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Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza?

Tenetevi forte perché manca poco al ritorno dello spettro dei migranti clandestini, degli sbarchi sconsiderati e di tutta quell’orrenda narrazione contro le Ong nel Mediterraneo lasciato sguarnito in modo criminale dall’Europa. E preparatevi perché se è vero che conosciamo già perfettamente alcuni personaggi in commedia, a partire da quel Salvini che già da qualche giorno è tornato sull’argomento per provare a frenare lo scontento tra quei suoi elettori affamati di cattivismo e ancora di più incattiviti dalla pandemia, e a ruota ovviamente Giorgia Meloni per occupare quello spazio politico, soprattutto tornerà alle origini quel Movimento 5 Stelle che si è ammantato di solidarietà per incastrarsi nel secondo governo Conte ma che ora è pronto al ritorno delle sue radici peggiori.

La tromba della carica l’ha suonata ovviamente Marco Travaglio in uno dei suoi editoriali che sostituiscono da soli le assemblee di partito e che ha usato tutto l’armamentario del razzismo con il colletto bianco per puntare il dito contro le Ong, per irridere le “anime belle” (che per Travaglio sono la categoria di tutti quelli che non la pensano come lui ma che non possono essere manganellati con qualche indagine trovata in giro) e mischiando come al solito le accuse con le sentenze, gli indagati con i colpevoli, le ipotesi dei magistrati come “fatti” e gli stantii pregiudizi come acute analisi. Così la chiusura delle indagini della procura di Trapani per un presunto reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel caso Iuventa basta al suggeritore dei grillini per richiamare tutti alle armi: picchiamo sui migranti, bastoniamo le Ong e chissà che non si riesca spremere qualche voto anche da qui.

E fa niente che sia dimostrato dai dati (e da anni) che “gli angeli delle Ong” (come li chiama Travaglio per mungere un po’ dalla vecchia accusa di “buonismo”) non “attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani”: Travaglio trova terribilmente sospetto che delle organizzazioni dedite al soccorso in uno spicchio di mare conoscano perfettamente quel mare e i luoghi dei naufragi. La competenza del resto da quelle parti è vista con diffidente apprensione. Ma agli osservatori più attenti, quelli che semplicemente non si sono fatti infinocchiare dallo storytelling del Conte bis, forse non sarà sfuggito che Di Maio sia proprio quel Di Maio che discettava allegramente delle Ong come “taxi del mare” quando c’era da accarezzare l’alleato Salvini e Giuseppe Conte sia proprio quel Giuseppe Conte, nessuna omonimia, che partecipava allegramente alla televendita dei Decreti Sicurezza che andarono alla grande durante la stagione della Paura.

Ovviamente nessuna parola sull’omesso soccorso in violazione del Diritto internazionale del Mare che è un crimine di cui il governo italiano e l’Europa si macchiano almeno dal lontano 2014 quando il governo Renzi decise di stoppare l’operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare e niente di niente su quella Libia (e qui invece ci sono tutte le prove e tutte le condanne per farci una decina di numeri di giornale) che è un enorme campo di concentramento a forma di Stato, così amico del governo italiano. Ma la domanda vera è chissà cosa ne pensa il Pd, questo Pd che ci promette tutti i giorni che domattina si risveglierà più umano e attento ai diritti e che è sempre pronto (giustamente) per opporsi sul tema a Salvini ma che è stato così terribilmente distratto con i tanti Salvini travestiti che ci sono qui intorno.

Il Pd che ci ha indicato come “punto di riferimento riformista” il presidente del Consiglio che fece di Salvini il più splendente Salvini, il Pd che ancora fatica a riconoscere le responsabilità del “suo” ministro Minniti, il Pd che con il precedente governo prometteva “un cambio di passo” sui diritti dei migranti fermandosi solo alla sua declamazione, mentre la ministra dell’Interno del Conte bis, lo racconta il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, bloccava contemporaneamente ben sette barche delle Ong tra il 9 ottobre e il 21 dicembre 2020 riuscendo a fare meglio perfino di Salvini, rispettando in tutto e per tutto la linea d’azione del leader leghista stando con la semplice differenza di non rivendicarla sui social insieme a pranzi e gattini.

Se il nuovo Pd di Letta vuole recuperare credibilità forse è il caso che ci dica parole chiare su questa irrefrenabile inclinazione dei suoi irrinunciabili alleati perché alla fine Salvini rischia di risultare onestamente feroce in mezzo a tutti questi feroci malamente travestiti.

L’articolo Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza? proviene da Il Riformista.

Fonte

Da lunedì 3 settimane chiusi in casa ma nessuno ha il coraggio di chiamarlo per quel che è: lockdown

Avete seguito la conferenza di stampa di Draghi in cui ha illustrato il peggioramento dei colori delle regioni che di fatto istituisce il (doveroso, vista la situazione) lockdown praticamente su quasi tutto il territorio nazionale e che prevede nuove restrizioni in occasione delle prossime festività pasquali? No, perché non c’è stata nessuna conferenza stampa.

Avete sentito le voci di sdegno dei giornalisti che rivendicano (giustamente) il diritto di porre delle domande e di ottenere delle risposte, quelli che lamentavano (giustamente) lo storytelling imposto da Casalino senza nessuna possibilità di contraddittorio? No, perché non ce ne sono state.

A proposito: cosa ne dite delle comunicazioni al Parlamento (lungamente invocate) sulle prossime chiusure e della ricchissima discussione parlamentare che ne è seguita? Niente, nemmeno qui. Non ci sono state. Avete sentito, a proposito, gli strepiti di Salvini che contesta la dittatura sanitaria e che invita il ministro Speranza (è sempre lui il ministro, eh) ad andare a casa perché incapace di prendere qualsiasi altra decisione che non sia una chiusura totale? Niente, niente di niente. Zero.

L’Italia è nel pieno della terza ondata, lo dimostrano i numeri e purtroppo coloro che sono stati apostrofati come “catastrofisti” hanno avuto ragione e ancora una volta il governo è costretto (come accade in tutti i Paesi del mondo) a correre ai ripari con nuove restrizioni.

Si può discutere per giorni se è stato fatto tutto il possibile per mettere in sicurezza il Paese, si può (e si deve) controllare passo per passo la campagna vaccinale e la prontezza delle risposte del sistema sanitario ma la grande differenza del governo Draghi (che inevitabilmente si ritrova a dover prendere le stesse misure di prima) sembra essere un condono comunicativo che si dovrebbe accettare in nome di una non precisata presenza di “tecnici” a cui è permesso non comunicare.

Così accade che qualsiasi provvedimento necessario ma impopolare scivoli liscio come se fosse un naturale meccanismo che non ha bisogno di spiegazioni e che gode di una silenziosa accondiscendenza. Ma il punto sostanziale rimane uno: essere presidente del Consiglio significa ricoprire un apicale ruolo politico e la politica ha il dovere di accompagnare le azioni con esaurienti spiegazioni e con l’assunzione di responsabilità per il presente e per il futuro.

Draghi può essere “un tecnico” ma non può permettersi di fare “il tecnico” nel ruolo che ricopre. Non durerà a lungo questo velo, no, qualcuno glielo dica, per il suo bene e per il bene del governo.

Leggi anche: 1. I ristori ancora non si vedono, ma c’è Draghi e va tutto bene / 2. Prima si lamentavano per la “dittatura sanitaria”. Ma ora che le chiusure le fa Draghi va tutto bene

L’articolo proviene da TPI.it qui

L’ispettore Bertolaso

Chiamato dalla signora Moratti a risolvere i problemi della Lombardia nell’emergenza sanitaria, Guido Bertolaso ha detto in conferenza stampa che forse le cose non stanno andando molto bene. E se l’è presa con i giovani specializzandi

Guido Bertolaso, il signor Wolf dei turboliberisti, il risolviproblemi che ha solo il piccolo difetto di non riuscire a risolvere i problemi, quello che se fosse giudicato dai voti in pagelle sarebbe da un decennio dietro la lavagna con le orecchie d’asino di cartone, il superPippo in salsa lombarda investito dalla signora Moratti, ieri ha tenuto una mesta conferenza stampa in cui ha indossato la maschera del dimesso e ci ha detto che forse le cose in Lombardia non stanno andando molto bene, riuscendo a partorire una faticosa analisi a cui erano arrivati già tutti da mesi mentre erano in fila dal panettiere.

«Il sistema delle vaccinazioni degli over 80 continua a funzionare male, a creare equivoci, ritardi», ha detto Bertolaso. Incredibile. A me, tanto perché va di moda sempre lo storytelling del giornalista che srotola la sua esperienza personale, capita di essere lombardo con padre lombardo dializzato e ultraottantenne e di avere prenotato sull’apposito sito la prenotazione per la vaccinazione: mi sono detto che un ultrottantenne con i reni ormai saltati e con un’invalidità al 100% sarebbe stata una priorità. Niente di niente. Per dire: non mi è arrivato nemmeno il messaggio di scuse per il ritardo. Chissà, forse Fontana ha riconosciuto il numero, mi sono detto.

Comunque ieri Bertolaso ha anche dato una grande lezione di sociologia dicendo, leggete e tremate:

«La legge dice che gli specializzandi sono chiamati a fare vaccinazioni. Non è facoltativo, è un obbligo. La pandemia di covid è un problema di profilassi internazionale – ricorda Bertolaso – e quindi è compito dello Stato in primis di intervenire. Scriverò al prefetto e gli chiederò di richiedere per la seconda volta, l’elenco degli specializzandi. La prima volta ha risposto un solo rettore».

Non vi basta? Ha anche aggiunto: «Mi basterebbe fare un appello a tutti quelli della mia età e il numero dei medici lo troveremmo subito ma non sarebbe giusto perché per un medico vaccinare è la cosa più nobile da fare. Solo vaccinando risolviamo questa emergenza».

Quindi il prode Bertolaso non è riuscito a risolvere i problemi della Lombardia ma ha trovato i colpevoli: i giovani. A posto così. L’ispettore Bertolaso ha chiuso le indagini. Saluti e baci.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Narrazione politica e disimpegno intellettuale

Un attualissimo pezzo di Giuseppe Mazza:

Durante le trattative che hanno portato all’elezione di Mattarella, la stampa ha riportato una frase di Renzi: “Il nuovo presidente deve essere una storia raccontabile”. Che frase perfetta per “La politica nell’era dello storytelling” di Christian Salmon. Libro sui politici moderni, i quali secondo l’autore mistificano le loro azioni in narrazioni facilmente comunicabili, inscenando una sorta di reality show perenne. Gli esempi renziani sono noti – la rottamazione o i gufi contrari al cambiamento – ma per Salmon il fenomeno riguarda tutti gli “uomini di Stato di nuova generazione”. Più che un saggio, è un involontario libro di narrativa. Più che di un’analisi, si tratta di paure camuffate da tesi. Il tema è per l’appunto lo storytelling politico, la sua mitizzazione. E i personaggi fondamentali sono due: il sistema dei media e il nuovo leader politico. Una storia però parla anche di chi la racconta. In questo senso, Salmon, ha firmato suo malgrado una perfetta descrizione della marginalità della classe intellettuale odierna.

Leggendo il suo libro appare chiaro quanto tuttora i colti non accettino altra traduzione del mondo della comunicazione che non sia un qualche invito a disperare. Con Salmon è tutto un narcisistico “ormai”, una sdegnata presa d’atto. Il suo obiettivo è il sistema dei media, colpevole sembra di capire d’aver compromesso il racconto di Stato. Nella babele moderna, secondo l’autore, le narrazioni dei leader si aggrovigliano e perdono la linearità indiscussa che fu del discorso di Re Giorgio, il quale parlava alla radio, nel silenzio, per tutti.

Salmon deplora questa perdita di centralità così come potrebbe farlo un funzionario dell’ENA, la celebre scuola dei manager pubblici d’oltralpe: “Se la vita politica si dà da leggere come un intrigante feuilleton che punta a catturare l’attenzione – scrive – il potere non dispone più del monopolio della narrazione”. Davvero una doglianza francese: non a caso Mosse fa risalire la nascita dello Stato narratore proprio alla Francia post-rivoluzionaria, alla retorica dei volontari caduti in battaglia e ai martiri come Marat.

Andrebbe ricordato di quali atrocità fu capace, quella narrazione centralizzata. L’invenzione del Milite Ignoto dopo la prima guerra mondiale, per esempio, non fu puro storytelling di Stato? In Italia avvenne nel 1921 con raggelante cerimoniale: i militari portano la madre di un disperso davanti a dei caduti ormai irriconoscibili, le chiedono di indicarne uno. Quando la donna si accascia, sconvolta, è prescelta la bara a lei più vicina. Segue il lento viaggio in treno del cadavere, da Aquileia fino all’Altare della Patria di Roma, in processione di paese in paese, su un vagone abbigliato con festoni di fiori, accompagnato da retoriche sanguinarie. Va detto: davanti alla violenza di quelle narrazioni, il sistema dei media attuale appare infinitamente più umano.

L’altro personaggio del libro è il leader moderno. Con le sue parole. “Siamo governati dagli aneddoti”, altrove denunciava lo scrittore. Eppure questi ultimi sembrano piacergli parecchio: egli assegna grande importanza, se non valore di prova, a semplici battute e ovvie dichiarazioni d’intenti dei politici e dei loro entourage. Il solo fatto che essi proclamino di voler tradurre la politica in storie raccontabili, ai suoi occhi dimostra che la manipolazione è in atto ed è incontrastata. Qui il problema di Salmon diventa le sue fonti. Citare quelle frasi, infatti, è come riportare i testuali di una brochure promozionale.

È evidente, i raccontatori hanno tutto l’interesse a dipingersi come infallibili artefici dell’opinione pubblica. Né s’è mai visto un narratore che inviti a diffidare della propria storia. Nel mondo della comunicazione in tanti giurano d’essere alla guida della modernità. Ma, semplicemente, questo fa parte della vendita. Donald Draper, il pubblicitario di Mad Men, in un episodio della serie sostiene persino che l’amore romantico è un’invenzione dell’advertising. Il fatto è che la realtà è più ampia delle loro narrazioni. A proposito: a quale trucco narrativo avrebbe fatto ricorso Mattarella per essere eletto?
Arriviamo alla fine del libro. Il leader storyteller è atteso da un finale tragico: il suo abuso dei mass media secondo l’autore ne ha distrutto la credibilità di narratore, come uno “spettro rischiarato da quelle stesse fiamme che si accingono a divorarlo”. Cosa però dovrebbe aspettarci dopo questo falò non è precisato. Probabilmente, un altro preoccupatissimo libro di Salmon.

Mitizzare lo storytelling politico gratifica i suoi protagonisti quanto i suoi detrattori. I primi ne escono come piccole potenze culturali, i secondi come eroici combattenti letterari. Così la critica e la pratica si ricongiungono, avvolte nella stessa narrazione. Attaccare o sbandierare il potere dello storytelling è in entrambi i casi un modo per riconoscerne la divinità. Persino il fatto che Renzi nei giorni scorsi abbia pubblicamente acquistato il libro di Salmon può essere visto come un gesto autoreferenziale: qui leggo le mie imprese.

Questo tipo d’interpretazione dei media sta aggiornando in chiave pop un’idea elitista del potere, fatto di talento più che di competenze, di guru più che di conflitti. Un mondo del quale sembra impossibile poter rientrare in possesso, riservato a doti magiche.

L’enfasi negativa di Salmon non è apocalittica: è pura narrazione al servizio del disimpegno intellettuale. Il suo libro racconta in fin dei conti come per i colti occidentali il mondo della comunicazione sia una sorta di natura maligna e immodificabile, invece che un habitat vivo. In realtà, per vivere meglio tra i mass media un sapere servirebbe eccome. Temo però che ci sarebbe un po’ meno da raccontare e un po’ più da studiare.