“Signor Asta, questi sono gli oggetti di sua moglie. Qui ci sono quelli dei suoi bambini.”
Margherita Asta ha scritto con Michela Gargiulo un libro bellissimo sulla morte della madre e dei suoi fratelli Giuseppe e Salvatore, morti a Pizzolungo per del tritolo che avrebbe dovuto uccidere il magistrato Carlo Palermo, sopravvissuto alla strage. Il libro lo potete acquistare qui.
La cattedrale di San Lorenzo è piena di gente, io e mio padre non riusciamo a passare. Entriamo da un ingresso laterale. Il nostro posto è davanti all’altare.
Davanti a noi ci sono le bare di mia madre e dei miei fratelli. Al centro quella scura di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto a lei quelle più piccole e bianche, con i gigli, di Salvatore e Giuseppe. Quando sono uscita di casa, questa mattina, ho trovato il pallone di Giuseppe, era dietro la magnolia.
Non riesco a piangere, in mezzo a tutta questa gente. Mio padre invece non riesce a smettere. Ha la giacca e la cravatta nere. È molto debole. Io sono stretta in quel cappottino blu che la mamma sosteneva non andasse bene per giocare. Ora serve per i funerali.
Ai lati delle bare ci sono i compagni di scuola dei miei fratelli. Non conosco i nomi ma i loro visi sì. Ci sono i bambini della prima elementare dentro questa chiesa. Si guardano intorno smarriti, impauriti. Non dovevano essere qui oggi, non dovevo esserci neppure io.
Il vescovo, monsignor Romano, si commuove ricordando i miei fratelli. Li conosceva. Lo scorso anno, alla recita di Natale, Salvatore era Gesù Bambino e Giuseppe un angelo.
Mi guardano tristi i due carabinieri davanti a me. Reggono una corona di fiori, c’è scritto Pertini. Accanto ce n’è un’altra del presidente del consiglio Craxi. Vista così da vicino sembra una cosa immensa, grande e ordinata, con tutti i fiori stretti a rubarsi lo spazio.
Ci sono fiori dappertutto, e polizia e carabinieri anche in chiesa. Ci sono tutti questi uomini in divisa e i gonfaloni del comune, e non so spiegarmelo. Forse è per la morte dei miei fratelli, che erano dei bambini, forse è per questo che tutti hanno voluto partecipare.
Mio padre mi stringe la mano e guarda per terra. Un bambino sta salendo le scale del pulpito. Lo riconosco è Michele, Michele Marchingiglio, un compagno di scuola di Giuseppe e Salvatore. Ha in mano un foglio di quaderno. Sembra ancora più piccolo su quell’altare.
“Gesù rendi buoni i cuori dei malviventi del barbaro attentato di ieri e dai la pace eterna alle vittime innocenti, alla mamma e ai bambini Salvatore e Giuseppe Asta.”
Penso a quanto sia piccolo quel bambino sull’altare, e a quanto sono piccoli i miei fratelli dentro le bare e finalmente piango.
Il vescovo chiude la sua omelia.
“Purtroppo la morte è venuta a bussare alle nostre case. Una morte cieca, voluta da una mente perversa e da mano omicida. E ancora una volta la rabbia mafiosa ha macchiato le nostre strade…”
Mi volto verso mio padre. Cosa c’entra la rabbia, voglio chiedergli, cosa c’entra la mafia con quello che è successo a mia madre e ai miei fratelli. Noi con certe cose non c’entriamo niente. Ma papà continua a piangere e queste sono domande che non ho il coraggio di fare.
La messa è finita. Solo ora mi rendo conto di quante persone hanno partecipato. Non avevo mai visto una cerimonia funebre così a Trapani. Solo alla televisione mi era capitato di vedere tanta gente e tante corone. Ma nei funerali di persone importanti: attori, ministri, capi di stato. Oggi, invece, sono tutti qui per mia madre e i miei fratelli. Per noi, gente normale. Lo imparo in questo preciso momento il significato della parola folla. La folla io, per la prima volta, l’ho vista oggi. Una folla è quando in una chiesa non c’è più spazio.
La gente inizia a uscire. Io e papà invece restiamo fermi. Molte persone si avvicinano a noi, tutti vogliono farci le condoglianze.
Un signore distinto che non ho mai visto prima stringe forte la mia mano, poi abbraccia mio padre.
“Signor Asta, sono Antonio Palermo. Le porto anche le condoglianze di mio figlio che è ancora in ospedale.”
Lo sguardo di mio padre si fa più attento, come per dire qualcosa di importante che non gli viene, non ce n’è il tempo. È già il turno di qualcun altro, condoglianze, altri baci sulle guance, altre strette di mano.
Accanto a me c’è una signora anziana vestita di nero. Ha in mano un rosario, i suoi occhi hanno pianto per tutta la cerimonia. L’accompagno mentalmente mentre recita l’ultima preghiera:
“L’eterno riposo dona loro, o Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Riposino in pace.
Amen.”Fuori dalla cattedrale seguiamo le tre bare. La folla si apre intorno a noi per farci passare. Tutti gettano fiori sul sagrato. Una pioggia leggera di petali. La strada è un tappeto colorato e noi ci passiamo sopra mentre accompagniamo mia madre e i miei fratelli nel loro ultimo viaggio. Metto un piede davanti all’altro ma piano, sono morbidi, ho paura di fargli male. Da quel giorno non sono più riuscita a camminare a piedi nudi su un prato.
Percorriamo a piedi la strada fino al cimitero. Piazza Vittorio Emanuele è piena di gente, un corteo che sfila, ci sono anche i ragazzi delle scuole con i loro zainetti colorati. No, queste persone non sono qui per i funerali, deve essere una manifestazione in difesa di qualcuno, uno sciopero.
“La mafia a Trapani esiste.”
Lo hanno scritto su un cartello enorme e ora se lo portano dietro facendolo correre sulle loro teste, le braccia in alto. “Coraggio giudice” urla qualcuno. Altre persone, contemporaneamente intonano in coro: “Dieci, cento Palermo”.
La folla è compatta ma scorre quando ci vedono passare. Arriviamo al cancello, sfioro delicatamente le bare della mia mamma e dei miei fratelli come a volerle accarezzare.
Zio Vincenzo viene a prenderci con la macchina. Abbiamo tutti delle facce stanchissime. Tra pochi minuti saremo di nuovo a casa, in qualche modo che non capisco saremo al sicuro.
Imbocchiamo la provinciale, mio padre è seduto accanto a me con gli occhi chiusi, sembra stia dormendo. Guardo il mare oltre il finestrino, sono due giorni che dalla litoranea non si poteva passare, la strada era chiusa per via dell’incidente.
Arriviamo al distributore, siamo vicini a casa, davanti a noi c’è l’hotel Tirreno. La macchina rallenta improvvisamente, c’è una buca enorme sull’asfalto, sembra sia esploso un vulcano.
Sul muro bianco della villa davanti a noi c’è una macchia rossa. Non faccio neanche in tempo a vederla bene.
“Papà, è sangue nostro questo?”
Le zie hanno rassettato casa, non so quando l’hanno fatto. Tutto è pulito e ordinato. Non abbiamo il tempo di rimanere soli, io e papà, e questo è un bene. Zia Vita e gli altri sono già arrivati, le loro voci riempiono di nuovo la casa, anche se con discrezione.
Dalla finestra vedo una macchina della polizia che si ferma nel vialetto. Due uomini si avvicinano alla porta, suonano, sono io quella che va ad aprire.
“Asta?”
“Sì, sono Margherita.”
“La figlia di Barbara Rizzo?”
Non ho mai sentito ripetere tante volte il cognome di mia madre da nubile come in questi due giorni, “sì, sono io.”
Sento dietro di me i passi di papà e della zia Vita, mi faccio da parte. La presenza di mio padre sembra imbarazzare ancora di più il poliziotto.
“Signor Asta, questi sono gli oggetti di sua moglie. Qui ci sono quelli dei suoi bambini.”
Sono due sacchetti di plastica bianca, sembrano quelli della spesa. Il poliziotto allunga le braccia e li porge a mio padre.
In quello di Giuseppe e Salvatore ci sono delle pagine dei libri di scuola, alcuni fogli strappati con i loro disegni. Ci sono due scarpe da tennis, mi sembrano quelle di Salvatore. Rosse con la linguetta autoadesiva perché ancora non aveva imparato ad allacciarle da solo.
Dove sono i vestiti, la cartella, i quaderni?
Apro quello di mia madre.
C’è il suo portafoglio, la fede, la custodia degli occhiali, l’anello con lo zaffiro e i brillanti e quello d’ambra, il suo preferito.
C’è solo questo, di mia madre non è rimasto altro.