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sinistra

Cosa non deve fare il centrosinistra (subito) per vincere le elezioni

Da un editoriale di Lorenzo Zamponi e Claudio Riccio:

Meglio stare fermi e aspettare che passi la nottata, tanto la destra è allo sfascio e il centrosinistra non può perdere.

Non ci stupisce il cinismo di questo ragionamento, che passa con leggerezza sopra le vite dei tanti italiani che subiscono gli effetti concreti delle manovre di Monti, a quello siamo abituati. Ci stupisce la sua incredibile miopia.
Si tratta della stessa miopia che caratterizzò i mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008, quando Walter Veltroni e i suoi accoliti credettero che fosse possibile, picconando a destra la già precaria e impopolare architettura del governo Prodi, riconquistare un consenso e andare al governo. Ciò che Veltroni non vedeva allora e che oggi sembrano non vedere i vari Bersani, Di Pietro e Vendola, è che non si può vincere a sinistra su un terreno di destra. Che l’autonomia del politico è un mito, che non esiste un momento elettorale asettico e isolato dal contesto in cui si situa, che, soprattutto a sinistra, esiste un nesso inscindibile tra potere politico e rapporti di forza sociali.

E non si vede davvero come il dibattito politico di questi mesi possa preparare uno sbocco elettorale in qualche maniera progressista. Il governo Monti, assolutamente privo di opposizione, in parlamento come nella società, sta mettendo in pratica una politica apertamente conservatrice, e nei dirigenti della sinistra si fa strada l’idea che, tutto sommato, non sia così male: il governo tecnico si fa carico delle “riforme impopolari che l’Europa ci chiede”, e così, tra un anno, un nuovo governo può andare da Angela Merkel, mettere sul piatto i sacrifici fatti dal popolo italiano, e pretendere in cambio margini di manovra un po’ più ampi.

Ma si tratta di puro wishful thinking, privo di qualsiasi razionalità. Perché mai le élite economiche che in 6 mesi di governo Monti hanno già portato a casa gran parte di ciò che Berlusconi aveva promesso loro 20 anni fa, cioè riforma delle pensioni, parziale liberalizzazione dei licenziamenti, facilitazioni e incentivi all’utilizzo di contratti precari, apertura alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, riduzione del pubblico impiego, ennesimo blocco del turn over all’università ecc., dovrebbero poi accontentarsi, e non trovare un nuovo campione a cui affidare le sorti del paese, a meno che chiaramente il presunto “centrosinistra” non sia disposto ad adottare l’agenda Monti? E perché mai Bce, Fmi e governo tedesco dovrebbero concedere a Bersani ciò che non hanno voluto concedere a Berlusconi e che oggi, vedi vertice europeo della settimana scorsa, non concedono neanche al fidato Monti? Ma, soprattutto: perché mai i cittadini italiani dovrebbero votare per chi promette di fare domani il contrario di ciò che vota in parlamento oggi, che è a sua volta il contrario di ciò che prometteva ieri? Quale sarebbe la proposta politica di un eventuale centrosinistra agli italiani? Sarebbe il portato delle mobilitazioni anti-austerity degli ultimi 4 anni, con la difesa dell’università pubblica, l’acqua come bene comune, la battaglia contro la precarietà e contro il modello Marchionne, oppure sarebbe l’agenda di Monti?

Perché (come si chiedeva ieri Alberto Burgio su Il Manifesto):

Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi? 
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt’al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l’oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento. 

Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l’ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent’anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l’attuale situazione? 

In particolare la sinistra – in tutte le sue diramazioni – di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all’origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent’anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali. 

E su questa partita si devono sciogliere i nodi con (pezzi) del Partito Democratico. Che ci piaccia o no. E che si possa dire o no per il quieto vivere che ci si consiglia tra i corridoi.

 

Hollande e la strada da seguire per SEL

Il vento che parte da Milano, Cagliari, spira dalla Francia fino alle amministrative che saranno è un programma politico. E mentre continuiamo a non riuscire ad aprire un dibattito serio sui farfuglianti di chi vede antipolitica dappertutto la richiesta che arriva dall’Europa è chiara almeno in un punto: l’identità. Identità chiara, punti definiti e consapevolezza della propria posizione. Per questo oggi SEL ha un invito che non può non ascoltare: tenere la posizione, rivendicare le proprie diversità, non diluirsi negli alleati medioideologici o postideologici (brutti tempi, eh?).

Marco Damilano propone un’analisi interessante:

Seconda lezione: l’identità. Ancora ieri, in piazza della Bastiglia, Hollande ringraziava dichiaratamente la Gauche. E a sfogliare il suo programma c’è da restare allibiti: assunzioni nella pubblica amministrazione, aliquota del settantacinque per cento per i redditi sopra il milione di euro, abbassamento dell’età pensionabile, tassazione delle rendite finanziarie e soprattutto rimessa in discussione del fiscal compact. Insomma, il capovolgimento della vulgata corrente anche in Italia, per cui essere riformisti ha significato essere la sinistra della destra o, se vogliamo, un altro modo di essere di destra. Amore per la ricchezza, per i capitani coraggiosi, per i cuochi di grido, per le belle barche e per le belle scarpe. Hollande dice qualcosa di sinistra, qui da noi si fatica perfino a balbettare la parola patrimoniale. Il Pd ha votato appena una settimana fa per l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. E fa fatica a darsi un progetto di sinistra, tanto più che appoggia un governo la cui filosofia è esattamente all’opposto. Anni Novanta: tagli alla spesa pubblica, innalzamento dell’età pensionabile, liberalizzazioni, allentamento delle tutele nel mercato del lavoro… Tutte cose che avrebbe dovuto fare il centrodestra italiano, se fosse mai esistito. Invece nel Pd c’è chi pensa che debba farle la sinistra: i tardo-blairiani, molto agguerriti, che ancora qualche mese fa chiesero le dimissioni del responsabile economia Stefano Fassina. Da oggi la sfida è aperta: l’Europa non è un dogma, non ci sono soluzioni tecniche indiscutibili. Adieu alle politics, si torna alla politica.

La politica del ‘medio’

Che non è il dito di Bossi o di Formigoni: è questa abitudine al “benaltrismo” che a sinistra si instilla per disinnescare le discussioni e insegnarci che le priorità le devono decidere le segreterie. Perché la discussione tra Vendola e Veltroni (e i successivi interventi del sindaco Emiliano e di Mussi) non è cosa “banale e antica” (mi spiace per la stima che ho per Civati ma sulla sua definizione proprio non sono d’accordo) ma piuttosto una mediazione trascinata che non riesce nemmeno a diventare un compromesso. Non perché ci siano posizioni giuste o sbagliate per antonomasia (e ci mancherebbe) ma perché sui temi di questo nostro tempo ci è chiesta una certa sana intransigenza di fondo che ci renda chiari e leggibili per provare ad essere credibili: sulle politiche economiche del Governo Monti, sulla vicenda TAV (e delle tante TAV in giro per l’Italia da TEM, Pedemontana in Lombardia, per fare due esempi), sul valore dell’articolo 18 (e quello che rappresenta), sulle possibili declinazioni del referendum sull’acqua (senza strane multiutility) e sull’interpretazione delle alleanze possibili. Si può essere democraticamente liberal? Si, ma la posizione non è conciliabile con il welfare che in molti vorremmo. Si può rimanere affascinati da Passera o i tanti piccoli Tabacci? Certo, ma noi vogliamo fare altro. Il dibattito tra Vendola e Veltroni è il modo diverso di intendere la sinistra. Radicalmente diverso. E il benaltrismo nell’affrontarlo ultimamente ha partorito mostri (che ci hanno portato alle sonore sconfitte di questi ultimi anni) oppure ha generato personalismi radicali (guarda il caso) che poi ci si è affaticati ad adottare. La constatazione amichevole (e analitica, progettuale, sui programmi e sulle riforme) è il programma del centrosinistra. Altrimenti sono il centro e la sinistra che si tamponano al primo incrocio. Ed è una storia già vista.

Noi, nel nostro intenso piccolo, iniziamo a dedicarci alle differenze (che vogliamo coltivare senza massimalismo ma con slancio) a Milano questo sabato. Perché le mediazioni, per essere credibili, devono avere chiare le posizioni di partenza.

Un linguaggio comune

Un gran pezzo di Ugo Mattei. Almeno per tornare a parlare di cose serie e per leggere in questo momento politico persone, sigle e informazioni.Un linguaggio nuovo è ciò che riduce ad unità le battaglie politiche di dimensione globale per i beni comuni che oggi si ritrovano in piazza. In Italia di queste battaglie e della produzione di questo linguaggio il manifesto è stato in questi anni protagonista, fino ad essere riconosciuto esso stesso come un bene comune. Queste battaglie, dall’acqua all’Università, dal Valle di Roma al no Tav della Val Susa, dall’opposizione ai Cie ai Gruppi azione risveglio di Catania, sono declinate in modo diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di uno stesso decisivo processo costituente. Muta la tattica ed il suo rapporto con la legalità costituita. Resta costante la strategia costituente che immagina la società dei beni comuni. Ovunque si confrontano paradigmi che travolgono la stessa distinzione fra destra e sinistra, consentendo vittorie clamorose come quella referendaria su acqua e nucleare. Il paradigma costituito fondato su un’idea darwinista del mondo che fa della crescita e della concorrenza fra individui o comunità gerarchiche (corporation o Stati) l’essenza del reale. La visione opposta, fondata su un’idea ecologica, comunitaria solidaristica e qualitativa dello sviluppo, può trasformarsi in diritto soltanto con un nuovo processo costituente, capace di liberarsi del positivismo scientifico, politico e giuridico che caratterizza l’ordine costituito da cinque secoli a sostegno del capitalismo che ancora colonizza le menti e i linguaggi. Il modello costituito è sostenuto dalla retorica sullo sviluppo e sui modi di uscita dalla crisi, che i media capitalistici continuano a produrre, nonostante la catastrofica situazione ecologica del nostro pianeta. L’insistenza mediatica è continua e spudorata ma progressivamente meno seducente e le forze costituenti costruiscono nella prassi quotidiana un mondo nuovo e più bello. 

Renzi, proprio lui

… non capisce. «Non capisco quest’ansia della sinistra che mi dà di Berluschino, di trovare un nemico. È proprio questa sinistra che facendo così è molto berlusconiana».

Giornalisti giornalisti

Pierfranco Pellizzetti stila le categorie con chiarezza“i giornalisti/giornalisti” (quelli al servizio della notizia e del lettore), “i giornalisti impiegati” (che timbrano il cartellino quotidiano come tante mezze maniche) e infine “i politicanti sotto mentite spoglie” (referenti privilegiati di una parte o di tutte le parti politiche. Riconoscibili per le interviste a comando, tipo quel vice di Repubblica che a Massimo D’Alema ne ha fatto svariate centinaia). In mezzo c’è anche la discussione sulla presuntuosa (ora nemmeno presunta) superiorità morale del centrosinistra che vorrebbe essere intoccabile come racconta Ferruccio Sansa. Sfugge, in effetti, perché non si possa riportare l’azione ad una sinistra che contrasti la destra con progetti di Giustizia e Libertà. E che scelga “politici/politici” (al servizio del Paese e degli elettori) rispetto a “i politici/impiegati” (al servizio del presidente e servili per la prossima elezione) o i “nullafacenti sotto mentite spoglie politiche” (che non hanno professione, professionalità e valori da professare).

La manovra miope di un governo che boccheggia

La prima notizia è che finalmente si riescono a leggere i numeri di questa ultima manovra e che finalmente si esce dalla polvere di un opinionificio sulla finanziaria (che solo in questo paese eleva la pancia a bussola senza bisogno di leggere i numeri) producendo finalmente le chiavi di lettura per un’analisi. La promessa di azzerare il debito pubblico entro il 2014 (che è una delle tante promesse durata giusto il momento di una magra stampella qualsiasi di consenso) ha bisogno di circa 40 miliardi. All’appello, invece, mancano 15 miliardi che il governo ha pensato di affidare a una delega fiscale che ha tutta l’aria di essere la brutta copia della legge votata dal Parlamento nel 2003 (sul becero copia e incolla ha scritto un pezzo illuminante Cecilia Guerra) e che dovrebbe entrare in vigore dal 2013 con un nuovo governo in carica. L’avventatezza di una decisione del genere è tutta nei risultati dei mercati di questi ultimi due giorni.

Tagliati i trasferimenti alle regioni, alle provincie e ai comuni (già sull’orlo del dissesto) e alla spesa sanitaria (tesoretto di liquidità e consenso gestito dalle regioni). Il sogno del federalismo in questa manovra è uno spot a cui non crede più nessuno che brancola nel buio in mutande e pochi altri cenci.

Le entrate maggiori sono figlie delle imposte regressive (che in politica equivalgono ad un’ammissione di colpa) e sui piccoli e medi risparmiatori. A conti fatti la manovra (che potete scaricare qui) agisce per due terzi sulle entrate e per un terzo sulle minor spese.

Ma il cuore nero di questa manovra sta nell’assenza di un’idea di sviluppo. Nella perseverante incapacità di disegnare un futuro che non sia una salvezza con il naso a pelo d’acqua. Nella politica di salvarsi a tutti i costi per arrivare sani al tramonto senza nessuna idea di come respirare l’alba. Questa manovra (perché nelle manovre finanziarie si concretizzano in numeri le pratiche politiche) è la croce di una politica che deve resistere fino ad un minuto dopo aver recuperato tutti i naufraghi senza nessuno che tracci la rotta.

E la coalizione di centrosinistra, oggi più che mai, ha il dovere di raccontare l’alternativa. La sostenibilità dell’altra Italia che sia figlia del sentire comune. Perché non è il tempo del celodurismodi qualcuno nel centrosinistra. Non c’è tempo per giocare ad essere i migliori presbiti contro i miopi. E’ l’occasione per raccontare al Paese una pagina scritta. Insieme.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/12/la-manovra-miope-di-un-governo-che-boccheggia/144693/

Senza polemica

Oggi pomeriggio scrivevo questo post e poche ore dopo Antonio diceva: e io non ci sto più a sentir dire ogni volta che si parla dell’opposizione “la sinistra”. L’opposizione a questo governo è fatta non solo dalla sinistra. E’ fatta da forze politiche che mettono insieme e devono mettere insieme con grande responsabilità la solidarietà, della sinistra, la difesa delle fasce più deboli, della sinistra, la legalità della destra sociale, la capacità di mettere insieme solidarietà e libero mercato in modo che anche la meritocrazia sia un valore e non diventi mero assistenzialismo. Per il certificato di abitabilità oggi mancherebbero le altezze.