi lunghi non sono attribuibili al bicameralismo paritario, ma a ben altre ragioni di ordine politico non sempre commendevoli. La legge sulla corruzione, per esempio, ha ottenuto il via libera dal Parlamento dopo ben 1546 giorni.
Dunque ricapitolando le ragioni addotte dai sostenitori del Sì per sostenere la necessità di questa riforma non trovano riscontro nella realtà.
Possiamo concludere che non è affatto vero che esiste una crisi di governabilità del paese che è una concausa importante della grave crisi economica nella quale ristagniamo?
Non possiamo affatto sostenerlo.
Anzi dobbiamo ammettere che esiste certamente una reale grave crisi di governabilità che ha causato ed aggrava la crisi. Quel che merita riflessione, dal mio punto di vista, è che si addebita la crisi di governabilità alla Costituzione vigente e si tacciono invece alla pubblica opinione le vere cause strutturali di tale crisi di governabilità, che possono essere ignote al cittadino comune, che possono essere sconosciute ai tanti giuristi in buona fede che non conoscono quale sia il reale funzionamento della macchina del potere oggi, ma che, invece, non possono essere ignote a coloro che hanno ideato questa riforma.
Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso?
La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. In assenza di questa fondamentale cassetta degli attrezzi, non è possibile governare la politica economica di un paese.
L’esempio più evidente si trae dall’esperienza degli strumenti messi in campo dall’amministrazione americana per gestire e superare la crisi sistemica verificatasi dopo l’esplosione della bolla dei mutui subprime.
L’amministrazione statunitense ha contemporaneamente azionato la leva della potestà monetaria autorizzando la Fed ad iniettare ogni mese 80 miliardi di liquidità nell’economia reale, la leva della sovranità valutaria svalutando il dollaro rispetto ad altre monete, la leva infine della potestà di bilancio, finanziando con il deficit di bilancio statale politiche di spesa per il rilancio dell’economia. Solo grazie a tali manovre, l’economia statunitense è uscita dal guado. Veniamo ora al nostro paese. Perché il governo italiano nello stesso periodo non ha azionato le stesse leve felicemente azionate dall’amministrazione statunitense? Forse perché ha commesso un errore di diagnosi? Perché ha ritenuto di dovere seguire un’altra strategia? No, semplicemente perché non ha potuto.
Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo dell’economia del sistema Italia – potestà monetaria, potestà valutaria, potestà di bilancio – non sono più azionabili dal governo italiano essendo state cedute ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce, componenti insieme al Fondo monetario internazionale della c.d. Troika, santuario del pensiero unico neoliberista.
In altri termini il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come sostengono i fautori del Sì, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli organi prima menzionati – la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il Fondo monetario internazionale) – privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario.
Connessione questa dimostrata in modo inequivocabile dalla biografia di tanti soggetti che in tali organi hanno rivestito e rivestono ruoli decisionali strategici e che provengono dalle strutture apicali delle più grandi banche di affari internazionali, o che a fine del loro mandato vengono assunti da tali banche e da potenti multinazionali come consulenti o top manager.
Non risponde a realtà dunque, come affermano i sostenitori del Sì, che la politica ha perduto il controllo sull’economia a causa dell’inefficienza delle procedure decisionali previste dall’attuale Costituzione che, dunque, sarebbe bene riformare votando Sì al prossimo referendum del 4 dicembre.
La politica, o meglio la democrazia, ha abdicato al suo ruolo, quando ha consegnato gli strumenti della sovranità a ristrette oligarchie arroccate in centri decisionali impermeabili alla volontà popolare, ma fortemente permeabili ai diktat dei mercati, o meglio alle potenze economiche che governano i mercati.
Una esemplificazione concreta e recente dei risultati di questa abdicazione della politica al potere economico e dei modi nei quali oggi viene gestito il potere reale si ricava dall’esame della lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il Presidente della Bce inviò al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo ed il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare.
Dalla riforma della legislazione sul lavoro, alla riforma della contrattazione collettiva, alla riforma delle pensioni sino alle privatizzazioni e alla riforma della Costituzione, è una summa del pensiero e delle strategie neoliberiste.
E’ impressionante verificare a posteriori come quell’agenda politica sia stata puntualmente realizzata – dalla riforma Fornero sino al Jobs Act – dai tre governi che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi, e da maggioranze parlamentari composte in larga misura da persone nominate da ristretti vertici di partito.
Quel che appare ancor più significativo è che in quella stessa lettera del 5 agosto 2011, il Presidente della Bce sollecitava anche una riforma della seconda parte della Costituzione che è stata realizzata nel 2012 nella indifferenza e nella inconsapevolezza della sua reale portata, della Opinione pubblica e del mondo dei giuristi.
Mi riferisco a quell’art. 81 della Costituzione che ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio, norma di matrice culturale neoliberista.
Una norma che ha introdotto un vero e proprio cavallo di Troia all’interno della cittadella costituzionale, perché impedisce di finanziare in deficit politiche economiche espansive di tipo keinesiano per superare le fasi di crisi aumentando la spesa pubblica, ed impone quindi come unica soluzione alternativa obbligata il taglio della spesa pubblica ai servizi dello Stato sociale, determinando così l’impoverimento delle masse popolari, la riduzione della loro capacità di spesa, la caduta della domanda aggregata interna e l’avvitamento della spirale recessiva.
La vicenda in parola dimostra quanto siano infondate tutte le argomentazioni dei sostenitori del Sì secondo cui la Costituzione va riformata perché quella attuale rallenta l’iter legislativo e impedisce la governabilità.
Tutte le leggi indicate dalla BCE sono state approvate in tempi rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare. La Salva-Italia di Monti e Fornero fu approvata in appena 16 giorni.
La legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura in cinque mesi (con quattro votazioni Camera-Senato-Camera-Senato).
La vicenda esposta costituisce una concreta esemplificazione del reale modo di essere del potere oggi e di come oligarchie partitiche insediate al governo e in grado di controllare il parlamento, possano divenire la cinghia di trasmissione della volontà politica di centri decisionali esterni ai luoghi della rappresentanza popolare, attraverso itinerari informali che si sottraggono alla visibilità democratica.
Quella che ho appena esposto non è solo una vicenda del passato ma è una simulazione di come sarà esercitato il potere in futuro {se questa riforma costituzionale dovesse essere definitivamente approvata.
Non si tratta di un processo alle intenzioni, non si tratta di dietrologia.
Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese, rimediando: “l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”, “le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale l’elevata conflittualità”.
In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al Governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati.
In nome della esigenza di una totale subordinazione della politica all’economia. Il migliore inequivocabile riscontro che questo sia il reale obiettivo della riforma costituzionale, viene dalla sua sponsorizzazione entusiastica da parte delle più potenti banche di affari internazionali e delle altre cattedrali della finanza internazionale che in questi ultimi mesi sono scese in campo con tutta la loro forza di pressione per sostenere il fronte del sì, e per intimidire gli indecisi minacciando sfracelli economici se la riforma dovesse essere bocciata dai cittadini il 4 dicembre. E mi pare meritevole di riflessione che queste finalità della riforma benché siano state dichiarate nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, non siano mai state utilizzate per sostenere le ragioni del Sì nel corso di tutta questa campagna referendaria.
Evidentemente i promotori politici della riforma ritengono controproducente proclamare a reti unificate che la riforma costituzionale risolverà tutti i problemi del paese, grazie alla fedele esecuzione delle indicazioni provenienti dalla governance europea.
l Riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.
Era il tempo in cui lo Stato non godeva di alcuna considerazione perché era considerato un instrumentum regni nelle mani dei potenti e la legge, come insegnava Gaetano Salvemini, non godeva di alcun rispetto perché era percepita come la voce del padrone.
Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è costata lacrime e sangue, come ci ricorda Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione del 1948, le cui parole pronunciate durante i lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947, sono da tenere bene a mente in questo delicato frangente della storia nel quale dovremo decidere sul futuro del paese, e mi sembrano le migliori per concludere il mio intervento: “Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno
questa nostra Assemblea costituente… credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno… che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri i cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani […] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.

* Intervento al Seminario di studi sulla Riforma della Costituzione al Palazzo di Giustizia di Palermo il 22 novembre 2016

Roberto Scarpinato scrive a Paolo Borsellino

L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.

” Caro Paolo,

oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.

E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.

Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.

Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.

Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.

Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.

E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.

Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.

Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.

Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.

Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.

Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.

Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.

Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.

Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.

E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.

Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.

Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.

Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.

E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.

Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.

Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.

Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.

Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.

E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.

Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.

Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.

Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.

Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.”

«Se non capisci come funziona il gioco grande, sarai giocato»

scarpinato

La bella intervista a Roberto Scarpinato, Procuratore Capo di Palermo:

Il vice presidente del Csm Legnini (e altri con lui) dice che i magistrati non devono impegnarsi nella campagna referendaria perché finirebbero nella contesa politica. Che ne pensa?“Mi permetto di dissentire. Forse a tanti non è sufficientemente chiaro quale sia la reale posta in gioco che travalica di molto la mera contingenza politica. A mio parere siamo dinanzi a uno spartiacque storico tra un prima e un dopo nel modo di essere dello Stato, della società e dello stesso ruolo della magistratura. Nulla è destinato a essere come prima”.
Cosa potrebbe cambiare nel futuro rispetto al passato?

“A proposito del passato mi consenta di partire da una testimonianza personale. Tanti anni fa ho deciso di lasciare il mio lavoro di dirigente della Banca d’Italia e di entrare in magistratura perché ero innamorato della promessa-scommessa contenuta nella Costituzione del 1948 alla quale ho giurato fedeltà”.E quale sarebbe questa “promessa-scommessa”?

“Quella scritta nell’articolo 3 di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Era uno straordinario programma di lotta alle ingiustizie e un invito a innamorarsi del destino degli altri. La Repubblica si impegnava a porre fine a una secolare storia nazionale che Sciascia e Salvemini avevano definito “di servi e padroni” perché sino ad allora intessuta di disuguaglianze e sopraffazioni che avevano avuto il loro acme nel fascismo e nella disfatta della seconda guerra mondiale”.

Sì, però l’attuale riforma costituzionale si occupa solo della seconda parte della Costituzione e lascia intatta la prima sui diritti. Cosa la turba lo stesso?

“La seconda parte è strettamente funzionale alla prima. Proprio per evitare che la promessa costituzionale restasse un libro dei sogni e per impedire che il pendolo della storia tornasse indietro a causa delle pulsioni autoritarie della parte più retriva della classe dirigente e del ritardo culturale delle masse, i padri costituenti concepirono nella seconda parte della Costituzione una complessa architettura istituzionale di impianto antioligarchico basata sulla centralità del Parlamento e sul reciproco bilanciamento dei poteri”.

E perché tutto questo coinvolgerebbe le toghe? Realizzare la promessa non era compito della politica?

“All’interno di questo disegno veniva affidato alla magistratura il ruolo strategico di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo”.

Un’affermazione forte… Ma di quale vigilanza parla?

“I giudici, tra più interpretazioni possibili della legge ordinaria, devono privilegiare quella conforme alla Costituzione e, se ciò non è possibile, devono “processare la legge”, cioè sottoporla al vaglio della Consulta. La magistratura italiana quindi è una “magistratura costituzionale” e, in quanto tale, la sua fedeltà alla legge costituzionale è prioritaria rispetto a legge ordinaria. È una rivoluzione copernicana del rapporto tra politica e legge di tale portata che a tutt’oggi non è stata ancora metabolizzata da buona parte della classe politica che continua a lamentare che la magistratura intralcia la governabilità sovrapponendosi alla volontà del Parlamento”.

Con la riforma Renzi questo equilibrio potrebbe saltare?

“Alcune parti di questa riforma si iscrivono in un trend più complesso. Oggi tutto ciò rischia di restare solo una storia terminale della prima Repubblica, perché quello che Giovanni Falcone chiamava “il gioco grande”, si è riavviato su basi completamente nuove. Alla fine del secolo scorso, a seguito di fenomeni di portata storica e mondiale, sono completamente mutati i rapporti di forza sociali macrosistemici che furono alla base del compromesso liberal-democratico trasfuso nella Costituzione del 1948. Lo scioglimento del coatto matrimonio di interessi tra liberismo e democrazia ha messo in libertà gli “animal spirits” del primo che ha individuato nelle Costituzioni post fasciste del centro Europa una camicia di forza di cui liberarsi”.

Gli strani buchi nella sicurezza di Scarpinato

Siamo alle solite: notizie che fanno venire i brividi.

Prima è arrivata una lettera minatoria che conteneva l’invito a “rientrare nei ranghi”, recapitata direttamente sulla sua scrivania al primo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo. Poi una scritta tracciata su una porta impolverata, proprio di fronte al suo ufficio: “accura”, scriveva la mano anonima in dialetto siciliano, ovvero “stai attento”. Adesso le misure di sicurezza del procuratore generale Roberto Scarpinato sono state potenziate: lo ha deciso venerdì il Comitato Provinciale per la Sicurezza pubblica di Palermo.

Dagli archivi del palazzo di giustizia siciliano, infatti, sono sparite le registrazioni effettuate dalle telecamere di sorveglianza negli stessi giorni in cui l’ignoto Corvo riusciva a penetrare all’interno dell’ufficio del magistrato per lasciare la missiva intimidatoria per Scarpinato. Le indagini sono affidate, per competenza, alla procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari: gli investigatori hanno acquisito le cassette che corrispondevano a dodici giorni di registrazione, nello stesso periodo in cui la lettera era stata presumibilmente depositata sulla scrivania di Scarpinato (ovvero la notte tra il 2 e il 3 settembre). Visionandole, però, gli inquirenti si sono accorti che le cassette contenevano soltanto cinque giorni di registrazione: e quando sono tornati nuovamente negli uffici palermitani, si sono resi conto del fatto che fosse rimasto materiale con soltanto 24 ore di registrazione. Solo un guasto nel sistema di videosorveglianza? O un furto operato da un infiltrato che ha praticamente colpito al cuore il Tribunale di Palermo? Se lo chiedono gli investigatori, che indagano nelle falle del sistema di sicurezza della procura.

Continua qui.

Un regalo scoppiettante

“Attenzione è pronto un regalo scoppiettante per procuratore Scarpinato e dirigente carabinieri tribunale”
28 maggio 2014
Palermo. Una lettera di minacce al procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e al dirigente dei carabinieri del tribunale è stata recapitata questo pomeriggio alla redazione dell’ANSA di Palermo. “Attenzione è pronto un regalo scoppiettante per procuratore Scarpinato e dirigente carabinieri tribunale”, si legge nella missiva firmata P.R.A., sigla finora sconosciuta.

Aggiornamento
Nuovo allarme al palazzo di giustizia di Palermo: alcuni confidenti hanno riferito di un progetto di attentato al tribunale del capoluogo siciliano. La notizia è stata confermata in ambienti giudiziari. Il Comitato provinciale per l’ordine pubblico si è riunito oggi d’urgenza per discutere l’adozione di nuove misure di sicurezza.

ANSA

La mafia dei Riina e dei Provenzano sarebbe stata debellata da un pezzo

Si offre una narrazione delle vicende di mafia che è estremamente semplificata – ha detto a Rainews il Procuratore di Caltanissetta. – Da una parte ci sono Falcone, Borsellino e gli uomini di Stato uccisi per l’affermazione della legalità. Dall’altra parte ci sono i Riina, i Provenzano, ex villici, che vengono rappresentate come icone assolute della mafia. Ma dove li mettiamo i colletti bianchi che sono capi organici della mafia? Parlo di architetti, medici, ingegneri…che sono collusi. Ma ci sono anche uomini dello Stato dei quali è stata accertata con sentenza definitiva la complicità con la mafia. Parlo di presidenti del consiglio, vertici dei servizi segreti, capi della polizia, assessori regionali. Io credo che senza questi colletti bianchi e senza gli uomini di Stato collusi, la mafia dei Riina e dei Provenzano sarebbe stata debellata da un pezzo. Non possiamo distorcere la verità e raccontare ai giovani che la mafia è solo estorsioni e spaccio, bisogna raccontare il fenomeno nella sua complessità – ha aggiunto Scarpinato. – Se noi non li aiutiamo a capire, rischiamo di fargli subire ancora la mafia, che si evolve sempre di più ed è componente del potere”.

Roberto Scarpinato

Il gioco grande e osceno della mafia

DSCF2710di Roberto Scarpinato*
In quanto Procuratore Generale mi occupo delle misure di sicurezza nei confronti dei magistrati nelle tre province di Palermo, Trapani e Agrigento. Questa parte della mia attività è divenuta sempre più impegnativa perché in questi ultimi mesi si sta registrando una straordinaria escalation di minacce, di intimidazioni che credo non abbia precedenti e che riguarda un numero crescente di magistrati. Non si tratta solo dei magistrati di cui ha dato notizia la stampa nazionale – mi riferisco per esempio a Di Matteo, agli altri pm che si occupano del processo sulla cosiddetta trattativa, ai quali in questi giorni si è aggiunta Teresa Principato, che segue le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro – ma anche di altri pubblici ministeri e di magistrati della giudicante, soprattutto quelli che si occupano delle misure di prevenzione. La mia sensazione complessiva è che all’interno dell’universo mafioso stia accadendo qualcosa, che stia lievitando una insofferenza sempre maggiore di cui occorre decifrare le motivazioni complessive. L’idea che mi sono fatto è che occorre distinguere due tipi di pericoli. Un pericolo che viene dal presente, dall’attualità della mafia della Seconda Repubblica; e un pericolo di natura diversa che viene dal passato, cioè dalla mafia della prima Repubblica. L’interagire di questi due pericoli potrebbe creare una miscela esplosiva. I pericoli che vengono dal presente e hanno, a mio parere, una causale economica.

Anche la mafia soffre la crisi
La crisi economica che attanaglia tutto il paese ha messo in grave difficoltà anche la mafia siciliana in quanto ha ridotto drasticamente le entrate derivanti dalla predazione sistematica dei fondi pubblici realizzata in mille modi, grazie anche a ramificate relazioni collusive con il ceto politico-amministrativo (manipolazione di appalti e commesse pubbliche); e le entrate derivanti dalle estorsioni “a tappeto”. Nel 2007 gli investimenti pubblici avevano raggiunto 890 milioni di euro mentre nel 2012 si sono ridotti a 351 milioni e nei primi otto mesi del 2013 a 196 milioni. Quanto alle estorsioni si va riducendo sempre di più la platea numerica dei soggetti da estorcere. Sono migliaia le imprese che hanno chiuso i battenti e altre sopravvivono a stento tra mille difficoltà. La riduzione delle entrate ha un impatto notevole sulle spese correnti di ordinaria amministrazione dell’organizzazione. Mancano i soldi per mantenere le numerose famiglie dei carcerati, per pagare la mesata della manovalanza in libertà, per finanziare le spese legali. Cresce dunque giorno dopo giorno un’insofferenza che non si manifesta solo nei confronti della magistratura accusata, per esempio, di sequestrare e confiscare imprese e beni mettendo sul lastrico centinaia di famiglie; ma anche e soprattutto – e qui sta la novità – nei confronti della stessa classe dirigente di Cosa Nostra. Nei confronti di alcuni capi un tempo ritenuti carismatici, come Messina Denaro, monta la critica di pensare solo a se stessi e ai propri affari, disinteressandosi del popolo mafioso. Ad altri capi viene mossa la critica di esser troppo deboli, incapaci di “far abbassare le corna a una magistratura troppo ringalluzzita”.

Come nella società civile legale nei momenti di crisi economica e di scontento prende corpo la richiesta di uomini forti che assumano il comando e fermentano fenomeni di spontaneo ribellismo, così nel mondo mafioso cresce la richiesta di uomini forti che mettano da parte la strategia provenzaniana della sommersione che andava bene quanto gli affari giravano per tutti; uomini forti che sappiano battere i pugni sul tavolo. Contemporaneamente, vista la mancanza di una solida e autorevole leadership, si profila il pericolo di un “rompere le fila”, cioè che ognuno si senta legittimato ad autogestire a livello individuale e in ordine sparso minacce e intimidazioni ai magistrati. Cresce anche il rischio che qualche emergente si autoproponga come l’uomo forte della situazione compiendo gesti di rottura.

Per completare il quadro telegrafico sui pericoli che vengono dal presente, aggiungerei il soffiare sul fuoco di questo scontento popolare da parte di un mondo di colletti bianchi gravitanti nel mondo dell’imprenditoria collusa o contigua che, dietro le quinte, cavalca strumentalmente la crisi additando come corresponsabile una magistratura accusata di sequestrare e confiscare imprese un tempo floride che davano lavoro portandole al fallimento. Sono accuse infondate perché le imprese erano floride solo perché venivano gestire nell’illegalità evadendo il fisco, imponendosi sul mercato con metodi mafiosi, eppure fanno presa (…).

Il boss allude al ritorno alle maniere forti
Vengo ora a esaminare i pericoli che vengono dal passato, cioè dalle minacce e dai propositi di morte di Riina di cui la stampa nazionale ha dato ampie notizie. In sostanza Riina invoca un ritorno alle maniere forti, il compimento di gesti eclatanti di rottura per dare una lezione ad una magistratura che non intende fermarsi nelle indagini. Questo imput di Riina che viene dal vertice dell’organizzazione da parte di un capo che, seppure detenuto da 24 anni, secondo le regole di Cosa Nostra non è mai decaduto dalla carica, intercetta la voglia crescente del ritorno alle maniere forti che viene spontaneamente dal basso. Al di là degli scopi immediati e reconditi di Riina, le sue parole possono dunque essere interpretate all’interno dell’organizzazione come una investitura o un’ autorevole legittimazione all’azione di coloro che premono per un ritorno alle maniere forti, spostando così l’ago della bilancia a loro favore rispetto ai “moderati”. Riina ha continuato a manifestare quei propositi di morte anche dopo avere appreso dalla stampa che le sue parole erano state ascoltate. La situazione di instabilità politica è un ulteriore fattore di incremento del rischio. Veniamo ora all’analisi delle minacce di Riina, e qui sta la parte più difficile. In questi ultimi tempi mi veniva da pensare che in questo paese è come se fossimo prigionieri del nostro passato, un passato che pesa come un’enorme zavorra sul futuro. Siamo nell’Italia del 2014, la prima Repubblica è defunta da un quarto di secolo, la seconda è agli sgoccioli, il mondo è cambiato e noi siamo ancora qui a interrogarci, a misurarci con i pericoli di una possibile ripresa della strategia stragista. Costretti dunque a vivere con la testa rivolta all’indietro, perché se volti le spalle al passato, può colpirti a morte per ragioni che vengono da lontano e che restano indecifrabili a chi ignori la storia del nostro paese, la cruenta e segreta lotta per il potere che ha segnato la storia italiana. Quando abbiamo appreso dei propositi di morte di Riina ci siamo posti alcuni interrogativi che, a mio parere, non hanno trovato sinora risposte plausibili. Il primo nasce dal fatto che quelle minacce così reiterate non sembrano avere una causale apparente adeguata. Mi spiego: le stragi del 1992-‘93 erano una reazione alla conferma nel gennaio del 1992 della condanna del maxiprocesso da parte della Cassazione. Una vendetta nei confronti dei politici che non avevano mantenuto le promesse di impunità, di Falcone e Borsellino artefici di quel processo e – secondo una tesi accusatoria in corso di verifica e nel cui merito non entro – anche uno strumento per esercitare pressioni su alcuni vertici statali per indurli a concedere benefici processuali. Ma una strage che dovesse essere compiuta ora e che dovrebbe colpire Di Matteo o qualcuno degli altri magistrati che gestiscono il processo sulla “trattativa”, che scopo avrebbe?

Ove pure quel processo dovesse concludersi con sentenze di condanna, si tratterebbe di pene detentive di pochi anni, assolutamente irrilevanti per uno come Riina che ha collezionato una serie di ergastoli. Dunque perché fermare un processo che avrebbe conseguenze processuali pratiche insignificanti per Riina? Direi di più: un’eventuale strage avrebbe effetti assolutamente contro producenti perché cristallerebbe nell’immaginario collettivo di gran parte della pubblica opinione la certezza che la strage è stata compiuta per impedire l’accertamento della verità, radicando così la certezza che la tesi accusatoria era fondata. Un boomerang quindi. Non appare plausibile poi la spiegazione che Riina non tollererebbe di essere dipinto – secondo la tesi accusatoria – come uno che avrebbe avuto rapporti sottobanco con esponenti dello Stato per condurre una trattativa, perché avere avuto quei rapporti equivarrebbe, secondo la sua mentalità, ad un atto di “sbirritudine”. Stando alla tesi accusatoria, Riina nel processo giganteggia come il grande capo che avrebbe costretto alcuni esponenti dello Stato a trattare in un rapporto di potenza a potenza, e secondo il disegno di “fare la guerra per fare la pace”. Il processo quindi non gli crea affatto un danno di immagine ma, al contrario, esalta, seppure nel male, la sua immagine. Ragionando per esclusione, tutti gli interrogativi restano aperti e per questo motivo sono a mio parere ancora più inquietanti perché non si riesce a trovare una spiegazione adeguata alla rabbia di Riina. A meno di non concludere che ci troviamo dinanzi a un comportamento irrazionale, al delirio di onnipotenza di un uomo condannato all’impotenza, e tenuto conto che non si riesce a trovare una spiegazione plausibile all’interno dello scenario processuale esistente e visibile – quello ricostruito nel processo della “trattativa” – non resta che ipotizzare che ciò che preoccupa Riina stia nel fuori scena. Cioè in un retroscena delle stragi del 1992-‘93 che non è ancora divenuto processuale, ma che si teme potrebbe divenirlo perché le indagini non si sono mai fermate e prima o poi qualche bocca che sinora è rimasta prudentemente chiusa potrebbe cominciare a parlare, soprattutto se dovesse aprirsi una fase di instabilità politico-istituzionale. Cosa si potrebbe celare di tanto misterioso e terribile nel fuori scena rimasto finora segreto da turbare i sonni di Riina al punto di incitare ripetutamente a compiere gesti eclatanti per scongiurare l’ evento della sua possibile emersione? A questo punto il discorso si fa complicato, perché non può essere più portato avanti mettendo in campo solo personaggi come Riina, Provenzano, ma occorre chiamare in causa quello che Falcone definì il “gioco grande” di cui la mafia ha sempre fatto parte.

La lotta per il potere si combatte nell’ombra
Falcone coniò quell’espressione per definire il gioco grande del potere dopo il fallito attentato all’Addaura del 1989, quando si rese conto che accanto ai mafiosi dell’ala militare avevano agito per il suo omicidio menti raffinatissime esterne alla mafia, i cui interessi convergevano con quelli della mafia. Falcone sapeva benissimo, sin da quando indagando sul riciclaggio internazionale si era imbattuto nel caso Sindona, nella P2, nell’omicidio Ambrosoli, nell’omicidio Calvi, che la lotta per il potere in Italia non si è svolta solo alla luce del sole, ma anche e soprattutto nell’ombra, utilizzando in alcuni momenti cruciali l’omicidio politico e le stragi, avvalendosi talora della mafia come braccio armato e della causale mafiosa come copertura per celare sottostanti causali politiche che dovevano restare segrete. Non esiste un solo paese europeo la cui storia sia segnata come quella italiana da una catena così lunga di stragi, omicidi politici, progetti eversivi dall’inizio della Repubblica al 1993. In questo gioco grande e sanguinoso del potere, la mafia ha svolto spesso un ruolo di coprotagonista in sinergia con altri poteri: pezzi deviati dello Stato, massoneria segreta, destra eversiva. Non è un caso che il capo mafia Luigi Ilardo, assassinato pochi giorni prima che iniziasse a collaborare con la magistratura rivelando i retroscena delle stragi del 1992-‘93 avesse anticipato che quel che era avvenuto era un discorso che veniva da lontano, aggiungendo che molti attentati in passato attribuiti alla mafia avevano causali complesse al di là della mafia (…).

Lo stragismo non segna solo la fine convulsa della prima repubblica nel 1992-1993, ma anche il suo inizio. La Prima Repubblica viene tenuta a battesimo dalla strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 che segna l’inizio della strategia della tensione e vede interagire gli stessi personaggi che saranno all’opera nei decenni successivi in altre stragi e progetti eversivi: mafiosi, mandanti politici, pezzi deviati dello Stato, massoni ed esponenti della destra eversiva. Da allora il gioco grande non ha mai subito interruzioni e ha visto spesso tra i suoi coprotagonisti la mafia. Nel 1970 la mafia viene coinvolta, come hanno raccontato Buscetta e Calderone, nel progetto del golpe Borghese che vide scendere in campo la stessa formazione del 1947. E ancora viene coinvolta nella strategia della tensione che insanguinerà il paese dal 1969 in poi. Alla fine del 1969 Cosa Nostra aveva programmato una serie di attentati che dovevano essere eseguiti con ordigni esplosivi da collocare in varie città italiane come Palermo, Catania ed Enna (…).

Potrei citare molti altri esempi, mi limito solo a ricordare che la strage del Rapido 904 consumata il 23 dicembre 1984 con 15 morti e 267 feriti, ebbe tra i suoi artefici Pippo Calò, i cui rapporti con la massoneria e con la destra eversiva sono stati processualmente provati. In tante, in troppe di queste stragi si sono verificati depistaggi e coperture degli esecutori materiali da parte di esponenti delle istituzioni certificate anche in sentenze definitive. È certo inquietante prendere atto che anche nelle indagini per le stragi del 1992-’93 si sono verificati depistaggi che ricordano quelli del passato: la sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino, l’inquinamento con falsi collaboratori delle indagini sulla strage di via D’Amelio.

Perché ho voluto tracciare questo telegrafico excursus del gioco grande del potere e del protagonismo della mafia in questo gioco?

Perché vi sono molti elementi che inducono a ritenere che anche lo stragismo del 1992-‘93 sia stato un gioco grande nel quale si sono saldati convergendo – come in passato – interessi mafiosi e interessi di soggetti esterni che nel disegno stragista si sono inseriti orientandolo nei tempi, nei modi, negli obiettivi, in modo da conseguire obiettivi che inglobavano quelli mafiosi, ma avevano un respiro e un orizzonte più ampio.

Una “nuova strategia della tensione in Italia”
Mi limito a indicare alcuni elementi che peraltro sono noti agli specialisti della materia. Il 4 marzo 1992, otto giorni prima dell’omicidio di Salvo Lima, Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini per la strage di Bologna e detenuto in carcere, scrive una lettera al giudice istruttore Grassi il cui titolo è “Nuova strategia della tensione in Italia – Periodo marzo – luglio 1992”. Ciolini anticipa che nel periodo marzo-luglio sarebbero avvenuti fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico Dc ed eventuale omicidio del futuro presidente della Repubblica. Pochi giorni dopo l’omicidio Lima da lui preannunciato, il 18 marzo Ciolini rivela in un altro appunto che il piano era stato deciso da esponenti di massoneria, politica e mafia. (…)

Nella parte finale dell’appunto scrive: “Creare intimidazione nei confronti di quei soggetti e Istituzioni stato (forze di polizia ecc.) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”.

Si tratta non solo di una straordinaria anticipazione della tempistica e degli obiettivi della fase stragista che si consuma nel 1992 in Sicilia, ma anche dell’ anticipazione del successivo trasferimento della strategia stragista fuori dalla Sicilia, nel Centro Nord e della spiegazione dei motivi.

I registi del piano avevano previsto che dopo la prima fase, si doveva distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, creando un pericolo diverso e maggiore. A tale fine le stragi dovevano essere effettuate al Centro Nord, dovevano essere attribuite non più alla mafia ma a fantomatiche sigle eversive (e infatti vengono rivendicate con la sigla Falange armata) portando il terrore in tutto il paese con effetti destabilizzanti dell’intero sistema politico che si voleva portare al collasso. Come faceva Ciolini a sapere con così largo    anticipo tutto quanto sarebbe poi in effetti accaduto? Pochi giorni dopo l’omicidio Lima, il 19 marzo 1992 veniva pubblicato su una rivista vicina ai servizi segreti un articolo nel quale si rivelava che quell’omicidio era solo l’incipit di una strategia della tensione che aveva obiettivi e ispiratori politici. L’articolo descriveva un piano di destabilizzazione la cui esistenza e configurazione sarebbero state rivelate nei medesimi termini, solo alcuni mesi dopo, da alcuni collaboratori di giustizia. Costoro dichiaravano che verso la fine del 1991 si erano tenute delle riunioni tra i vertici regionali di Cosa Nostra nelle campagne di Enna in esito alle quali si era deciso di aderire a un progetto di destabilizzazione politica che aveva tra i suoi artefici esponenti della massoneria deviata, del mondo politico e della imprenditoria (…).

Chi e perché aveva deciso che Falcone, invece di essere facilmente ucciso a Roma con colpi di arma da fuoco, doveva essere assassinato a Palermo con un’enorme quantità di esplosivo in grado di uccidere insieme a lui anche un numero elevato di altre vittime? Nessun collaboratore è stato mai in grado di spiegare il motivo di quel cambio di strategia e chi la suggerì. Riina è tra i pochissimi a sapere la verità. Proseguendo nella indicazione degli elementi di emersione del gioco grande sotteso alla strategia stragista, possiamo ricordare che il 21 e 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa vicina ai servizi sopra menzionata anticipò in due articoli che stava per verificarsi un bel botto esterno per influenzare l’elezione del presidente della Repubblica in corso di svolgimento.

Giovanni Brusca, uno degli esecutori materiali della strage di Capaci, ha dichiarato in dibattimento che la tempistica della strage aveva consentito di conseguire l’obiettivo di mettere fuori gioco Giulio Andreotti dalla corsa alla presidenza della Repubblica.

I quesiti senza risposta nel biennio delle bombe
Chi aveva suggerito a Riina oltre che le modalità esecutive anche la tempistica? Riina sa la verità. E ancora è interessante constatare come dopo che Claudio Martelli, Ministro della Giustizia, aveva varato il decreto Falcone che introduceva il 41 bis anche per i mafiosi, si siano mossi contro di lui contemporaneamente i mafiosi che progettarono un attentato, ed alcuni esponenti della P2 che iniziarono una campagna di stampa nei suoi confronti rivelando circostanze decisive circa il suo coinvolgimento nella vicenda del Conto Protezione che determinarono l’inizio di un procedimento penale e le sue conseguenti dimissioni. Si tratta di una singolare coincidenza di tempi o di una sinergia non casuale? Poco dopo le dimissioni giunse una telefonata della Falange Armata con la quale si comunicava che Martelli doveva essere grato che per lui era stato perseguita la via politica anziché quella militare. E ancora: chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha rivelato Gaspare Spatuzza, assistette al caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per la strage di via D’Amelio? Perché dopo il rapimento del figlio del collaboratore di Giustizia Santino Di Matteo, la moglie del Di Matteo in una conversazione intercettata del 14.12.1993 scongiurò il marito di non parlare degli “infiltrati” nella strage di via D’Amelio? Chi erano quegli infiltrati? E chi suggerì di scegliere per gli attentati consumati a Roma nella notte tra il 27 e il 28 luglio le Chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro? È un caso che quelle chiese avessero il nome di battesimo di Giovanni Spadolini e di Giorgio Napoletano, rispettivamente presidenti del Senato e della Camera? È un caso che Spadolini nel 1992 avesse fatto riferimento in varie interviste a un resoconto dei servizi segreti su rapporti intessuti di recente tra la mafia siciliana e alcuni settori della vecchia e nuova P2 e svesse indicato i vertici P2 come un grave pericolo per la democrazia? Come si spiega che nella stessa notte si verificò un black out dei centralini di alcune sedi di governo? Perché l’allora premier Carlo Azeglio Ciampi maturò, come lui stesso ha dichiarato, la convinzione che fosse in atto un progetto di colpo di Stato, convocando in via straordinaria il Consiglio supremo di difesa? Cosa si cela dietro lo strano suicidio in carcere di Antonino Gioé, esecutore della strage di Capaci, depositario di scottanti segreti e in contatto con i servizi, il 29.7.1993 due giorni dopo le stragi di Milano e Roma? É vero che, come afferma il collaboratore Di Matteo, Gioè stava per iniziare a collaborare con la giustizia? Perché e chi dispose un’esercitazione militare tra il 9 e l’11 novembre 1993 per l’ipotesi di guerra civile? E cioè proprio nello stesso periodo in cui veniva progettata la strage allo stadio Olimpico? Potrei continuare con decine di quesiti inquietanti, ma mi fermo qui.

Credo che quanto ho sin qui frammentariamente ricordato dia il senso di un possibile fuori scena, di un “gioco grande” che da sempre aleggia intorno alle ricostruzioni processuali sin qui effettuate come una matrioska più grande che contiene matriosche più piccole.

Un gioco grande che qualcuno teme possa di-svelarsi e irrompere sulla scena processuale se dovesse cedere qualche punto del sistema che sino a oggi e riuscito a blindare nel segreto i retroscena della stagione 1992-‘93.

Spero fortemente che abbiano ragione coloro che ritengono che le minacce di Riina siano solo lo sfogo e il delirio di onnipotenza di un uomo ridotto all’impotenza. Perché se così invece non fosse, quelle minacce suonerebbero come una sorta di chiamata alle armi per tutti coloro che come Riina e più di Riina hanno interesse a che questa parte della storia resti per sempre segreta, e che sulla scena restino solo un’icona assoluta del male di mafia come Riina e solitari paladini del bene come Falcone e Borsellino, da celebrare nelle cerimonie ufficiali senza porsi troppe domande scomode alle quali non si può dare risposta. A quelle domande la magistratura palermitana continuerà a cercare di dare risposta, costi quel che costi.

*Intervento di Roberto Scarpinato al convegno “A che punto sono la mafia e l’antimafia? Noi stiamo con Nino Di Matteo” (Palermo 12 gennaio 2014)

La verità

È un bene raro e prezioso. Per questo qualcuno tende a risparmiarla. Sugli anni 1992-1993, sulle conversazioni tra pezzi che dovrebbero combattersi piuttosto che dialogare. E, se il reato non c’è, sui processi politici che si erano aperti e quando, come e per mano di chi si sono incagliati.
Ma se quel qualcuno è lo Stato diventa tutto più difficile. Una firma per chiarezza forse vale la pena metterla. Anche se la narcotizzazione vacanziera non aiuta. Perché lo spiega bene Andrea Camilleri:
Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

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Solidarietà a Roberto Scarpinato

L’infaticabile Jole Garuti mi invia un appello che sottoscrivo e rilancio:

Cari soci e amici,
più di 320 magistrati (le adesioni continuano a pervenire) hanno firmato la seguente lettera da inviare al CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) come solidarietà al magistrato Roberto Scarpinato che il 19 luglio a Palermo ha letto una lettera indirizzata a Paolo Borsellino, in cui c’è una analisi molto chiara della situazione ion cui ci troviamo a proposito della cosiddetta e già in parte provata trattativa fra lo Stato e la mafia. Per questa sua ‘colpa’ è stato chiesto il trasferimento di Scarpinato ad altra sede.
E’ ora possibile anche ai cittadini sottoscrivere tale lettera.

Va inviata a marco.imperato@giustizia.it e info@centrostudisao.org

Sul sito www.centrostudisao.org trovate la lettera di Scarpinato a Borsellino.
Di seguito invece copio il documento dei magistrati.

Cari saluti
Jole Garuti

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SOTTOSCRIVO LA PRESENTE LETTERA

Chi ha memoria storica e consapevolezza culturale sa che la storia del nostro Paese è anche la storia di poteri criminali che ne hanno condizionato lo sviluppo sociale, politico ed economico.

Chi ha una coscienza morale e professionale e il coraggio di non rassegnarsi a quello che è accaduto ed accade nel nostro Paese, ha il dovere civico di associare il proprio impegno professionale e culturale alla difesa intransigente dei valori Costituzionali e di opporsi al rischio di un progressivo svuotamento dello Statuto della Cittadinanza che, lasciando spazio al crescere di una rassegnata cultura della sudditanza, determina il degrado del vivere comune a causa del proliferare di furberie, sopraffazioni, arroganze, servilismi e cortigianerie interessate.

Chi, oltre a possedere quella coscienza e quel coraggio, può spendere la credibilità di una vita passata a combattere i poteri criminali, ha il dovere e il diritto di marcare la differenza tra l’agire autenticamente democratico e quello di chi si adatta alle situazioni e preferisce il vivere mediocre che supporta e stabilizza le ingiustizie e le mistificazioni. E’ il dovere della Verità e della conoscenza ciò che qualifica la statura etica della persona, qualunque sia la sede o il contesto in cui si concretizza la sua esistenza.

La Verità e la Giustizia insite nella coscienza, nel coraggio, nell’impegno di ogni cittadino non possono essere fonte di equivoci o divenire espressione di un sapere egoistico in quanto socialmente limitato. Esse devono, invece, manifestare il pregio della chiarezza, della trasparenza, del riconoscimento, anche ricordando quanto la fatica giurisdizionale ha accertato nell’interesse primario del sapere collettivo.

Il 19 Luglio 2012 Roberto Scarpinato ci ha ricordato la coscienza, il coraggio, l’impegno per la Giustizia e la Verità di Paolo Borsellino, il quale, esponendosi in prima persona, denunziò pubblicamente più volte come per mobilitare tutte le migliori risorse della Società Civile nel contrasto alla mafia, fosse indispensabile ripristinare la credibilità dello Stato minata da quanti, pur ricoprendo cariche pubbliche, conducevano tuttavia vite improntate a quello che egli definì il “puzzo del compromesso morale che si contrappone al fresco profumo della Libertà”.

A vent’anni dalla strage di Via D’Amelio restano, purtroppo, attuali le sofferte parole che Paolo Borsellino, esempio illuminante di uomo di Stato, dedicò a questo tema e ricordate da Roberto Scarpinato: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita … Che cosa si è fatto per dare allo Stato … una immagine credibile ? … La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinchè lo Stato diventi più credibile, perchè noi ci dobbiamo identificare di più in queste Istituzioni”. “No, io non mi sento protetto dallo Stato perchè quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla Magistratura e alle Forze dell’Ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”.

Lo scritto di Roberto Scarpinato, nella forma di una lettera ideale, così come gli era stato richiesto dai familiari di Borsellino, è stato un omaggio alla Verità ed alla Giustizia, un ringraziamento a Paolo Borsellino, un corrispondere a un debito di riconoscenza che mai salderemo del tutto. E’ stato l’espressione concreta del dover essere al servizio della comunità attraverso una partecipazione “alta” alla vita della “polis”, finalizzata alla consapevolezza e alla responsabilizzazione critica di ogni cittadino.

Le parole di Roberto Scarpinato, nell’esaltare la cultura delle Istituzioni, sono state anche esempio di adeguatezza comunicativa: hanno assolto al dovere di comprensibilità verso chi ha meno presìdi culturali, senza abbassare il sentimento di autentica Giustizia, che troppe volte viene eluso preferendo la comodità del linguaggio autoreferenziale dei pochi, insensibile al desiderio di conoscere e di crescere culturalmente dei molti. Il suo discorso non ha seguito la celebrazione del “mito” di Paolo Borsellino, tranquillizzante nella sua fissità sterile, ma ha voluto indicare l’Uomo e il Magistrato come suscitatore di coscienze profonde che avvertono l’ineludibile necessità di pensare e di agire nella prospettiva di un positivo cambiamento comune.

Abbiamo appreso dalla stampa che, a seguito della lettera dedicata da Roberto Scarpinato a Paolo Borsellino, è stata aperta presso la Prima Commissione del C.S.M. una pratica per il suo trasferimento di ufficio e che la richiesta di apertura della pratica è stata trasmessa dal Comitato di Presidenza del C.S.M. alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione per eventuali iniziative disciplinari.

L’Associazione Nazionale Magistrati, il 26 Luglio 2012, ha espresso sorpresa e preoccupazione per tale iniziativa ritenendo che quel discorso non possa essere inteso che come “manifestazione di libero pensiero, quale giusto richiamo, senza riferimenti specifici, nel ricordo delle idee e delle stesse parole di Paolo Borsellino, alla coerenza di comportamenti ed al rifiuto di ogni compromesso, soprattutto da parte di chi ricopre cariche istituzionali”.

Il discorso di Roberto Scarpinato, a nostro parere, merita di essere diffuso, nelle Istituzioni e nelle scuole, tra i concittadini onesti ed impegnati. A titolo di merito per chi ha ricordato un pezzo della nostra storia con la credibilità del proprio passato. Come monito alle tante persone che si stanno formando una coscienza civile o a quelle che possono cedere alla tentazione della disillusione, e come esortazione a tener sempre un comportamento esemplare e onesto nell’interesse dello Stato democratico e costituzionale. Non si tratta di discutere solo della possibilità di un Magistrato (dell’autorevolezza di Roberto Scarpinato) di esprimere le proprie opinioni con la ponderazione e lo scrupolo che derivano dalla delicata funzione svolta, ma anche di assicurare alla collettività italiana il congruo bagaglio cognitivo ed etico.

C’è necessità di parlare con quella che i greci chiamarono “parresia”, ovvero con la libertà e il dovere morale di chi non teme di urtare la suscettibilità di alcuno perchè non prevede di aver benefici o debiti nei confronti del Potere.

Per questi motivi facciamo nostre le nobilissime parole della lettera di Roberto Scarpinato

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Chi ha ammazzato Falcone e Borsellino

Chi ha la vera responsabilita’ di quelle uccisioni, secondo Scarpinato? “Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri”. “Tutte responsabilita’ penali certificate da sentenze definitive -rammenta ancora il procuratore generale di Caltanissetta- costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illumina a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto”. Frammenti di verita’, purtroppo, emergono “solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel ‘fuori scena’ della storia, da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali”. Il sasso nello stagno plumbeo delle commemorazioni di Stato e’ tirato.

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