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I rider di Uber Eats erano schiavizzati: la compagnia commissariata per caporalato

L’inchiesta su Uber Italy che vede coinvolte 10 persone per caporalato tra cui la manager di Uber Gloria Bresciani è la perfetta fotografia di un momento storico, al di là poi della rilevanza giudiziaria: sistematizzare le disperazioni per poterle spolpare fino all’ultimo centesimo appoggiandosi sulle povertà e nascondendosi dietro l’algoritmo di una piattaforma è il comandamento degli sfruttatori del 2020, gli schiavi non sono più solo nei campi con le schiene spezzate ma macinano chilometri sotto il sole o sotto la pioggia per la miseria di una lavoro sottopagato a cottimo come nelle peggiori storie di secoli fa.

È uno schiavismo scintillante, quello del delivery che ci porta comodamente i cibi a domicilio, che una certa narrazione è riuscito addirittura a rivenderci come una conquista. Solo che nel vocabolario impolverato dei diritti ormai sembra essersi smarrito il senso che una “conquista” lo è se porta vantaggi a tutti e invece qui ci troviamo di fronte a lavoratori, ancora una volta, stretti nella morsa di azienda e clienti.

Tra gli indagati anche Danilo Donnini e Giuseppe e Leonardo Moltini, amministratori della Flash Road City Srl e della Frc Sr, che andavano a cercare carne da macello da fare salire in bicicletta nelle sacche più in difficoltà delle storture politiche: i “pericolosi” immigrati in attesa di protezione umanitaria, quegli stessi che vengono già mangiati da certa propaganda politica, tornavano utilissimi per diventare manovalanza. Sono perfetti, se ci pensate, per un certo tipo di capitalismo: si ritrovano in una posizione di debolezza per reclamare diritti e hanno troppa fame per rinunciare a un lavoro.

Si legge nelle carte del pm di Milano Paolo Storari che gli indagati “approfittavano dello stato di bisogno dei lavoratori, migranti richiedenti asilo dimoranti nei centri di accoglienza straordinaria, pertanto in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale” e li destinavano al lavoro per il gruppo Uber “in condizioni di sfruttamento”. Pagamenti a cottimo per 3 euro a consegna, indipendentemente dalle distanze da percorrere e dalla fascia oraria, mance dei clienti che venivano sottratte, punizioni arbitrarie: “Abbiamo creato un sistema per disperati, ma i panni sporchi si lavano in casa”, diceva intercettata al telefono la manager di Uber. Consapevoli di essere degli schiavisti e sicuri di poter ambire all’impunità. Forse sarebbe il caso di imparare presto i nuovi riferimenti per riconoscere le nuove schiavitù. In fretta.

Leggi anche: Rider sfruttati, Uber Italia commissariata dal tribunale

L’articolo proviene da TPI.it qui

Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente…

L’ultimo è di qualche giorno fa: un ragazzo ventiduenne suicida nel carcere di Brescia in una vicenda da chiarire in molti suoi particolari. Il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo avere denunciato le violenze sessuali subite da un imprenditore che gli offriva capi d’abbigliamento in cambio di prestazioni sessuali. La Procura di Brescia proprio in questi giorni stava chiudendo le indagini ma il giovane si è tolto la vita nella sua cella.

Ma i suicidi in carcere continuano a essere una tragedia silenziosa che si ripete con feroce regolarità. Il 2 ottobre scorso si è tolto la vita Carlo Romano, detenuto a Rebibbia da sei mesi: aveva 27 anni e conclamati problemi psichici che l’avevano già spinto a tentare il suicidio e per questo era passato alla sorveglianza a vista che gli era stata revocata proprio il giorno precedente. La Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni sottolinea che si tratta dell’ennesimo caso di una persona «che forse poteva essere curata all’esterno». Lo scorso 28 settembre è toccato a un uomo di origini albanesi che era in attesa di giudizio nel carcere di Bologna, il compagno che condivideva la camera con lui non si sarebbe accorto di nulla. Solo il giorno precedente, il 27 settembre, nel carcere di Castrovillari (CS) un detenuto marocchino ha approfittato del cambio turno della polizia penitenziaria per impiccarsi con un lenzuolo. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto si è impiccato nella sua cella, dove si trovava solo, Omar Araschid, di origini marocchine, era recluso nell’area dei “sex offenders” e avrebbe nuovamente guadagnato la libertà nel 2021.

Il 27 agosto nel carcere di Pescara il 63enne Dante Di Silvestre aveva ricevuto da due giorni il diniego di lavorare fuori dal carcere dal magistrato dell’Ufficio di sorveglianza, per lui è stato un colpo durissimo, ha messo da parte gli effetti personali e un biglietto per la moglie e approfittando del regime di semilibertà che gli era stato riconosciuto per il suo comportamento esemplare, nel cortile del carcere ha utilizzato una corda che usava per il lavoro e si è impiccato a una sbarra. Di Silvestre era in carcere dopo la sentenza definitiva a 11 anni, con i benefici di legge aveva già scontato quasi metà della pena e aveva ottenuto la semilibertà. Poi, ancora: a Milano un 42enne algerino era stato fermato per tentato furto, era in una stanza da solo in Questura in attesa di fotosegnalamento. Si è tolto la maglietta, l’ha legata alle grate della finestrella della stanza vuota e l’ha stretta al collo. Quando gli agenti l’hanno trovato era già troppo tardi. Il 20 agosto si è impiccato al carcere Pagliarelli di Palermo Roberto Faraci, 45 anni, entrato in prigione da pochi giorni, anche lui sfruttando il fatto si essere stato lasciato solo.

È una moria di storia e di persone impressionante, che si ripete con cadenza mostruosa. Il 19 agosto un suicidio nel carcere di Lecce, il 17 Giuseppe Randazzo a Caltagirone, il 12 agosto sempre al Pagliarelli di Palermo (dove sono avvenuti ben 3 suicidi nel solo mese di agosto) si è impiccato (il solito drammatico cliché) Emanuele Riggio. Il 30 luglio nel carcere di Fermo si è suicidato un 23enne, di cui dalle cronache non si riesce nemmeno a risalire al nome. Aveva 23 anni anche Giovanni Cirillo che si è ammazzato il 26 luglio a Salerno e ne aveva 24 invece il detenuto che si è ammazzato a Como nello stesso carcere dove un mese prima in un’altra sezione si è tolto la vita, impiccandosi con la corda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita. La conta dal 17 gennaio di quest’anno (quando si verificò il primo suicidio nel carcere di Monza) a oggi è incivile: 45 suicidi dall’inizio dell’anno, tutti per impiccamento tranne 4 casi di suicidi per asfissia provocata da gas. A questi numeri si aggiungono 27 casi di morti da accertare, tutt’ora al vaglio degli inquirenti.

Secondo il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, sarebbero 1100 i tentativi di suicidio ogni anno evitati dagli agenti. Il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, adottato il 21 luglio del 2017, non ha rallentato la catena di suicidi: 52 nel 2017, 67 nel 2018, 53 nel 2019. La frequenza dei suicidi in carcere è di 20 volte superiore alla norma, mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine. Secondo il sito ristretti.it «è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine».

Ma la notizia fatica sempre ad arrivare ai giornali e fatica infilarsi nel dibattito pubblico. Rimangono le brevi di cronaca date ogni tanto su qualche sito locale: la politica fa spallucce (se addirittura non invoca ancora meno diritti) e l’opinione pubblica è colpevolmente distratta. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri – sosteneva Voltaire – poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione»: qui la situazione è sempre nera, nerissima ma i palazzi sembrano non accorgersene.

L’articolo Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente… proviene da Il Riformista.

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Un errore madornale

Il caso dello stipendio raddoppiato del presidente Inps, Pasquale Tridico non può essere considerata semplicemente una “svista” derubricata come un incidente di percorso e non un enorme errore della maggioranza in un delicato momento politico. Che Conte dica che non sapeva e che Di Maio ora prometta accertamenti è troppo poco per pensare che tutto si dissolva nel giro di poche ore.

Il presidente dell’Inps, sulla cui gestione ci sarebbe più di qualcosa da ridire a partire dall’attacco hacker al sito che poi non c’è mai stato, ha ottenuto un aumento di stipendio (che Repubblica definisce anche retroattivo ma su questo Tridico ha smentito) in piena estate un decreto interministeriale che porta la firma della ministra del Lavoro Nunzia Catalfo (che vigila istituzionalmente sull’Inps) e quella del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Una decisione che ha interessato anche gli altri compensi dei consiglieri e quelli dell’intero consiglio di amministrazione dell’Inail (compreso il presidente Bettoni).

Il tema non è tanto lo stipendio di Tridico (il suo predecessore Boeri guadagnava 103mila euro mentre Tridico è fermo a quota 62mila) ma ciò che turba, e non poco, è che Tridico, uomo da sempre vicino al Movimento 5 Stelle, è stato ricompensato in un momento sciagurato, mentre il Paese annaspa in un mare di cassa integrazione e con tanti lavoratori ancora in attesa e proprio l’Inps ne dovrebbe saper qualcosa. E pure sulla giustificazione che il blitz sia stato fatto ad agosto perché l’istituto ha compiuto dei tagli significativi risulta piuttosto risibile poiché i revisori la pensano diversamente.

Il problema è che se tu riduci la politica a una mera questione di costi (ed è il giochetto che si è utilizzato durante la campagna del referendum) poi trovi sempre uno più puro che ti epura e ora sarebbe curioso cosa ne dice Di Maio (visto che era lui ministro quando partì la proposta). Quello stesso Di Maio che ora promette di “chiedere chiarimenti”.

Perché a forza di coltivare populismo poi di populismo si muore. Evidentemente.

Buon lunedì.

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La classe dirigente sommersa

Insegnanti, bidelli, autisti dei mezzi pubblici. La pandemia ha evidenziato l’importanza del ruolo pubblico di questi ed altri lavoratori. E la loro responsabilità nel dettare la crescita sociale del Paese che verrà

Primo giorno di scuola in buona parte d’Italia. Fioccano i commenti, le interviste a volte un po’ leziose a genitori e ai ragazzi, si moltiplicano i racconti e accade che moltissime scuole in Italia, ancora una volta, si siano arrangiate e abbiano fatto i salti mortali per applicare regole incerte (e piuttosto contestabili) e protocolli che spesso rimangono lettera morta perché si scontrano con una realtà che è spesso molto diversa da quella discussa in certi ambienti ministeriali.

Però è stato il primo giorno di scuola e ieri, nell’aria, si respirava la speranza che la scuola riparta davvero, che un po’ di normalità possano godersela anche i nostri figli, quei giovani che per mesi sono scomparsi dal radar dell’informazione per tornarci solo qualche settimana nella veste degli untori.

Però il primo giorno di scuola ci racconta ancora una volta qualcosa che sembra difficile raccontare: gli insegnanti, gli operatori della scuola, chi si occupa degli spostamenti dei nostri ragazzi, chi si occupa della loro sicurezza (mica solo in tempi di pandemia) e chi si occupa della loro istruzione e della loro formazione culturale (non solo in tempo di pandemia) sono classe dirigente di questo Paese, nel seno pieno del termine, sono quelli che hanno la responsabilità di dettare la crescita sociale (e politica e economica) del Paese che verrà. E ieri, complice il coronavirus, ci si è accorti che un pezzo importante delle famiglie sta negli istituti scolastici, quei palazzotti spesso decadenti a cui si fa sempre troppo poco caso.

Ricordo quando uno dei miei figli andò al suo primo giorno di scuola, lo ricordo perfettamente. Ricordo l’arrivo all’istituto, era il periodo delle minacce, della paura e della scorta e ricordo quei minuti all’ingresso mentre lo tenevo per mano, Ricordo perfettamente che un collaboratore scolastico venne fuori, da me e lui e i carabinieri e prese per mano mio figlio per portare all’interno dell’istituto e mi ricordo di avere pensato che quell’uomo in quel momento era il più importante rappresentante dello Stato che interveniva nella mia vita, una responsabilità enorme. E avrei voluto dirglielo.

Il punto è questo e non vale solo per la scuola: ci ritroviamo nelle nostre funzioni e nelle nostre professioni a avere responsabilità da classe dirigente e non ce ne rendiamo conto, abbiamo un importante ruolo pubblico, ognuno nel suo mestiere e se ce ne assumessimo l’orgoglio e le responsabilità questo sarebbe un Paese sicuramente più solidale e più unito. E la smetteremmo di delegare, e vedremmo anche quanta orgogliosa responsabilità c’è intorno. Nonostante certa classe dirigente.

Buon martedì.

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Nascere e morire. A Verona

Secondo la Commissione che indaga sulle infezioni da Citrobacter «sono stati identificati 91 soggetti positivi» e i primi casi risalgono al 2017. Ma la struttura sanitaria non avrebbe mai comunicato nulla

«Il tempo per piangere c’è stato, ora è il tempo della giustizia. Chi ha sbagliato deve pagare. Alice poteva essere qui con me, che almeno la morte di mia figlia serva a qualcosa», sono le parole di Elisa Bettini, mamma di Alice, una dei neonati morti a Verona a causa del Citrobacter, intervistata da La Stampa. Dice Elisa: «Mi dicono che Alice ha la febbre, meningite da Citrobacter. Chiedo se ci sono o ci sono stati altri casi, mi rispondono di no. Nella stanza tiralatte, parlando con le altre mamme, scopro che non è  vero, e che di casi ce ne sono almeno cinque, Alice compresa, e che se ne verificano almeno dal dicembre precedente. Ci dimettono il 22 maggio. Il 12 giugno, Francesca (Frezza, la madre che ha fatto scoppiare lo scandalo, ndr) denuncia la situazione con un’intervista a L’Arena, il giornale di Verona. Ci troviamo con lei e con altre mamme, contiamo i casi di cui siamo a conoscenza, in totale sono una trentina, mentre qui continuano a parlare di dieci o dodici. Adesso veniamo a sapere che sono 96».

Lunedì è stata depositata la relazione stilata dalla Commissione istituita dal presidente del Veneto Luca Zaia per indagare sul caso di infezioni causate dal batterio Citrobacter koseri nei reparti di Terapia intensiva neonatale e pediatrica nell’Ospedale Donna e Bambino di Borgo Trento, a Verona. I risultati mettono i brividi: dall’apertura della struttura (era il 4 aprile del 2017) «sono stati identificati 91 soggetti positivi per Citrobacter», 9 neonati «hanno sviluppato una patologia invasiva causata da Citrobacter koseri» e tra questi 5 hanno riportato gravi lesioni cerebrali e 4 sono morti.

A giugno di quest’anno ci si è accorti che il batterio stava su alcuni rubinetti delle terapie intensive neonatale e pediatrica e sulle superfici interne ed esterne dei biberon utilizzati da due neonati risultati positivi. Molto probabilmente si tratterebbe di latte per neonati preparato con acqua infetta. Acqua del rubinetto. La struttura sanitaria non avrebbe mai comunicato nulla alla Regione e nemmeno all’ente che amministra la sanità veneta. Alice è morta il 16 agosto, dopo giorni di atroce sofferenza. Elisa adesso vuole sapere chi ha sbagliato: «Non tollero che neghino l’evidenza», dice: «Se faccio tutto questo, è perché io non voglio che succeda a un altro bambino».

È una storia che si porta un enorme carico di dolore.

Buon giovedì.

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L’era della bile

Saremo persone migliori il giorno che riusciremo a non confondere la vendetta con la giustizia. Non sarà un cammino facile anche se è un percorso possibile: smettere di pensare alla nostra grandezza come risultato della demolizione di quelli che ci stanno intorno sarebbe il primo passo per essere persone migliori, comunità migliori, un Paese migliore e un mondo migliore.

Nell’era della bile invece la distruzione dell’avversario, qualsiasi avversario sia, è l’obiettivo primario: non votiamo perché una parte politica abbia buoni numeri per avere buona incidenza di governo ma votiamo sperando che gli altri spariscano, che facciano un tonfo, che vengano umiliati dai risultati. Non facciamo un lavoro per farlo bene ma troppo spesso ci ritroviamo a dover fare meglio del nostro concorrente che è praticamente un nemico, il suo fallimento ci gratifica quasi di più del nostro lavoro ben fatto.

Inutile dire poi della giustizia che in Italia è diventata una lecita persecuzione che inebria per l’odore del sangue: dei ladri importa che vengano umiliati e ci si dimentica quasi sempre del bottino, dei colpevoli ci interessa che siano messi in condizione di non potersi mai più riabilitare e che spariscano, “buttare via la chiave” è la frase che popola le discussioni, la pena capitale viene citata spessissimo.

Una competizione continua e perfino invertita: fai in modo che l’altro fallisca, questo è il comandamento laico dell’epoca della bile, lavora per il fallimento dell’altro, confida nella sua autodistruzione, godi dei suoi errori come se fossero tuoi traguardi.

Così finiamo per essere parte passiva e sempre in attesa delle disgrazie altrui. Così alla fine siamo arrivati qui dove siamo.

Costruite, costruite senza guardare i tetti degli altri.

Buon venerdì.

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Decidere di non decidere

Sul ponte di Genova si consuma un errore politico che abbiamo vissuto più volte e che tutte le volte sembra che ci dimentichiamo con facilità: promettere, parlare, dire e ridire, accusare e poi non fare

Blocchiamo subito tutti quelli che ci dicono che con quegli altri (Salvini e compagnia cantante) sarebbe stato molto peggio: lo sappiamo, lo sappiamo benissimo ma non ci basta per stare zitti e non vogliamo stare zitti. Sul ponte di Genova si consuma un errore politico che abbiamo vissuto più volte e che tutte le volte sembra che ci dimentichiamo con facilità e ci incagliamo di nuovo: promettere, parlare, dire e ridire, accusare e poi non fare.

Decidere di non decidere è comodissimo, mica solo in politica, proprio nella vita: c’è gente che decide di non decidere, di rompere amicizie che andrebbero rotte e se le trascina per anni e ogni volta che accade qualcosa ritira fuori dal cilindro tutte le colpe degli anni precedenti. Accade anche nei rapporti di coppia. È il metodo perfetto per incancrenire le relazioni e per distruggere chirurgicamente tutto quello che è stato. Non si decide di prendersi le proprie responsabilità ma si rimane comodamente nella posizione di chi può in qualsiasi momento recriminare. Bello comodo, eh?

Sul decidere di non decidere poi, se ci pensate, si gioca anche la vita di molti incompiuti: sono quelli che per non fare accadere le cose, perché non ne hanno il fegato, fanno in modo che le facciano accadere gli altri. In pratica: non faccio succedere qualcosa ma faccio di tutto perché succeda ma non se ne possa dare a me la responsabilità.

Sul ponte di Genova è accaduto lo stesso: mentre quelli costruivano il ponte si diceva che i Benetton erano sporchi e cattivi ma nel frattempo nessuno si dedicava a sistemare le carte e le regole perché le cose cambiassero.

Così ci ritroviamo qui: il ponte di Genova, il nuovo ponte, è finito e i concessionari sono ancora gli stessi ritenuti colpevoli del disastro. Sappiano i nostri politici che possono fare tutto il chiasso che vogliono ma qui da fuori tutto risulta goffo, inutile e piuttosto ridicolo.

Buon giovedì.

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Che affare, la pandemia

La pandemia no non ci ha reso tutti uguali e secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’economista francese Thomas Piketty «ha esacerbato le diseguaglianze». «Le stesse grandi compagnie di Internet, fino a ieri impegnate in pratiche di elusione fiscale, sono state le principali beneficiarie del coronavirus», ha detto Stiglitz durante la conferenza stampa virtuale convocata dalla Commissione indipendente per la riforma della fiscalità internazionale d’impresa (Icrict) e dall’Ong Oxfam.

Facebook, Amazon, Apple, Alphabet, Google nel cuore dell’Europa, in Irlanda, «pagano tasse su una frazione del loro fatturato», dicono i due economisti che propongono anche un soluzione: un regime fiscale minimo. «Sarà molto difficile», ha detto Piketty, ma il fatto che tutta l’Europa stia riflettendo sul debito e stia muovendo somme impensabili potrebbe fare ritrovare il coraggio di parlarne una volta per tutte.

Eppure se ci pensate sono molte le disuguaglianze di cui si è discusso durante l’epidemia, quando davvero si credeva che potesse essere messo in discussione almeno un pezzo di sistema e invece è tornato già tutto nei binari normali. Anche gli eroi si sono già normalizzati, rientrati nei ranghi. Infermieri, insegnanti e perfino i rider, quelli che ringraziavamo ogni giorno su tutte le prime pagine dei giornali, sono finiti ancora nelle retrovie. La scuola è rimasta l’ultima preoccupazione del governo che non ha riaperto le aule e che non sa ancora quando e come si riapriranno mentre ci si assembra sui campi da calcio e nelle manifestazioni politiche. Gli artisti che hanno addolcito la quarantena sono lasciati a inventarsi qualcosa. Lo spettacolo dal vivo è ripartito claudicante.

Tutto bene, tutto normale. Che affare, la pandemia, per i ricchi che sono rimasti ricchi e non sono nemmeno stati messi in discussione. Che affare, la pandemia, per gli eroi che hanno avuto i loro 5 minuti di notorietà e ora devono tornare ai loro posti.

Buon mercoledì.

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Caso Cucchi: dove tocchi trovi merda. Il pm al processo: “I carabinieri avevano una relazione segreta precendente all’autopsia”

Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell’autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza.

E’ la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d’Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell’ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musaro’, veniva evidenziato che la lesivita’ delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell’Arma veniva esclusa la possibilita’ di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno.

Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell’autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all’autopsia di Stefano Cucchi.

“I legali di Cucchi nel 2009 – ha aggiunto – avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c’erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece – ha concluso – si sosteneva che non c’era un nesso di causalità delle ferite con il decesso”.

 “Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall’inizio delle operazioni” spiega  il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. “Per pervenire a delle conclusioni – ha aggiunto – io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perche’ c’erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti.
Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009″.

Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento “contiene un parere preliminare che e’ del tutto orientativo perche’ e’ poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni”.

(fonte)

Non credetegli. Mai. Il mare non uccide. Le persone uccidono.

Non credetegli. Mai. Il mare non uccide. Le persone uccidono. Anche l’indifferenza uccide, sì, anche quella: i morti per indifferenza li riconosci perché quando muoiono se gli apri gli occhi, con le dita, come si aprono due lembi, dentro ci trovi la pupilla di chi l’aveva capito da tempo che sarebbe finita così. Non sono mica come i morti improvvisi, quelli con lo sguardo interrotto che non ha nemmeno fatto in tempo di stringersi per il buio che gli veniva addosso: se avessero un minuto, un minuto ancora, un minuto di quelli che un minuto prima di andarsene uno torna e dice – ah! Scusa, un’ultima cosa – se avessero avuto quel minuto lì ve l’avrebbero raccontato anche loro che il mare, il mare non uccide. Uccide trascinarsi per il deserto come una mandria zoppa in balìa di pastori a forma di soldati; uccide farsi porto a forza di pregarne uno e provare a farsi legno per non bollire di sole e sale; uccide nascere dalla parte sbagliata del mondo, come una mela che casca dalla parte del dirupo; uccide l’indifferenza. Sì, l’indifferenza uccide, eccome se uccide. Ci sono più morti di indifferenza della somma di tutte le guerre mondiali, anche delle guerre dei tempi passati. Solo che i morti di indifferenza muoiono che non se ne accorge nessuno. Si spengono come lampadine di una strada deserta in cui non passa nessuno.
Il vicolo deserto in cui non passa nessuno, trattato come un sacco dell’umido da chiudere stretto senza nemmeno guardarci dentro, per non rovinarsi l’appetito, è la Libia di cui tutti parlano e nessuno legge, la Libia che è diventata la discarica dei nostri errori e dei nostri orrori. E invece lì dentro ci sono storie che vanno prese a piene mani e portate in giro. Con pazienza, cura. Come quando si cambia una lampadina, appunto.

(dal mio spettacolo “A casa loro”, scritto insieme a Nello Scavo, che è uno spettacolo teatrale ma forse sarebbe il caso che fosse un bigino da tenersi in tasca durante questa brutta campagna elettorale. Buon venerdì:)