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romanzo

‘Mio padre in una scatola di scarpe’ è agghiacciante perché vero (di Rita Fortunato)

(l’articolo originale è qui)

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(Recensione di Rita Fortunato)

Una storia donata va sempre accolta. Questo è il pensiero che mi ha portata ad accettare la proposta di Barbara Reverberi di leggere Mio padre in una scatola di scarpe. Si tratta di un romanzo civile edito Rizzoli, scritto da Giulio Cavalli e comparso nelle librerie italiane il 17 settembre. Fresco fresco di stampa, insomma e che ho anche avuto la fortuna di incontrare sugli banconi per libri allestiti a #PordenoneLegge.

Barbara mi ha subito detto che è un romanzo bellissimo e che lei, personalmente, l’ha divorato.

Per quanto riguarda il verbo “divorare” aveva ragione ma, più che bellissimo, ho trovato l’opera agghiacciante. Ti spiego perché…

Mio padre in una scatola di scarpe è agghiacciante perché vero

Con agghiacciante non intendo dire che Mio padre in una scatola di scarpe non sia un buon libro. Fondamentalmente è un romanzo d’inchiesta tratto da una storia vera, fatta di mafia e omertà. Temi forti, dolorosi, di quelli che non si vorrebbe affrontare perché, quando te li trovi scritti neri su bianco, ti agghiacciano.

L’ho letto in due giorni e avrei voluto che finisse in maniera diversa, che non rimanesse in sospeso. Tuttavia uno scrittore non può accontentare sempre il lettore, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di ricordare che ancora esiste una cultura dell’omertà.

Una cultura che sta stretta al personaggio principale e perno attorno al quale ruota tutto il racconto,  Michele. Per amore, il nonno cerca di inculcargli questa filosofia in tutti i modi:

“Qui le brave persone, per difendersi, diventano invisibili”.

È una persona normale, Michele. Vorrebbe solo vivere a casa sua, metter su famiglia e garantire un futuro a figli e nipoti. Assieme a lui, poche brave persone appaiono nella trama del romanzoMassimiliano, considerato lo scemo del paese ma con un cuore d’oro, il nonno e le sue cene domenicali con il nipote e la dolcissima e coraggiosa Rosalba, detta la silenziosa.

Volente o nolente, il lettore non può fare a meno di affezionarsi a queste persone, ad augurar loro tutto il bene possibile. Ad essi va l’ammirazione dell’amico milanese Giulio:

“Quelli che cambiano il mondo sono quelli che non si fanno avvelenare dal mondo”.

Ma niente è ciò che appareMio padre in una scatola di scarpe parla di un’indifferenza che non è solo espressione di codardia o servilismo da parte delle persone semplici, ma anche l’unico comportamento da adottare per sopravvivere in una terra violenta comandata da violenti. Gradualmente (ed è qui che la cosa si fa particolarmente agghiacciante) ci si addentra in un contesto e in una storia dove la desensibilizzazione al dolore la fa da padrone perché, in fondo, ci si abitua a tutto, anche ai soprusi. Non c’è scelta.

Vi è un’educazione alla paura e alla sopravvivenza scambiata per coraggio in una vita quotidiana che impedisce agli abitanti di Mondragone, località dove si svolgono i fatti, di compiere il loro dovere civico e permettere che la giustizia faccia il suo corso.

“Michele, nella vita ci vuole coraggio a rinunciare. Anche a rinunciare ai principi, se serve”.

Nessuno sembra voler spezzare la catena che anno dopo anno stringe il paese in una morsa soffocante di incomprensioni, malelingue e indifferenza. Tutto ciò che accade, anche i gesti di umanità sono visti con sospetto e manipolati per mettere in cattiva luce le brave persone, distruggere la loro reputazione e creatività. La coscienza, in questo romanzo, sembra proprio non esistere. Al massimo vi è rabbia repressa e dolore raccolto e nascosto

Mio padre in una scatola di scarpe è un romanzo logorante e, sinceramente, andrebbe donato ai giornalisti che ricamano notizie prestando orecchio alle voci e non verificando le fonti, ai carabinieri che preferiscono screditare il cittadino medio pur di non perdere i ricavi e gli interessi che li legano a chi dovrebbero incarcerare, alle persone che sparlano e si fanno belli sulle miserie e i dolori altrui, convinti che andare a messa la domenica sia sufficiente per sciacquare la coscienza dalle loro ipocrisie e meschinità.

Non saprei bene cosa aggiungere sull’opera con la quale Giulio Cavalli esordisce in veste di scrittore se non che il libro andava scritto e che merita di essere letto. In mezzo a tanti testi fondamentalmente inutili, privi di messaggio, un romanzo civile come questo spicca dalla massa, per la sua agghiacciante veridicità.

Autore: Giulio Cavalli
Titolo: Mio padre in una scatola di scarpe
Casa Editrice: Rizzoli
Pagine: 288
Anno di pubblicazione: 17 settembre 2015
Prezzo di copertina: € 18

Io faccio la madre

CAVALLIPadre18“Quando ancora le chiedono come sta, cosa fa, al mercato o alla piazza di Mondragone, lei risponde: “La madre”. E risponde con dentro una traversata oceanica, un giro del mondo in mongolfiera e una vittoria olimpica. La madre. Senza perifrasi, incertezze: la madre”.

(dal mio libro, Mio padre in una scatola da scarpe)

Quindi ritorno a scuola

CAVALLIPadre18Mi ha stupito sapere che già adesso ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘ sia diventato il “libro che ci hanno dato da leggere a scuola”. E mi emoziona forse perché da anni, girovagando di scuola in scuola (gratis, se non recito, ovviamente) ho imparato ad apprezzare la cura con cui molti professori ponderano ogni passo da proporre ai propri studenti. E pensare che non li ho amati nemmeno, i professori, da studente, e mi sarebbe bastato intravedere quello che ho visto solo dopo. Anche in questo il libro si è già rivelato migliore di me.

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo booksblog.it

(L’articolo originale è qui)

“Michele aveva cominciato a picchiare con tutta la voglia che aveva accumulato negli ultimi anni, come si immaginava si potesse picchiare solo prima di morire. E non menava solo quei tre cuccioli d’avvoltoio, no, picchava i ricchi sempre gonfi alla domenica mattina; picchiava quelli che gridano scemo a Massimiliano che piangeva come i magri anche se è grasso come un tacchino, e picchiava anche per lo scemo di troppo che gli dava quando anche lui esagerava con lo scherzo; picchiava per i vecchi così vecchi che fuori dalla chiesa sembra che ci manchi solo ceh se li porti via il vento o li sciolga questo sole unto”.

Schermata 2015-09-29 alle 22.25.39Si sfoga  così, per almeno due pagine, la rabbia di Michele Landa contro tutti gli oppressori e gli oppressi, contro se stesso e la sua famiglia, contro gli ignavi, contro le ingiustizie. Michele, Michele Landa, è il protagonista di “Mio padre in una scatola da scarpe”, romanzo di Giulio Cavalli edito da Rizzoli.

Un romanzo di mafia, ma senza essere troppo plateali. Nessuna coppola o lupara, ma gente normale, gente che per sopravvivere serenamente nel posto in cui vive è costretto alla fine a chinare la tesa, ad arrendersi, a diventare anonimo e invisibile.“Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li”. Un insegnamento che in molte zone del nostro paese viene dato appena incominci a camminare: se vuoi campare, pensa ai fatti tuoi. Resta una persona perbene ma a chi sta sopra di te non dare mai fastidio, non opporti, non alzare la voce. Un insegnamento che viene impartito anche a Michele Landa, un metronotte di Mondragone. Un uomo che tutto ciò che desidera nella sua vita è arrivare alla pensione e godersi i suoi affetti, il suo orto, svegliarsi la mattina e non avere paura di non avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Ma qui, a Mondragone, il coraggio è necessario: serve anche per vivere tranquilli, per non farsi sopraffare dalla tracotanza e le minacce dei Torre e dall’omertà dei compaesani. Michele lo sa che non bisogna alzare la testa, ma nonostante tutto sa che le cose, se si vuole, possono cambiare.

Tratto da una storia vera, quella di Michele Landa, ucciso e bruciato a Mondragone la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006. Una storia ancora oggi avvolta nel mistero e dimenticata, come le tante storie di mafia e di camorra. “Mio padre ha lavorato in molti posti brutti, ma Pescopagano lo spaventava: puttane, spacciatori, camorristi, criminali nigeriani, là ci sta tutto meno che lo Stato”, diceva ai media suo figlio Antonio.
E’proprio da una frase agghiacciante di suo figlio che Giulio Cavalli prende spunto per il titolo del romanzo: “La scientifica ha ripulito la macchina, ma siamo andati lo stesso nel deposito giudiziario. Abbiamo trovato un femore, la fibbia della cintura di papà, le chiavi di casa e altre ossa. Ce lo siamo portati via in una scatola di scarpe”.

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo ‘Liberi di scrivere’

(Recensione di Irma Loredana Galgano, l’originale è qui)

Schermata 2015-09-27 alle 17.16.31Il 17 di questo mese è uscito per Rizzoli “Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli.

Ci sono dei cantanti che hanno una voce talmente melodiosa che ti cattura appena la senti.
Ci sono dei musicisti talmente dotati che ti fanno piacere la loro musica fin dalle prime note.
E poi ci sono quegli scrittori così bravi che ‘rapiscono’ il lettore fin dalle prime battute.
Giulio Cavalli appartiene senza dubbio alcuno a questa categoria.

Mio padre in una scatola da scarpe” racconta la storia semplice di Michele, cresciuto dove «non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro», in una città che può trovarsi dove si trova, in provincia di Caserta, o in qualsiasi altro posto del mondo perché «Mondragone si sveglia rotonda tutte le mattine, per poi sformarsi attraverso i suoi abitanti».

Una vita sospesa, quella degli “altri”, soprattutto quando propendono per il bianco, in quanto «questa è una terra che va abitata in punta di piedi, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili». Cercava di spiegare suo nonno a un giovanissimo Michele, che non capiva… non riusciva a capacitarsi, esattamente come quarantanni più tardi non ci riuscirà Andrea, suo figlio.
Perché una persona che vuole solo coltivare il proprio amore, formare una famiglia, lavorare, pagare le tasse e trascorrere del tempo con i propri figli e nipoti deve vivere terrorizzato da ciò che può accadere a lui, o peggio a propri famigliari, anche solo come conseguenza per aver rifiutato o accettato un caffè?
Perché un cittadino deve essere costretto a subire l’indifferenza delle forze dell’ordine soggiogate al male peggio dei “neri”?
Perché un uomo o una donna non possono formulare queste domande a voce alta senza rischiare gravi conseguenze e ritorsioni?

Alcuni soggetti afferenti alla malavita organizzata si ritengono dei soldati, arruolati in un diverso esercito certo ma comunque ligi a un codice di regolamentazione che una volta arruolati si sceglie di seguire e rispettare. Va bene. Ma chi non compie questa scelta perché è costretto a subirne comunque le conseguenze?

« Se è mafioso solo chi ammazza allora la mafia non c’è davvero, qui. Quelli che hanno fatto finta di niente con il tuo amico morto ammazzato sono mafiosi. Tu ti ostini a pensare che siano solo cattivi o prepotenti o violenti, e invece sono mafiosi

Michele e Rosalba trascorrono la vita a cercare di diventare invisibili e soprattutto di far essere tale i propri figli e nipoti, coltivando il loro amore che è «un amore antico, se lo ripetono tutti i giorni, perché è tra persone che sono cresciute imparando ad aggiustare le cose senza buttarle». Ma certe cose o certe situazioni non si possono aggiustare, sono come la miccia di un mortaretto… una volta incendiato non resta che aspettare lo scoppio.
Andrea, Giovanni, Antonio e Angela questo scoppio se lo sentono scorrere nelle vene, anche più di Rosalba e decidono insieme di compiere il gesto più rivoluzionario della loro vita, varcando i limiti della legalità e lo fanno con il coraggio e la consapevolezza di doverlo fare, perché rappresenta per loro non solo una rivincita ma una vera e propria catarsi. E così, a modo loro, riescono a sconfiggerlo il Male che li voleva oppressi, immobili e silenti.

Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli è il racconto semplice di una famiglia normale che cerca di coltivare i propri sogni in un mondo disumano, crudele e spietato nel quale l’amore e i sentimenti per vincere devono combattere quotidianamente contro colossi armati, contro il potere, la violenza e il potere della violenza.

« Nonostante tutto lei non tornerebbe indietro, no, non rinuncerebbe a nessuno dei momenti vissuto fino a qui, dolori inclusi, perché la sua famiglia è un’opera titanica e artistica che la riempie di fierezza e di orgoglio.»

Le botte in piazza

Schermata 2015-09-27 alle 08.42.20Gli amici di Nazione Indiana pubblicano uno stralcio di ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘.

La mattina presto. Per Michele può esserci il caldo più unto, il freddo più buio o la pioggia più fitta, ma il mattino va rispettato: l’alba è l’inizio. Cose semplici. Sono due anni che la scuola è finita e tutto il giorno ha già la forma del callo sulle mani, che ti sfregano ruvide la faccia quando ti lavi.

Lavorare rende liberi.

Michele era stato studente diligente e poco curioso, ma questa cosa del lavoro e della libertà non gli era mai andata giù. I vecchi dicono: “Tocca per farsi una famiglia ed essere una persona per bene”, ma la libertà proprio non c’entra. Ci sono città del mondo in cui il lavoro è un canale che bisogna navigare per stare a galla e sopravvivere, mentre qui a Mondragone si lavora per non dovere niente a nessuno e perché nessuno ti debba niente, per questo Michele ama la fatica: la fatica infatti ha una faccia sola, è meccanica senza viti, acido lattico senza sentimento. La fatica non ha bisogno di merletti. Sono le sei e Michele si alza come si alza il mattino: sale in fretta per scaldarsi.

«Si fatica principalmente per non sentire tutto il resto» dice sempre quello scemo di Massimiliano.

Caffè amaro. Le scarpe che si scollano. Una camicia spessa come pelo di topo, a quadrettoni, con i gomiti quasi trasparenti. Guardandosi allo specchio si osserva. Non è un bel vedere, no, ma tutta questa stoffa è l’armatura per la fatica al magazzino. La porticina del cortile di casa cigola come il portone di un castello abbandonato. Fuori, Mondragone è odore di caglio e case che si sbriciolano.

«Buongiorno e ben alzato, Michè!» La signora di fronte sta già bollendo la salsa. È cieca e sorda come la salsa ma saluta da orologio svizzero tutte le mattine alla stessa ora.

Lui risponde, anzi ci prova. Meglio, alza la mano e scatta con la testa, gli viene male: cade come da un lato, inciampa, sorride, rialza la mano, ride, no forse non se ne è nemmeno accorta e allora stinge il sorriso e niente, come se non fosse successo niente. «’Ngiorno.» Che fatica.

Mentre la strada scende vuota verso lo stop Michele prova a ripensare alla serata appena passata e a quelle voci che lo rivolevano in piedi: non è facile portare addosso le botte a mezza faccia facendo finta di essere elegante, tu che elegante poi non lo sei stato nemmeno al battesimo o alla comunione.

Erano in tre e Michele li aveva notati già da giorni per quelle smorfie da guappi che qui vengono ammaestrati in serie, seduti arrampicati sul muretto in piazza. Ieri sera erano nella solita posa, di quelli che vorrebbero essere falchi ma sono solo una nidiata di avvoltoi. Ieri aveva anche deciso di bersi una bottiglia in compagnia e festeggiare l’assunzione che era diventata ufficiale per tutti, al magazzino. Adulti a tempo indeterminato con il libretto di lavoro in tasca. Ci avevano promesso anche un po’ di malattia e ferie, non proprio tutte quelle che c’erano scritte nel contratto – che per sicurezza avevano fatto leggere a Giulio, che si era trasferito su a Milano e aveva imparato l’italiano meglio di come si impara un po’ sgarruppato nella scuola di Mondragone, e anche Giulio aveva esultato per un contratto che in fondo anche a parole era simile a quello che c’era scritto. Per questo avevano deciso di prendersi il vino, mica quello più buono, ma la qualità subito sotto, ben distante dal vino schifoso e lunghissimo che si bevevano di solito a pranzo. La locanda li conosceva per nome e cognome e si era fidata anche a dargli quattro bicchieri di vetro da portare fino in mezzo alla piazza con la bottiglia impolverata, perché c’è da fidarsi di Michele e quegli altri colleghi suoi, che non creano mai problemi.

Stavano appena stappando il tappo a vite come quello della spuma e ridevano pensando che poi magari un giorno qualcuno sarebbe diventato capoturno, poi magari un giorno, ridevano, avrebbe comprato un vino con il tappo quello vero.

Era stato un attimo e gli altri tre guappi erano già in mezzo. Dammi. No. Forza, dài qua. Ma che vuoi. Festeggiamo anche noi. Facciamo da soli grazie. Lo decidiamo noi chi festeggia qui in piazza. Non ci penso nemmeno…

Ed è stata subito una paranza di botte che facevano più rumore dei bicchieri che rotolavano sui sassi. Tonfi secchi sulle parti molli e il fruscio dei rami secchi quando si pestano con le scarpe, solo che questi erano in faccia, sulla mandibola e sotto gli occhi. Roba forte.

(continua qui)

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo Eleonora Cocola

Recensione a cura di Eleonora Cocola (link)
Schermata del 2015-09-24 16:14:26Quella di Michele, nato e cresciuto a Mondragone, non è una vita facile: orfano di genitori alcolisti che gli hanno regalato un’infanzia tormentata, l’unica famiglia che gli è rimasta è suo Nonno. Oltre, naturalmente, alla famiglia che Michele formerà da sé: nonostante le sofferenze che ha subito è un ragazzo a posto, che desidera solo essere felice, condurre una vita onesta e creare una famiglia buona. Tutte cose che a Mondragone sono tutt’altro che scontate.

Dove regna la camorra, che qui ha il nome della famiglia Torre, anche chi non è in cerca di guai deve vivere come se camminasse sulle uova, stando attento a ogni passo, a ogni parola, a ogni sguardo; imparando a far finta di non vedere, a non ribellarsi, a scomparire. È una vita che il nonno glielo ripete a Michele, che deve stare tranquillo e farsi gli affari suoi, e lui alla fine ha imparato: per colpa della famiglia Torre ha perso il lavoro, ha visto tanti amici morire, e ha dovuto trovare un difficile equilibrio tra silenzio e omertà. La sua convinzione che anche a Mondragone sia possibile vivere una vita pulita e felice non si è scalfita: soprattutto grazie all’amore, quello della ragazza che è diventata sua moglie, Rosalba “la silenziosa”: insieme hanno formato una famiglia numerosa con cui Michele non vede l’ora di godersi la vecchiaia.

Non è una storia qualunque quella di Michele Landa: è la storia di un uomo assassinato a colpi di pistola nel settembre del 2006; di un delitto i cui colpevoli sono ancora ignoti. Il romanzo di Giulio Cavalli riporta alla luce questa storia dimenticata, raccontando di una categoria di persone che non sono né con la mafia né propriamente contro di essa: gli invisibili. Quelli che, come Michele, in nome di una vita tranquilla sono costretti a fare violenza su stessi, soffocando la ribellione contro le ingiustizie e le morti di cui sono testimoni. È il Nonno del protagonista il primo portavoce di questa posizione: «Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li».

Con una scrittura intensa e uno stile avvolgente, in grado di catapultare il lettore dritto nella testa dei personaggi, il romanzo di Cavalli insegna che anche diventare invisibili richiede una certa dose di coraggio, e ricorda che purtroppo non sempre basta per salvarsi. Il protagonista Michele e la sua amata Rosalba sono disarmanti per la loro semplicità: dalla purezza del loro sentimento e dalla genuina integrità dei loro valori deriva la forza di questi due personaggi, tanto che quello che accade intorno a loro assume contorni quasi sfocati. La storia minuta, quella di chi subisce i grandi fenomeni senza giocarvi un ruolo di primo piano, viene portata alla luce, rendendo giustizia a tutte quelle vittime della mafia che troppo facilmente cadono nell’oblio.

AntimafiaDuemila su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

Schermata del 2015-09-23 15:00:52Giulio Cavalli racconta la vita di Michele Landa, metronotte ucciso nel 2006
di Miriam Cuccu
Ci sono luoghi in cui la differenza tra il bianco e il nero è così netta, che basta uno sguardo alla persona sbagliata per vivere o morire. Luoghi in cui le pozzanghere non sono d’acqua ma “a forma di punizione di dio”, dove le accuse si “incagliano sulla strada” e “le brave persone finiscono per diventare eroi, in mezzo ai nani”.
Succede questo nella Mondragone descritta da Giulio Cavalli nel suo libro “Mio padre in una scatola da scarpe” (frase da linkare a recensione in sezione Libri) (Rizzoli). Attore, scrittore e regista, Cavalli racconta la storia romanzata di Michele Landa, metronotte ucciso tra il 5 e il 6 settembre 2006. Una storia a lungo rimasta coperta dalla polvere, che deve essere raccontata. Michele non era un magistrato, nè un giornalista, non gridava in piazza ma conduceva una vita onesta, che in certi posti equivale a diventare estraneo all’interno del proprio paese. Dove tutto diventa compromesso, e le giornate si consumano dietro a un lavoro che non rende liberi perché costruito sul silenzio e sul non sapere. Sul non voler sapere, soprattutto.

Si dice che le persone che cambiano il mondo sono quelle che non se ne lasciano avvelenare. Michele è così, e il suo antidoto al veleno di Mondragone lo trova in Rosalba, “la silenziosa”. Quarant’anni dopo il loro amore sarà ancora nuovo eppure antico, di quelli che sanno aggiustare le cose e le persone. E poi c’è il Nonno, una vita passata in punta di piedi per amore della tranquillità. “Questa città e questo tempo chiedono agli uomini di essere furbi, di non trovarsi nel posto sbagliato e di essere intelligenti nel non ascoltare le cose che non si devono ascoltare” ripete sempre al nipote, ma Michele non capisce, non si adegua, non prova orgoglio per questa terra che “ci vorrebbe una pioggia di due anni che lavi via tutto per bene”. Michele sa bene dove vuole stare, e non è dalla stessa parte dei Torre (famiglia di Camorra nel romanzo) che si fanno le regole su misura nella complicità degli abitanti, del brigadiere e del prete. E Michele sceglie di restarci, in quel paese, per dimostrare a tutti che anche qui si può vivere da onesti, si può crescere figli e nipoti insegnando loro ad amare la bellezza delle cose giuste. Sembra niente, eppure ci sono luoghi in cui anche vivere diversamente diventa uno sgarro da punire.
Cavalli, con minuziosa attenzione ai particolari, ci porta dentro una Mondragone che si trascina faticosamente in avanti senza domandarsi perché, un mondo di regole capovolte che non ci siamo mai totalmente scrollati di dosso, per ignoranza o convenienza. Ci ricorda che non sono tanto i singoli eroi a fare la differenza, ma il tempo, la cura e la fatica per far nascere nuovi semi. La storia di Michele non è lotta ed eroismo, ma coraggio di confermare ogni giorno le proprie scelte contro la “desertitudine”. E’ la dimostrazione che sono le persone a fare i posti, che se le persone cambiano possono accadere

(fonte)

Il Fatto Quotidiano scrive di “Mio padre in una scatola da scarpe”

Schermata del 2015-09-21 18:42:16

di Mario Portanova (fonte)

Parliamo tanto della mafia, ma poco delle sue vittime. Certo, non saltiamo un anniversario dei generali caduti sul campo, com’è giusto che sia, ma come in tutte le guerre muoiono anche i soldati, i civili che non c’entrano nulla. E poi ci sono i profughi. Quelli che sono costretti a lasciare la propria terra – non se la prenda ilpresidente Renzi, ma purtroppo succede – perché non vogliono sottostare a prepotenze e compromessi con i boss, e quelli che invece restano, seppellendosi però nella muta ribellione delle “brave persone” che per sopravvivere devono rendersi “invisibili”. Così descrive questi profughi stanziali Giulio Cavalli in “Mio padre in una scatola da scarpe“, appena pubblicato da Rizzoli (288 pagine, 19 euro).

Il libro romanza una storia vera e, appunto, dimenticatissima. Quella di Michele Landa, metronotte ucciso e bruciato aMondragone, in provincia di Caserta, la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006 mentre montava la guardia a una grande antenna per i telefoni cellulari a Pescopagano, in una zona di prostitute e spaccio. Gli mancava una manciata di giorni alla pensione e al sogno modesto di dedicarsi all’orto e ai nipoti. Ancora oggi non abbiamo neppure lo straccio di un indiziato, ma non è questo il cuore del libro di Cavalli, autore ed attore teatrale, ex consigliere regionale in Lombardia e finito sotto scorta per le pesanti minacce ricevute in seguito ai suoi spettacoli di denuncia antimafia. Cavalli scrive un romanzo d’amore e d’omertà, un giallo all’incontrario dove il delitto arriva alla fine ma l’assassino si svela fin dalle prime pagine. Michele Landa è appunto un profugo nella sua terra, un orfano dalla vita difficile che fin da piccolo ha dovuto ingoiare l’insegnamento del nonno: sii sempre onesto ma fatti i fatti tuoi, stai lontano dai mafiosi ma non provare mai a ribellarti se ha davvero a cuore i tuoi cari. Precetti che Michele osserva facendo violenza su se stesso, e che per giunta alla fine non lo salveranno. Di lui alla fine restano poche ossa carbonizzate dentro la scatola da scarpe che dà il titolo al libro.

Non sappiamo chi è l’esecutore materiale, come si leggerebbe in un atto giudiziario, ma sappiamo tutto del contesto in cui quel delitto è maturato. Un paese dove nessuno sente vede parla, dove la famiglia di camorra (nel romanzo, i Torre) può tutto, perché in grado di somministrare la morte ma anche la vita, dato che controllando le principali attività economiche può dispensare “il posto fisso” che caccia il fantasma della disoccupazione senza uscita. E lo Stato? E’ rappresentato da carabinieri indolenti e complici, così lontani dai famosi reparti speciali che firmano le grandi operazioni antimafia che finiscono su tutti i giornali. Allora ha ragione il presidente Renzi, è “macchiettistico” dire che in Italia la criminalità organizzata controlla “intere regioni”. Diciamo più correttamente che controlla parte della Campania, parte della Calabria, parte della Sicilia, parte della Puglia. E poi – in proporzione minore – parte dell’hinterland di Milano, parte della Brianza, parte del torinese, parte di alcuni quartieri romani… e sempre nella capitale, parte del Settore appalti. Molti profughi di questa lunga e sanguinosa guerra attendono di essere soccorsi.

LA FRASE. “Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li”.

Parla che ti passa

GIULIO1Mi avevano avvertito: quando scrivi un romanzo non succede mica come succede con gli spettacoli teatrali e le inchieste, perché il romanzo va. Parte per strade impensabili, ha delle regie di lettura che ti sorprendono.

Così, ieri, mentre ci si apparecchiava per l’uscita in tutte le librerie del mio romanzo ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘ vedere cosa hanno pensato i ragazzi di diverse scuole per urlare il proprio no contro l’omertà e il silenzio è stata una sorpresa piacevolissima. Eccoli qui: