Vai al contenuto

uomini

11 settembre, dove siamo ora? Gli uomini che cadono dal cielo di Kabul ci hanno fatto tornare al punto di partenza

“11 settembre 2001, dove eravate?”, chiedono oggi moltissimi giornali. Si sa, l’aspetto emozionale è utile per sviluppare empatia facile ma è utile anche a chi ha bisogno di umanizzare la guerra per rivendere la vendetta come giustizia. 11 settembre 2001, dove siamo ora? È cambiata la percezione del terrore e del terrorismo, questo sicuro, e la paura è diventata un’arma di governo potentissima. Certo, come sottolinea con la solita puntualità l’Ispi, “nell’ultimo decennio il numero di attacchi terroristici di matrice jihadista è aumentato di 6 volte rispetto al decennio precedente” (quindi la lotta al terrorismo ha dato combustibile all’ingrossarsi del terrorismo) e 20 anni dopo (lo dice sempre Ispi) ci sono quasi quattro volte più militanti islamici sunniti oggi di quanti ce ne fossero l’11 settembre 2001 e restano inoltre attivi quasi 100 gruppi estremisti islamici.

I numeri però vanno usati e vanno osati: gli attacchi terroristi successivi a quello dell’11 settembre negli Usa hanno provocato 91 morti. Negli USA sono morte nel frattempo 566 morti per sparatorie di massa. Il processo di trasformazione della sensibilità per il terrorismo ha creato, come spesso succede, terrorismi brutti, sporchi e cattivi e terrorismi che invece non vengono raccontati. Sono passati 20 anni, siamo ancora qua.

Dove siamo oggi? Siamo alla resa dei conti per quanto riguarda la fallibilità dell’esportazione di democrazia: la forza militare americana (e la NATO) attraversano uno dei loro punti più bassi di credibilità. Sono morte 900mila persone nelle guerre post-11 settembre di cui almeno 335mila civili. Sono stati spesi dagli USA 8 trilioni di dollari: sempre Ispi sottolinea come “la guerra afghana è durata più delle due guerre mondiali e delle operazioni in Vietnam, con la perdita di 2500 soldati US, 67mila militari afghani e 47 mila civili”.

Cosa siamo oggi? Ci eravamo ripromessi di curare l’odio degli altri e intanto abbiamo concimato l’odio interno. I populismi di destra sparsi in giro per il mondo da quell’11 settembre hanno raccolto e manipolato barili di islamofobia per incendiare gli umori: Ispi sottolinea come “se nel 2000 ci furono solo 12 aggressioni anti-musulmane negli Stati Uniti segnalate all’FBI, nel 2001 divennero 93, e nel 2020 se ne contano 227”. Per toccare l’aria qui da noi basterebbe anche solo leggere i comunicati stampa e i tweet dei nostri leader più destrorsi. Anche “l’importazione della democrazia” non è andata benissimo, no.

In Afghanistan l’impertinente sceneggiatura della Storia ci ha lasciato uomini che cadono dal cielo, ancora, come se questi vent’anni avessero semplicemente fatto il giro per tornare al punto di partenza. Nel frattempo gli USA hanno speso 233 miliardi di dollari per l’assistenza sanitaria ai veterani di guerra in Afghanistan, 433 miliardi di dollari per l’aumento del budget del dipartimento della Difesa, 532 miliardi di dollari di interessi stimati sui prestiti di guerra, i 60 miliardi di dollari di budget afghano del Dipartimento di Stato e 1055 miliardi di dollari del dipartimento della Difesa. Tutto questo per lasciare un Paese più povero di com’era, con i talebani ancora al potere.

Dove siamo oggi? Quando gli Usa 20 anni fa invadevano l’Afghanistan (ripetendo il messaggio “non siamo venuti qui solo per catturare Osama Bin Laden, Al Qaeda e coloro i quali aiutano Osama Bin Laden”) venivano diffusi filmati in cui gli afghani si erano rasati barba e capelli, le donne si erano tolte il burqa e ballavano a ritmo di musica. Abbiamo passato 20 anni a tenere i riflettori su Kabul mentre nelle zone rurali i cittadini provavano la terribile esperienza della guerra. 20 anni dopo siamo sommersi dalla narrazione che ora la guerra sia “più sicura” grazie ai droni. Nel sud del Paese, nella provincia di Kandahar, il 7 ottobre del 2001 è avvenuto il primo attacco con droni nella storia dell’umanità. L’obiettivo era il leader dei talebani Mullah Mohammad Omar che però morì un decennio dopo per cause naturali. Fu solo il primo di una serie di casi: qualche settimana fa dopo la caduta di Kabul è riapparso Khalil ur-Rahman Haqqani, leader talebano della famigerata Rete Haqqani: lui, come Khalil ur-Rahman o suo nipote Sirajuddin (vice leader dei talebani), erano stati dichiarati “uccisi” dagli USA. Vengono chiamati “fantasmi” perché regolarmente riappaiono vivi e vegeti. E allora chi hanno ucciso quei droni? Nel 2014, il gruppo britannico per i diritti umani Reprieve ha rivelato che tra il 2002 e il 2014 in Pakistan e Yemen, i tentativi di uccidere 41 uomini tramite droni armati hanno provocato la morte di circa 1.147 persone. 20 anni dopo dovremmo sapere che no, che la guerra non è diventata buona e giusta e che i combattenti talebani sono capaci di nascondersi dai droni con successo a differenza dei civili agricoltori, negozianti o tassisti che ci rimangono uccisi. Anche qui siamo, ora.

Nel palazzo presidenziale di Kabul intanto ci ritroviamo comandanti che rivendicano la propria detenzione a Guantanamo e un ministro con un’enorme taglia sula sua testa per terrorismo. Dove siamo 20 anni dopo? Siamo qui. E chissà che non siano bastati 20 anni perché gli analisti e i politici abbiano imparato ad allargare lo sguardo.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Cpr di Milano, “si entra uomini e si esce zombie”

Si è tenuto ieri pomeriggio nella Sala Caduti di Nassirya a Palazzo Madama l’incontro con la stampa del senatore Gregorio de Falco e i rappresentanti della rete di associazioni “Mai più lager – NO ai CPR” in cui è stato presentato il report dell’accesso presso il Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano, invia Corelli n. 28, del Senatore nelle giornate del 5 e 6 giugno di quest’anno. «Un incontro necessario per dare contezza di una realtà che altrimenti non sarebbe conosciuta – ha detto de Falco – perché qui non si tratta di una poca attenzione per i luoghi ma per i diritti».

De Falco ha raccontato di avere trovato nel centro circa 40 persone, «ognuna con una sua storia di vita, accomunate dal fatto di esser qui in Italia da tanti anni in una permanenza brutale che crea problemi psicologici e psichiatrici anche a chi non ne aveva». De Falco ha raccontato di avere assistito a diversi atti di autolesionismo e ha puntato il dito sulle responsabilità: «Sapete qual è il problema? Nelle carceri il responsabile è lo Stato mentre nei Cpr c’è una commistione tra vari soggetti, lo Stato rappresentato dalle Prefetture e i privati che si accaparrano la gestione attraverso bandi e la suddivisione delle responsabilità non è mai chiara». De Falco ha raccontato di avere chiesto senza ottenerlo il registro degli accessi («e mi domando in relazione a che presenza il gestore venga pagato dallo Stato», ha aggiunto, «visto che l’ultimo dato diceva 51 presenza mentre in realtà erano 44») e di non avere ottenuto nemmeno il registro degli eventi critici. «Parliamo di un mondo altro in cui si viene trattenuti dopo un’udienza che dura dai 3 ai 5 minuti: in quel tempo si decide della libertà di una persona, una persona che non ha compiuto alcun reato, che è semplicemente non italiano»·

Teresa Florio, della rete “Mai più lager – NO ai CPR” costituita nel 2018 a Milano e che raccoglie realtà attive sul territorio che hanno avuto modo di esaminare la situazione durante i diversi governi che si sono succeduti, ha raccontato di avere avuto modo di visitare il centro solo grazie alla presenza del Senatore poiché non l’ingresso è vietato alla stampa e alla società civile, se non in rarissimi casi. «Il primo diritto violato è la salute – ha detto – poiché a Milano la Prefettura non ha sottoscritto nessun protocollo con l’ATS per l’assistenza medica ai trattenuti. Teniamo conto che si parla di detenzione che durano mesi. Poi ci sono i numeri: oltre 30 morti in 20 anni, 5 solo negli ultimi 2. C’è poi il diritto negato di corrispondenza che dovrebbe essere garantita sulla carta e invece la sottrazione del telefono avviene immediatamente all’ingresso, mentre non è possibile ottenere carta e penna se non sotto stretta sorveglianza. Questo preclude anche il diritto alla difesa o a presentare i reclami scritti che sarebbero previsti da regolamento»· Florio ha anche puntato il dito sulla gestione affidata ai privati con gare che premiano semplicemente il maggior ribasso. «C’è poi la questione del dispendio economico: lo sanno i cittadini che costi enormi ci sono solo per trattenere una minima parte degli irregolari, tenendo conto che solo il 50% di loro viene rimpatriata mentre gli altri escono con un foglio di via e rimangono sul nostro territorio con il terrore di essere fermati di nuovo? Qui viene criminalizzata la clandestinità».

Per questo suonano senza senso le storie come quella di un lavoratore straniero che ha lavorato per ben 25 anni qui da noi alle Ferrovie dello Stato per ritrovarsi poi rinchiuso nel Cpr dopo avere perso un lavoro («per gli italiani è un dramma ma per gli stranieri è addirittura una tragedia», ha detto De Falco) oppure quella di L.A. che si è praticato dei tagli profondi, ingeriva stoffa e oggetti metallici, si è fratturato degli arti per poi essere ingessato, togliersi il gesso e fratturarsi di nuovo per finire a un Tso. Oppure A.O. sposato con una cittadina europea (e con una figlia europea) che è stato rinchiuso mentre transitava dall’Italia in attesa di documenti. «È un processo di zombizzazione, quelli che entrano sono normali e escono zombie per i troppi psicofarmaci e le mancate cure». Sotto gli occhi di tutti.

L’articolo Cpr di Milano, “si entra uomini e si esce zombie” proviene da Il Riformista.

Fonte

Uomini e sorci

Esultano. Un popolo di ineducati che trova un padrone che li bastona esulta. E, badate bene, non esulta solo per il rischio arginato (che qualcuno racconterà come scampato) ma esultano per avere trovato “l’uomo forte” che gli ha urlato in faccia che sono una massa di imbecilli. Proviamo a ricapitolare come se la dovessimo raccontare a un marziano approdato per un errore di rotta sulla Terra che ci chiede cosa stia succedendo.

I negazionisti hanno giocato sulla pelle morta di gente vivissima

C’è una pandemia in corso e gli oppositori strizzano le cervella per inventarsi come opporsi in pandemia. Hanno un improvviso colpo di genio, roba grossa, si guardano negli occhi e si dicono che l’unico modo per opporsi è dire che la pandemia non esiste ed è un’invenzione dei poteri forti. Ma chi ci crederà? Sarebbe il primo dubbio di ogni persona sensata e invece questi, che sono degli sconsiderati etici prima che politici, hanno pensato bene di inoculare la cazzata sapendo bene che qualche mandria di esaltati l’avrebbe raccolta. E infatti ecco qua: mentre l’Italia e il resto del mondo contavano i morti trasportati sotto i propri balconi abbiamo dovuto leggere di decessi inventati, di autopsie negate e una sequela di castronerie che farebbe perfino ridere se non ci fosse un dramma sparso dappertutto. I negazionisti del Covid andrebbero presi uno a uno (sono loro del resto che continuano a invocare un nuova Norimberga) e portati occhi negli occhi a fissare i parenti delle vittime: forse così saprebbero quanto sono stati feroci, mica solo inopportuni e quanto abbiano giocato sulla pelle morta di gente vivissima che piange ancora.

Burioni e la fantastica impresa di dire le cose giuste in modo tremendamente sbagliato

Ma non è finita qui. Questo è solo l’inizio. Poiché a un certo punto perfino lo sperduto pastore sulla più sperduta montagna molisana ha avuto il caso di incrociare qualche vittima, la nuova fiammata è stata quella di farci credere che il dramma sia vero, troppo difficile negarlo, ma sia stato troppo drammatizzato. Accusare un Paese di piangere troppo le proprie vittime è qualcosa che sta in bilico tra l’inumano e l’assassinio eppure la tiritera funziona e non è nemmeno troppo pericolosa: ammetto che il rischio ci sia ma metto in dubbio il fatto che il mio Stato mi curi come dovrebbe. È la versione light della cretineria precedente e anche solo pensandoci chiunque direbbe che sarebbe impossibile trovare leader politici pronti a sostenere questa boiata. Eccoli qui, Salvini e Meloni in prima fila con l’unica differenza che l’alunno Salvini (che si è incastrato nel voler apparire come alunno modello) rientra subito tra le righe con una sonora sculacciata. Giorgia Meloni invece è geniale: nega negando ciò che ha detto qualche mese prima e strumentalizza mimando responsabilità con un gioco di specchi che funzionerebbe solo in un Paese narcotizzato e cretino e infatti guida il primo partito d’Italia. Bene così. Anzi male, malissimo. Dall’altra parte i difensori del buon senso perdono il senno assumendo comportamenti da assessori leghisti alla Sicurezza e Burioni ha buon gioco per augurare a tutti di rimanere in casa come sorci se non si è d’accordo. La fantastica impresa di dire cose giuste in un modo talmente sbagliato da passare addirittura dalla parte del torto è qualcosa che spetta ai fuoriclasse dell’egocentrismo.

Arriviamo alle battute finali: Salvini pensa davvero di avere le spalle talmente larghe da poter tenere la posizione di quello che fa opposizione pur restando nel governo. Tiene fissato sul suo profilo Twitter la sua guerra senza quartiere contro il green pass e intanto il suo dog sitter Mario Draghi annuncia che il green pass è una realtà e che quelli come Salvini sono una massa di cretini. Annuncia che Salvini è una massa, in pratica. Salvini si offende come un bambino con le orecchie da asino dietro la lavagna e viene sfanculato dai suoi sostenitori che quando perdono la pazienza sono stati educati a non avere remore. Salvini fa lo stercoraro con le palline di voti che sta regalando a Giorgia Meloni. Giorgia Meloni esulta perché con i sacchi dell’umido sta riempiendo la credenza. Si invoca la dittatura sanitaria.

Siamo un Paese che come prova di maturità prende coscienza della propria inadempienza

E che succede? Succede che tutti esultano perché Draghi ha rimesso le cose in fila e ha costretto i cretini a correre a vaccinarsi per potersi godere lo Spritz. Centinaia di illuminati commentatori dicono: «Per fortuna Draghi ci ha detto che siamo stupidi», senza nemmeno immaginare che poi arriveranno le elezioni e quelli che sono stati messi nei cassetti degli stupidi finiranno per votare. Quindi, una parte urla alla dittatura sanitaria tirando in ballo Auschwitz e l’olocausto e l’altra parte è tutta barzotta per l’uomo forte. Ora, con calma, serenamente, ditemi voi in che stato di salute sta la democrazia. Immaginatevi il marziano a cui avete raccontato questa storia, immaginatelo mentre vi dice che no, che in questa discesa continua attraverso il male minore lui non vuole concorrere. Immaginate un Paese che come prova di maturità continuamente prende coscienza della propria inadempienza. E ne è felice. E questo gli basta.

L’articolo Uomini e sorci proviene da Tag43.it.

“Donna, ricordati di procreare altrimenti non ti realizzi”

A destra la concezione dell’identità di donna è sempre la stessa dai tempi di Adamo: essa per la Lega o Forza Italia ha il supremo compito di partorire come accadeva in quei tempi in cui in Italia avevamo qualche problemino con la democrazia

Antonio Tajani è coordinatore nazionale di Forza Italia, mica uno qualunque. Uno dei suoi pregi, per chi ha uso di seguire la politica, è quello di essere sornione sempre allo stesso livello mentre si ritrova a parlar degli argomenti più diversi, come se recitasse a memoria il ruolo che Forza Italia si propone nel centrodestra: essere quelli “seri”, quelli “non populisti”, quelli “libertari” e così via.

Ieri Tajani era presente alla presentazione degli eventi della festa ‘Mamma è bello’ e ovviamente gli è toccato sfoderare qualche riflessione politica sul ruolo di mamma (i politici, quelli che funzionano sono così, hanno un’idea su tutto e un mazzo di slogan per qualsiasi occasione, dalla sagra della porchetta fino al complesso tema di maternità e famiglia) e così ha sfoderato la solita frase come una tiritera, forse rendendosi poco conto di quello che stava dicendo. «La famiglia senza figli non esiste», ha detto Tajani, e poi, tanto per non perdere l’occasione di peggiorare la propria figura ha deciso anche di aggiungerci che «la donna non è una fattrice, ma si realizza totalmente con la maternità».

Ma come? Ma Forza Italia non è proprio il partito delle libertà? Niente: Tajani non si è nemmeno reso conto di essere riuscito in pochi secondi a tagliare completamente fuori migliaia di persone che avrebbero tutto il diritto di sentirsi feriti dalle sue parole. Mettere in dubbio la legittimità di un amore e di una famiglia, del resto, sembra essere diventato il giochino del momento dalle parti del centrodestra e così le famiglia che non hanno figli e quelle che non ne possono avere improvvisamente si accorgono di essere meno degne di tutti gli altri. E badate bene, qui siamo addirittura oltre al solito attacco alle coppie omosessuali: qui siamo proprio a un’idea di donna che ha il supremo compito di partorire come accadeva in quei tempi in cui in Italia avevamo qualche problemino con la democrazia.

Molti sono inorriditi, giustamente e si sono lamentati ma in fondo è proprio sempre la stessa idea di mondo, anche se esce con toni e con modi diversi, che nel centrodestra si coltiva da anni: «Le donne preferiscono accudire le persone, gli uomini preferiscono la tecnologia», ha detto ieri a Piazza Pulita (solo per citare uno dei tanti esempi) Alberto Zelger, consigliere comunale della Lega a Verona.

Insomma, anche oggi, care donne vi è stato ricordato il sacro comandamento di realizzarvi solo attraverso la procreazione. E se è vero che qualcuno potrebbe fregarsene della sparata di Tajani, come accade per le boiate di Salvini, occorre ricordare che questi sono leader di partiti che decideranno come spendere i soldi che dovrebbero servire per rimettere in piedi l’Italia, sono lì a stabilire quali dovrebbero essere le priorità. E questo, vedrete, è molto di più di una semplice frase sbagliata.

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il sottosegretario dei migliori

Fanpage in una sua inchiesta che (c’è da scommetterci) difficilmente passerà nei telegiornali nazionali racconta la transizione politica dell’attuale sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, uno dei fedelissimi di Salvini (e infatti per niente amato dalla Lega vecchia maniera). Ve lo ricordate Matteo Salvini quando tutto fiero presentava i suoi uomini nel governo Draghi? «Questo è il governo dei migliori?» gli chiese una giornalista e lui rispose «certo questi sono gli uomini migliori della Lega».

Bene, eccolo il migliore: come racconta benissimo Fanpage, Durigon è uno che avrebbe gonfiato i dati degli iscritti del sindacato Ugl di cui era dirigente, riuscendo a dichiarare 1 milione e 900mila iscritti mentre erano (forse) 70mila. Sapete che significa? Che stiamo continuando a parlare di una rappresentatività dopata che non esiste nella realtà (questo anche a proposito del nostro Buongiorno di ieri sulla sparizione del salario minimo dal Pnrr, su cui torneremo). Durigon da sindacalista ha avuto piena gestione sulla cassa da cui potrebbero essere passati i movimenti che la Lega non era libera di fare per quella storia dei suoi 49 milioni di euro. Durigon ha fatto prostituire un sindacato (pompato) alla Lega per ottenere qualche candidatura. Poi ci sono le amicizie che sfiorano certa criminalità organizzata nel Lazio (ma i lettori più attenti lo sapevano da tempo che certi clan hanno fatto campagna elettorale nel Lazio per Lega e Fratelli d’Italia) e infine c’è quella registrazione vergognosa in cui Durigon tutto sornione confida di non avere nessuna preoccupazione sulle indagini sui soldi della Lega perché il generale della Guardia di Finanza che se ne occupa è un uomo che hanno “nominato” loro: «Quello che fa le indagini sulla Lega lo abbiamo messo noi»

Tutto grave, tutto gravissimo. Tra l’altro fa estremamente schifo anche questo atteggiamento di politici con il pelo sullo stomaco che ancora si atteggiano come i peggiori politici socialisti, i peggiori unti democristiani che sventolavano il potere come se fosse un mantello, per piacere e per piacersi. Fa schifo questa esibizione dello scambio di favori. Fa schifo tutto.

Fa schifo anche Salvini che ieri alla Camera ha risposto ai rappresentanti del M5s che sottolineavano l’inopportunità di un tizio del genere come sottosegretario mettendosi a parlare di Grillo. Il solito gioco da cretini di buttare la palla in tribuna. Il solito Salvini. Se posso permettermi è parecchio spiacevole anche il composto silenzio del Pd che vorrebbe rivendere il poco coraggio come diplomazia. Siamo alle solite.

C’è però anche un altro punto sostanziale: della vicinanza tra Durigon e uomini della criminalità organizzata durante la sua campagna elettorale ne avevano scritto un mese fa Giovanni Tizian e Nello Trocchia su Domani, degli intrecci mafiosi su Latina ne scrivono da anni dei bravi giornalisti chiamati con superficialità “locali” e che invece trattano temi di importanza nazionale. Sembra che non se ne sia mai accorto nessuno e questo la dice lunga sulla percezione che in questo Paese si continua ad avere della criminalità organizzata. Anche questo fa piuttosto schifo.

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Migliori anche a leccare chi viola i diritti umani

Ieri il presidentissimo Mario Draghi si è recato in Libia. Ogni volta che qualche esponente di qualche nostro governo passa dalla Libia non riesce a evitare di tornare con le mani sporche di sangue per un qualsiasi atteggiamento riverente verso i carcerieri sulle porte d’Europa, come se fosse una tappa obbligata per poter frequentare i salotti buoni per l’Europa e anche il “migliore” Draghi è riuscito a non stupirci rivendicando con orgoglio l’amicizia, la stima e la vicinanza ai libici che violano i diritti umani. Ogni volta è stupefacente: negare la realtà di fronte ai microfoni della stampa internazionale deve essere il risultato di un corso speciale che viene inoculato ai nostri rappresentanti. E ogni volta fa schifo.

«Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia», ha detto ieri Draghi, con quella sua solita soffice postura con cui ripete le stesse cose dei suoi predecessori aggiungendoci un filo di zucchero a velo. Sarebbe curioso chiedere a Draghi cosa si intenda esattamente per “salvataggio” poiché i libici (questo è un fatto accertato a livello internazionale) si occupano principalmente di respingimenti, di riportare uomini e donne nei lager dove continuano le torture, gli stupri e lo schiavismo, poiché i libici sono quelli che il 10 ottobre del 2018 hanno sparato a una motovedetta italiana, poiché i libici sono gli stessi che il 26 ottobre 2019 hanno sparato sulla nave Alan Kurdi per impedire il soccorso dei migranti, poiché i libici sono gli stessi che il 28 luglio dell’anno scorso hanno sparato contro i migranti uccidendone 3. Solo per citare qualche esempio, ovviamente, dato che quel pezzo di mondo e di mare continua a rimanere sguarnito, anche questo per precisa volontà politica.

Caro presidente Draghi, siamo contenti che lei si senta barzotto per questo tipo di salvataggi ma le auguro di non essere mai “salvato” così. Del resto legittimare quella combriccola di assassini che vengono educatamente chiamati Guardia costiera libica è un esercizio retorico che dura da anni: anche su questo il governo dei migliori continua spedito. Considerare la Libia un partner affidabile significa accettare la sistematica violazione dei diritti umani: come si chiamano coloro che elogiano in pubblico un’attività del genere facendola passare per doverosa? Ognuno trovi comodamente la risposta.

E mentre Draghi si è occupato di proteggere gli affari dell’italiana Eni in Libia, di farsi venire l’acquolina in bocca per l’autostrada costiera al confine con Bengasi (che riprende il tragitto della strada inaugurata nel 1937 da Benito Mussolini e conosciuta anche come “via Balbia”, evocando le azioni di Italo Balbo), di continuare a foraggiare la Guardia costiera libica per essere il sacchetto dell’umido dell’umanità nel Mediterraneo e di riassestare e ristrutturare la Banca centrale libica, i diritti e i dolori delle persone rimangono sullo sfondo come semplice scenografia dei barili di petrolio per cui i canali sono invece sempre aperti.

Del resto secondo il leader libico Abdul Hamid Dbeibah, Italia e Libia «soffrono e devono affrontare una sfida comune che è l’immigrazione clandestina, un problema che non è solo libico ma internazionale e riguarda tutti, come il terrorismo e il crimine organizzato». Solo che in questo caso sono chiarissimi gli autori di questo “problema”: Libia, Europa, Italia e la nuova spinta di Mario Draghi.

L’eccelso Mario Draghi insomma è il vassoio di cristallo delle solite portate, schifose uguali ma dette con più autorevolezza: avrebbe dovuto essere “il competente” e invece non è riuscito nemmeno a leggere un rapporto dell’Onu prima di andare in gita. E ovviamente non ha nemmeno fatto un giro nei campi di concentramento, non sia mai, si sarebbe sporcato il polsino.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Tutte le falle del piano vaccinale

È sempre quella vecchia storia dell’innamorarsi degli uomini e di sottovalutare i sistemi: il “nuovo” piano vaccinale italiano, quello che avrebbe dovuto portare la sferzata decisiva per fare ripartire il Paese o almeno per uscire dal tunnel buio del virus è lastricato di buone intenzioni (com’era quell’altro) proferite da nuovi protagonisti ma nei fatti continua a incepparsi negli stessi granelli e ad ora continua a difettare allo stesso modo nei risultati. Se avessimo perso meno tempo a pesare e analizzare le posture e le parole di Draghi, di Figliuolo e di Salvini a cui ora tocca addirittura di sembrare “responsabile” forse avremmo potuto discutere di un impianto malato nelle fondamenta, di questa delega alle Regioni che rimane il punto critico di un’operazione che viene pensata a livello centrale ma poi si perde tra i rivoli dei regionalismi.

Il Piano strategico per la vaccinazione anti Sars-Cov-2 è stato elaborato lo scorso 12 dicembre dal ministero della Salute. Il decreto della sua attuazione ufficiale risale allo scorso 2 gennaio, con decreto del ministro, e poi aggiornato l’8 febbraio con il documento “Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti Sars-Cov-2/Covid-19”. Leggendo il piano risulta subito evidente che il governo sia responsabile della definizione delle «procedure, gli standard operativi e il layout degli spazi per l’accettazione, la somministrazione e la sorveglianza degli eventuali effetti a breve termine»: risulta quindi evidente che gran parte della fase operativa e strategica sia sostanzialmente demandata alle autorità regionali e già questo potrebbe bastare per comprendere il motivo di risultati così diversi da regione e regione.

Il numero delle persone vaccinate, la percentuale di vaccini che rimangono inutilizzati, perfino…

L’articolo è tratto da Left del 2-8 aprile 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Essere Marcucci

Se qualcuno vuole toccare con mano cosa sia stato per Zingaretti guidare il Partito democratico può comodamente assistere alla sceneggiata che si consuma in queste ore con il capogruppo al Senato Andrea Marcucci.

Un attimo, faccio un passo indietro: ci si dimentica spesso quando ci si ritrova a discutere del Pd che i parlamentari che siedono in Parlamento sono figli delle liste approntate da Matteo Renzi, uno che in termini di premiazione della fedeltà come immancabile qualità politica dei suoi è praticamente insuperabile. Quando si parla di Pd, di come il Pd è cambiato in questi ultimi anni, non si può non tenere conto che la squadra parlamentare è sempre quella, figlia di quell’esperienza, figlia di quel momento.

Andrea Marcucci è stato un renzianissimo: a 27 anni era già deputato nel Partito liberale italiano (non propriamente un erede di Berlinguer, diciamo), ha amato il Pd di Renzi che guardava a destra (ma va?), odia da sempre il M5s (basta andare indietro nelle sue dichiarazioni per accorgersene) e quando Renzi decise di andarsene per fondare Italia viva pianse. Però rimase nel Pd. Ieri Fiano durante l’assemblea dei senatori Pd ha sottolineato che nel Pd “non ci sono ex renziani”. Apprezziamo lo sforzo, ce lo auguriamo tutti ma che qualcuno abbia indossato le vesti del “sabotatore interno” è una sensazione che è emersa più di una volta.

Marcucci comunque diventa capogruppo al Senato e quando il nuovo segretario Letta chiede che siano due donne a guidare le compagini parlamentari, mentre Delrio alla Camera accetta di fare un passo indietro l’inossidabile Marcucci si aggrappa alla poltrona. Irresistibili le sue giustificazioni delle ultime ore: «Decidiamo insieme ma no a imposizioni», dice, come se la decisione di Letta non sia figlia di un organo dirigente e puntando un po’ a fare la vittima, poi aggiunge «crediamo che la questione dell’alternanza di genere sia fondamentale per il nostro partito – si legge nella lettera di Marcucci a Letta – Crediamo anche che oltre gli atti simbolici, che pur a volte sono necessari, serva allargare il campo alle prossime elezioni amministrative, si vota in 8 importanti città, ai tanti luoghi dove un Pd declinato troppo al maschile, esercita funzioni di governo, e non ultimo nella cariche apicali del partito, dove per troppi anni le donne non sono state protagoniste», proponendo in sostanza di trovare donne per sostituire altri uomini ma non lui e infine ha rivendicato “l’autonomia dei gruppi parlamentari”, sempre per quella vecchia storia di riuscire a mostrare sempre e ovunque disunità nel partito. Ora, com’è nelle sue corde, Marcucci ha convocato l’assemblea dei senatori per giovedì. Insomma, non ce la fa, è la sua natura.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

E domani, chi li difenderà?

Ieri tutti i quotidiani (e anche oggi sulle edizioni cartacee) si sono improvvisamente svegliati sulle condizioni di lavoro dei dipendenti di Amazon. Sdegno e sconcerto sparso a fiumi come se la politica e il giornalismo avessero bisogno di uno sciopero per rendersi conto delle condizioni in cui si ritrovano moltissimi lavoratori (mica solo di Amazon, eh) e una diffusa “first reaction shock” per abusi che si sapevano da anni. C’è una buona notizia, comunque: scioperare serve ancora, anche alla faccia di chi in questi anni ha voluto svilire lo sciopero come bighellonaggine senza senso. Lo sciopero di ieri dei dipendenti di Amazon in Italia (con un’adesione altissima, circa il suo 75%, tenendo conto dei metodi feroci che l’azienda mette in campo contro qualsiasi suo dipendente che si permetta di alzare una qualsiasi osservazione) è stato uno sciopero nobile perché ha visto l’Italia in prima fila nel mondo: «Vogliamo augurare a tutti voi, fratelli e sorelle italiani, buona fortuna per il vostro sciopero nazionale. Questa è una lotta globale, una lotta di giustizia e siamo dalla vostra parte. Vogliamo ringraziarvi, esprimere la nostra solidarietà e condividere il nostro sostegno», è il messaggio arrivato ieri dal costituendo sindacato dei lavoratori Amazon in Alabama.

Ieri ci si è accorti che esistono aziende che impongono ritmi di lavoro insostenibili, calcolando tempi di spostamento che immaginano strade deserte e incessanti giornate di sole. «Basta essere schiavi dell’algoritmo», dice qualche politico giustamente sdegnato. Qualcuno li informi però che dietro la progettazione degli algoritmi ci sono gli uomini e tanto che ci siamo qualcuno dica ai media e alla politica (che improvvisamente si ridestano attenti sul tema) che ci sono aziende che non hanno algoritmi eppure imprimono ritmi massacranti ai propri lavoratori allo stesso modo, con una ferocia forse meno matematica ma con lo stesso risultato di perdita della dignità.

Lo stesso discorso vale per gli stipendi da fame (giustamente ieri i lavoratori Amazon facevano notare che nonostante facciano le notti non arrivino a prendere 1.300 euro) e allo stesso modo il problema dei contratti che durano solo qualche mese sono un problema diffuso anche fuori dai magazzini di Amazon. Insomma: se ieri in molti finalmente hanno riconosciuto che quelle condizioni non siano sostenibili allora adesso si potrebbe fare il passo successivo e ascoltare i troppi lavoratori che sono nelle stesse condizioni anche senza essere stipendiati da una multinazionale. Ieri, incredibile, per un giorno è diventato finalmente un tema di discussione l’indegna condizione di alcuni lavoratori in Italia. Se ne sono accorti perfino quelli che ci spiegavano come fosse bello consegnare cibo in bicicletta, inventandosi un genere letterario.

Poi ci sarebbe un’altra domanda: questi che esistono solo se scioperano, negli altri giorni, tutti i giorni, chi li difende?

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.