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Auguri, Liliana Segre. Come sempre, saprai perdonare chi ti obbliga a festeggiare i 90 anni sotto scorta

La memoria è un bene e raro prezioso, sarà per questo che in Italia si tende a risparmiarla. E che oggi Liliana Segre compia novant’anni e li debba celebrare sotto scorta, lei che è uscita viva dall’orrore di Auschwitz e che ha perduto gli affetti nella furia nazista, è la fotografia più urgente di quello che siamo. Allora buon compleanno, carissima Liliana Segre, ed è un buon giorno anche per noi che abbiamo tanto bisogno di una memoria che sia viva, reale, tattile, che abbia voce, che esista, che si permetta di essere argine ogni giorno contro un revisionismo che si infila in tutti i pori della politica, della comunicazione, della società.

Buon compleanno e grazie. Grazie di essere la prova che una testimonianza sopravvissuta al periodo più buio del nostro ultimo tempo passa essere decisa e misurata, grazie delle parole che ancora vengono usate bene quando sono dense di significato, quando le parole servono ancora a rimettere le cose al loro posto, grazie della sua presenza in un Paese che ha un disperato bisogno, tutti i giorni, di ricordarsi di ricordare.

E poi ci sarebbe il regalo da fare, come ogni buon compleanno che si rispetti, a Liliana Segre: c’è quella Commissione straordinaria contro odio, razzismo e antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, da lei proposta e approvata in Senato il 30 ottobre 2019 che giace lì in attesa di entrare in funzione e che si propone di “osservare, vigilare, studiare e proporre iniziative atte a contrastare eventi e manifestazioni di razzismo, antisemitismo, intolleranza, istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base dell’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche”. Il regalo migliore che potremmo farle, e che potremmo farci, è quello di rendere funzionale una commissione di cui c’è assolutamente bisogno in questo momento e che renderebbe questo Paese un posto sicuramente migliore.

E grazie Liliana Segre per tutte le volte che non si è sottratta dal parteggiare di fronte ai brutti casi che si sono succeduti in questi mesi. Anche sulla morte di Willy le parole migliori le ha pronunciate lei: “La morte di Willy mi ha fatto molta paura. È stata come una sconfitta personale, mi ha fatto pensare che tutto ciò che ho provato a fare contro la violenza e l’odio, alla fine è servito a poco. Se ancora ci sono in giro persone che pensano di risolvere le proprie sconfitte personali picchiando il prossimo, siamo ancora in una società lontana dalla civiltà”. Auguri, a lei e a noi.

Leggi anche: 1. Il commovente discorso di Liliana Segre agli studenti de La Sapienza: “Sarò sempre la ragazzina espulsa da scuola perché ebrea” / 2. “Io che ho vissuto Auschwitz sulla mia pelle, vi avverto: attenti a questa campagna d’odio”, intervista a Liliana Segre

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E il maluomo non s’armolada

Secondo uno studio dell’Università di Padova il ghiacciaio della Marmolada nelle Dolomiti tra 15 anni potrebbe non esistere più. Ma il tema è pressoché assente dal dibattito pubblico. E la politica finge che non esista

Marmolada è diventato un verbo, un verbo di distruzione, un verbo di irresponsabilità, un verbo che dovrebbe ricorrere nei discorsi perfino quelli del bar, quelli che si fanno con leggerezza e che ultimamente sono abbastanza ingolfati di presunti vip fieri di essere infettati e di chiacchiericcio di fondo.

Secondo uno studio del Centro nazionale delle ricerche tra 25-30 anni il ghiaccio della Marmolada non esisterà più. Nel dicembre del 2019 gli studiosi scrivevano che in soli 10 anni il ghiacciaio della Marmolada, montagna iconica delle Dolomiti, ha ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale è stata del 22%. Il ghiacciaio, un tempo massa glaciale unica, è ora frammentato e suddiviso in varie unità, dove in diversi punti affiorano masse rocciose sottostanti. I terreni carsici, come la Marmolada, sono irregolari e costituiti da dossi e rilievi. Se il ghiaccio fonde gradualmente, le aree in rilievo affiorano, diventando fonti di calore interne al ghiacciaio stesso.

Ora un nuovo studio dei glaciologi dell’Università di Padova dicono che il Cnr probabilmente è stato fin troppo ottimista. «Negli ultimi 70 anni – afferma Aldino Bondesan, coordinatore delle campagne glaciologiche per il Triveneto – ha ormai perso oltre l’80% del proprio volume passando dai 95 milioni di metri cubi del 1954 ai 14 milioni attuali. Le previsioni di una sua estinzione si avvicinano sempre di più: il ghiacciaio potrebbe avere non più di 15 anni di vita». «Se estendessimo il trend di riduzione di superficie degli ultimi 100 anni (3 ettari/anno) – spiega Mauro Varotto – la fine del ghiacciaio è fissata per il 2060; se consideriamo il trend di contrazione degli ultimi 10 anni (5 ettari/anno), la fine viene anticipata al 2045. Ma il trend degli ultimi 3 anni è ancora più allarmante (9 ettari/anno) e potrebbe portare alla scomparsa di buona parte del ghiacciaio già nel 2031».

E non si tratta di un caso isolato: l’aumento delle temperature hanno ridotto nell’ultimo secolo del 50% i ghiacciai e il 70% di questo 50% è avvenuto negli ultimi 30 anni.

Marmolada è diventato un verbo. M’armolada molto che se ne parli solo negli articoli considerati scientifici come se non fosse un tema fortemente politico. M’armolada che nella campagna elettorale in corso non ci sia un solo accenno. M’armolada che i segretari di partito non sprechino mai una parola, non abbozzino mai una soluzione ogni volta che esce una notizia di questo tipo. M’armolada che quelli che promettono di spostare le montagne non si accorgono della loro sparizione. M’armolada che ancora si scriva e si dica del presunto maltempo senza capire che non è mai il tempo a essere malo ma tutto quello che accade è colpa piuttosto di un maluomo.

E il maluomo non s’armolada, continua a arrovellarsi sui problemi (reali e spesso inventati) che interessano il presente.

Buon mercoledì.

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E i decreti sicurezza?

Avevano garantito che sarebbe stato il governo della discontinuità e invece dopo 362 giorni di Conte 2 le leggi di Salvini sono ancora in vigore

Conviene ricordarlo perché fa bene a noi e fa bene anche a loro, loro che sono al governo e che ci avevano garantito che sarebbe stato il governo della discontinuità, ci avevano rassicurato che si sarebbe cambiata rotta. E il bello è che continuano a dircelo ancora, insistono nel tranquillizzarci chiedendoci ancora pazienza. State buoni, abbiate fiducia, ora facciamo tutto.

I decreti sicurezza. Quei decreti sicurezza voluti con tanto ardore da Matteo Salvini e controfirmati da Luigi Di Maio e dal presidente del consiglio Giuseppe Conte, quei decreti sicurezza che in nome della discontinuità sarebbero stati abrogati e poi invece ci siamo dovuti accontentare che fossero modificati. Badate bene: della promessa che fossero modificati. Siamo sempre nel campo delle promesse. Sono passati 362 giorni dall’insediamento del governo Conte 2 e i decreti sicurezza continuano a restare là dove sono e, dalle notizie che girano dalle parti del governo, sembra che se ne riparli dopo le elezioni regionali, a ottobre. Vi ricordate la promessa che sarebbero stati all’ordine del giorno nel primo Consiglio dei ministri di settembre? Beh, scherzavano, non è così.

Le parole migliori le ha espresse Gianfranco Schiavone di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) a Redattore Sociale: «Questo rinvio è l’ennesimo gioco della paura: si rinuncia a presentare agli italiani la propria visione diversa e nuova sulle migrazioni per paura di perdere consenso. E’ ormai un circolo vizioso costante dal quale però bisogna uscire, soprattutto in un momento in cui bisognerebbe spiegare le proprie idee agli elettori. Quei decreti non vanno bene, perché non spiegare che i grandi centri creati da Salvini stanno creando problemi con l’emergenza sanitari di Covid-19? Che serve reintrodurre una forma di protezione? Così rimane solo l’impianto ideologico della destra. Se poi il rinvio significa che il voto influenzerà le modifiche, potremmo avere una crisi di quell’accordo che abbiamo raggiunto a fatica, c’è addirittura lo spettro di non fare nulla».

E così siamo alle solite: una politica che decide di non decidere sperando di continuare a galleggiare, come se niente fosse. Un centrodestra che può continuare a sparare a palle incatenate e intanto un centrosinistra che non ha nemmeno il coraggio di proporre un’alternativa. Qui ormai siamo oltre all’egemonia culturale della destra: qui siamo nel deserto di idee e di coraggio. Lo so, ancora, è sempre la solita storia.

Buon martedì.

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Morti di fame

L’avvocata Ebru Timtik, prima di lei i musicisti del Grup Yorum. Morti per le conseguenze della loro protesta in difesa della giustizia. Accade nella Turchia di Erdogan, graziato dal silenzio dell’Europa

È una storia che gocciola sangue anche se non c’è sangue in giro perché qui i morti muoiono per consunzione. Giovedì sera a Istanbul è morta Ebru Timtik, avvocata che da 238 giorni era in sciopero della fame nelle prigioni turche per chiedere un processo equo per sé e per 17 colleghi che erano accusati di legami con il Fronte rivoluzionario della liberazione popolare (Dhkp/C), un gruppo di estrema sinistra considerato formazione terroristica dal governo.

Timtik aveva 42 anni e si occupava di diritti umani da sempre, era stata condannata nel 2019 a 13 anni e sei mesi di carcere, il suo accusatore è stato ritenuto non credibile, lei contestava l’iter giudiziario che l’aveva portata alla condanna. In Turchia Erdogan da anni, graziato dal silenzio dell’Europa, utilizza l’accusa di terrorismo per fare piazza puliti degli oppositori ritenuti scomodi al governo. Timtik faceva parte dell’associazione contemporanea degli avvocati, specializzata nella difesa di casi politicamente scomodi, “se l’era andata a cercare”, come commenterebbe qualche pavido nostrano che insegna e ci vorrebbe insegnare che per non avere problemi conviene sempre farsi “i fatti suoi”. Ebru Timtik aveva difeso anche la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente vittima delle ferite riportate durante le proteste antigovernative a Gezi Park nel 2013.

Un mese fa il tribunale di Istanbul aveva negato la richiesta di scarcerazione di Ebru Timtik dichiarando che era “in salute” e perfino la Corte Costituzionale aveva negato, qualche settimana fa, la scarcerazione. Con Timtik in sciopero della fame c’era anche il suo collega Aytaç Ünsal, anche lui incarcerato, che con un filo di voce dal letto di ospedale ha detto di essere ancora più convinto di quello che sta facendo e della sua lotta, che vorrebbe che la battaglia di giustizia continui, anche lui è in pericolo di vita. Sono 18 gli avvocati condannati per un totale di 159 anni, un mese e 30 giorni di reclusione: tra le accuse nei loro confronti c’è anche quella di avere parlato con i loro clienti. Accusati di avere fatto il proprio lavoro. I testimoni del processo erano tutti anonimi e in carcere, evidentemente ricattabili. A maggio tre musicisti membri del gruppo Grup Yorum, anche loro accusati di terrorismo, si sono lasciati morire d’inedia per protestare contro Erdogan.

È una notizia enorme, enorme per l’altezza del pensiero di chi muore per degli ideali ancora nel 2020, qui vicino a noi, in un Paese con cui tutta Europa briga fingendo di non vedere, ed è enorme perché è una lezione di difesa della giustizia anche di fronte alla legge. Morti di fame per difendere i propri diritti, sembra una storia che arriva dal secolo scorso. Durante il funerale di Ebru Timtik sono stati sparati lacrimogeni contro i giovani che vi partecipavano.

Accade qui, vicino a noi. Lo sentite questo fragoroso silenzio?

Buon lunedì.

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Ma dai? Si torna a scuola?

Eccoci qua. Mi era capitato qualche settimana fa, eravamo ancora in pieno periodo vacanziero a ricordarmi che saremmo arrivati in ritardo con le aperture delle scuole. Era scritto, del resto: nei molti mesi che ci sono stati a disposizione per ripensare la scuola e per programmarne la riapertura ci si è consumati tra le piccole guerre tra Stato e regioni e a discutere di banchi con rotelle, di plexiglas e di indecenti attacchi sessisti alla ministra. Rimanere sul punto evidentemente era troppo difficile.

Così ora si scopre che anche i professori si ammalano (i primi risultati dicono 16 professori positivi in Veneto, 12 in Lombardia tra Varese e Como, 20 in Umbria, 4 in Trentino) e che come avviene in qualsiasi luogo di lavoro forse è il caso di fare i test. A proposito di test: si rilancia la notizia che un terzo dei professori non vorrebbe sottoporsi a tampone (che il governo ha, chissà perché, reso volontario) e ovviamente tutti ora giocano al massacro: peccato che l’indagine abbia ben poco valore statistico (si sa di interviste telefoniche a qualche centinaio di insegnanti e non si sa di che regione siano) e peccato che siano moltissimi gli insegnati che invece lamentano addirittura l’impossibilità di accedere al tampone. Tra l’altro in alcune regioni il test è gratuito e in altre no, così a caso. Sia chiaro: tutto questo a pochi giorni dall’inizio della scuola.

Ma non è tutto: ora ci si accorge che i ragazzi a scuola ci devono andare e che molti ci vanno in autobus e indovina un po’? Gli autobus sono strapieni. Eh, già. Non era difficile immaginarlo, basterebbe sostare davanti a una scuola qualsiasi per accorgersene in una città qualsiasi. Fenomenale il presidente delle Marche Ceriscioli che a Repubblica dice che Burioni ha trovato la soluzione: i ragazzi nel bus devono indossare la mascherina e restare in silenzio, senza parlare. Sembra uno scherzo e invece è drammatico.

Poi ci sono i banchi: il pessimo commissario Arcuri ora parla di alcune consegne a fine ottobre e il bando di gara era talmente scritto male da dover essere corretto un paio di volte. Giunge notizia che ora il commissario stia facendo ordine a aziende extra bando. Qualcuno dice che ci vorrebbe vedere chiaro ma i costi e i contratti sono secretati “per evitare polemiche politiche” dice Arcuri, come se avesse l’autorità di decidere cosa rendere pubblico e cosa no.

Poi ci sono gli spazi: garantire distanziamento sociale in edifici che avevano già problemi di cubature in epoca pre Covid diventa una missione quasi impossibile. A tutto questo aggiungeteci il caos di un’opposizione che soffia sul fuoco piuttosto che proporre soluzioni.

Eppure proprio sulla scuola si misurerà molta della capacità di questo governo di affrontare la pandemia. Per questo vale la pena approfondire. Per questo se ne parla nel numero di Left in edicola e in digitale.

Buon venerdì.

Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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Buona guarigione, Briatore

L’imprenditore piemontese ha insistito nel negare la pericolosità del virus. Forse, una volta guarito dal Covid, dovrà delle spiegazioni a chi ha messo in pericolo: dipendenti e ospiti del suo locale che si è rivelato un pericoloso focolaio

Giusto qualche giorno fa proprio su queste pagine mi è capitato di contestare Flavio Briatore per le sue idee e per la superficialità con cui ha affrontato il tema dei rischi Covid e la superficialità con cui ha invocato il liberi tutti in nome del fatturato del suo locale che proprio in questi giorni si è rivelato un pericoloso focolaio con ben 63 positivi su 90 tamponi fatti.

Flavio Briatore è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano (tra l’altro in un reparto che non è attrezzato per il Covid e dove, pagando, ha deciso di stare) perché anche lui è positivo e intorno, ovviamente, si sono avventati un po’ tutti, anche chi con un certo sprezzo del senso di umanità sta augurando all’imprenditore la peggior sorte in nome di una giustizia vendicativa che dovrebbe servirgli da lezione. Beh, qui si augura a Briatore di guarire presto (del resto le notizie dicono che le sue condizioni siano stabili e buone, niente di preoccupante al momento, così dice il comunicato ufficiale del suo staff) però alcune considerazioni meritano di essere fatte.

Come scrive giustamente Massimo Mantellini: «Immaginare di sterilizzare la discussione che lo stesso Briatore ha scatenato, ora che è malato della stessa malattia che negava, e questo in nome dell’umana pietà che dobbiamo riservare a tutti, è semplicemente ridicolo». Briatore, come molti altri, ha insistito nel negare il pericolo e negare la pericolosità del virus (e con lui lo stesso primario Zangrillo che ora se lo ritrova in reparto) e forse, una volta guarito, in quanto personaggio pubblico (e usato spesso dalla politica come profeta, sui social della Lega sono state rilanciate di gran voga le sue dichiarazioni) dovrà spiegare questa sua superficialità, ci dovrà spiegare come sia successo che la sua discoteca abbia numeri di contagio che sono ben superiori a quelle delle altre discoteche e dovrà delle spiegazioni a chi ha messo in pericolo, a tanti dei suoi dipendenti e dei suoi ospiti. Perché, come dice spesso lo stesso Briatore, «le parole stanno a zero e contano i fatti». E infiammare gli animi finisce sempre per rivoltarsi contro, sempre.

Per quanto riguarda i complottisti invece non c’è speranza: comincia già a girare la fake news che Briatore sia stato “infettato dal sistema”. Pensate un po’.

Buona guarigione.

Buon mercoledì.

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Il Governo decida: conta più la salute o il lavoro?

Coronavirus, il Governo decida: conta più la salute o il lavoro?

Proviamo a stare un po’ più alti, ad alzarci da questa discussione che si è accesa sulle discoteche che dovrebbero essere i nuovi avamposti della libertà. Siamo d’estate, d’estate le persone si sono mosse e per fortuna si è mossa l’economia, quell’economia che è rimasta stagnante durante il lockdown ed è terrorizzata dal ritorno della seconda ondata del Coronavirus.

Lasciate perdere i milionari che ci insegnano dai loro troni cosa sia il lavoro o dai patetici ballerini che vorrebbero costruire una nuova resistenza sulla libertà di ballare. Parliamo dei lavoratori, quelli veri, quelli che con il proprio mestiere mantengono la propria famiglia a fatica e che a fatica si stanno trascinando in questo anno di pandemia, sono loro che ci interessano, sono loro che spariscono da questo assurdo dibattito di questi giorni. I governi, mica solo quello italiano, hanno deciso che quest’estate dovesse essere apparentemente normale con tutta la normalità che si può pensare con un virus sopra la testa. È una scelta legittima ma si gioca su un equilibrio sensibile, un equilibrio che richiede un’ampia riflessione etica: salute contro lavoro, sostentamento economico contro nuovi contagi.

Il Covid impone con forza uno dei vecchi dissidi su cui la politica si deve misurare: ha più valore il lavoro o la salute, conta di più non morire di virus o non morire di fame, qual è l’equilibrio esatto? Perché in fondo l’estate italiana è tutta qui, in una stagione che non ci si poteva permettere di perdere e che comunque inevitabilmente avrebbe provocato un innalzamento dei contagi. Forse una politica più alta, più onesta, più capace discuterebbe di questo, a carte scoperte, decidendo da che parte stare e ponendo dei paletti etici su cosa è giusto e cosa no, su cosa possiamo tollerare e cosa no.

È una decisione squisitamente politica che andrebbe discussa mettendoci la faccia. Alzano Lombardo e Nembro, ne abbiamo le prove, non sono state chiuse per non fermare le fabbriche della zona e abbiamo visto come è andata a finire. Il tema si riproporrà per diverse attività produttive finché non sarà finalmente pronto un vaccino e l’argomento su cui ci spenderemo nei prossimi mesi sembra difficile da inquadrare nel suo complesso con una chiave di lettura collettiva, così ci si perde nei particolari e si perde il senso generale. Ed è una discussione chiave perché finché non si capisce che si sta parlando di questo i poteri economici potranno agire più facilmente sotto traccia. Parliamo di questo, parliamone chiaramente.

Leggi anche: 1. Coronavirus, le nuove decisioni del governo: discoteche chiuse in tutta Italia e mascherine anche all’aperto dalle 18 alle 6 / 2. Chiusura discoteche, Sileri a TPI: “Si è scelto il principio di massima precauzione” / 3. Santanché a TPI: “La mia discoteca resta aperta, l’unica cosa vietata è ballare” / 4. Il proprietario del Papeete a TPI: “La chiusura delle discoteche una mossa per sabotare la campagna elettorale” / 5. Dopo la denuncia di TPI sui mancati tamponi agli italiani positivi tornati da Mykonos, la replica di Ats Milano: “Raddoppieremo disponibilità” / 6. Covid, Crisanti a TPI: “Altro che discoteche, la vera mazzata dei nuovi casi arriverà con l’apertura delle scuole”

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Bisogna anche voler stare bene

Il buongiorno di oggi me l’ha mandato Letizia. Letizia è un’infermiera e, come spesso accade, si ritrova ad avere a che fare con la speranza e con la disperanza. Il suo racconto è uno spaccato di vita che fa bene al cuore. Il racconto è del tempo in cui il Covid mieteva centinaia di vittime al giorno ma questo brano non parla solo di Coronavirus: parla di un modo di intendere la vita.

G. è un uomo alto quasi 2 metri, 74 anni ma la malattia gliene ruba una decina. Il dolore nello sguardo implacabile. Da giovane è stato certamente molto affascinante.

Con parecchie infermiere è stato un po’ brusco nei gg. precedenti. Anche con me all’inizio.

Quando ha suonato il campanello ero da un altro paziente. La collega viene a riferirmi che vuole parlare proprio con me, l’infermiera riccia e bionda.

Mentre percorro il corridoio per andare verso la sua stanza ripenso al suo referto: cure solo palliative… metastasi ovunque…

Entro nella stanza.

Lui è seduto sul bordo del letto, le mani sulla ferita, rivolto verso la finestra a guardare fuori, verso le montagne. È solo in stanza, gli altri due letti sono vuoti.

Mi guarda e sorride appena.

Gli dico:

– Chiamo il medico per farle prescrivere qualche altro farmaco più efficace, sta soffrendo troppo.

– No, non lo faccia, infermiera. Davvero. Non chiami il medico, ho ancora un po’ di male ma non sto morendo di dolore. Resti un pochino qui a parlare con me la prego.

Sono le 3 di notte, chiacchieriamo per circa mezz’ora. Lui è tranquillo, accenna a un altro sorriso per il mio accento romano, piano piano mi dà del tu, come parlasse a sua figlia o a sua nipote. Prima di lasciarlo riposare gli chiedo:

– Come sta? Ha ancora dolore?

– No, sto meglio, grazie..

Si sistema nel letto, tira su le coperte..

– …sto meglio, grazie, ma ricordati che bisogna anche voler stare bene. Bisogna anche volerlo…Ripete con un lieve sorriso.

Alle 7,40 stacco, vado a casa. Potrei dormire finalmente. Ma non voglio e non posso. Penso e ripenso. Penso a quanta vita in quella chiacchierata…

Sì, perché quando la vita ci sfugge viviamo avidamente ogni minuto e ogni secondo che passa. Ne percepiamo l’importanza. E quando hai questa consapevolezza, spesso, è troppo tardi.

Bisogna anche voler stare bene.

Questo è accaduto circa un anno fa, lo scrissi di getto e oggi lo condivido. Oggi mi sono tornate in mente le sue parole: “bisogna anche voler stare bene”. Oggi G. non è più con noi.

Ma quanti “G” ci sono ancora in ospedale? Tanti. Tantissimi, con le stesse paure e gli stessi bisogni, con quel senso di stanchezza indefinita, verso tutto e tutti.

Non dobbiamo dimenticare che alle solite paure, probabilmente se ne sarà aggiunta un’altra. Quella che i loro riferimenti in ospedale pensino solo al Coronavirus e che siano troppo impegnati dalla situazione di emergenza, per comprendere anche la loro paura di morire… che per alcuni è una certezza, inesorabile, anche se “vogliono stare bene”…

Non sono spariti questi pazienti. Ci sono, c’erano prima e ci saranno ancora in futuro. Dobbiamo continuare a comprendere anche la loro paura, adesso raddoppiata, triplicata..

Per questo dico che voglio far trapelare il mio sorriso da dietro la mascherina. Anche quando ho paura. Voglio che si vedano le rughe ai lati degli occhi e che questi siano più sottili, come quando sorridi, appunto. Voglio imparare a sorridere solo con gli occhi. Adesso e ancora nei prossimi gg., perché sarà lunga e sarà ancora più difficile di oggi, per noi Infermieri, Medici, Oss e per tutti. E anche quando tra un annetto dovremo ricucire ogni ferita, tangibile o meno. Adesso non dobbiamo mollare e non molleremo.

#Celafaremo per molte persone è quasi fastidioso da sentire, con il bollettino dei morti che incombe ogni giorno. Per noi #Infermieri, invece, è un mantra che ci sostiene gli uni gli altri, che ci fa resistere, ci dà la forza per cercare di superare con una angoscia calibrata questo momento difficile per tutti. Il senso non è sminuire il problema, ma rafforzare la soluzione, con “boccate di ottimismo”. Anche per questo, spesso, scherziamo tra di noi nei momenti di pausa e di solitudine forzata.

Quando ne usciremo non sarà perché siamo eroi, siamo forti, siamo bravi, siamo angeli… Niente di tutto questo. #Celafaremo perché, uniti, ognuno avrà fatto la sua parte: chi al lavoro, per il bene di tutti, chi restando a casa, per il bene di tutti.

“Bisogna anche voler stare bene.”

E impareremo a sorridere solo con gli occhi.

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Orfini a TPI: “Lamorgese non fa la ministra. I flussi di migranti sono gestibili, ma preferiamo finanziare i torturatori libici”

Se c’è una figura nel Partito Democratico che invoca una svolta, quanto alla gestione dei flussi migratori, già dall’epoca di Minniti, si tratta sicuramente di Matteo Orfini. Il tema dei migranti è ormai tornato al centro del dibattito politico, con l’aumento degli sbarchi, Salvini che ha ripreso la sua propaganda a tamburo battente e la maggioranza in pieno stallo, incapace di cambiare rotta. TPI ha intervistato il deputato del Pd per capire quali sono gli scenari futuri e quali decisioni prenderà la maggioranza di governo su una questione non più differibile.

Tre migranti sono stati uccisi dalla Guardia Costiera libica, e non erano passate nemmeno 24 ore dalla manifestazione che si teneva per contestare il rifinanziamento da parte del governo italiano. La notizia tra l’altro non sembra avere nemmeno indignato più di tanto.

Questa purtroppo è la storia di questi mesi, di questi anni. Non è una notizia, succede quasi tutti i giorni e fuori da ogni forma di ipocrisia e di circostanza è la ragione per cui paghiamo la Guardia Costiera libica: trattenere i migranti con ogni strumento e con ogni mezzo mettendo in conto che possono essere chiusi in un lager, torturati, seviziati e anche uccisi. Se tu finanzi torturatori e assassini, quelli torturano e assassinano.

Ci siamo abituati all’orrore?

C’è un’amnesia collettiva di fronte a un qualcosa di enorme che è e sarà una delle pagine più vergognose del nostro Paese nei libri di storia. Tutto questo oggi, purtroppo, non solleva una discussione adeguata nell’opinione pubblica e nella politica.

Ma qual è il blocco che impedisce di cambiare rotta nel governo? L’alleanza con il Movimento 5 Stelle o vogliamo ammettere che c’è anche un serio problema all’interno del Partito Democratico?

È ovvio che c’è un problema anche dentro al Partito Democratico, che per altro è ancora più incomprensibile quando addirittura Minniti è oggi su una linea differente, tanto che nelle ultime interviste ha definito “inapplicabile” quella politica che ha disegnato e concepito nelle ultime interviste. Siamo di fronte a un accanimento incomprensibile da parte della maggioranza e quindi anche del Pd. Questo atteggiamento è figlio della difficoltà a misurarsi con con una strategia radicalmente alternativa e della paura di una battaglia difficile. Mettere in discussione radicalmente quell’impianto significa affrontare uno scontro culturale e politico molto duro nel Paese e in Parlamento. Evidentemente spaventa.

Il Movimento 5 Stelle da questo punto di vista è più coerente: quell’impianto lì l’hanno sempre avuto e sono i coestensori dei decreti sicurezza. Io ricordo sempre che il secondo decreto sicurezza fu peggiorato dagli emendamenti del M5S rivendicati da Di Maio. Loro sono in continuità. È mancata la volontà del PD.

Carmelo Miceli in un’intervista a Il Foglio dice: “Io non ci sto a dire che l’immigrazione non è un problema. E dico anche, con buona pace dei buonisti, che bisogna rimpatriare chi non ha diritto di rimanere in Italia”. Se lo aspettava di sentire la parola “buonisti” usata come roncola da un suo compagno di partito?

Ormai mi aspetto di tutto. Non mi sorprendo più di nulla. Che vada rimpatriato chi non ha diritto mi pare un’evidenza. Il problema è se l’Italia sia in grado di garantire salvataggio nel Mediterraneo, accoglienza dignitosa e un percorso di integrazione. Di questo stiamo parlando: rinunciamo a salvare, paghiamo la Libia per respingimenti che sono illegali, nel momento in cui qualcuno arriva non siamo in grado di gestire l’accoglienza. In queste ore la ministra degli Interni continua a fare dichiarazioni ma non fa la ministra degli Interni: noi siamo di fronte a flussi ampiamente gestibili che diventano un’emergenza perché non c’è un piano.

Che gli sbarchi aumentino d’estate è così da sempre e di solito si dispone un meccanismo adeguato, non si chiudono 600 persone in un tendone sotto al sole in un posto che ne dovrebbe ospitare solo cento. Non è questo il modo. Caricare la pressione solo su alcune comunità locali non è una soluzione. Noi dovremo essere in grado di organizzarci, vedere chi ha diritto di restare e chi no e mettere in campo un processo di integrazione e invece tutto questo è stato smontato in larga parte dai decreti sicurezza e non c’è stato nessun tentativo di ricostruire un meccanismo complessivo.

Ma come può cambiare la linea del PD? Con la vittoria di una corrente interna, visto che la pressione degli elettori non sembra funzionare?

Io penso che servano entrambe le cose: deve crescere una battaglia interna nel Pd che si deve incrociare con una mobilitazione nel Paese. È chiaro che noi abbiamo perso. Il voto sulla Guardia Costiera libica è una sconfitta. L’assemblea del PD aveva votato contro il rifinanziamento e questa decisione non è stata rispettata: abbiamo anche un serio problema di democrazia interna.

Se Orfini potesse cosa cambierebbe, subito?

Intanto abrogherei le norme che ci sono. Dobbiamo abrogare (e non modificare) i decreti sicurezza, abrogare la Bossi-Fini e ricostruire da un punto di vista complessivo le norme che gestiscono i flussi migratori e che aprono canali legali. Poi abbiamo bisogno di una politica differente dall’altra parte del Mediterraneo che smonti quel meccanismo di sostegno ai respingimenti illegali e che ripristini ciò che accadeva con Mare Nostrum: ricerca e salvataggio di concerto con le Ong e le navi della Marina e della Guardia Costiera.

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