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santamamma

«Ma questo suo libro ha il sapore umano della fragilità», lettera su #Santamamma

Perché scrivo? Perché poi capita di incrociare lettori così. Questo è quello che mi ha scritto su Santamamma Anto, che ringrazio con il cuore:

Buongiorno Giulio, ho da qualche giorno finito di leggere il suo libro “Santamamma”. Avrei potuto leggerlo tuttodunfiato, ma sono mamma da 23 mesi e la mia bambina prende e scrive tutte le righe della mia vita, le rare pause e sedute, e il suo libro, mi ha costretta a leggerlo in diversi giorni.Non avevo mai dato voce all’uscirmi dal naso, come lo descrive bene lei. Io, semplicemente, me ne uscivo prorpio dalla testa. Lo sa?!? Lei me lo ha fatto ricordare. E tante altre cose. Ecco, io volevo solo dirle che nel leggerla mi sono “usciti pezzi di cuore dagli occhi” . E la ringrazio. E mi sono sentita minuscola e ingrata quando, verso la fine, parla degli eroismi quotidiani e quelle “mani avvolte nei sacchetti della spesa” mi hanno commossa cme lei non può immaginare. Una cosa piccola, forse banale… ma questo suo libro ha il sapore umano della fragilità. E lei l’ha saputa scrivere in una maniera così ferocemente tenera. E sincera. Mi scusi, ma mi sento proprio di dirle che le voglio bene. E che, in una maniera molto intima, mi sento una piccola parola stampata sul suo Libro. La abbraccio con tutto i miei cuori e le mie dua braccia di mamma. Allegra è il nome di mia figlia, che la vita a me, non bastava fotterla vivendola. Grazie. Anto.

«Scriverlo è stato salvifico»: una mia intervista su #Santamamma (e non solo)

(di Erika Pucci per VersiliaToday, fonte)

Sabato 22 Aprile lo scrittore e regista teatrale Giulio Cavalli ha incontrato i lettori alla libreria “La Vela” di Viareggio presentando per la prima volta in assoluto il suo ultimo libro “Santamamma” (Fandango, 2017). Un libro autobiografico in cui l’autore racconta la propria storia di figlio adottivo, bambino prodigio, “eroe” della legalità, gli anni della scorta fino al ritrovamento del proprio fratello. Condivisione e identità sono i due grandi temi di una storia appassionante e onesta. Il pubblico de “La Vela” ha accolto con calore, interesse e emozione l’autore. Prima dell’incontro ho rivolto a Giulio alcune domande per i lettori di Versilia Today.

Santamamma” a differenza di altri tuoi libri, ha la crudeltà dell’autobiografia. Quanto ti è costato scrivere questo libro e quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a farlo?

Scrivere il libro non mi è costato, è stato salvifico, anche se sembra spigoloso e feroce per me è stato confortevole, prima di tutto. Perché sono nato come racconta storie e non come autore da inchiesta: con “Santamamma” sono tornato a fare il mio lavoro. Ho la fortuna di avere un pubblico che è molto più sensibile di me a ciò che mi riguarda, pertanto questo romanzo non è una risposta ma una domanda. Per esprimerlo con una citazione

” si vive soltanto nei momenti in cui si rivive qualcosa che si è vissuto nell’infanzia”.

Il tuo sito è uno spazio ben organizzato e efficace delle molteplici attività in cui sei impegnato, soprattutto emerge in modo deciso e convincente l’assoluta simbiosi tra parole e azioni nei vari temi in cui hai combattuto battaglie in prima linea: attraverso il tuo lavoro teatrale e di scrittore e giornalista, cosa significa impegno civile?

In un momento della mia vita mi hanno fatto credere che la mia complessità fosse un problema e io sono sempre stato innamorato della complessità. Sfogo nel giornalismo abusivo ciò che non riesco a esprimere nel palcoscenico così come nella scrittura di romanzi. Tra le azioni di cui sono fiero c’è quella di rivendicare la mia complessità. Il sito è lo spazio più libero da questo punto di vista. La scrittura è ciò che mi fa stare bene, è prendermi cura di me.

Recentemente il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, con cui avevi scritto il monologo “L’isola che c’è“, ha ricevuto il premio Unesco per la pace. Che valore ha oggi la politica dell’accoglienza, ribadita dal riconoscimento, per il nostro Paese e per l’Europa?

L’Italia avrebbe potuto essere un avamposto culturale come è stata nei secoli, il tema non è l’accoglienza ma l’ umanità, quello che ritengo prioritario è un’impermeabilizzazione morale per gli stenti di questi tempi. Un grande intellettuale del nostro tempo ebbe una grande intuizione, Vittorio Arrigoni, e mi chiedo come racconterebbe questo tempo “restando umani”? Il premio a Giusi è importante, ci dovrebbe costringere a riflettere sulla cordialità nel senso letterale del termine ossia di sentire col cuore. Giusi ne è l’ultima testimone.

A seguito del fermo in Turchia del giornalista Gabriele del Grande sei stato tra i primi a prendere una posizione netta sul tema con un articolo in cui sottolineavi che la liberazione di Gabriele e il suo lottare per essa riguarda tutti. Perché?

C’è un aspetto personale in questa mia scelta ossia l’ enorme lutto che ho vissuto per Vittorio Arrigoni, conosciuto al grande pubblico da morto e infangato. Vittorio, Gabriele sono troppo poco ottundibili: l’ho vissuto sulla mia pelle che in certe circostanze sei preda dei cannibali non per quel che sei o che hai fatto ma per quel che ti è successo. E questo capita spesso quando scrivi, lavori fuori dai circuiti “istituzionali”: da questo l’ urgenza di scrivere subito di Gabriele, scrivere significava frenare i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. Fuori dai circuiti istituzionali: l’ urgenza di scrivere significava frenare subito i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. La fidelizzazione col pubblico.

Come sai qui a Viareggio siamo a pochi passi da S. Anna di Stazzema, luogo di eccidio nazista e famosa anche per gli incartamenti finiti nell’armadio della vergogna. Sulla tua bio ti definisci “Partigiano”: cosa significa oggi per te questo?

Partigiano oggi è colui che decide esattamente da che parte stare, che è uno dei vizi che ci chiedono di non frequentare. Essere partigiani significa non pensare che esistono storie o cose su cui non abbiamo diritto di parlare. Scegliere, dire la propria significa perdere ogni volta una parte di pubblico. A seguito della scorta che mi è stata assegnata mi sono ritrovato un grande pubblico, come accadde a Saviano che stimo ma di cui non condivido le ultime scelte. La fidelizzazione del pubblico è importante per chi sceglie da che parte stare.

Fra le varie attività che porti avanti c’è l’assiduo contatto con le generazioni più giovani attraverso gli interventi nelle scuole. Di cosa hanno “fame” i ragazzi che incontri?

Hanno fame di autenticità e incontrare i ragazzi soprattutto delle scuole professionali è il modo migliore per testare te stesso. Loro non ci cascano, con loro non puoi barare. Le scuole di frontiera mi piacciono. Spesso sono frequentate da alunni provenienti da altri paesi, da altre storie e strade che credono ancora nell’istruzione perché vedono l’ usibilità del sapere, cerco, se possibile, di evitare i licei classici.

Per finire tornando al libro: “Santamamma” è edito da Fandango, che è anche una casa di produzione cinematografica importante, è previsto un film tratto dal tuo romanzo?

Il romanzo drammaturgicamente si presta a diventare un film.

Sono quasi le 18,00, l’ora di andare in libreria. Per tutto il tempo dell’intervista gli occhi di Giulio Cavalli hanno brillato di onestà a confermare con lo sguardo ogni parola detta. Per tutto il tempo dell’intervista mentre muoveva le mani nel raccontarsi le parole “Stay Human “ tatuate sul suo polso ci hanno accompagnato così come nell’intenso incontro che Giulio ha avuto col suo pubblico in libreria. Forse sono proprio quelle parole, tatuate anche oltre la pelle, che rendono i suoi libri, le sue chiacchierate, i suoi monologhi, i suoi articoli, le sue parole così penetranti e necessari.

«Straordinario»: Gabriele Ottaviani recensisce Santamamma per “Convenzionali”

di Gabriele Ottaviani (fonte)

E via. Quel pomeriggio partecipai a un convegno sull’evoluzione della figura del clown nell’impegno civile. Tairo non si reggeva in piedi e non venne nemmeno portato alla scrivania dei relatori. Io dissi dell’importanza di credere in se stessi e della forza della risata contro il potere precostituito e i prepotenti. Mi scappò anche un cenno sull’incompatibilità tra il personaggio e la persona. Cerchiamo sempre di arrivare alle persone ma poi ci lecchiamo subito il personaggio che abbiamo fatto di noi stessi, così dissi. Grandi complimenti per l’umiltà, scrissero i giornali. Il rettore dell’università di cui eravamo ospiti mi offrì di tenere un corso di sociologia e poi, preso dall’entusiasmo, mi offrì anche una laurea ad honorem. No grazie, gli risposi, senza sorriso, al massimo mi servirebbe un diploma in pianoforte, se vi avanza, da regalare a mio padre per il suo compleanno. Mi guardarono perplessi. Che matto che è Gatti. Che matto. Per forza, è un clown. Mentre autografo i libri un ragazzo in coda mi chiese che lavoro facessi. “Ora, in questo momento, lei, che lavoro fa?”, mi chiese. Non era una domanda astiosa, era proprio una curiosità. I tendini mi si fecero legno, mi sanguinava cuore dai denti. Fu qualcosa di simile a uno svenimento. “Tranquillo, signor Gatti, è una crisi di panico. Tranquillo. È normale, visto lo stress e poi la notizia della morte di Corleone, la paura. Normale crisi di panico. Senta, Gatti, mi firma anche questa copia per mia nipote? Non ci crede che lei è un mio paziente.”

Santamamma, Giulio Cavalli, Fandango. Giulio Cavalli nasce a Milano il ventisei di giugno del millenovecentosettantasette. Per brevità chiamato artista è l’enneasillabo, a voler considerare la sinalefe, che ne sottotitola il nome e ne definisce in maniera a dir poco perfetta la poliedrica personalità sin dalla homepage del suo interessantissimo sito, www.giuliocavalli.net, aggiornato con grande frequenza e attraverso il quale, persino per il tramite di una newsletter – un diario di bordo, per usare le sue parole – molto curata ed efficace, è possibile avere immediatamente una panoramica completa, ritrovarsi immersi e coinvolti nel suo mondo dai mille colori, dalle infinite sfaccettature. Un mondo nel quale rivestono un ruolo fondamentale la coscienza e la consapevolezza, nonché il concetto stesso di testimonianza, di esempio come veicolo di formazione, di educazione, di condivisione con la comunità di appartenenza, simbolo coerente di continuità fra parole e azioni. La sensibilità. La sensibilizzazione. Che è cosa simile ma non identica. L’impegno civile. La convinzione che la politica – non esistono atti umani che non siano politici, ogni azione ricade anche sugli altri – sia un alto ideale e uno strumento prezioso per il bene comune (l’uomo non è fatto per la solitudine), per la giustizia sociale, per l’equità, per la costruzione di un mondo migliore, cosicché, quando sarà il momento, possa essere riconsegnato ai suoi veri proprietari, i nostri posteri che ce l’hanno generosamente affidato in prestito in attesa del loro momento, in condizioni almeno adeguate. La certezza che attraverso l’arte e la bellezza, salvifica per antonomasia, sia possibile far sbocciare il bene, che toglie ossigeno al male. Tutte le molteplici attività di Cavalli sono connotate in maniera decisiva dalle conseguenze determinate da questa Weltanschauung propugnata con vibrante e ammirevole passione, che ha a sua volta effetti sostanziali sull’esistenza dell’attore, scrittore, regista e politico. Scrive per Left, Fanpage, L’Espresso: ha collaborato anche con Il fatto quotidiano. Sedici anni fa, giovanissimo, Cavalli, che nel giugno del duemilanove debutta addirittura al Teatro Augusteo di Napoli con L’Apocalisse rimandata Ovvero benvenuta catastrofe di Dario Fo e Franca Rame, coprodotto dal Napoli Teatro Festival Italia e con il sostegno di Next, fonda la compagnia Bottega dei Mestieri Teatrali: nel corso del tempo con i suoi spettacoli parla al suo pubblico, via via sempre più numeroso e coinvolto, della Resistenza, del G8 di Genova del duemilauno, durante il quale, in conseguenza dei violenti scontri che ebbero luogo nel capoluogo ligure, perse la vita Carlo Giuliani, dell’incidente aereo che nello stesso anno del summit dei potenti succitato, a Linate, costò la vita a centodiciotto persone, di turismo sessuale infantile. Soprattutto, di criminalità organizzata, del processo al senatore Giulio Andreotti per i suoi rapporti con la mafia ma non solo: prima ancora è Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi, prodotto insieme dai comuni di Lodi e Gela, con la collaborazione della casa memoria “Felicia e Peppino Impastato” e del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, che vede Cavalli collaborare con Rosario Crocetta e Antonio Ingroia, a renderlo bersaglio delle cosche, in particolare di quelle che sono infiltrate da tempo nel settentrione d’Italia dove lui vive e lavora, che lo minacciano e lo costringono da anni a essere sotto scorta. Candidato come consigliere regionale indipendente nelle liste dell’Italia dei Valori – che poi lascia per SEL – per la Lombardia, viene eletto con migliaia di preferenze. Santamamma non è semplicemente un racconto in cui la dimensione narrativa si fa veicolo di istanze civili, sociali, culturali, politiche, è una narrazione solida, compiuta, compatta, intensa, emotivamente trascinante e a tratti finanche destabilizzante per la spregiudicatezza della sincerità con cui le parole non solo si manifestano con la concretezza di fatti che balzano subito dinnanzi agli occhi di chi osserva e legge, e non può nemmeno volendo ignorarli, ma instaurano immediatamente una comunione con l’altro, con chi fruisce dell’opera. E se ogni opera porta certamente in sé tracce inequivocabili del suo artefice, perché ogni prodotto umano, proprio perché umano, anche qualora sia edificato con il massimo distacco in realtà non può non testimoniare la firma del suo creatore, che ne ordina demiurgicamente a suo modo e in ossequio al suo gusto e al suo credo la materia costituente, Santamamma si spinge oltre, trascendendo la vacua tassonomia del genere, e alimentendo con nuove acque il letto dell’autobiografismo, mai in questo caso specifico retorico, egoriferito o agiografico, fornendo al lettore un compendio di temi e suggestioni che non possono lasciare indifferenti. Eppure tutto prende le mosse da qualcosa di apparentemente innocuo e insignificante, un foglio lercio che custodisce una verità, quella sulle origini di Carlo Gatti, il protagonista, che nasce con un buco e che cresce amatissimo a Tarrazza, nel Lodigiano. Carlo è un bambino adottato, lo sa, non ha foto da neonato, lo dice subito a chi legge, e chi legge si sente d’improvviso come di fronte a un bivio, senza avere la possibilità di scegliere tra le opzioni perché non conosce in merito a nessuna alcuna indicazione che possa indirizzarlo. Lo spaesamento di fronte al candore di Carlo è lo stesso che hanno la maestra e la bidella, imbrigliate nelle loro frasi di circostanza e nei loro sorrisi ricolmi di buona fede e vacuità, nello splendido e potentissimo incipit, perfettamente coerente con l’intero ritmo, preconizzato sin dalle prime battute, di un tessuto narrativo che somiglia a un’onda che si fa secondo dopo secondo più forte, più piena d’acqua prima di esplodere contro la scogliera. Carlo nel frattempo diviene pianista: ha talento, ma poi molla tutto e si fa clown, prima di assurgere, suo malgrado, quasi, mutatis mutandis, come un novello Zeno che inconsapevole fa la cosa giusta, alla notorietà e al grado d’eroe. Ma non basta ancora: è una nuova agnizione a rivelargli una volta di più quale sia la fondamentale importanza della condivisione, l’unica materia viva capace di colmare quel buco con cui è venuto al mondo, l’unica strada per tornare davvero a casa. Straordinario.

La cognizione del buco: #Santamamma recensito su Gli Stati Generali

Una bella recensione di Silvia Bianchi (che ringrazio):

Santamamma di Giulio Cavalli è un racconto autobiografico di spietata sincerità.
Carlo è nato con un buco: adottato all’età di tre anni, cresce da coccolato figlio unico di una famiglia che s’era messa il cuore in pace sulla possibilità di diventare genitori (…), con il comandamento non scritto di essere grato, senza che fosse chiaro a chi. Nel piccolo paese immaginario di Tarrazza, borgo operaio lungo la via Emilia (sette chilometri e ottocentocinquanta metri dal primo semaforo di Lodi, che per noi era Boston), Carlo viene avviato precocemente allo studio del pianoforte e diventa un disciplinato enfant prodige, vincitore di concorsi e piccola celebrità locale, orgoglio dei suoi genitori adottivi. Ma la musica è per lui un’esperienza estraniante, che vive fuori da sé stesso (ho imparato a uscire scendendomi dal naso per sedermi poco distante a guardarmi), come un po’ tutta la sua vita: per soddisfare le aspettative degli adulti che lo circondano si iscrive al liceo classico, si lascia sedurre dalla sua insegnante di pianoforte, infine si trasferisce a Parma per frequentarvi il Conservatorio

E’ lì, lontano dai genitori, che avvengono le sue prime, timide ribellioni: lascia il pianoforte per il violoncello, a volte salta la scuola per suonare insieme agli amici del suo gruppo blues; finchè, giunto all’ultimo anno di liceo e di Conservatorio, decide di abbandonare gli studi musicali e si fa arrestare per aver dato un pugno a un poliziotto, gettando sua madre nello sconcerto (non è più lui, non so più cosa fare. Ma sarà malato?). L’episodio dell’arresto è un momento di svolta nella vita del protagonista: opponendosi all’arroganza dei poliziotti che si prendono gioco dei suoi pavidi compagni, Carlo per la prima volta dà voce allo scontento che lo abita e al quale non sa trovare un nome, cioè la rabbia per l’ingiustizia fondamentale, il torto radicale che ha subìto, il trauma dell’abbandono; smettendo di essere il figlio ubbidiente di sempre (adesso non faccio più il bravo, adesso basta) denuncia la sua verità esistenziale, il suo sentirsi fuori posto e si appropria, finalmente, della sua vita.

Così Carlo, sostenuto dal suo amico Francesco, rinuncia a una tranquilla sistemazione lavorativa e diventa il clown di un piccolo circo condotto da Tairo e Ana, una coppia di Belgrado che diventa quasi la sua famiglia elettiva. Qui avviene l’equivoco: durante uno spettacolo, Carlo coinvolge inconsapevolmente in una gag don Vito Corleone, boss mafioso latitante seduto tra il pubblico, che viene così riconosciuto e arrestato. Da quel giorno, Carlo deve vivere sotto scorta in un luogo protetto; riceve una medaglia al valore dal Presidente della Repubblica e si trova ben presto imprigionato nel ruolo dell’eroe antimafia, con tanto di agente. Viene invitato a lezioni e convegni, diventa il protagonista di un libro e di un film: vive insomma di nuovo un’esperienza alienante, che lo porta alla depressione (mi svegliavo al mattino con un cane nero che mi scoloriva il mondo). Nella metafora del clown, l’Autore ha trasfigurato la sua esperienza di autore e attore teatrale e nell’episodio della cattura casuale del latitante ha rappresentato il suo impegno civile contro la criminalità organizzata della sua regione; ma questi aspetti così salienti della sua vita pubblica diventano secondari nel dipanarsi della sua vicenda interiore, travasata nella storia del suo personaggio.

Carlo ha toccato il fondo e diventa così inevitabile affrontare, finalmente, il suo buco: una telefonata che evoca la sua famiglia di origine è l’espediente narrativo che induce il protagonista a riflettere sulla sua condizione (dell’essere adottati c’è qualcosa che non sta scritto in nessun trattato di psicologia (…): non sapere di chi sei ti sparge dappertutto. (…) Noi, della nostra razza di bimbi appaltati, (…) nasciamo sporchi e passiamo tutta la vita con lo strofinaccio, (…) tutto il giorno, tutti i giorni, a cercare di candeggiare via un buco). Il suo io, muto e sofferente, si incarna nel racconto nella figura di Giuseppe, il suo fratello di sangue adottato in un’altra famiglia, che da dieci anni si rifiuta di parlare e per questo è stato rinchiuso in una clinica psichiatrica. Carlo viene contattato dal padre adottivo di Giuseppe; ma, prima di incontrarlo, decide di cercare la sua madre naturale.

Fino a quel momento Carlo ha sempre preferito non saperne, adagiandosi in un lutto confortevole e autoassolutorio, finendo per abitare sul marciapiede della mia vita. Ora però il bisogno di colmare il suo buco è diventato troppo grande: così, rintraccia l’indirizzo di lei e lo raggiunge, guidando una jeep in affitto (sbriciolando la diga con cui volevo fermare la mia storia). Ma, anche stavolta, la sua madre naturale è un’assenza (Suonai. Non rispose nessuno) e una delusione da risparmiarsi (lascia perdere. Lascia stare. Se posso darti un consiglio, non ne viene fuori niente di buono da questa storia, gli dice l’impiegata del Comune alla quale ha chiesto informazioni).

Non c’è possibile risarcimento che possa venire da fuori: Carlo deve trovare in sé stesso la forza di guarire. Il primo passo (l’inizio della cura del mio buco) lo ha fatto affrontando il suo passato, vivendo la rabbia verso la madre che lo ha abbandonato e scegliendo, a propria volta, di abbandonarla al suo destino; ora deve imparare a dialogare con il suo vero io, prigioniero del silenzio, personificato dal fratello Giuseppe. Carlo ne incontra prima i genitori – il padre rabbioso, la madre affranta, alter ego dei suoi – e poi va a visitarlo nella clinica in cui è ricoverato.

In un monologo struggente, Carlo racconta al fratello ritrovato la sofferenza per il buco che si porta dietro da sempre (il peccato originale di essere stato lasciato), che lo ha spinto a vivere una vita non sua, per senso di colpa; gli confessa di volergli bene e gli spiega il desiderio di condividere con lui il dolore che li accomuna, di scambiarsi le proprie schegge di vita, di incollarsi l’un l’altro. Giuseppe gli risponde con uno sguardo e all’improvviso tutto per Carlo cambia: uscito dalla stanza di mio fratello mi è tornato il mondo a colori. Decide di dimettersi da eroe, rinunciando alla scorta e al ruolo di simbolo dell’antimafia e torna dal fratello che ricomincia a parlare, rivelandogli un dolore identico al suo: da lì ha inizio la loro ricostruzione.

Il messaggio finale del libro è di pacificazione. Non è colpa nostra, Giuseppe, dice Carlo; e anche: io devo chiedere scusa a un milione di persone. Chissà se Carlo riuscirà a perdonare la madre naturale che lo ha abbandonato, così come ha perdonato quella adottiva che non lo ha saputo capire; di certo, alla fine della storia è consapevole di non essere il solo a convivere con un doloroso buco: ho maturato l’idea che davvero sia importante essere gentili con tutte le persone che incontriamo perché ognuno sta combattendo la sua battaglia personale.

Lo stile di Cavalli, brutale e funambolico, impedisce al lettore di prendere le distanze dalla storia e lo costringe a camminare sul filo con lui, sentendo la vertigine di quella voragine interiore squadernata in ogni pagina del racconto. Per questo, giunti all’ultima riga ci si sente stanchi e sollevati, turbati e insieme rinfrancati: come se, tenuti per mano da lui, ci fossimo avvicinati abbastanza per sbirciare dentro al nostro personale buco e avessimo imparato il sentiero per non caderci dentro

(fonte)

23 aprile, con Santamamma a Milano per Tempo di Libri

“Meraviglie di primavera”. L’ha chiamata così le foto che mi ha mandato, Claudia. Ditemi voi se non ci commuove, ad avere lettori così.

Eccoci a Milano. Il mio libro Santamamma comincia a viaggiare e io, al solito, dietro a lui. Si riattivano le vene che mi legano alle città in giro per l’Italia ed è un viaggio che avevo sperato da tempo. Senza sovrastrutture, senza croste, senza feticismi antimafiosi: con Santamamma in fondo ho la sensazione di tornare a fare il mio lavoro di dieci anni fa quando le storie da raccontare erano il punto centrale.

Basta pruriti di solidarietà: mi arrivano messaggi bellissimi di chi mi racconta quanto ci si è rivisto, di chi mi sottolinea una passaggio o un aggettivo e le osservazioni tornano a essere genuine. Non so se riesco a spiegare che con Santamamma mi scrollo questi ultimi dieci anni: questo sono io. Questo è il mio mestiere.

Nei prossimi giorni aggiorneremo il calendario delle presentazioni (lo trovate qui) ma intanto segnatevi una data: il 23 aprile sarò a Milano per Tempo di Libri, alle 13.30, Sala Tahoma del padiglione 4, alla Fiera di Milano (trovate tutto qui). Poi arriverà Napoli, poi Roma e così un po’ dappertutto. Per organizzare la presentazione vi basta scrivere a spettacoli@giuliocavalli.net.

Mi ha scritto Claudia, una lettrice:

Che dire quando alla fine di un libro lo chiudi e te lo stringi al cuore?
Un libro farcito di frasi “a forma di” sentiero sconnesso, che inciampano pensieri e liberano sospiri…
Caro Giulio, di certo non corri quel “doppio rischio” del “lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore”.
Nessuna noia a rincorrere quelle parole che si mettono in fila veloci, dando vita ad espressioni che non ti aspetti, eppure perfettamente “calzanti” all’emozione da esprimere.
È stato un piacere. Grazie!

Ed ora io che, distratta dalla mia vita, ho scoperto Giulio Cavalli da poco (mi pare proprio sia stato un regalo del Referendum Costituzionale: doppia vittoria!), dopo aver letto due libri speciali (“Mio padre in una scatola da scarpe” il 28 febbraio, d’un fiato, e “Santa Mamma” in questi giorni) resterò qui in spasmodica attesa del prossimo.

Ecco. Anch’io sono in spasmodica attesa di incontrarvi. Tutti.

Santamamma. La recensione (bellissima) di Ilaria Bonaccorsi per Left

(pubblicato qui per Left, di Ilaria Bonaccorsi)

«Ogni lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore è una doppia dannazione e io, scusatemi, sono troppo fragile per correre questo doppio rischio».

È quasi la conclusione di Santa Mamma, il nuovo libro di Giulio Cavalli (Fandango libri). Forse la sua paura più grande. E solo oggi, solo adesso, chiuso il libro, mi rendo conto del rischio – doppio – che si è preso Giulio. Una storia di sangue e cuore la sua, una storia intima, privata a tal punto da farti vergognare mentre la leggi. Perché lo cerchi tutto il tempo, cerchi Giulio, quello che arriva in riunione di redazione e a volte ti strizza il cuore per il casino che ha dentro, altre ti riempie di parole fino a confonderti. Cerchiamo umanità insieme su Left dal 2015. “Interviste umane” le chiamiamo le sue. Quelle dove cerchi la bontà. Sono i buoni che vogliamo trovare insieme io e Giulio, anche se non vanno di moda, come mi dice sempre. La bontà non va di moda. Abbiamo firmato le copertine più assurde con Giulio Cavalli, persino una che si intitolava “Elogio della gentilezza”. Ma questo è Giulio Cavalli ed è perfetto per Left, gliel’ho sempre detto. E quando ho letto il suo libro ho capito il senso intero, quello grande, quello che gli fa cercare i buoni. Non gli eroi, i buoni, quelli che sentono il buco ma non lo hanno. E capisco, dopo aver letto Santa Mamma, quanto debba averlo sentito quel buco, e quanto abbia scavato, terrorizzato dal trovare il vuoto. E invece nessun vuoto. Al massimo un gran casino, un casino magnetico che ti fa divorare la storia di Carlo Gatti, il suo protagonista.

«Forse è meglio che mi presenti ma non sono mai stato forte, vi confesso, né con gli inizi e ancora meno con i finali: solitamente finisco dentro qualcosa da cui mi sfilo vigliaccamente nel modo più indolore possibile. Cerco il protagonismo e poi ne soffro. Ogni volta ci ricasco. Deve essere per questa mia ossessione di scrivermi un inizio. Sono Carlo Gatti e sono nato con un buco».

La storia di un bambino adottato all’età di tre anni, eroe per caso e poi per finta, di un fratello e di una ribellione. La sua storia? Forse. Mentre leggo mi ritrovo a pensarlo, e mi spiace spiare, ma sento il rischio.

«Sì, ma nessuno si mette a leggere i tuoi miseri vizi privati. Nessuno si prende la briga di capire i tuoi drammi così patetici. La tua grandezza era solo la grandezza dei tuoi nemici. Non del fratello matto o delle tue paturnie».

Lo dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti che l’eroe non lo vuole più fare. Lo ha pensato Giulio? Ha pensato di essere un buco grande quanto la grandezza dei suoi nemici? Forse. Conoscevo, conosco Giulio, sono due anni che scrive ogni giorno per Left, ma non mi aspettavo un libro tanto bello. Tanto perfetto. Scusatemi per la sorpresa e anche l’emozione. Ho pensato di non scriverlo, ho pensato persino di dare il libro a un mio redattore e di lasciare sgonfiare il mio cuore con calma. Ma a Giulio lo devo e forse gli devo anche delle scuse perché non ho capito subito, non ho visto subito.
Un libro buffo e uno serio. Un libro su un Matteo e un libro su se stesso. Questo aveva proposto. E la risposta è stata scontata. Su te stesso. Non restava allora che tuffarsi per lui. Senza paura? No, con la paura di annegare per «quella placenta che gli si era seccata addosso», alla nascita a lui bambino «appaltato». Dovrò fare uso di psicofarmaci, mi ha detto scherzando. E ha inalato fumo alla vaniglia dalla sua sigaretta elettronica, poi è sparito. Inutile inseguirlo, era andato nel “suo buco”. C’era solo da aspettare.

Ci sono frasi o momenti in Santa Mamma che ti straziano il cuore (ma non posso e non voglio spoilerare la storia!), ci sono espressioni che non avevo mai letto prima, come «ha due occhi che mi prendono per i capelli», c’è un modo di usare la lingua che ti tira dentro e poi ti mette fuori, a leggere soltanto quello che solo lui ti racconta.

«Ti dimenticheranno in poco tempo» dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti «nato con un buco». Invece Giulio io penso che non ti dimenticheranno in poco tempo perché il libro è indimenticabile. Mi hai fatto “scendere dal mio naso”, come scrivi di te stesso, più e più volte e mi hai portato nella tua vita. E ho pensato quello che hai scritto per tuo fratello di noi due:

«Però non ci capisce nessuno vero?». «Adesso cominciamo. Cominciamo adesso».

Io il libro di Giulio Cavalli non so raccontarvelo, posso solo pregarvi (passatemi il termine!) di leggerlo.

Santamamma, l’incipit

(Il mio libro Santamamma è in libreria per i tipi di Fandango Libri e questo è l’incipit. Buona lettura.)

Foto non ne ho

Domani portate una vostra foto da piccoli, ci aveva detto la maestra. Forse prima elementare: di solito è lì che si inizia con la perversione dell’inculcare la meraviglia per la natura col diventare grandi, con la polpa che si aggiunge a polpa e i peli che si fanno capelli. Portate una foto da piccoli, la maestra si chiamava Anna, che dobbiamo fare un lavoretto; e la classe già inebriata dal pensiero di forbici, carta a strisce e colla secca sui polsini del grembiule.

Io invece no. Io non ce l’avevo una mia foto da piccolo.

Non l’ho mai avuta perché sono stato piccolo al massimo a due anni e mezzo: prima niente foto, niente tutine, niente ciucci da tenere sotto teca e nemmeno le prime scarpine slacciughente e uncinettate. La mia prima foto sono io, verso i tre anni, seduto sui gradini di un giardino con la ghiaia al posto dell’erba mentre spingo una macchinina fuoristrada rossa con la ruota di scorta avvitata sul tetto. Indosso una maglietta a strisce orizzontali bianche e rosse, pantaloni rossi e lo sguardo abbacinato. Sarò stato colpito da tutto quel troppo rosso o forse dalla violenza di chi martella ruote sui tetti delle auto; mi sono dato questa spiegazione per giustificare la torvatura della faccia. Niente per cui strapparsi lacrime a inizio del capitolo, intendiamoci: la fotografia, pur tardiva, svolge serenamente la funzione delle nostre foto da piccoli e ogni sputata volta c’è qualcuno che mi trova perfettamente somigliante a uno a caso dei miei figli. Tutto a posto. Qualcuno spericolato vede anche qualcosa di spiccicato “alla mamma” e fa niente che io sia stato adottato: io e lei ci guardiamo e in silenzio ci diciamo che no, che non vale nemmeno la pena di dirglielo, e in silenzio ci diciamo che va bene così. Mica vorrai frantumargli l’eccitazione.

La foto per la maestra Anna comunque non ce l’avevo e già allora non avevo il fisico per inscenare un dramma che non mi sfiorava per niente. Piansi. Iniziai a piangere nel modo meno credibile di tutta la mia vita con un lamento bitonale come una sirena dalle batterie scariche. Per mancanza di lacrime mi misi anche le mani sulla faccia simulando una lentezza straziata e producendo singhiozzi con colpi di pancia: devo essere stato uno spettacolo orribile se è vero che la maestra Anna, con il solito fragore degli adulti che hanno paura dell’oscenità di un pianto in pubblico, si è alzata dalla cattedra per soffocarmi di consolazione.