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valerio fioravanti

Strage di Bologna, la vergogna di un Paese che dopo 40 anni ha ancora una giustizia monca

10 e 25 del 2 agosto di 40 anni fa. Rimangono le commemorazioni, rimane l’immagine di quell’orologio fermo a dirci che non è vero che il tempo non si ferma, anche il tempo si inginocchia di fronte a 85 morti che frequentavano quella mattina la stazione centrale di Bologna. Ragazzi e bambini, tantissimi: il presidente Pertini, arrivato subito nel pomeriggio, raccontò di avere visitato bambini in terapia intensiva che stavano morendo sotto i suoi occhi. Angela aveva 2 anni, Sonia ne aveva 7. Kai ne aveva 8.

Quarant’anni e una storia che viene raccontata ancora per metà: qui da noi siamo bravissimi a commemorare storie che non ci siamo nemmeno presi la briga di raccontare. Sono stati condannati i tre colpevoli: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Terroristi fascisti dei Nuclei armati rivoluzionari che in quegli anni hanno contribuito alla politica del terrore che ha ucciso magistrati, poliziotti, carabinieri e perfino camerati considerati traditori. Per Gilberto Cavallini, altro estremista nero, la condanna di primo grado è arrivata solo a gennaio di quest’anno. Il neofascista Paolo Bellini, di Avanguardia Nazionale, ora è imputato e chissà quanto ci metteremo a leggere la sentenza.

Poi ci sono Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi: sospettati di avere foraggiato economicamente la strage, tutti deceduti nel frattempo, tutti iscritti alla Loggia massonica P2 e tutti individuati fuori tempo massimo, per permettere l’ennesima umiliazione su quella strage: il negazionismo. Il fetore di chi ancora lucra su quei morti perché la storia non venga raccontata per intero. Siamo il Paese che si ferma sempre un passo prima dell’individuazione dei mandanti, un Paese che restituisce quella giustizia a metà che non basta mai (e per fortuna) ai famigliari delle vittime e a chi crede nello Stato.

Per questo anche oggi sull’anniversario della strage di Bologna possono dare aria alla bocca quelli che giocano sulla riscrittura degli eventi sempre a favore della propria propaganda. Di Licio Gelli ci rimane una condanna per il depistaggio successivo, solo quella, e tutti i suoi segreti che si è portato nella tomba. Ma l’importante qui da noi è che la politica sfili per le cerimonie, sacerdoti del ricordo che non si ricordano mai dove sono stati. Alla fine siamo stati noi a permettere che oggi siamo così monchi.

Leggi anche: Quei cattivi ragazzi: Bologna, la storia di Mambro e Fioravanti e tutti i dubbi su una strage lunga 40 anni (di Luca Telese)

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Bologna 1980: chi ha fermato l’orologio

GR1 ore 11.55 – Edizione Straordinaria Nelle udienze pubbliche del 22-23 Novembre 1995 la Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite Penali ha definitivamente condannato all’ergastolo, per la strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Inoltre sono stati condannati, pure definitivamente, per il depistaggio delle indagini, i massoni Licio Gelli, Francesco Pazienza, il generale Musumeci e il colonnello Belmonte, questi ultimi due, ufficiali del servizio segreto militare. Dopo 15 anni la strage di Bologna ha i suoi primi responsabili. Ciò ci induce a ben sperare sulla possibilità di conoscere anche i mandanti e gli ispiratori politici. Questa pubblicazione che riporta le motivazioni della sentenza vuole dare a tutti l’opportunità di informarsi alla fonte. Il documento infatti qui riprodotto è la copia conforme dell’originale. Riteniamo utile e soprattutto doveroso permettere la conoscenza dei fatti, secondo gli atti giudiziari, per una formazione corretta di opinioni non soggette a passionalità personali. Il nostro compito, nonché il nostro desiderio, è quello di capire e far capire il perché di certi terribili eventi che, violentando il primario legittimo diritto alla vita, hanno attentato alla crescita democratica della nostra repubblica. (Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980)

Udienza pubblica del 22-23.11.95

Sentenza n. 21
n. 19840/95 Reg. Generale

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezioni Unite Penali

 

composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. Aldo VESSIA PRESIDENTE
1. Dott. Pasquale LA CAVA CONSIGLIERE
2. Dott. Nicola MARVULLI “RELATORE”
3. Dott. Umberto PAPADIA ” ”
4. Dott. Bruno FOSCARINI ” ”
5. Dott. Francesco MORELLI ” ”
6. Dott. Mauro D. LOSAPIO ” ”
7. Dott. Giuseppe COSENTINO ” ”
8. Dott. Adalberto ALBAMONTE ” ”
ha pronunziato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:
1) IL PROCURATORE GENERALE presso la Corte di Appello di Bologna nei confronti di:
FACHINI MASSIMILIANO, n. a Tirana il 6.8. 1942;
RINANI ROBERTO, n. a Padova il 7.8.1947;
E DALLE PARTI CIVILI:
2) L’AVVOCATURA DELLO STATO, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Interno;
3) IL COMUNE DI BOLOGNA;
4) LA S.P.A. FERROVIE DELLO STATO nei confronti degli imputati Fachini e Rinani;
nonché degli imputati:
5) FACHINI MASSIMILIANO;
6) PICCIAFUOCO SERGIO, n. ad Osimo l’11.11.1945;
7) FIORAVANTI GIUSEPPE VALERIO, n. a Rovereto il 28.3.1958;
8) MAMBRO FRANCESCA, n. a Chieti il 25.4.1959;
9) CAVALLINI GILBERTO, n. a Milano il 26.9.1952;
10) GIULIANI EGIDIO, n. a Sora il 3.5.1955;
11) GELLI LICIO, n. a Pistoia il 21.3.1919;
12) PAZIENZA FRANCESCO, n. a Monteparano il 17.3.1946;
13) MUSUMECI PIETRO, n. a Catania il 18.5.1920;
14) BELMONTE GIUSEPPE, n. a Napoli il 18.3.1929;

avverso la sentenza della 1-a Sezione della Corte d’Assise di Bologna in data 16 maggio 1994;
Visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi;
Udita alla pubblica udienza del 22 novembre 1995 la relazione del Consigliere Dottor Nicola Marvulli;
Uditi, per le parti civili, gli Avvocati:
Fausto Baldi, Paolo Trombetti, Guido Calvi, Giuseppe Giampaolo, Francesco Berti, Alberto Zoboli, Umberto Guerini;
Udito il Procuratore Generale Dottor Sebastiano Suraci che ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza nei confronti di Massimiliano Fachini e Roberto Rinani, in accoglimento dei ricorsi del Pubblico Ministero e delle parti civili; per l’inammissibilità del ricorso di Massimiliano Fachini; per il rigetto dei ricorsi di tutti gli altri imputati, previa correzione dell’errore materiale contenuto nell’impugnata sentenza;
Uditi i difensori degli imputati Avv.ti:
Giuseppe Pisauro, Alfredo Gaito, Scipione Del Vecchio, Marcantonio Bezicheri, Raffaello Giorgetti, Antonio Lisi, Francesco Oppedisano, Giosuè Bruno Naso, Adriano Cerquetti, Tommaso Mancini.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Concluse le preliminari indagini sviluppatesi in seguito alla strage avvenuta a Bologna la mattina del 2 agosto 1980, allorquando lo scoppio di un potente ordigno esplosivo, collocato nella sale di attesa della stazione ferroviaria, aveva provocato la morte di ottantacinque persone ed il ferimento di oltre centocinquanta, gli inquirenti ritenevano che l’evento andava inserito nell’ambito di una complessa strategia terroristica, maturata nell’alveo della destra eversiva. Tali conclusioni erano suggerite dall’esame di un’ampia documentazione, riferibile alla stessa fonte, e da quanto era già emerso nel corso di altre indagini concernenti numerosi altri attentati dinamitardi, verificatisi in Italia dal 1972 in poi. In particolare si riteneva che dopo lo scioglimento, nel 1973, di “Ordine Nuovo” e, nel 1976, di “Avanguardia Nazionale”, una volta superata la fase transitoria conseguente a tali provvedimenti, fase nella quale si erano soltanto manifestate alcune autonome iniziative di pochi irriducibili, restii ad abbandonare le vecchie ed ambiziose finalità golpiste, si era venuta delineando una nuova, complessa struttura organizzativa, che raccoglieva elementi di eterogenea provenienza, e perseguiva una più radicale strategia terroristica: la lotta allo Stato ed alle sue più rappresentative istituzioni, che si sostituiva allo scontro armato contro i raggruppamenti che gravitavano nell’area delle sinistra eversiva. Rientrava, quindi, in tale strategia il bisogno di diffondere il terrore tra le masse, alimentandolo con clamorose e spregiudicate azioni delittuose, per creare un clima di rassegnata accettazione verso un autorevole governo del Paese, non più sensibile alle aspirazioni democratiche.

L’accusa ipotizzava l’esistenza di una vasta associazione sovversiva, nella quale erano confluiti elementi provenienti dai disciolti movimenti, quali Paolo Signorelli, Massimiliano Fachini, Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, Maurizio Giorgi, Marco Ballan, nonché il capo della loggia massonica denominata “Propaganda due”, Licio Gelli, il collaboratore del direttore generale del “Sismi”, Francesco Pazienza e due ufficiali dello stesso servizio di sicurezza, il generale Pietro Musumeci ed il colonnello Giuseppe Belmonte. A costoro, nell’ambito della originaria contestazione del reato previsto dall’art. 270 bis C.P. si attribuiva il conseguimento di un duplice scopo: quello, primario, di sovvertire gli equilibri politici espressi nelle forme previste dalla Costituzione e quindi consolidare tutte le forze ostili alla democrazia e quello, secondario e strumentale un tempo, di favorire gli autori di eventuali o possibili imprese terroristiche, se queste imprese si fossero armonizzate con quella primaria ed irrinunciabile finalità.

L’accusa riteneva altresì che oltre a tale associazione sovversiva si era venuta a formare una vera e propria banda armata (art. 306 C.P.), cioè un ristretto gruppo operativo, dedito alla concreta realizzazione di attentati.

Accusati di avere costituito ed organizzato tale gruppo operativo erano Paolo Signorelli e Massimiliano Fachini, il primo quale ispiratore del movimento, il secondo come capo ed organizzatore del settore veneto; della banda armata facevano altresì parte, secondo l’accusa, Roberto Rinani , quale collaboratore di Fachini, e per il gruppo romano, Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Egidio Giuliani e Alberto Cavallini. La stessa imputazione veniva elevata a carico di Sergio Picciafuoco, latitante da alcuni anni per aver riportato numerose condanne per reati comuni contro il patrimonio, considerato ideologicamente vicino al gruppo veneto.

Nell’ambito di tale banda armata l’accusa individuava, quale mandante della strage avvenuta a Bologna il 2 agosto 1980, Paolo Signorelli e quali esecutori materiali, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini, Roberto Rinani e Sergio Picciafuoco .

La partecipazione di tali imputati alla strage ed ai reati a questa strettamente connessi (omicidio volontario plurimo, lesioni personali volontarie, porto illegale di esplosivo, danneggiamento cd attentato ad impianti di pubblica utilità) ha rappresentato il tema principale dell’indagine, intorno al quale si è sviluppato il processo, indagine affidata all’analisi ed alla valutazione di numerosi indizi, la cui enunciazione, nella loro oggettiva e sintetica ricostruzione, è in questa sede necessaria per poter comprendere il contenuto delle diverse decisioni adottate, le questioni ancora sottoposte al vaglio di questa Corte, e le censure prospettate dalle parti ricorrenti ovvero l’impugnata sentenza.

Quanto al coinvolgimento di Valerio Fioravanti o Francesca Mambro – posizioni inscindibilmente connesse, a causa dei rapporti personali tra loro intercorsi – l’accusa ne affidava la prova a quattro, gravi, precisi e concordanti indizi:

a) le dichiarazioni rese da Massimo Sparti;

b) il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli;

c) l’anticipazione della strage da parte di Luigi Ciavardini;

d) la scarsa attendibilità dell’alibi offerto dagli imputati per il giorno in cui la strage era stata compiuta.

 

Quanto al primo degli indizi enunciati, va ricordato che Massimo Sparti, più volte condannato per vari reati, aveva avuto rapporti con entrambi i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, suoi ospiti dopo il sanguinoso epilogo di una rapina, ed in data 11.4.1981 al pubblico ministero dichiarava che due giorni dopo la strage, e cioè il 4 agosto 1980, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro si erano presentati a casa sua, a Roma, e facendo ricorso anche ad esplicite minacce nei confronti del suo unico figlio, gli avevano chiesto di procurare due documenti falsi che dovevano servire alla Mambro. AggiungevaSparti che Fioravanti, nel riferirsi alla strage, aveva esclamato: “Hai visto che botto?”, con ciò esprimendo il suo compiacimento per il risultato di quella impresa terroristica, e gli aveva confidato che quel giorno aveva girato per le strade di Bologna vestito in modo da sembrare un turista tedesco o altoatesino, e che a sua volta la Mambro, temendo di essere riconosciuta, aveva ritenuto opportuno tingersi i capelli.

Nel corso del procedimento, al fine di acquisire adeguati riscontri a tali dichiarazioni, venivano sentite sia la moglie che la domestica dello Sparti: la prima – Maria Teresa Venanzi – affermava che il marito sin dal luglio del 1980 si era trasferito, con l’intera sua famiglia, nella casa di campagna di Cura di Vetralla; la domestica, Luciana Torchia, ricordava di avere raggiunto la famiglia Sparti nei primi giorni dell’agosto del 1980, ma non era in grado di escludere che Massimo Sparti si fosse allontanato da Cura di Vetralla il 4 agosto di quell’anno.

A sua volta Cristiano Fioravanti, dimesso dal carcere di Rebibbia il 2 agosto del 1980, asseriva di essersi recato in casa di Massimo Sparti, nella speranza di ricevere da lui un aiuto economico, ma non lo aveva trovato e, dalla domestica, aveva appreso che era in campagna.

Sparti, nuovamente interrogato il 5 maggio 1982, dichiarava di non essere sicuro che la visita di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro fosse avvenuta il 4/8/1980, come da lui precedentemente affermato, e, modificando le originarie dichiarazioni in relazione alla individuazione di colui che i documenti richiesti aveva preparato, affermava che non trattavasi di Mario Ginesi, bensì di tale FaustoDe Vecchi, circostanza da questi confermata.

Nessun elemento certo emergeva da una perizia espletata sui capelli della Mambro, non essendo stata acquisita alcuna indicazione sul tipo di tintura che, secondo le rivelazioni di Sparti, la donna avrebbe utilizzato.

Nel corso della istruttoria, sia Valerio Fioravanti che Francesca Mambro non negavano di essersi rivolti a Massimo Sparti per ottenere due documenti falsi, ma precisavano che quella richiesta era stata da essi fatta nell’aprile del 1980, per aiutare due giovani, appartenenti ai “N.A.R.”, tali Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi, entrambi latitanti.

Il secondo, concorrente indizio veniva dall’accusa individuato nella causale dell’omicidio di Francesco Mangiameli , uno degli esponenti di rilievo del gruppo eversivo di Valerio Fioravanti: entrambi avevano predisposto un elaborato piano per l’evasione di Concutelli, il capo carismatico di “Ordine Nuovo”.

Mangiameli era stato ucciso a Roma il 9 settembre 1980: il cadavere, zavorrato, era stato buttato in un bacino artificiale a Tor dei Cenci, ma era dopo soli tre giorni riaffiorato, rendendo possibile la ricostruzione del delitto e l’individuazione dei colpevoli.

In relazione a tale delitto è già intervenuta una condanna definitiva da parte della Corte di Assise di Roma in data 16.7.1986 nei confronti dei fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Dario Mariani.

Varie erano state, nel corso di quel processo, le giustificazioni fornite dagli imputati: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro avevano giudicato la vittima un “inetto”, un “codardo”, che pretendeva diventare il capo della organizzazione, benché poi avesse sottratto gran parte dei fondi raccolti. A sua volta Cristiano Fioravanti, pur confermando di avere partecipato a quel delitto, su richiesta del fratello, nel corso del processo riferiva che dopo la sua esecuzione aveva chiesto allo stesso fratello le ragioni per le quali era stata assunta quella decisione e Valerio gli aveva confidato che in casaMangiameli , in Sicilia, vi era stata una riunione alla quale aveva partecipato un autorevole uomo politico siciliano, nel corso della quale era stato deciso di uccidere il Presidente della Regione, l’onorevole Pier Santi Mattarella ; sicché egli temendo che Mangiameli , sua moglie e sua figlia, potessero prima o poi rivelare quel fatto, aveva deciso di ucciderli tutti e tre, proposito che non era stato compiutamente realizzato perché il cadavere di Francesco Mangiameli era stato recuperato prima del previsto.

La sintomaticità dell’indizio veniva colta dall’accusa nella pretestuosità delle giustificazioni offerte, essendosi accertato che Valerio Fioravanti nel luglio del 1980 era stato ospite, insieme a Francesca Mambro, benché entrambi fossero già ricercati, di Francesco Mangiameli, e che l’omicidio Mattarella risaliva ad otto mesi prima: pertanto, l’accusa prospettava che non poteva ritenersi attendibile la giustificazione del delitto offerta da Valerio Fioravanti al fratello Cristiano, ma essa nascondeva una diversa e ben più grave realtà, inconfessabile per le sue criminali dimensoni, e cioè la conoscenza da parte di Mangiameli di notizie che riguardavano la strage del 2.8.1980, congiunta al percepito pericolo di una possibile dissociazione di Francesco Mangiameli e di un’altrettanta possibile sua rivelazione di quanto era realmente avvenuto.

Inoltre, proprio nel luglio del 1980, il colonnello Amos Spiazzi, incaricato dal “Sisde” di espletare un’inchiesta ricognitiva sulla riorganizzazione dei gruppi eversivi dell’estrema destra, dopo aver trascritto i risultati della sua indagine in una relazione, aveva rilasciato un’intervista al settimanale “L’Espresso”, intervista che benché rilasciata prima della strage, il giornale aveva pubblicato dopo tale evento.

In quella intervista Spiazzi lasciava intendere che alcune persone che avevano fatto parte dei disciolti movimenti eversivi si stavano riorganizzando, per attuare una pericolosa strategia terroristica ed affermava, per esaudire le legittime curiosità di chi lo intervistava, che tali notizie le aveva attinte da una fonte autorevole gravitante in quella stessa area politica, da lui indicato come “Ciccio”.

La moglie di Mangiameli riferiva agli inquirenti che il marito, letta quell’intervista, era rimasto profondamente turbato, ed aveva esclamato: “questi mi vogliono incastrare!”, con ciò alludendo al fatto che Ciccio di cui aveva parlato Spiazzi altri non poteva essere se non lui.

Della stessa convinzione si rivelarono gli amici del Mangiameli , dopo la sua uccisione, tant’è che diffusero un volantino tra i militanti palermitani di “Terza Posizione”, nei quali si definiva espressamente la vittima come l’ultima della strage del 2 agosto 1980.

Il terzo indizio è rappresentato, secondo l’accusa, dalla telefonata con la quale Luigi Ciavardini, un giovane militante nei N.A.R. coinvolto nell’omicidio Amato, ed attivo collaboratore di Valerio Fioravanti, aveva fatto all’amica della propria fidanzata, in uno dei giorni immediatamente precedenti il 2 agosto 1980, per differire un incontro a Venezia, programmato da tempo per quel giorno, e cioè il giorno in cui si era poi verificata la strage.

Il differimento del viaggio e dell’incontro con la fidanzata venne da Ciavardini giustificato dalla sopraggiunta necessità di reperire dei documenti falsi, necessari per consentirgli di protrarre la sua latitanza.

Gli inquirenti, invece, accertavano che il 3 agosto 1980 Ciavardini sicuramente disponeva di un documento falso, tant’è che lo aveva esibito subito dopo un incidente stradale nel quale era stato coinvolto.

Cristiano Fioravanti, dopo aver manifestato la sua intenzione di collaborare con gli inquirenti, asseriva che il fratello Valerio gli aveva confidato che Luigi Ciavardini andava abbandonato al suo destino perché aveva commesso un errore, quello cioè di riferire alla sua donna particolari sulla strage.

La posizione di Luigi Ciavardini, all’epoca minore degli anni diciotto, veniva scorporata dal processo e gli atti venivano trasmessi, per competenza, al Tribunale per i Minorenni di Bologna.

Quanto, infine, all’alibi offerto dagli imputati, dopo una prima diversa indicazione della città nella quale avevano trascorso la giornata del 2 agosto 1980 – Fioravanti aveva indicato Treviso, la Mambro Padova – entrambi avevano affermato che, partiti da Palermo, dopo essersi fermati a Roma avevano raggiunto Treviso, ospiti di Gilberto Cavallini, e la mattina del 2 agosto si erano recati a Padova.

Gilberto Cavallini confermava le dichiarazioni di Fioravanti e Mambro, precisando che i suoi ricordi erano stati sollecitati dopo una reciproca consultazione alla quale avevano partecipato i diretti interessati.

A sua volta Flavia Sbrojavacca, fidanzata del Cavallini, in una sua prima dichiarazione affermava di aver visto Francesca Mambro nei primi giorni dell’agosto del 1980 in casa di Cavallini; nel corso del dibattimento, celebratosi dinanzi alla Corte di Assise di Bologna, asseriva, invece, di essere certa che la mattina del 2 agosto 1980 sia Francesca Mambro che Valerio Fioravanti erano usciti dalla casa di Cavallini verso le ore 8,30 ed erano rientrati all’ora di pranzo.

Viceversa, la madre di Flavia Sbrojavacca, Maria Teresa Brunelli, pur confermando di aver visto i due imputati in quella casa, nell’estate del 1980, non era in grado di precisare il giorno in cui quella presenza era stata da lei constatata. Luigi Ciavardini precisava di avere saputo da Cavallini che Valerio Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Treviso ed a Padova il giorno 2 agosto l980.

Cristiano Fioravanti, a sua volta, rivelava che, pur non potendo offrire ulteriori contributi all’accertamento dell’alibi, Francesca Mambro aveva manifestato una certa sua preoccupazione, dopo alcuni giorni dalla strage, perché, prevedendo che si sarebbe indagato nei suoi confronti e nei riguardi di Valerio, aveva constatato, con amarezza, che non v’era nessun altro, oltre a Cavallini, che potesse confermare che entrambi, quel giorno, erano stati a Padova

Quanto alla partecipazione di Massimiliano Fachini e Roberto Rinani alla strage del 2 agosto 1980 ed ai reati ad essa connessi, l’accusa traeva origine dal ruolo assunto da Fachini. e di riflesso, dal suo più fedele collaboratore, Rinani, sia nella direzione strategica del gruppo veneto, che nella collaborazione offerta a Valerio Fioravanti in due rilevanti occasioni: l’evasione di Freda e quella diConcutelli.

Un contenuto di maggiore concretezza a tale accusa veniva offerto dall’acquisizione delle dichiarazioni rese il l0 luglio del 1980 da un detenuto, Vettore Presilio , al magistrato di sorveglianza e poi confermate al pubblico ministero: costui rivelava che un’organizzazione di estrema destra gli aveva proposto di partecipare ad un attentato che si stava predisponendo contro un magistrato di Treviso, ma che, prima di questo delitto, la stessa organizzazione avrebbe realizzato un “attentato” di eccezionale gravità, “che avrebbe riempito le pagine dei giornali”.

Dalle successive indagini emergeva che l’autore di queste confidenze rivelate agli inquirenti da Vettore Presilio , era stato Roberto Rinani, allorquando questi, rinchiuso nello stesso carcere, in un momento di particolare sconforto, aveva avuto occasione di stabilire con quel detenuto un privilegiato rapporto di amicizia al quale non poco aveva contribuito il fatto che entrambi, prima di essere detenuti nel carcere di Padova, avevano frequentato una sezione del M.S.I.

Nel novembre del 1980 Vettore Presilio subiva un’aggressione, in cella, ad opera di altri detenuti, non identificati, perché avevano avuto cura di coprire i loro volti con alcune sciarpe; e la vittima ricoverata all’ospedale di Padova, per le gravi ferite riportate, manifestava agli inquirenti la convinzione che l’episodio si era verificato perché sul settimanale “L’Espresso” era stata pubblicata la notizia relativa al contenuto della sua deposizione resa ai magistrati che indagavano sulla strage di Bologna.

Un altro detenuto, tale Nicoletti Stefano, dal carcere di Ferrara, rivelava agli inquirenti che Edgardo Bonazzi Edgardo un esponente di primo piano della destra eversiva, che aveva avuto contatti conFreda e Tuti, nel commentare la strage del 2 agosto 1980, aveva rivolto critiche a Paolo Signorelli e Massimiliano Fachini, attribuendo ad entrambi la responsabilità di quanto era accaduto perché, erano stati utilizzati dei “ragazzini” non esperti nell’uso dell’esplosivo.

Nel corso delle indagini si accertava altresì che Fachini, pochi giorni prima della strage, aveva invitato una sua collaboratrice, tale Jeanne Cogolli, ad allontanarsi da Bologna, perché in quella città “stava per succedere qualcosa di grosso”. L’esortazione era stata raccolta, ma Cogolli, una volta verificatasi la strage, turbata dalla dimensione dell’accaduto, si era confidata con due suoi amici, tali Mauro Ansaldi e Paolo Stroppiana, i quali poi riferivano l’episodio agli inquirenti.

Infine, Massimiliano Fachini era stato coinvolto in altri procedimenti penali, perché accusato di avere partecipato ad alcuni attentati dinamitardi verificatisi nel 1978-l979 e 1980, nonché di disporre, sul lago di Garda, di un deposito di residuati bellici: quest’ultima accusa veniva ricollegata al fatto che nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, le forze anglo-americane avevano fatto largo uso del “correpoud B”, una miscela di tritolo e T4, sicché disporre di residuati bellici significava poter da essi estrarre, in gran quantità, quel particolare tipo di esplosivo, che, per il suo alto potere distruttivo e frantumante, era stato impiegato alla stazione di Bologna ma che era difficile reperire sul mercato.

In relazione alla posizione di Sergio Picciafuoco , l’accusa affidava a quattro concorrenti indizi, la prova della sua partecipazione alla strage del 2 agosto 1980:

a) la sua presenza alla stazione di Bologna allorquando era scoppiato l’ordigno;

b) l’inattendibilità delle giustificazioni offerte dall’imputato;

c) la disponibilità di documenti falsi provenienti dalle organizzazioni eversive della destra;

d) la sua abituale presenza presso la sede dell’emittente radio “Mantakas”, di Osimo, frequentata da elementi della destra eversiva.

Picciafuoco , evaso dal carcere di Ancona dove stava espiando una condanna ad oltre dieci anni di reclusione per precedenti condanne riportate per numerosi furti aggravati a lui attribuiti, alle ore 11,39 del 2 agosto 1980 si presentava al pronto soccorso dell’ospedale di Bologna per farsi medicare alcune lievi ferite riportate in conseguenza dello scoppio dell’ordigno, e forniva i dati anagrafici completi, risultanti da una patente falsa, intestata a Vailati Enrico, dati che risultavano trascritti sul registro di un albergo di Taormina nel luglio del 1980, cioè nello stesso periodo indicato dall’imputato come da lui trascorso in Sicilia.

Invitato a giustificare quella sua accertata presenza, Picciafuoco asseriva che vivendo a Modena, sotto falso nome, ed essendo stato invitato dal proprietario dell’appartamento da lui occupato a lasciarlo libero, quella mattina aveva deciso di recarsi a Milano per poter procurarsi dei documenti falsi.

Senonché aveva perduto il treno e quindi aveva deciso di raggiungere Bologna con un taxi, per poter raggiungere Milano, avvalendosi di un espresso che collegava direttamente le due città: ed era sul marciapiede del sesto binario quando era stato colpito al volto, leggermente, da alcuni frammenti di vetro dopo quella tremenda esplosione. Quindi, dopo aver partecipato ad alcune operazioni di soccorso, si era fatto medicare in ospedale.

Nel corso delle indagini venivano identificati ed esaminati tutti i conducenti di taxi muniti della prescritta autorizzazione, che quel giorno avevano prestato la loro attività a Modena e tutti escludevano di avere effettuato, quella mattina, il percorso indicato da Picciafuoco : l’unico taxista, sfuggito a tale accertamento perché nel frattempo deceduto, risultava disporre di una macchina che era diversa rispetto a quella indicata dal Picciafuoco.

Inoltre, il teste Liberio Bonvicini, proprietario dell’appartamento di cui Picciafuoco disponeva a Modena, pur confermando di aver chiesto all’imputato di lasciare liberi i locali, perché voleva che ivi si sistemasse una giovane polacca, da lui conosciuta e priva di alloggio, escludeva che questa sua richiesta avesse avuto il carattere della perentoria ed indifferibile urgenza e precisava che, dopo aver fatto quella richiesta, era partito per le vacanze e quando era tornato aveva con sorpresa constatato che la giovane polacca si era sistemata in quello stesso appartamento, coabitando con Picciafuoco .

Secondo gli inquirenti. inoltre, Picciafuoco gravitava nell’area dei movimenti eversivi della destra: Buscarini, Massimo, lo speaker dell’emittente radio “Mantakas” di Osimo, gestita da LeonardoGiovagnini – un aderente del movimento “Terza Posizione”, presso il quale aveva trovato ospitalità Ciavardini Luigi, confermava che Picciafuoco frequentava quell’ambiente.

La sintomaticità dell’adesione di Picciafuoco ai movimenti eversivi della destra veniva dall’accusa attribuita ad un’altra circostanza: il rinvenimento dell’agenda di Gilberto Cavallini, sequestrata il 12.9.l983, nella quale era stato annotato il suo nome ed il suo cognome.

Si accertava altresì che allorquando Picciafuoco veniva arrestato, e cioè il 1 aprile 1981, sorpreso dopo il suo rientro dall’Austria, era in possesso di tre documenti falsi: particolare rilievo veniva dato al passaporto, intestato a tale pierantoni Enrico, perché aveva lo stesso numero del documento autentico rilasciato a Riccardo Brugia,, il quale era stato condannato per favoreggiamento in relazione all’aiuto offerto a Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, quando questi erano latitanti.

Infine, al fermoposta di Roma era pervenuto un plico, contenente sette passaporti più una fotografia ed una patente, plico che risultava spedito da Vienna nel gennaio del 1981, cioè nel periodo in cuiPicciafuoco era stato in quella città. Si accertava altresì che due dei sette passaporti recavano lo stesso numero del passaporto autentico di Riccardo Brugia, ed un terzo il numero del passaporto di Luciano Petrone, anche lui, come Brugia, appartenente ai “NAR”.

 

Parallela all’indagine per l’individuazione dei mandanti e degli esecutori della strage del 2 agosto 1980, era quella riguardante i tentativi attribuiti ai servizi di sicurezza ed in particolare ad alcuni appartenenti a1 “Sismi”, per distogliere l’attenzione degli inquirenti dalle organizzazioni eversive sviluppatesi in Italia e dirottarla su piste internazionali, nella consapevolezza della loro estraneità, al fine di favorire la stessa realizzazione del programma eversivo.

Nel procedimento erano coinvolti quattro imputati: due ufficiali del “Sismi”, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, nonché il collaboratore del direttore generale del “Sismi”, Francesco Pazienza, ed il capo della loggia massonica P2, Licio Gelli: tutti e quattro erano accusati del delitto di calunnia, continuato ed aggravato, per avere, in concorso tra loro, e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, divulgato alcune informative, fatte pervenire agli inquirenti anche attraverso un’appropriata utilizzazione di alcuni organi di stampa, con le quali avevano fatto credere che la strage del 2 agosto 1980 era attribuibile ad alcune organizzazioni terroristiche straniere, e, al fine di fornire un appagante riscontro a tale ipotesi avevano fatto ricorso al temerario espediente di collocare sul treno Taranto-Milano, nella notte del 13.1.1981, una valigia contenente lo stesso esplosivo che era stato impiegato per la strage di Bologna, un mitra M.A.B., un fucile a canne mozze, e due biglietti aerei intestati a cittadini stranieri, uno per il volo Milano-Parigi, e l’altro per il volo Milano-Monaco, valigia che veniva fatta rinvenire su quel treno, alla stazione di Bologna, quella stessa notte.

Sulla base delle informazioni acquisite, in un primo momento si ipotizzò che quei biglietti erano stati acquistati a Bari, da un appartenente ai “N.A.R.”, Giorgio Vale, ma tale ipotesi fu ben presto accantonata, perché rivelatasi anch’essa artificiosamente costruita.

Si accertava, invece, che il maresciallo Francesco Sanapo, che all’epoca comandava la stazione dei carabinieri di Vieste – un paese in provincia di Foggia -, amico del colonnello Giuseppe Belmonte, era stato da questi pregato di redigere una nota informativa nella quale bisognava attestare che da fonte confidenziale degna di credito lo stesso sottufficiale aveva saputo che organizzazioni internazionali stavano concretamente predisponendo altri attentati dinamitardi da compiersi in Italia, su convogli ferroviari, e che dell’esplosivo, da utilizzare a quello scopo, sarebbe stato consegnato sull’espresso Taranto-Milano, nella notte tra il 12 e il 13 gennaio del 1981.

Il maresciallo Sanapo, aderendo alla richiesta, si era impegnato con il colonnello Belmonte a non rilevare né la fonte di quella informazione, né la genesi di quel suo intervento, una volta convinto, dal suo interlocutore, che quell’espediente serviva solo per proteggere chi quella notizia aveva rivelato, trattandosi di una figura eminente, inserita in una rete spionistica a livello internazionale.

Un appunto, contenente quella informazione, veniva consegnato il 9 gennaio 1981 all’aeroporto di Ciampino dal generale Pietro Musumeci al generale Notarnicola , capo della prima divisione del Sismi, alla presenza del colonnello Belmonte, nonché del direttore generale del Sismi, il defunto generale Santovito, e del suo collaboratore, Francesco Pazienza, in quel giorno reduci da un viaggio a Parigi.

Quanto a Francesco Pazienza l’accusa ipotizzava che non occasionale poteva essere considerata la sua presenza a quell’incontro: l’imputato godeva di un forte ascendente nei confronti del direttore del “Sismi”, tanto dall’essere diventato il suo preferito collaboratore; inoltre, era stato lui l’ispiratore di un articolo che il giornalista Lando Dell’Amico aveva pubblicato il 1° settembre 1980 su “Agenzia Repubblica”, articolo che nell’accreditare come pista proficua di risultati quella internazionale, svalutava le diverse informazioni che il “Sisde” aveva già fatto pervenire alla magistratura bolognese, e da questa pubblicamente giudicate positive per lo sviluppo delle indagini, informazioni che, utilizzando le notizie attinte prima della strage, dal colonnello Amos Spiazzi, avevano messo in evidenza quale era la nuova e più temibile strategia terroristica perseguita dalla organizzazione che si era venuta a formare in Italia, dopo i disciolti movimenti eversivi ed alla quale aderivano elementi dei “n. AR.” e di “Terza Posizione”.

Si accertava altresì che era stato Francesco Pazienza a fornire al giornalista Andrea Barberi alcune notizie sul terrorismo internazionale, così prospettando che in quella stessa direzione bisognava indagare per scoprire i responsabili della strage del 2 agosto 1980, notizie dal giornalista utilizzate per la pubblicazione di un articolo, apparso su “Panorama” il 15 settembre del 1980. Inoltre lo stesso imputato, nel corso di alcuni colloqui con il dr. Francesco Pompòò, che all’epoca dirigeva il primo distretto di polizia di Roma, aveva fornito alcune informazioni su di un traffico internazionale di armi, al quale era interessata una vasta organizzazione che aveva sede a Monaco di Baviera, e che aveva contatti con elementi delle “Brigate Rosse”, notizie che finivano per accreditare la pista internazionale, ma che venivano diffuse con la cautela di non rivelarne l’effettiva provenienza.

 

Quanto alla partecipazione di Licio Gelli alla contestata calunnia, la prova veniva dalla accusa individuata oltre che nel ruolo assunto dall’imputato alla direzione della loggia massonica, e dalle finalità politiche da questa loggia perseguite, soprattutto dal fatto che gli ufficiali ed i funzionari posti al vertice del “Sismi” erano iscritti alla P2 e, quanto al “Sisde”, questo aveva mutato atteggiamento, dopo che l’imputato, nel settembre del 1980, aveva avuto un colloquio con un funzionario di quel servizio di sicurezza preposto al “Centro Sisde di Roma 2”, espressamente incaricato di verificare la consistenza delle informazioni del Colonnello Spiazzi, e di approfondirne la rilevanza: nel corso di quel colloquio, sollecitato dal funzionario, Gelli aveva affermato che il “Sisde” fino a quel momento “aveva sbagliato”, perché la strage era stata voluta ed eseguita da un’organizzazione internazionale, sicché o il “Sisde” cambiava rotta, o finiva per “lavorare a vuoto”.

In relazione all’episodio del rinvenimento di quella valigia, carica di esplosivo e di armi sul treno Taranto-Milano, sia Pietro Musumeci che Giuseppe Belmonte erano stati tratti a giudizio della Corte di Assise di Roma per rispondere dei reati di detenzione e porto di esplosivo, nonché del delitto di peculato, per essersi appropriati di circa un miliardo di lire, di cui avevano la disponibilità, quali dirigenti del servizio di sicurezza, dopo aver falsamente asserito di aver dovuto corrispondere quel danaro a chi quella notizia aveva ad essi rivelato.

Il processo nei loro confronti si concludeva con la condanna per entrambi i reati, condanna confermata in appello e divenuta irrevocabile il 14.3.1986.

Invece il procedimento che si era instaurato, presso la Procura di Bologna, in relazione all’accertamento delle responsabilità penali per la strage del 2 agosto 1980 e per i reati ad essa connessi, nonché in relazione alla calunnia contestata a Gelli, Pazienza, Musumeci e, riuniti i vari tronconi nei quali si era articolata la complessa indagine, si concludeva, esaurita la formale istruttoria, con il rinvio a giudizio degli imputati dinanzi alla Corte di Assise di Bologna. E questa, con sentenza in data 11 luglio 1988 dichiarava colpevoli del delitto di strage e dei reati ad essa connessi, escluso il reato di danneggiamento, perché prescritto, Fachini, Fioravanti, Mambro e Picciafuoco, e, unificate tutte le imputazioni sotto il profilo della continuazione, condannava ciascuno alla pena complessiva dell’ergastolo, determinando l’isolamento diurno per mesi otto nei confronti di Picciafuoco, in un anno per Fachini e Mambro, ed in un anno ed un mese per Fioravanti.

Quanto al reato previsto dall’art. 306 c.p., la Corte di Assise di Bologna, condividendo l’ipotesi prospettata dall’accusa, dichiarava Fachini, Fioravanti, Mambro, Picciafuoco, Rinani, Signorelli,Cavallini e Giuliani colpevoli di tale imputazione, condannandoli a varie pene. Con la stessa sentenza venivano accolte le richieste delle costituite parti civili in relazione all’azione risarcitoria dalle stesse proposta.

Tutti gli imputati venivano, invece, assolti e con varie formule dal reato previsto dall’art. 270 bis c.p.

Sia Rinani che Signorelli erano assolti dall’accusa di partecipazione alla strage per insufficienza di prove. E quanto, infine a Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte, veniva riconosciuta la loro responsabilità penale per il reato di calunnia pluriaggravata ad essi ascritto, e ciascuno veniva condannato ad anni dieci di reclusione.

 

Quanto e Giuliani e Cavallini, giudicati colpevoli soltanto del reato di partecipazione ad una banda armata, venivano condannati, il primo, ad anni dieci di reclusione ed il secondo ad anni tredici.

Avverso tale sentenza proponevano appello oltre a tutti gli imputati condannati, il pubblico ministero ed alcune delle costituite parti civili e la Corte di Assise di Appello di Bologna con sentenza del 18 luglio 1990, confermava le assoluzioni degli imputati dal reato previsto dall’art. 207 c.p., nonché del Rinani e del Signorelli dalla partecipazione alla strage, modificando la formula adottata, con quella prevista dall’art. 530 comma 2° del nuovo codice di Procedura penale, e cioè, per non aver commesso il fatto.

 

Con la stessa formula venivano assolti dal reato di banda armata Signorelli, Fachini, Rinani e Picciafuoco , e dalla partecipazione alla strage ed ai reati connessi, Fioravanti, Mambro, Picciafuoco e Fachini, ed erano confermate tutte le altre assoluzioni già disposte dal primo giudice.

 

Veniva, invece, confermata la condanna di Fioravanti, Mambro, Cavallini e Giuliani per il reato di banda armata, e la pena era determinata in anni tredici di reclusione per Fioravanti, in anni dodici per Mambro, in anni undici per Cavallini ed in anni otto per Giuliani.

 

Quanto al reato di calunnia, la Corte di Assise di Appello di Bologna assolveva Gelli e Pazienza per non aver commesso il fatto, e, nel confermare la condanna per Belmonte e Musumeci, escludeva per entrambi l’aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15, e, ravvisata la continuazione con i reati già giudicati dalla Corte di Assise di Roma, determinava in anni tre di reclusione l’aumento della pena già inflitta con quella definitiva sentenza.

 

Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bologna, nonché gli imputati Cavallini, Giuliani, Fioravanti, Mambro, Musumeci,Belmonte e Pazienza, e, per le parti civili, l’Avvocatura dello Stato, nell’interesse della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Interno, la Regione Emilia-Romagna, il Comune di Bologna, nonché Bolognesi Paolo, Vale Umberto e Garofoli Anna.

I ricorsi venivano assegnati alle Sezioni unite in considerazionc della delicatezza e rilevanza delle questioni prospettate, e, soprattutto, per la ravvisata opportunità di dirimere quel contrasto giurisprudenziale che si era delineato subito dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale in relazione all’interpretazione del 2° comma dell’art. 192, norma applicabile anche al procedimento in esame, in base a quanto prescritto dall’art. 245 comma 2° lett. B) delle norme transitorie.

E le Sezioni Unite con sentenza del 12.2.1992, dopo aver disatteso alcune eccezioni di carattere procedurale prospettate dai richiedenti, rigettava i ricorsi del pubblico ministero in relazione alle statuizioni adottate dalla Corte di Assise di Appello di Bologna per il reato di cui all’art. 270 bis c.p., rendendo così definitiva l’assoluzione di tutti gli imputati da tale reato.

Quindi, risolvendo il problema principale per la cui soluzione era stato sollecitato il loro intervento, le Sezioni Unite riaffermavano il principio secondo il quale una corretta applicazione del secondo comma dell’art. 1921 c.p.p. comporta l’obbligatorietà dell’esame complessivo delle risultanze acquisite e stabilivano che il doveroso apprezzamento unitario degli indizi presupponeva la preventiva valutazione analitica di ciascuno di essi, per saggiare la valenza qualitativa.

Rilevavano altresì che la sentenza impugnata a tale criterio metodologico, nella valutazione dei vari indizi, non si era attenuta, ma utilizzando intuizioni congetturali e soggettive supposizioni, aveva screditato la valenza probatoria di ciascun indizio, compiendo un esame frammentario ed incompleto degli elementi acquisiti.

Le Sezioni Unite giudicavano immotivate le assoluzioni di Fachini, Rinani e Picciafuoco dal reato di partecipazione a banda armata e, conseguentemente, ritenevano necessario un rinnovato esame dei rapporti intercorsi tra Picciafuoco ed il gruppo dei terroristi veneti, diretto da Fachini, e, quanto a quest’ultimo ed a Rinani, altrettanto necessario era verificare se la collaborazione offerta a Valerio Fioravanti era stata episodica, occasionale, o riferibile ad autonome iniziative dei singoli componenti, ovvero permanente, perché funzionale alla realizzazione della stessa strategia terroristica.

Per quanto, invece, riguardava i ricorsi che gli imputati avevano presentato in relazione alla condanna per quello stesso reato, le Sezioni Unite accoglievano solo uno dei motivi dedotti, quello con il quale Cavallini, Giuliani, Fioravanti e Mambro avevano denunciato la mancata applicazione dell’art. 90 del codice di procedura penale del 1930 in relazione alle precedenti condanne che gli stessi imputati avevano riportato per la stessa imputazione prevista dall’art. 306 c.p.: osservavano a tal proposito le Sezioni Unite che per poter stabilire, in concreto, se quelle definitive condanne avevano avuto ad oggetto l’appartenenza degli imputati ad una stessa, identica organizzazione, bisognava verificare, alla luce dell’attività realizzata e programmata, se il fatto contestato era identico a quello già giudicato, e tale accertamento non poteva che essere effettuato dal giudice di rinvio.

Quanto invece, alla posizione di Signorelli, la Corte ne rendeva definitiva l’assoluzione e la stessa statuizione adottava, quanto al Rinani, in relazione all’accusa di partecipazione alla strage, rigettando i ricorsi del pubblico ministero e delle parti civili.

La Suprema Corte accoglieva infine, i ricorsi del pubblico ministero e delle parti civili in relazione all’assoluzione di Fioravanti, Mambro, Picciafuoco e Fachini dal reato di strage e dalle altre imputazioni conseguenti all’esecuzione di quel delitto. La Corte, dopo aver rilevato che nessuna efficacia condizionante o pregiudiziale poteva essere riconosciuta all’appartenenza degli imputati alla banda armata rispetto all’accertamento delle responsabilità individuali per la strage, censurava la riduttiva e frammentaria analisi degli indizi acquisiti a carico dei quattro imputati compiuta dalla sentenza annullata, indicando per ciascuno di essi, quali fonti probatorie erano state trascurate. o quali aspetti dei fatti o delle circostanze accertate erano stati valutati in maniera incompleta o illogica.

Pertanto, la Suprema Corte devolveva al giudice di rinvio – altra sezione della Corte di Assise di Appello di Bologna – il compito di una rinnovata analisi di tutte le risultanze acquisite, in modo che, evitate le congetture e le supposizioni, il quadro indiziario acquisito non subisse gli effetti negativi di una riduttiva ricostruzione storica o di una frammentaria valutazione.

Analoga decisione le Sezioni Unite adottavano per Gelli e Pazienza, in relazione all’assoluzione di entrambi dal delitto di calunnia, che veniva giudicata immotivata. Osservavano in particolare le Sezioni Unite che la condotta attribuita dall’accusa agli imputati andava esaminata nel contesto della complessiva attività di “depistaggio” che era stata realizzata dai servizi di sicurezza, senza trascurare il ruolo che entrambi avevano avuto, Gelli, quale capo della loggia massonica, e Pazienza, quale attivo collaboratore del direttore generale del “Sismi”, nella predisposizione di una identica strategia, che poteva, in ipotesi, evocare l’esistenza di un unico, prestabilito programma, culminato nella collocazione di quella valigia sul treno Taranto-Milano.

 

Le Sezioni Unite invece, rigettavano i ricorsi di Musumeci e Belmonte rendendo così definitiva la condanna di entrambi per il reato di calunnia, ed accoglievano il ricorso del pubblico ministero limitatamente all’esclusione dell’aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15: rilevava a tal proposito la Corte che la condotta realizzata dagli imputati andava riesaminata alla luce di tutte le risultanze acquisite, non esistendo alcuna astratta incompatibilità tra il perseguimento di una finalità eversiva o terroristica sia rispetto all’assoluzione degli imputati dal reato previsto dall’art. 270 bis c.p., che rispetto allo scopo egoistico, cioè ai motivi di lucro perseguiti da Belmonte e Musumeci, e resi manifesti ed incontestabili dalla loro condanna per il reato di peculato.

Il giudizio di rinvio, disposto dalla Corte di Cassazione, si concludeva dinanzi alla prima sezione della Corte di Assise di Appello di Bologna il 16.5. l994.

La Corte, recuperata in tutta la sua analitica ricostruzione, la genesi e lo sviluppo dei movimenti eversivi gravitanti nell’area politica della destra, effettuata dal primo giudice, riesaminava le risultanze acquisite, integrandole con i pur modesti risultati ottenuti attraverso la disposta rinnovazione parziale del dibattimento, e giudicava sufficienti gli indizi concernenti l’attribuibilità della strage e dei reati a questa connessi a Fioravanti, Mambro e Picciafuoco , confermando la loro condanna all’ergastolo. Assolveva, invece, per non aver commesso il fatto, dalle stesse imputazioni ed anche del reato previsto dall’art. 306 c.p., Massimiliano Fachini, e con la stessa formula, Roberto Rinani, dalla residua accusa di partecipazione alla banda armata.

Riteneva il giudice di rinvio insufficienti le prove in relazione alla supposta esistenza di uno stabile collegamento tra il gruppo romano diretto dal Fioravanti e quello veneto facente capo a Fachini, giacché i contributi da quest’ultimo offerti alla realizzazione di alcune imprese criminali organizzate dal gruppo romano (l’evasione di Concutelli e la fuga di Franco Freda dal Comune in cui era obbligato a soggiornare) erano stati occasionali, non rivelatori di una identica e costante strategia terroristica.

Inoltre, l’avvenuta assoluzione di Massimiliano Fachini dal reato di detenzione e porto di esplosivo, nel processo conclusosi presso la Corte di Assise di Roma il 28 maggio 1990, e l’analogo esito che avevano avuto, in istruttoria, altri due processi, esauritisi dinanzi ai giudici istruttori di Treviso e di Venezia, processi concernenti la partecipazione di Fachini ad alcuni attentati dinamitardi e la disponibilità di residuati bellici nei pressi del lago di Garda, precludevano l’utilizzazione di quelle accuse per accreditare l’ipotesi di una possibile disponibilità di rilevanti quantitativi di esplosivo utilizzato nella strage di Bologna.

La Corte di Bologna rilevava altresì che quei processi erano stati instaurati sulla base delle dichiarazioni rese da alcuni appartenenti a “Terza posizione” e cioè da Napoli, Aleandrie Calore, ma quelle accuse erano state disattese perché nessun riscontro era stato acquisito e tale giudizio non poteva che essere condiviso, non esistendo alcun riscontro anche in questo processo.

Quanto poi, alla ritenuta costituzione, organizzazione e partecipazione alla banda armata, attribuita rispettivamente a Fioravanti, Mambro, Cavallini e Giuliani, accusa che dopo l’intervenuta decisione delle Sezioni Unite, non poteva più essere messa in discussione, la Corte di Assise di Appello di Bologna escludeva la possibilità di applicare l’art. 90 c.p.p., osservando che per quanto riguardava Fioravanti e Mambro la condanna definitiva riguardava la partecipazione ad una vasta organizzazione, che pur avendo operato nello stesso periodo di tempo, nulla aveva a che vedere con il ristretto nucleo operativo, creato da Valerio Fioravanti per attuare quella strategia nell’ambito della quale era stata realizzata la strage del 2 agosto 1980.

In relazione, poi, alle diverse posizioni di Cavallini e Giuliani, il giudice di rinvio osservava che le loro precedenti condanne, risalenti per il primo al 17 giugno 1988, e per il secondo al 9 giugno 1989, avevano avuto ad oggetto fatti completamente diversi, neppure sovrapponibili dal punto di vista cronologico: pertanto, nei loro confronti venivano confermate le pene così come determinate dalla sentenza del 18 luglio 1990.

Con la stessa sentenza la Corte di Assise di Appello di Bologna confermava la condanna di Gelli e Pazienza ad anni dieci di reclusione ciascuno per il reato di calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo, condanna che era stata già pronunziata dal primo giudice e, quanto a Belmonte e Musumeci, ritenuta anche nei loro confronti l’aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15, e confermata la già ravvisata continuazione con i reati già giudicati dalla Corte di Assise di Roma, determinava per entrambi in anni quattro e mesi sei di reclusione l’aumento di pena per la ravvisata continuazione, ferma restando come pena-base per il reato più grave, quella stabilita dalla sentenza irrevocabile di condanna per il reato di peculato.

Secondo il giudice di rinvio tutta l’operazione di depistaggio, ideata ed attuata, con diversi contributi, dai quattro imputati, conteneva anche l’annuncio della reiterazione di altri attentati dinamitardi su convogli e strutture ferroviarie, e si inseriva, a pieno titolo, in quella nuova strategia terroristica manifestatasi attraverso la realizzazione della strage del 2 agosto 1980, sicché andava ravvisata quella specifica aggravante che il giudice d’appello aveva immotivatamente escluso.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati Fioravanti, Mambro, Picciafuoco, Fachini, Musumeci, Belmonte, Gelli, Pazienza, Cavallini e Giuliani, formulando diversi rilievi in ordine alle statuizioni contenute nella impugnata sentenza nonché il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bologna ed alcune delle costituite parti civili, e precisamente: il Comune di Bologna, la società delle Ferrovie dello Stato, nonché, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Interno.

Sia il pubblico Ministero che le parti civili ricorrenti hanno, e con diversi motivi, censurato l’impugnata sentenza in relazione alle assoluzioni di Massimiliano Fachini e di Roberto Rinani dai reati ad essi ascritti.

 

Motivi aggiunti e memorie illustrative dei motivi dedotti sono stati presentati dai difensori di Francesco Pazienza, Sergio Picciafuoco, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.

In data 3 aprile 1995 il difensore della parte civile ricorrente, il Comune di Bologna, chiedeva che i ricorsi venissero decisi dalle Sezioni Unite, perché era opportuno che a tale Collegio fosse rimesso il compito di verificare se ed in quale misura la sentenza impugnata si era attenuta ai principi di diritto enunciati nella precedente sentenza di annullamento pronunciata dalla stessa Corte; inoltre, la complessità e la rilevanza delle questioni trattate rendevano auspicabile un nuovo intervento delle Sezioni Unite, per assicurare la massima garanzia giurisdizionale consentita dall’ordinamento processuale.

Con decreto in data 5 luglio 1995, il Primo Presidente della Corte, acquisito il parere favorevole del Presidente della quinta sezione penale alla quale i ricorsi erano stati originariamente assegnati, in applicazione dell’art. 530 del codice di procedura penale del 1930, e, quindi, avvalendosi della facoltà discrezionale prevista da quella norma, attribuiva la decisione dei ricorsi alle Sezioni Unite.

Con nota del 26 maggio 1995 il Presidente della Corte di Assise di Appello di Bologna segnalava, ai fini di una possibile correzione, che alla pagina 459 della sentenza del 16.5.1994 risultavano mancanti le prime due righe dcl testo: la registrazione contenuta nel supporto magnetico, a causa di una materiale omissione, non era stata integralmente stampata, sicché dalla motivazione della sentenza erano scomparse alcune espressioni che riguardavano l’applicazione della pena per gli imputati Belmonte e Musumeci.

MOTIVI DELLA DECISIONE


Premessa

Osserva preliminarmente la Corte che la richiesta di correzione della sentenza impugnata proposta dalla Corte di Assise di Appello di Bologna non è accoglibile.

Non si è in presenza di alcuna delle specifiche ipotesi previste dall’art. 538 del codice di procedura penale del 1930, applicabile al procedimento in esame, perché non si tratta di rettificare un errore di diritto contenuto nella motivazione della sentenza, né di correggere l’erronea denominazione o il calcolo delle pene applicate agli imputati, ma soltanto di inserire nella motivazione della sentenza alcune espressioni che, benché comprese nella registrazione, non erano state stampate.

Orbene, rileva la Corte che seppure sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 149 dello stesso codice, in quanto la correzione integrativa richiesta si rivela del tutto superflua.

L’esigua parte mancante del contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza non solo non impedisce, ma neppure rende difficile la comprensione delle ragioni per le quali era stato deciso di determinare in quella misura l’aumento della pena, per la ritenuta continuazione, nei confronti degli imputati Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte: dal contenuto della sentenza, così come esso si presenta, si percepisce, in forma evidente, che quell’aumento, rispetto alla sentenza d’appello che lo aveva fissato in misura diversa, è stato determinato nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 81 c.p. e per riequilibrare il trattamento punitivo come seguente alle accertate responsabilità, in quanto per uno dei reati satelliti, e cioè il delitto di calunnia, oggetto del presente giudizio, era stata ritenuta configurabile una circostanza aggravante, quella prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15, esclusa dalla precedente sentenza, annullata poi, anche in relazione a questa statuizione, dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte.

Esame dei motivi di ricorso relativi a Massimiliano Fachini e Roberto Rinani

Passando all’esame dei proposti ricorsi, rileva innanzi tutto la Corte che il ricorso presentato da Massimiliano Fachini è inammissibile, perché improponibile, per difetto di interesse.

L’assoluzione dell’imputato da tutte le imputazioni a lui contestate – dalla costituzione della banda armata alla partecipazione alle strage del 2 agosto 1980, ed ai reati a questa connessi, – è stata pronunciata ai sensi del secondo comma dell’art. 530 del nuovo codice di procedura penale, avendo il giudice di rinvio giudicato insufficienti le prove acquisite in relazione a tutte le su indicate accuse.

Non v’é dubbio, quindi che se il giudice di rinvio non fosse stato obbligato, in virtù di quanto disposto dall’art. 254 del Decreto Legislativo del 28 luglio 1989 n. 241, all’immediata applicazione dcll’art. 530 del nuovo codice, l’assoluzione di Massimiliano Fachini sarebbe stata pronunciata con la formula dubitativa consentita dall’art. 479 del codice abrogato. Ma, una volta abolita la formula di assoluzione per “insufficienza di prove” ed equiparata quella ampiamente liberatoria, “per non aver commesso il fatto”, alle ipotesi in cui la prova che il fatto sussista o che l’imputato l’abbia commesso sia soltanto insufficiente o contraddittoria, la decisione adottata, qualunque sia il presupposto che l’abbia determinata, priva il destinatario di ogni concreto ed apprezzabile interesse al conseguimento di una più favorevole sentenza: la conclusiva statuizione in essa contenuta non può essere modificata, quale che sia il giudizio esprimibile sulla prova della responsabilità dell’accusato, e cioè sia che sia stata acquisita la prova positiva della sua innocenza, sia che la prova della sua responsabilità si sia rivelata soltanto insufficiente.

Con ciò non si intende affatto affermare, come, peraltro, era già stato precisato in una delle prime decisioni che questa Corte assunse in relazione a tale problema (cf. Sez.V – 9 gennaio 1990 ric. Rabito), che l’interesse alla impugnazione debba essere confinato nell’area dei soli pregiudizi penali derivanti dal provvedimento giurisdizionale, ma, contrariamente a quanto sostenuto dall’imputato ricorrente, neppure si può concepire l’interesse all’impugnazione come un’aspirazione soggettiva al conseguimento di una pronuncia dalla cui motivazione siano rimosse tutte quelle parti che possono essere ritenute pregiudizievoli, perché esplicative di una perplessità sull’innocenza dell’accusato.

L’impugnazione, anche in base alle sopravvenute disposizioni normative, si configura pur sempre come un rimedio a disposizione della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, e non già di meri interessi di fatto non apprezzabili dall’ordinamento giuridico, com’è già stato precisato da queste Sezioni Unite in una non remota decisione (cf Sentenza 16.3.1994 ric. Rusconi). Del resto, l’interesse al risultato del giudizio sulla impugnazione non può essere diverso dall’interesse alla impugnazione, come condizione essenziale della sua ammissibilità, giacché ciò che viene ad essere il punto di riferimento dell’interesse è e rimane sempre la pronuncia del giudice come risultato al quale tende l’iniziativa processuale assunta con l’impugnazione.

Peraltro è da rilevare che negli stessi termini, sia pure in via del tutto incidentale, si sono già pronunciate anche le Sezioni Unite della Corte (cf Sentenza del 3 febbraio 1990, ric. Saviano), dopo aver preso atto che il nuovo codice equipara l’insufficienza della prova alla sua mancanza, e che, già sulla base della giurisprudenza del codice del 1930, un’impugnazione che investiva la sola motivazione di una sentenza, senza alcuna conseguenza sul dispositivo, non poteva che essere inammissibile.

E siffatta conclusione dev’essere, in questa sede, condivisa, non foss’altro perché se si dovesse ritenere ammissibile un ricorso che, senza incidere sul dispositivo di una sentenza, si limitasse, come nel caso in esame, a contestare la motivazione, si finirebbe con il riprodurre quella differenza tra prova carente e prova insufficiente, differenza che il nuovo codice ha voluto espressamente sopprimere, nella maturata consapevolezza che sia la totale mancanza della prova che la sua incompletezza o contraddittorietà sono tutte incapaci di conferire certezza al convincimento di colpevolezza, e, quindi, inidonee a superare quella presunzione di innocenza che rappresenta un’irrinunciabile conquista del nostro ordinamento.

 

Sono, invece, inaccoglibili, perché infondati, i ricorsi che il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bologna e le parti civili, l’Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Interno, nonché il Comune di Bologna e la società delle Ferrovie dello Stato hanno presentato nei confronti di Massimiliano Fachini e Roberto Rinani, assolti entrambi da tutti i reati ad essi ascritti.

Tutti i ricorrenti, sia pure con diverse argomentazioni, hanno denunciato la mancanza di motivazione e la manifesta illogicità dell’impugnata sentenza, nonché l’erronea applicazione dell’art. 192 -2° comma c.p.p., sostenendo che il giudice di rinvio, nell’esaminare le posizioni dei due imputati, ha omesso di compiere una valutazione globale dei gravi indizi acquisiti, dopo aver effettuato una riduttiva analisi, sottraendo alla loro rilevanza probatoria alcune, decisive circostanze.

In particolare l’Avvocatura dello Stato ha rilevato che la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto preclusa l’utilizzazione processuale di alcune rilevanti dichiarazioni rese da Aleandri, Napoli eCalore in altri procedimenti penali nei quali costoro, a vario titolo, erano stati coinvolti e solo perché tali procedimenti si erano conclusi con il proscioglimento di Massimiliano Fachini.

 

Tutti i ricorrenti hanno inoltre evidenziato che la sentenza impugnata sarebbe incorsa nello stesso errore metodologico che la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite aveva individuato e censurato in relazione alla sentenza pronunciata a conclusione del giudizio di appello, e cioè quello di condizionare, attraverso una sorta di automatismo, la partecipazione alla strage del 2 agosto 1980 all’appartenenza alla banda armata organizzata e diretta da Valerio Fioravanti e da tale errata premessa era conseguita un’analisi incompleta e frammentaria delle risultanze acquisite. Secondo i ricorrenti, si era omesso di considerare che il collegamento del gruppo veneto, diretto da Fachini e del quale faceva parte Rinani, e quello romano al quale era preposto, con analoghe funzioni direttive, ValerioFioravanti era desumibile dai rapporti intersoggettivi tra i due imputati e coloro che al gruppo romano avevano aderito, ed era confermato dall’identità oggettiva del programma perseguito dalle due organizzazioni, programma che era stato anche realizzato in attuazione di una stessa, complessa strategia terroristica.

Alla riduttiva valutazione delle risultanze probatorie da parte del giudice di rinvio, secondo i ricorrenti, aveva contribuito una incompleta ed imprecisa ricostruzione del contenuto delle rivelazioni che Roberto Rinani, fedele seguace di Massimiliano Fachini aveva fatto, in un momento di sconforto, a Vettore Presilio, in relazione ad un attentato che era stato predisposto per l’agosto del 1980: una volta depauperata tale circostanza della sua intrinseca rilevanza probatoria, gli altri concorrenti indizi avevano subito i negativi effetti di quella erronea valutazione, perché dissociati dal contesto di quella realtà anticipata da Rinani a Vettore Presilio e da questi rivelata agli inquirenti.

Pertanto, il giudizio conclusivo espresso sulla insufficienza della prova era il risultato di un’incompleta analisi delle risultanze acquisite, incompletezza che aveva finito per interferire negativamente sulla verifica della loro oggettiva convergenza verso l’accertamento delle responsabilità dei due imputati.

Osserva la Corte che nessuno dei su esposti rilievi può essere condiviso.

L’impugnata sentenza, nell’analizzare l’intrinseca valenza probatoria di ciascun indizio, si è attenuta ai criteri metodologici che la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, aveva specificatamente indicato: dalla completa ricostruzione delle circostanze rilevanti ai fini della indagine, compiuta sulla base delle risultanze acquisite, il giudice di rinvio è passato all’analisi della valenza probatoria di ciascun indizio, e, una volta compiuta la verifica del loro possibile collegamento unitario, ha indicato, e con rigore logico, quali erano le ragioni giustificatrici della decisione adottata.

È opportuno ricordare che il quadro indiziario prospettato dall’accusa e recepito dalla sentenza del primo giudice, una volta ricostruito il ruolo assunto da Massimiliano Fachini nella direzione strategica del gruppo veneto, si riduceva a due, essenziali vicende:

a) l’anticipazione della strage da parte di Rinani e l’invito che Fachini aveva rivolto Jeanne Cogolli, perché lasciasse Bologna prima del 2 agosto 1980;

b) la disponibilità di quel micidiale esplosivo, il T4, sicuramente utilizzato nella strage di Bologna.

Su entrambi i fronti di indagine la Corte di Bologna non è incorsa in alcuna omissione, né in alcuno degli errori metodologici denunciati.

Il giudice di rinvio, ripercorse tutte le vicende che si svilupparono dopo che Vettore Presilio aveva avuto quel colloquio con il magistrato di sorveglianza e nel corso del quale aveva rivelato le confidenze che gli erano state fatte da un altro detenuto, da lui stesso poi indicato nella persona di Roberto Rinani, ha dato atto che quelle dichiarazioni avevano una notevole rilevanza probatoria ed un alto grado di attendibilità. Nella sentenza impugnata sono state tenute presenti le seguenti circostanze:

a) Rinani, accusato di far parte dei N.A.R., era stato rinchiuso nel carcere di Padova, ov’era anche detenuto, in espiazione di pena per reati comuni, Vettore Presilio;

b) la misura del temporaneo isolamento del Rinani aveva esaurito i suoi effetti prima del periodo indicato da Vettore Presilio come quello nel quale quelle confidenze erano state a lui fatte;

c) queste confidenze erano stato fatte in un periodo in cui Rinani sicuramente versava in uno stato di profondo disagio psicologico, perché gli era stata negata la libertà provvisoria, sicché non arbitrario era il ritenere, come già aveva prospettato il primo giudice, che Rinani, deluso nelle sue aspettative, più volte manifestate ai compagni di cella con fiduciosa convinzione, si fosse abbandonato a quelle rivelazioni nei confronti di chi, in quel momento, poteva apparire un affidabile e premuroso interlocutore;

d) i rapporti di amicizia esistenti tra Rinani e Vettore Presilio, rapporti ai quali aveva contribuito, in maniera determinante, l’accertata frequentazione, da parte di entrambi della medesima sezione del M.S.I. di Padova, giustificavano la genesi, i motivi ed il contenuto di quel colloquio;

e) la ricognizione personale effettuata il 3 settembre 1980, pur dopo alcune resistenze, aveva avuto esito positivo, perché Vettore Presilio aveva riconosciuto nel Rinani l’autore materiale delle rivelazioni fatte al magistrato di sorveglianza e poi confermate al pubblico ministero;

f) la stessa aggressione subita in carcere da Vettore Presilio, nel novembre del 1980, ad opera di sconosciuti, accreditava, per il periodo e per il modo in cui era avvenuta, l’ipotesi di una reazione punitiva per l’incauta divulgazione di quelle notizie.

Orbene, su tutti questi aspetti riguardanti la genesi delle rivelazioni fatte da Vettore Presilio, la sentenza impugnata ha compiuto una diligente analisi: è pervenuta alla conclusione che se vero era che Vettore Presilio era entrato in questo processo sotto la “peggior luce immaginabile”, essendo incontestabile che quelle dichiarazioni erano state fatte con il dichiarato proposito di ottenere vantaggi personali, doveva altrettanto convenirsi che esse avevano avuto appaganti ed affidabili riscontri, e, primo fra tutti, il fatto che quelle rivelazioni, con le quali si preannunciava un attentato così grave da far “parlare tutte le prime pagine di tutti i giornali” erano state fatte prima del 2 agosto 1980.

Tutti i ricorrenti, pur attribuendo alla sentenza impugnata omissioni e riduttive analisi in relazione a quelle dichiarazioni, non solo non hanno individuato aspetti diversi da quelli su indicati ed esaminati dal giudice di rinvio, ma neppure hanno considerato che alle dichiarazioni di Vettore Presilio si è data quella valenza probatoria che la stessa accusa proponeva nelle sue più ampie dimensioni: il preannuncio della strage da un appartenente ai N.A.R., collaboratore di Massimiliano Fachini.

Alle stesse conclusioni la Corte di Assise di Appello di Bologna è pervenuta in relazione alle confidenze che Jeanne Cogolli – una collaboratrice di Massimiliano Fachini nella riorganizzazione di un gruppo eversivo – aveva fatto a Mauro Ansaldi e Paolo Stroppiana; in relazione al premuroso interesse con il quale Fachini aveva esortato la donna ad allontanarsi da Bologna il 2 agosto del l980, perché “stava per succedere qualcosa di grosso”.

Anche in relazione a tale episodio il giudice di rinvio ha riconosciuto come l’analisi che ne aveva fatto la sentenza conclusiva del primo giudizio erano pienamente condivisibili, tanto più che il quadro che si era delineato in relazione ai rapporti tra Fachini e Cogolli dimostrava la comune militanza nello stesso movimento eversivo, sicché giustificata era la preoccupazione di Fachini di attivarsi perché la Cogolli si allontanasse da Bologna prima di quel giorno.

Sia il preannuncio, da parte del Rinani, dell’evento terroristico di straordinaria gravità che si sarebbe dovuto verificare nell’agosto del 1980, che l’avvertimento dato da Fachini alla Cogolli, lungi dall’essere stati riduttivamente valorizzati dal giudice di rinvio, sono stati entrambi definiti come episodi esplicativi di una “gravissima” valenza indiziaria.

Ma la sentenza impugnata, pur riconoscendo tale realtà, ha dovuto prendere atto che sia le dichiarazioni di Vettore Presilio, che quelle rese da Ansaldi e Stroppiana, proponevano un’identica conclusione e cioè che sia Fachini che Rinani sapevano quello che sarebbe potuto accadere a Bologna, il 2 agosto del 1980.

Ma tale conoscenza è stata giudicata insufficiente per la formazione di un convincimento di certezza sulla partecipazione di entrambi gli imputati all’esecuzione o alla preparazione della strage, per il semplice fatto che nessun altro elemento era stato acquisito per dimostrare che quella conoscenza era sintomatica, in via esclusiva, della loro partecipazione a quel delitto.

E siffatta conclusione, per essere corretta espressione del libero convincimento del giudice, non è in questa sedc censurabile.

Non è neppure esatto che il giudice di rinvio si sia sottratto all’onere di verificare la valenza probatoria delle dichiarazioni che Edgardo Bonazzi Edgardo aveva fatto a Stefano Nicoletti nel carcere di Rimini, allorquando, riferendosi alla strage ormai avvenuta, aveva criticato Valerio Fioravanti e Massimiliano Fachini, per avere entrambi “scelto dei ragazzini, inesperti”, per l’esecuzione di quel delitto, ed alla cui preparazione non era stato estraneo Paolo Signorelli.

In relazione a tale episodio la sentenza impugnata ha doverosamente evidenziato che la valenza probatoria andava riconosciuta solo dopo un’accurata analisi del contenuto complessivo di quelle dichiarazioni: e tale precisazione non può che essere giudicata conseguente ad una corretta applicazione del secondo comma dell’art. 192 c.p.p., giacché è l’analisi dell’indizio il presupposto necessario per la riconoscibilità di una possibile valenza probatoria.

Una volta delineato tale corretto metodo d’indagine, la Corte di Assise di Appello di Bologna ha rilevato che le informazioni date da Bonazzi Edgardo a Nicoletti e da quest’ultimo divulgate, erano approssimative e generiche: non si diceva quali erano stati i “ragazzini” impiegati per la materiale esecuzione del delitto, e quanto all’esplosivo utilizzato, Bonazzi aveva parlato di una fornitura proveniente dalla Svizzera, senza dare, anche in ordine a tale circostanza, alcuna concreta indicazione, suscettibile di un possibile approfondimento probatorio.

Secondo il giudice di rinvio, il riferimento a Fachini, quale uno di coloro che quella strage avevano voluto e preparato, poteva essere stato fatto a titolo esemplificativo, ma non esprimeva che congetture e supposizioni: e non v’è dubbio che il personale convincimento di Bonazzi privo delle ragioni sulle quali era fondato, non poteva avere alcuna valenza indiziante.

Discende dalla su esposta premessa l’assoluta irrilevanza della censura specificatamente proposta dall’Avvocatura dello Stato in relazione alla mancata acquisizione del verbale contenente l’interrogatorio reso da Edgardo Bonazzi Edgardo il 28.2.1994 nel corso di un diverso processo penale, documento prodotto dal Pubblico Ministero e dalla Corte restituito dopo la reiezione della richiesta di rinnovazione del dibattimento. Secondo la parte ricorrente, quella ordinanza della Corte bolognese, pronunciata il 17.3.1994, avrebbe sottratto al Collegio il sindacato di legittimità sulla correttezza della decisione assunta, perché avrebbe precluso la possibilità di verificare se il documento offerto dal pubblico ministero era rilevante ai fini della decisione.

Il rilievo non è condivisibile.

Il sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare in relazione alla correttezza della motivazione di un’ordinanza pronunciata in relazione ad una richiesta di rinnovazione del dibattimento non può mai essere esercitato sulla concreta rilevanza dell’atto o della testimonianza da acquisire, ma deve esaurirsi nell’ambito del contenuto esplicativo del provvedimento adottato.

È appena il caso di ricordare inoltre, che l’art. 544 del codice del 1930, a differenza di quanto esposto dall’art. 627 comma 2° del nuovo codice, non prevedeva la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di rinvio sulla base della semplice richiesta delle parti, sicché al fine di stabilire se quella richiesta era accoglibile o meno non esisteva, nei confronti della Corte di Bologna, alcun limite riduttivo dell’ampia sua facoltà discrezionale; e tale facoltà risulta correttamente esercitata, una volta esplicate le ragioni per le quali era giudicata superflua l’acquisizione di nuove prove.

La mancata acquisizione di quel verbale, nel caso in esame, non preclude affatto la verifica formale della legittimità del provvedimento adottato, in quanto il giudice di rinvio, anche nella sentenza impugnata, non ha messo in dubbio che Bonazzi avesse fatto a Nicoletti quel commento sulla strage di Bologna, sicché la superfluità di acquisire una conferma parziale o totale da parte di chi aveva formulato quegli apprezzamenti su Fachini, ai fini dell’analisi della valenza indiziaria dello stesso episodio, emerge oltre che dal contenuto della contestata ordinanza e dell’impugnata sentenza, dalla stessa formulazione della censura: la stessa parte ricorrente a quell’interrogatorio non attribuisce altra efficacia se non quella di accreditare una circostanza ritenuta pacifica dal giudice di rinvio, e cioè che effettivamente Bonazzi aveva fatto quel commento sulla strage, così come da Nicoletti riferito.

 

Per quanto, invece riguarda il secondo elemento sul quale era fondata l’accusa di partecipazione di Massimiliano Fachini alla strage, e cioè l’attribuita disponibilità dell’esplosivo, il giudice di rinvio, dopo una rinnovata analisi delle risultanze probatorie disponibili, analisi effettuata secondo i criteri metodologici indicati dalle Sezioni Unite di questa Corte, è pervenuto alle stesse conclusioni incerte che erano state affermate, immotivatamente, nella sentenza conclusiva del giudizio di Appello. Ma esse si sottraggono e tutte le dedotte censure.

La sentenza impugnata ha dato atto come, sulla base di tutti gli clementi tecnici eseguiti, fosse incontestabile che nella composizione dell’ordigno fatto esplodere nella sala di attesa della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 era compreso il T4, cioè quel micidiale componente che, per il suo elevato potere devastante, già collaudato durante l’ultimo conflitto mondiale, aveva determinato quegli effetti così imponenti e drammatici.

Tale realtà era peraltro emersa dai primi accertamenti eseguiti dopo la strage ed era stata confermata dall’esito della perizia che era stata disposta dalla Corte di Assise di Appello di Bologna nel corso del giudizio di appello, una volta avvertita la necessità di verificare in quale rapporto percentuale il T4 aveva contribuito alla composizione del micidiale ordigno. Non avendo dato, quest’ultimo accertamento, apprezzabili risultati di certezza, il giudice di rinvio ne ha tratto la conseguenza che era lecito affermare che il T4 era stato sicuramente aggiunto al tritolo nella preparazione dell’ordigno, per accrescerne la potenza devastante.

Ma, venuta meno la possibilità di verificare l’effettiva quantità di T4 usata in quella occasione, veniva a mancare un aspetto qualificante della valenza indiziaria che scaturiva dall’attribuzione a Fachini di una illimitata disponibilità di quel particolare tipo di esplosivo, estraibile da residuati bellici. Ed il giudice di non ha potuto far altro che prendere atto dei risultati ai quali quella specifica indagine era pervenuta, rilevando altresì che dalle risultanze acquisite era emerso come l’uso di modeste quantità di quell’esplosivo in altri attentati terroristici, attribuiti a soggetti che non facevano parte del gruppo veneto, diretto da Fachini, non consentiva di affermare, ed in termini di rassicurante certezza che soltanto Fachini avesse la concreta possibilità di disporre di quell’esplosivo: al recupero di residuati bellici, per quella specifica finalità, risultavano essersi dedicati, e con successo, anche soggetti diversi, appartenenti ad altri gruppi della destra eversiva.

Così ridimensionata, attraverso un’approfondita verifica delle risultanze probatorie acquisite, l’intrinseca valenza probatoria di quell’indizio, la sentenza impugnata ha altresì considerato che le fonti dalle quali era scaturita l’accusa a carico di Fachini, di avere utilizzato anche in altri attentati quell’esplosivo, non avevano ottenuto il riconoscimento della loro completa affidabilità: Aleandri e Caloreavevano, infatti, attribuito a Fachini, nel corso di altri procedimenti penali, la messa a disposizione di quel particolare tipo di esplosivo per l’esecuzione di alcuni attentati verificatisi a Roma nel 1978 e nel 1979 e, a sua volta Napoli, dissociatosi dall’organizzazione della quale aveva fatto parte, aveva indicato lo stesso imputato come il custode di un vero e proprio deposito di residuati bellici nascosto nel Lago di Garda.

Senonché, quanto agli attentati romani, il relativo processo instaurato a carico di Fachini sulla base di quelle specifiche accuse, si era concluso con una sentenza definitiva di assoluzione per non aver commesso il fatto, sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Appello di Roma e poi confermata dalla Corte di Cassazione il 12 ottobre 1993.

Analoga sorte avevano avuto gli altri due procedimenti, riguardanti il primo, l’attentato all’on. le Tina Tina Anselmi, verificatosi l’8 marzo 1980, ed il secondo la disponibilità di residuati bellici nel lago di Garda, entrambi esauritisi nella fase istruttoria, dinanzi ai giudici istruttori di Treviso e Venezia, con una declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per non aver commesso il fatto.

Orbene, sia il Procuratore Generale ricorrente che tutte le parti civili che hanno impugnato la sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna del 16 maggio 1994, hanno censurato le conclusioni alle quali questa sentenza era pervenuta, rilevando che erroneamente il giudice di rinvio aveva ritenuto preclusa da quelle precedenti sentenze l’analisi e la verifica delle specifiche accuse che Aleandri,Calore e Napoli avevano formulato a carico di Massimiliano Fachini e dalle quali emergeva quella circostanza rilevante ai fini della prova della responsabilità dello stesso imputato e del Rinani per la strage del 2 agosto 1980, e cioè la disponibilità di rilevanti quantitativi di residuati bellici dai quali era agevole ricavare il T4. Secondo i ricorrenti, la preclusione processuale del giudicato non poteva essere confusa con la rivalutazione delle risultanze probatorie acquisite nei procedimenti ormai conclusisi e che avevano avuto oggetto reati diversi rispetto a quelli nei quali era coinvolto Fachini nel presente processo.

Osserva la Corte che il rilievo dedotto dai ricorrenti è, nelle sue linee generali, pienamente condivisibile.

La possibilità di assumere, come elemento di giudizio autonomo, circostanze di fatto raccolte nel corso di altri procedimenti penali, pur allorquando questi si sono conclusi con sentenze irrevocabili di assoluzione, non può essere negata, perché la preclusione del giudizio impedisce soltanto l’esercizio dell’azione penale per il fatto-reato che di quel giudicato ha formato oggetto, ma nulla ha a che vedere con la possibilità di una rinnovata valutazione delle risultanze probatorie acquisite nei processi ormai conclusisi una volta stabilito che quelle risultanze probatorie possono essere rilevanti per l’accertamento di reati diversi da quelli già giudicati.

Del resto il problema, frequentemente riproposto all’attenzione di questa Corte, è stato sempre in tal senso risolto (cf. Sezione V – 18.10.1985 ric. Pennestri; Sez. VI – 2.10.1986 ric. Piras; Sez. 2° -15.7.1980 ric. Spinnato; Sez 1° – 8.4.1988 ric. DeAngelis, etc.): si è sempre affermato che l’inammissibilità di un secondo giudizio per lo stesso reato non vieta di prendere in considerazione lo stesso fatto storico, o particolari suoi aspetti per valutarli liberamente ai fini della prova concernente un reato diverso da quello giudicato. Infatti, ciò che diviene irretrattabile è la verità legale del fatto-reato, non quella reale del fatto storico.

Ma, se tale soluzione, giuridicamente corretta, non può che essere in questa sede riaffermata, è indubbio che la sentenza impugnata pur dopo aver erroneamente affermato che le precedenti assoluzioni di Massimiliano Fachini “precludevano” una diversa valutazione delle risultanze acquisite in quei diversi processi, in concreto, poi, non si è affatto astenuta dal considerare quelle stesse risultanze processuali che erano state acquisite e valutate in quei processi, riguardanti fatti diversi. Infatti, la Corte di Bologna, pur dopo aver parlato, impropriamente, di preclusione, nella stessa sentenza ha avvertito la necessità di precisare che dalle sentenze pronunciate dai giudici istruttori di Venezia e Treviso nessuna preclusione, in senso tecnico-processuale, scaturiva e che quanto alle accuse diAleandri e Calore, utilizzate nell’unico processo definito con sentenza irrevocabile di assoluzione del Fachini, le stesse non avevano ottenuto, né in quel processo, riguardante gli attentati compiuti a Roma nel 1978 e nel 1979, né nel corso del procedimento concernente la strage di Bologna, alcun riscontro.

Inoltre quelle dichiarazioni, nel loro stesso contenuto, manifestavano i limiti della loro, intrinseca inadeguatezza, giacché esse non esprimevano i risultati di una diretta percezione della realtà, né la meditata elaborazione di una personale esperienza., ma soltanto la divulgazione di altrui confidenze, mai confermate.

Pertanto, la Corte di Bologna, lungi dall’aver subito gli effetti preclusivi ai quali aveva fatto improprio riferimento, non ha pedissequamente recepito le valutazioni che sulle accuse di Napoli, Aleandri eCalore avevano espresso, sia la Corte di Assise di Appello di Roma che i giudici istruttori di Venezia e di Treviso, ma ha autonomamente ricostruito il loro contenuto ed ha verificato che trattavasi di dichiarazioni “de relato”, che nessun riscontro probatorio avevano ottenuto.

E la valutazione compiuta, per essere conseguente ad una completa ricognizione delle risultanze acquisite, non è più in questa sede sindacabile.

Né può essere condivisa la censura che gli stressi ricorrenti hanno dedotto sotto il profilo dell’asserita contraddittorietà della motivazione dell’impugnata sentenza: non può, infatti, fondatamente contestarsi che se non imponenti quantità di T4 furono aggiunte all’ordigno fatto esplodere alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, – e non esiste una prova che smentisca tale ipotesi – chiunque avesse imboccato la strada dell’attuazione di una strategia terroristica, e non solo Fachini, sarebbe stato in grado di provvedere alla reperibilità dell’esplosivo.

È questa la conclusione alla quale è pervenuta l’impugnata sentenza, e non ha certamente a tal fine utilizzato astratte, arbitrarie, o suggestive congetture, ma : tenendo conto delle rivelazioni che Cristiano Fioravanti aveva fatto agli inquirenti dopo aver manifestato il suo proposito di collaborare con gli stessi per la ricerca della verità. Infatti, Cristiano Fioravanti aveva indicato quali erano stati i giovani aderenti ai N.A.R. che erano riusciti a recuperare, nelle acque di Ponza, da alcune mine dell’ultima guerra, il T4, sia pure in non rilevanti quantità. Pertanto, si sottrae alle dedotte censure la sentenza impugnata allorquando rileva che “l’accesso al T4 era un’evenienza aperta ad un numero non ristretto di persone”, e che tale circostanza non accresceva, ma disperdeva in un ampio ventaglio di ipotesi la valenza intrinseca di un indizio che in tanto aveva la stessa ragion d’essere solo in quanto si fosse potuto dimostrare che Fachini, più di ogni altro appartenente ai gruppi eversivi della destra, operanti in Italia in quel periodo, era in grado di procurare quel particolare tipo di esplosivo.

Non è neppure condivisibile il rilievo che l’Avvocatura dello Stato, nell’interesse delle parti civili rappresentate, ha formulato nei riguardi dell’impugnata sentenza, sostenendo che l’assoluzione di Fachini e Rinani era conseguente all’omesso esame di alcune risultanze processuali, ed, in particolare, di quanto era stato dichiarato da Vettore Presilio, Nicoletti, Giovagnini, Naldi, e Robbio, e di quanto era emerso dalle vicende Spiazzi e Mangiameli.

Risulta, invece, dal contenuto della sentenza impugnata che nessuna delle su indicate acquisizioni probatorie è stata ricostruita in maniera imprecisa o incompleta, ma tutte sono state partecipi del convincimento espresso dal giudice di rinvio, una volta accertato che esse non esprimevano, nel complesso quadro indiziario, certezze sulla partecipazione di Fachini e Rinani alla strage: da quelle risultanze il giudice di rinvio ha tratto tutto ciò che esse potevano offrire e, cioè, la riorganizzazione dei gruppi della destra eversiva, la radicalizzazione estrema del programma, i rapporti saltuari tra il gruppo veneto e quello romano, e tutte queste tematiche sono state diffusamente analizzate dall’impugnata sentenza, ma nessuna di esse poteva essere utilizzata per conferire certezza all’accusa di partecipazione alla strage, giacché quelle rivelazioni e quelle vicende altro non esprimevano che le dimensioni ed il programma del gruppo veneto, al quale i due imputati appartenevano.

Né può essere riconosciuta una contraddittorietà all’impugnata sentenza per il sol fatto che nei confronti di imputati diversi e cioè per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, le rivelazioni del colonnello Spiazzi erano state utilizzate per dimostrare la partecipazione alla strage, e non altrettanto era avvenuto per Fachini e Rinani.

Il rilievo non può essere condiviso.

Gli accertamenti eseguiti dal colonnello Spiazzi proponevano l’esistenza di una riorganizzazione dei vari gruppi eversivi gravitanti nell’area della destra, e, nell’ambito di tale riorganizzazione emergeva che il programma terroristico aveva subito un cambio di qualità.

Nell’ambito di questo programma si inseriva, a pieno titolo, l’esecuzione della strage di Bologna, ma, mentre nei confronti di Fachini e Rinani il quadro indiziario sulla partecipazione alla strage si era in gran parte dissolto nel corso del procedimento, a ben diverse e giudicate conclusioni la sentenza impugnata è pervenuta in relazione alle posizioni di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, nei cui confronti i risultati investigativi del colonnello Spiazzi venivano a coniugarsi con la specificità della prova indiziaria, di ben diversa portata.

La diversità non è espressione di una manifesta contraddittorietà, ma è la conseguenza di una obiettiva situazione processuale, della quale si è resa fedele interprete la Corte di Assise di Appello di Bologna con la sentenza impugnata.

 

Non sono neppure condivisibili i rilievi che i ricorrenti hanno dedotto in relazione all’assoluzione di Massimiliano Fachini e Roberto Rinani dal delitto previsto dall’art. 306 c.p..

Hanno sostenuto i ricorrenti che questa assoluzione era stata motivata come conseguenza automatica della mancata acquisizione di una prova certa sulla partecipazione degli stessi imputati alla strage del 2 agosto 1980, sicché la sentenza impugnata aveva finito per trascurare quanto era ribadito dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, allorquando, nell’annullare con rinvio la sentenza emessa a conclusione del giudizio di appello, aveva precisato che nessun rapporto di interdipendenza necessaria esisteva tra la problematica relativa all’individuazione delle responsabilità personali in ordine alla partecipazione alla strage, e quella che riguardava i nuclei armati, la loro composizione e la loro strategia.

Il rilievo non è fondato.

Deve innanzi tutto precisarsi che le statuizioni assunte dal giudice di rinvio non manifestano affatto quell’automatismo al quale hanno fatto riferimento i ricorrenti: non tutti coloro che sono stati ritenuti colpevoli del reato previsto dall’art. 306 c.p. sono stati anche condannati per la strage.

Vero è, invece, che la sentenza impugnata, nel motivare l’assoluzione di Fachini dal reato di cui all’art. 306 c.p., ha osservato che l’analoga pronuncia assunta per la strage non “facilitava”, ma, “ostacolava” l’ipotesi di ritenere l’imputato partecipe di quella banda armata alla quale aveva dato particolare contributo organizzativo ed operativo Valerio Fioravanti, ma tale osservazione è ben lontana dal prefigurare un rapporto di automatica connessione tra le due pronunce.

Inoltre, nella sentenza impugnata si analizzano alcune specifiche vicende – la fuga di Freda, la progettata evasione di Concutelli, la preparazione di un attentato ad un giudice veneto -, proprio perché nessun automatismo si è inteso affermare, bensì si è avvertita la necessità di una ricerca della prova sulla partecipazione di Fachini e Rinani a quel reato, a prescindere da quanto si era affermato in relazione alla concorrente responsabilità per la strage.

La Corte di Bologna si è, quindi, attenuta al criterio metodologico sulla ricerca della prova, così come enunciato da queste Sezioni Unite, nel momento in cui veniva disposto il giudizio di rinvio.

Ed il risultato al quale la sentenza impugnata è pervenuta è coerente con la valutazione completa ed analitica delle risultanze acquisite.

Quanto alla liberazione di Franco Freda dal soggiorno obbligato a Catanzaro, evento che comportò la condanna di Massimiliano Fachini per il reato di favoreggiamento personale, ha osservato la Corte che sulla base di quanto emergeva da quella sentenza, la fuga era stata deliberata ed attuata da un’organizzazione che non richiese particolari e complessi impegni di uomini e mezzi: nel corso del giudizio era emerso che Fachini si era recato a Roma solo per reperire l’autovettura che potesse servire allo scopo, e che, invece, furono Calore ed Aleandri che invocarono, di propria iniziativa, l’aiuto di Pancrazio Scorza, che faceva parte del gruppo romano.

Ad analoga conclusione la sentenza impugnata è pervenuta in relazione all’evasione di Concutelli: ha rilevato il giudice di rinvio che se la partecipazione di Gilberto Cavallini a quell’impresa delittuosa poteva essere sintomatica del coinvolgimento del gruppo veneto, del quale Cavallini faceva parte, neppure andava sottovalutato il fatto che Concutelli era stato per lungo tempo il comandante militare di “Ordine Nuovo”, sicché la sua liberazione poteva rappresentare un ambito obiettivo da parte di coloro che ne avevano condiviso il programma, quali che fossero le strutture organizzative nelle quali militavano.

Pertanto, secondo il giudice di rinvio, la partecipazione di Cavallini a quell’evasione poteva esprimere due ipotesi, entrambe verosimili, perché entrambe dotate di un’intrinseca razionalità, e cioè sia il rapporto di collaborazione tra il gruppo romano e quello veneto, supposto dall’accusa, che quella di una personale iniziativa assunta nella soggettiva convinzione di accreditarsi nell’area eversiva come uno dei protagonisti di una clamorosa impresa, quella di fare riacquistare la libertà al capo carismatico della propria formazione politica.

Altrettanto dicasi per l’individuazione di coloro che avevano progettato di sopprimere un magistrato nel veneto: la sentenza impugnata, analizzando compiutamente le dichiarazioni rese da Calore e Soderini, ha rilevato che i contatti tra il gruppo veneto e quello romano si esaurirono nella ricerca di un possibile sicario che non doveva essere conosciuto nel luogo in cui il delitto si sarebbe dovuto eseguire.

Sicché, anche in tal caso non si poneva quella collaborazione tra il gruppo romano e quello veneto nei termini prospettati dall’accusa, ma, semmai, in termini completamente diversi: si trattava, cioè, di un estemporaneo, occasionale contributo, attuato in relazione alle specifiche necessità di una determinata impresa.

Emerge dalle su esposte considerazioni che per ciascun episodio, individuato come sintomatico della ipotesi prospettata dall’accusa, la Corte di Bologna, dopo una completa analisi delle risultanze acquisite, ha individuato, e con rigore logico, come si proponevano alternative possibili, dotate anch’esse di una valenza sintomatica di una diversa realtà; ma nessuna poteva essere privilegiata, perché una scelta selettiva non poteva che essere giustificata da soggettive intuizioni o personali congetture, le une e le altre non utilizzabili ai fini del processo formativo del convincimento del giudice.

E non compete certamente a questa Corte la rivalutazione di quelle risultanze probatorie analizzate dall’impugnata sentenza in una prospettiva diversa da quella indicata e motivatamente rappresentata, non essendo tale compito consentito dai limiti che il sindacato di legittimità aveva anche prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale.

Non è superfluo ricordare che l’accertamento dei fatti ed il giudizio valutativo che ne consegue spettino entrambi, ed in maniera esclusiva, al giudice di merito, le cui decisioni circa la rilevanza, l’attendibilità e la stessa completezza della prova non possono essere sindacabili dalla Corte di Cassazione, se il provvedimento conclusivo del giudizio non presenti un apprezzabile vizio di motivazione, cioè un vizio che, lungi dal riguardare il contenuto del convincimento del giudice, incida solo sulle modalità con le quali quel convincimento viene espresso.

E nessun vizio di motivazione, nei termini su indicati, è riconoscibile nell’impugnata sentenza anche in relazione all’assoluzione di Fachini e Rinani dal reato previsto dall’art. 306 c.p..

Esame dei motivi di ricorso relativi a Sergio Picciafuoco

Passando all’esame dei motivi di ricorso proposti dalla difesa dell’imputato Sergio Picciafuoco, rileva la Corte che inaccoglibili sono quelli con i quali si è dedotta la nullità dell’impugnata sentenza sotto un duplice, diverso profilo: il ricorrente ha osservato che immotivatamente la Corte di Assise di Bologna aveva rigettato la richiesta di rinvio del dibattimento, benché egli avesse dimostrato di non poter parteciparvi, perché, coinvolto in un incidente stradale, aveva riportato alcune fratture e versava in uno stato di grave perturbazione psicofisica. Ha inoltre osservato che allorquando si era ristabilito ed era comparso, non era stato interrogato, benché ne avesse fatto espressa richiesta.

Entrambi i rilievi sono infondati.

Risulta dagli atti che la Corte di Assise di Appello di Bologna, dopo aver disposto gli opportuni accertamenti medico-legali, e dai quali era emerso che i postumi delle lesioni traumatiche subite da Picciafuoco non impedivano all’imputato la libertà di locomozione, ma suggerivano soltanto l’adozione di opportune cautele, respinse la richiesta di rinvio, giudicando non assoluto l’impedimento dedotto.

Pertanto la prova dell’impedimento prospettato ha fornito oggetto di specifica valutazione e questa, secondo quanto prescritto dall’art. 497 del codice di procedura penale del 1930, non può, in questa sede, fornire oggetto di alcun sindacato.

Quanto al secondo rilievo, va precisato che la comparizione dell’imputato ricorrente si verificò nel corso della discussione e questa secondo quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 501 dello stesso codice, non poteva essere interrotta per assumere l’interrogatorio dell’imputato.

Del resto Picciafuoco, al pari di tutti gli altri imputati presenti al termine della discussione, avrebbe potuto avvalersi della facoltà prevista dal terzo comma dell’art. 468 c.p.p., per prospettare le ragioni alle quali affidava la prova della sua innocenza, e dal verbale dell’udienza non risulta che tale facoltà gli sia stata preclusa, o in qualche modo, che il suo esercizio gli sia stato limitato.

Il ricorrente ha altresì denunciato la violazione dell’art. l85 – 1° comma n. 1 c.p.p., sostenendo che il processo, in sede di rinvio, era stato assegnato ad un collegio a tale scopo precostituito, attraverso lo sdoppiamento della stessa sezione e l’assegnazione di due presidenti, il dr. Bagnulo ed il dr. Rizzo.

Anche tale rilievo è privo di qualsiasi fondamento.

È a tal fine opportuno ricordare che, una volta annullata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione la sentenza che era stata pronunciata dalla seconda Sezione della Corte di Assise di Appello di Bologna, per il giudizio di rinvio non poteva che essere designata l’altra sezione della stessa Corte, cioè la prima sezione, e nel momento in cui gli atti del processo erano a questa sezione pervenuti, alla presidenza della stessa era logicamente preposto il dr. Bagnulo. Tali funzioni lo stesso magistrato conservò sino al 31 dicembre 1993, cioè sino a quando entrarono in vigore le nuove tabelle, approvate dal Consiglio Superiore della Magistratura ed in base alle quali al dr. Bagnulo veniva sostituito il dr. Russo.

Pertanto, allorquando il processo ha avuto inizio, e cioè il 10 ottobre 1993, il Collegio non poteva che essere presieduto dal dr. Bagnulo, come, peraltro, lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura aveva espressamente indicato nella deliberazione assunta il 27 gennaio 1994, cioè allorquando aveva approvato le nuove tabelle relative alla composizione degli uffici giudiziari di Bologna.

Non sussistendo, quindi, i presupposti di fatto capaci di incidere negativamente sulla capacità di esercizio della funzione giurisdizionale del dr. Bagnulo, legittimamente preposto alla presidenza del consiglio giudicante, è del tutto superfluo verificare se l’eccezione dedotta dalla difesa dell’imputato ricorrente poteva, ed in quali limiti, incidere sulla validità della sentenza impugnata, una volta stabilito che essa coinvolgeva, comunque, soltanto l’esercizio della capacità specifica del giudice nel processo.

 

Sono, invece, in larga misura condivisibili i rilievi che l’imputato ricorrente ha dedotto in relazione alla motivazione della sentenza impugnata.

Ha rilevato il ricorrente che la sentenza impugnata nel riproporre le stesse conclusioni alle quali era pervenuto il primo giudice, non solo era incorsa in numerose contraddizioni, ma neppure si era attenuta, nella valutazione delle risultanze probatorie acquisite, ai criteri metodologici che le Sezioni Unite avevano specificatamente indicato nella sentenza con la quale era stato disposto il giudizio di rinvio. Secondo il ricorrente, la oggettiva mancanza di ogni prova sufficiente per attribuirgli la partecipazione materiale alla strage aveva finito per dare ai pochi e contraddittori indizi acquisiti una valenza probatoria che gli stessi non potevano offrire, ed in questa prospettiva il giudice di rinvio aveva ampiamente utilizzato mere congetture, spesso nemmeno caratterizzate da un certo rigore logico.

Osserva la Corte che la sentenza impugnata, pur dopo aver dato atto che nei confronti di Picciafuoco non esistevano prove dirette o specifiche sulla partecipazione dell’imputato ai gruppi terroristici che si erano costituiti a Roma e nel Veneto, ha poi ugualmente ritenuto di poter affermare che Sergio Picciafuoco faceva parte della banda armata, costituitasi per porre a compimento quella pericolosa strategia terroristica culminata nella strage del 2 agosto 1980.

E tale conclusione ha tratto dopo aver esaminato alcune risultanze processuali dalle quali emergeva che Picciafuoco aveva frequentato, prima del 2 agosto 1980 coloro che avevano aderito a “Terza Posizione”, aveva partecipato ai convegni organizzati da Mangiameli, Fiore ed Adinolfi, ed aveva scelto, per i suoi abituali incontri, la sede dell’emittente radio “Mantakas”, di Osimo, gestita da Leonardo Giovagnini.

È a tal proposito doveroso ricordare che il teste Buscarini, il quale aveva lavorato come “speaker” presso quella radio, escusso dalla stessa Corte di Bologna in sede di rinnovazione del dibattito, dopo aver confermato quanto già aveva riferito ai Carabinieri il 4 novembre del 1990, aveva precisato che i rapporti tra Picciafuoco e Giovagnini “non erano molto intensi” e che da un complesso di circostanze aveva tratto il convincimento che l’imputato fosse un vero e proprio “sbandato” che in quel locale si recava a tempo perso.

La sentenza impugnata pur avendo tenuto presenti queste dichiarazioni, ha ad esse attribuito una valenza ben diversa da quella che il loro contenuto proponeva, affermando che allorquando Buscarini era stato interrogato nel corso di altri procedimenti penali, aveva espressamente indicato Picciafuoco tra coloro che avevano partecipato ad un convegno che alcuni aderenti a “Terza Posizione” avevano tenuto ad Osimo.

Secondo la sentenza impugnata, quindi, la partecipazione di Picciafuoco a quel convegno era indicativa dell’inserimento dell’imputato nel gruppo terroristico che quella pericolosa strategia aveva deciso di attuare in Italia, in quel periodo.

La Corte di Bologna ha però omesso di tener presente che le dichiarazioni fatte da Buscarini nel corso di quei procedimenti penali che riguardavano la riorganizzazione dei gruppi eversivi gravitanti nell’area politica della destra, contenevano anche esplicite indicazioni sul ruolo attribuito ai singoli componenti e Buscarini, invitato a precisare quali attività esercitava Picciafuoco, aveva finito per ammettere che l’imputato a quel convegno aveva partecipato come semplice “spettatore”, e che nessun ruolo attivo in quella organizzazione aveva esercitato.

Immotivata e contraddittoria è, quindi, l’impugnata sentenza nella parte in cui, dopo aver confrontato il contenuto di tutte le dichiarazioni rese da Buscarini, ha affermato che le ultime erano meno attendibili, perché riduttive nella rappresentazione del ruolo rivestito da Picciafuoco in quella organizzazione: il giudice ha completamente omesso di spiegare da quali elementi ha tratto quel convincimento, risultando dalle dichiarazioni rese da Buscarini che la partecipazione di Picciafuoco a quel convegno era stata descritta come presenza passiva, e, quindi non indicativa neppure di una manifestata solidarietà con le altrui scelte.

In realtà la sentenza impugnata, nel tentativo di giustificare le conclusioni alle quali è pervenuta in relazione alla posizione di Picciafuoco ha fatto largo uso di ipotesi e congetture, colmando con entrambe l’oggettiva incompletezza della prova acquisita e, così facendo, non si è adeguata ai criteri che questa Corte, a Sezioni Unite, aveva indicato al giudice di rinvio ai fini di una completa applicazione del secondo comma dell’art. 192 del nuovo codice di procedura penale, criteri che in questa sede non possono che essere integralmente ribaditi.

Infatti, dall’accertata frequentazione di Picciafuoco di un certo ambiente che gravitava presso la sede di quell’emittente radio, la sentenza impugnata non solo ha desunto una responsabile adesione ai principi ai quali si ispirava un particolare settore di un vasto movimento eversivo, ma addirittura l’accettazione, da parte dello stesso imputato, di quella specifica strategia che, benché nata nell’alveo di quella matrice politica, si connotava per le sua accentuata propensione terroristica, e, per ciò solo riduceva, ma non certo ampliava l’area dei possibili seguaci.

La Corte di Assise di Appello di Bologna non solo ha dedotto l’appartenenza di Picciafuoco alla banda armata da risultanze probatorie ricostruite in maniera imprecisa ed incompleta, ma, una volta pervenuta a quel risultato, ha ritenuto altresì certa la responsabilità dell’imputato in relazione alla strage del 2 agosto 1980, pur dopo aver dato atto che Sergio Picciafuoco non aveva fatto parte dei numerosi gruppi eversivi che si erano costituiti a Roma, in quegli anni, con velleitari programmi golpisti, e che avevano avuto rapporti di collaborazione, diretti o indiretti, con Valerio Fioravanti.

Pertanto, una volta affermato che l’imputato frequentava ambienti ideologicamente vicini al gruppo terroristico che operava nel Veneto, ed una volta stabilito che la responsabilità della strage non era riferibile, almeno in forma di rassicurante certezza a chi quel gruppo in quel momento dirigeva, era doveroso verificare se le risultanze acquisite potevano consentire di affermare che la scelta di Sergio Picciafuoco tra gli esecutori della strage aveva una diversa giustificazione, rispetto a quella supposta dall’accusa, tanto più che la stessa sentenza non solo aveva assolto Fachini dalla strage e dalla banda armata, ma aveva anche escluso che tra il gruppo romano e quello veneto, in quel periodo, vi fosse un rapporto di costante ed incondizionata collaborazione nella realizzazione di un comune programma terroristico.

Ne consegue che immotivata appare anche quella parte della sentenza impugnata nella quale si è tentato di giustificare il supposto conferimento, da parte del gruppo terroristico che la strage aveva deciso di realizzare, a Picciafuoco dell’incarico che successivamente l’imputato avrebbe diligentemente assolto: all’immotivata adesione di Picciafuoco a quella organizzazione si è coniugata un’ulteriore ipotesi, quella cioè che per la esecuzione della strage occorresse la disponibilità materiale di un soggetto sui binari della stazione di Bologna per presenziare allo scoppio dell’ordigno.

La Corte non ha spiegato come poteva conciliarsi un rapporto di affidamento e di cieca fiducia tra l’organizzazione terroristica e Picciafuoco, rapporto che il ruolo attribuito all’imputato evocava, con il fatto che questi non risultava aver preso parte ad alcuna delle precedenti imprese delittuose che quella strategia aveva reso possibile. Picciafuoco poteva al suo attivo presentare soltanto le negative credenziali di una lunga latitanza, vissuta tra molti espedienti, e che era il risultato di una sua professionale proclività verso i reati contro il patrimonio, proclività che manifestava, essa stessa, interessi e prospettive che mal si conciliavano con ideologie, programmi ed ambizioni dei gruppi politici e delle frange eversive e terroristiche che da quei gruppi erano sorte.

L’impugnata sentenza ha inoltre attribuito una valenza indiziaria univoca nella capacità di dimostrare la partecipazione di Sergio Picciafuoco alla strage del 2 agosto 1980 alle menzogne e reticenze che l’imputato aveva manifestato, nel corso del processo, sia in relazione alle modalità con le quali quella mattina aveva raggiunto la stazione ferroviaria di Bologna che sui motivi che quel trasferimento da Modena a Bologna potevano aver giustificato.

Non può fondatamente contestarsi che, al contrario di quanto dedotto dalla difesa del ricorrente, la sentenza impugnata in relazione ad entrambi quei temi d’indagine non è incorsa in alcuna omissione, ma ha esaurientemente analizzato le risultanze acquisite.

Senonché, una cosa è l’aver dimostrato che Picciafuoco ha mentito nel ricostruire il modo con il quale quella mattina aveva raggiunto Bologna, ed altra cosa, ben diversa, è l’affermare che tale menzogna non poteva che essere giustificata dalla necessità di non poter dire la verità, perché questa verità non poteva che identificarsi con il riconoscimento di una personale responsabilità per la strage. La Corte di Assise di Appello di Bologna non si è posto il problema se quelle bugie o quelle reticenze potevano avere spiegazioni diverse e, soprattutto, è incorsa in una palese contraddizione, perché pur dopo aver affermato che quella strage era il risultato di una strategia terroristica perseguita da un gruppo organizzato, non ha spiegato quale interesse poteva avere quella organizzazione nel perseguire il callido proposito di far sì che Picciafuoco, privo di un alibi precostituito, e capace di resistere ad una normale attività investigativa, si esponesse al concreto pericolo di essere individuato, subito dopo lo scoppio dell’ordigno.

La contraddizione assume dimensioni ancor più evidenti nel momento stesso in cui la sentenza impugnata attribuisce a Picciafuoco una responsabile adesione al gruppo terroristico, manifestata con incauta prudenza attraverso la frequentazione di un certo ambiente e la partecipazione ad un convegno, per poi affermare che, una volta individuato alla stazione di Bologna, nessuno avrebbe potuto sospettare che quella presenza doveva essere messa in relazione con l’esecuzione della strage.

Inoltre la sentenza impugnata non si sottrae alle censure dedotte dall’imputato ricorrente neppure per quanto concerne la valutazione formulata in ordine alle cause che giustificarono quella necessaria presenza: né il primo giudice né la sentenza impugnata, pur dopo aver privilegiato l’ipotesi secondo la quale Picciafuoco avrebbe svolto in quell’impresa delittuosa un ruolo più consono alla sua esperienza personale cioè quello del “palo”, non hanno esaminato se tale ruolo si poteva conciliare, almeno sul piano della conseguenzialità logica, con un attentato terroristico che era stato predisposto proprio in modo che con i suoi terribili effetti nessuna fonte informativa avrebbe potuto ridimensionare: rappresentare l’intervento di Picciafuoco come quello dell’emissario dell’organizzazione, dotato di poteri e funzioni esplorative in relazione alla constatazione del modo con il quale quel disegno criminoso si era realizzato, imponeva almeno di ricercare, sia pure attraverso il soccorso della logica, le ragioni per le quali un latitante aveva accettato quell’incarico fiduciario che non era dissociabile da un duplice rischio: quello di veder finire la propria latitanza e quello, ancor più grave, di esporre a serio pericolo la propria incolumità personale.

Né quest’ultimo rischio poteva essere considerato una mera ipotesi congetturale, posto che è stata la stessa realtà storica a dimostrare che Picciafuoco a quel rischio sicuramente fu esposto, tant’è che, in conseguenza dello scoppio dell’ordigno, riportò ferite, pur se lievi.

Ma se tale evento poteva essere stato sottratto alla possibile previsione da una imprecisa conoscenza della potenza distruttiva di quell’ordigno, analoga giustificazione non può valere per l’altro pericolo, posto che nessuno più di Picciafuoco sapeva di essere ricercato.

Inoltre la Corte di Assise di Appello di Bologna di fronte alla problematicità che il comportamento di Picciafuoco, dopo l’esplosione, ha posto nel corso del procedimento, ha ipotizzato che la scelta di presentarsi in ospedale alle ore 11,39 anziché dileguarsi, era stata una scelta meditata: nessuno avrebbe potuto sospettare il suo coinvolgimento nella strage, perché anche lui appariva nel lungo elenco delle vittime.

Ma questa conclusione non tiene conto di una circostanza, e cioè che Picciafuoco era un “latitante” e presentarsi in un pubblico ospedale, declinando false generalità, poteva anche non essere una prudente decisione, tanto più se si considera che non difficile doveva in quel momento apparire l’altra alternativa, quella cioè di allontanarsi dalla stazione di Bologna, approfittando della immaginabile confusione che le dimensioni della strage avrebbe inevitabilmente determinato: né a questa alternativa potevano essere di ostacolo le subite lesioni, essendo esse, come dà atto la stessa sentenza, molto lievi, e bisognose solo di una rapida medicazione.

La spiegazione offerta dall’impugnata sentenza di Appello, allorquando, interpretando quel comportamento, è pervenuta ad opposta conclusione, non fa che trasformare una congettura in una certezza: l’incompletezza della prova indiziaria se può spiegare lo sforzo della ricerca di ulteriori elementi per ¨accrescerne la valenza probatoria, non può giustificare l’utilizzazione di mere ipotesi congetturali, tanto più quando queste neppure hanno il privilegio di una loro intrinseca razionalità.

Era onere del giudice di rinvio, invece, confrontare le due ipotesi alternatuve, entrambe astrattamente possibili, per verificare, in concreto, quale delle due poteva avere il più alto tasso di probabilità, nella ricostruzione oggettiva che il processo consente, e, una volta effettuata tale motivata scelta, astenersi dall’attribuire ad essa quelle affidabili ed incontrovertibili certezze che nessuna ipotesi, per quanto logica, può essere capace di giustificare.

La Corte di Assise di Appello di Bologna ha omesso di tenere presente che allorquando le Sezioni Unite con sentenza del 12.2.1992 avevano giudicato illogiche o contraddittorie le motivazioni con le quali era stata giustificata l’assoluzione di Picciafuoco, non avevano certamente prospettato conclusioni diverse da quelle emesse in quella sentenza, considerandole come obiettivi inderogabili di una corretta valutazione degli indizi acquisiti, ma si erano soltanto limitate a spiegare perché quella sentenza era incorsa nel riscontrato vizio di motivazione.

Sicché, una volta applicati correttamente i criteri espressi dal 2° comma dell’art. 192 del nuovo codice di procedura penale, all’accertamento ed alla valutazione del giudice di rinvio nessuna ipotesi era preclusa.

La sentenza impugnata non appare neppure congruamente motivata in relazione alla valenza probatoria degli altri indizi a carico di Picciafuoco: il rinvenimento dell’agenda sequestrata a GilbertoCavallini, all’atto del suo arresto, agenda sulla quale era stato annotato il nome ed il cognome dell’imputato, e i documenti falsi utilizzati da Picciafuoco o a lui pervenuti. Entrambi tali indizi sono stati esaminati dalla Corte di Bologna sulla base delle conclusioni alle quali la stessa Corte era pervenuta nella valutazione delle dichiarazioni rese da Buscarini: l’imprecisa ricostruzione di quelle dichiarazioni ha pregiudicato la loro analisi comparativa e ciò è sufficiente per richiedere il riesame anche di queste altre due tematiche, giacché la valenza probatoria riconoscibile alle dichiarazioni di Buscarini può accrescere o ridurre quella riconoscibile agli altri indizi, posto che essi convergono nella stessa direzione.

Deve peraltro osservarsi che la sentenza impugnata, per quel che riguarda l’agenda di Gilberto Cavallini, è incorsa in un’altra contraddizione: infatti, dopo aver attribuito a Cavallini il ruolo di un attivo e fedele collaboratore di Valerio Fioravanti, non ha poi spiegato per quale motivo Cavallini poteva avere avvertito la necessità di annotare quel nome, se vero era che Picciafuoco aveva partecipato alla strage e, quindi, per ciò solo, nell’ambito di quel gruppo terroristico, la sua notorietà non poteva essere bisognosa, per essere ricordata, di alcuna formale registrazione. Inoltre quella annotazione era compresa tra numerosi altri nominativi e nessuno di essi, eccezion fatta per Picciafuoco, sono stati accusati di aver preso parte alla strage di Bologna.

Altrettanto dicasi per tutti i falsi documenti utilizzati o pervenuti a Picciafuoco: le loro oggettive caratteristiche, secondo la puntuale ricostruzione delle sentenza impugnata, indubbiamente sono sintomatiche della loro provenienza, una fonte vicina all’area della destra eversiva.

Ma se la sentenza si sottrae ai rilievi dedotti dal ricorrente sulla valenza probatoria intrinseca di tale indizio, non altrettanto può affermarsi allorquando quella conclusione è stata utilizzata per affermare che la disponibilità di quei documenti altro non esprimeva se non la necessità di proteggere Picciafuoco, dopo l’esecuzione della strage: se l’intervento dei N.A.R. nell’acquisizione di quei documenti era a quella finalità orientata, ancor meno facile riesce spiegare come mai nessun intervento protettivo la stessa organizzazione aveva compiuto prima che la strage si verificasse, quando cioè a rischi veniva esposta la latitanza di Picciafuoco, la sua fedeltà al silenzio, e, soprattutto, la sua stessa incolumità personale.

Il giudice di rinvio non si è posto il problema di armonizzare tali evidenti contrasti emergenti dalla stessa analisi degli indizi acquisiti così come compiuta nell’impugnata sentenza, e non ha neppure esaminato se la disponibilità di quei documenti poteva essere riferibile alla frequentazione, da parte di Picciafuoco, di coloro che si ritrovavano abitualmente presso quella emittente radio di Osimo, ovvero, più semplicemente, evocava la collaborazione di Gilberto Cavallini, da più fonti indicato quale esperto professionale nella falsificazione di documenti.

Ne consegue che a causa delle incomplete analisi nelle quali è incorso il giudice di rinvio, nonché per le numerose contraddizioni evidenziate, le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza impugnata, anche quando non sono espresse in termini apodittici, sono comunque l’effetto di una valutazione che non abbraccia tutti gli aspetti rilevanti del quadro indiziario, ma privilegia solo alcuni, sicché la concordanza degli indizi finisce per essere più apparente che reale.

Pertanto, essa va annullata ed il giudice di rinvio – la Corte di Assise di Appello di Firenze – tenendo presenti i rilievi su esposti ed utilizzando in maniera appropriata i criteri indicati da questa Corte in relazione alla valutazione della prova ordinaria, così come espressi nella sentenza del 12.2.1992, dovrà procedere ad una rinnovata analisi delle risultanze acquisite, nella pienezza dei suoi poteri d’indagine e di valutazione, e quindi assumere le conseguenti determinazioni.

L’accoglimento del ricorso di Picciafuoco, nei limiti su indicati, preclude l’esame del motivo con il quale lo stesso imputato ha censurato la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata acquisizione di alcune prove: la prova da acquisire può essere giudicata indispensabile ai fini del giudizio solo dopo che quella già acquisita sia stata compiutamente e legittimamente valutata e, ciononostante, si sia dimostrata non sufficiente ai fini della formazione del libero convincimento del giudice.

E tale valutazione non può che essere rimessa al giudice di rinvio, nei limiti consentiti dall’art. 520 del codice di procedura penale del 1930.

Esame dei motivi di ricorso relativi a Valerio Fioravanti e Francesca Mambro

Numerosi sono i rilievi che Valerio Fioravanti e Francesca Mambro hanno formulato nei confronti dell’impugnata sentenza e con la quale è stata confermata la loro condanna per la strage del 2 agosto 1980 e per gli altri reati a questa connessi: ciò comporta che il loro analitico esame non può prescindere dalla ricostruzione del complesso quadro indiziario, così come compiuta dal giudice di rinvio e dalle valutazioni che, in relazione alle singole tematiche, sono state offerte.

La posizione del Fioravanti e della Mambro si articola, come è già stato precisato nella parte espositiva della sentenza, su quattro, distinte tematiche:

a) le dichiarazioni rese da Massimo Sparti sull’incontro con Valerio Fioravanti il 4 agosto 1980;

b) la telefonata di Luigi Ciavardini per differire la partenza della fidanzata Venditti e dell’amica Cecilia Loreti da Roma alla volta di Venezia, fissata per il 1 agosto 1980;

c) l’omicidio di Francesco Mangiameli;

d) l’alibi offerto dai due imputati e ritenuto mendace.

Orbene, quanto alle dichiarazioni rese da Massimo Sparti la sentenza impugnata, dopo averne ricordato il contenuto, ha precisato che nel corso del procedimento esse avevano subito numerose variazioni pur restando inalterato il loro nucleo essenziale. Infatti, già la Corte di Assise di Bologna di tale problema si era fatta carico ed aveva dato atto che le variazioni avevano riguardato numerose circostanze e precisamente:

1) la percezione del cambiamento di colore dei capelli della Mambro: nell’interrogatorio del 13 maggio 1981 Sparti aveva detto di aver potuto constatare che le Mambro aveva tinto i suoi capelli per non farsi riconoscere ed in quello successivo del 23.7.1981 aveva invece precisato che non vi avrebbe fatto caso se Fioravanti non glielo avesse detto, per poi concludere, il 5 maggio 1982, che la circostanza era stata da lui percepita, avendo notato che quei capelli avevano degli strani riflessi rossicci ed era stata anche confermata dallo stesso Fioravanti;

2) il problema se i documenti richiesti dovevano essere consegnati in bianco o già compilati: l’11.4.81, al pubblico Ministero, Sparti aveva dichiarato che sia per la patente che per la carta di identità gli erano state fornite le false generalità della donna che su quei due documenti dovevano essere riportate, ed invece, nell’interrogatorio del 13.5.1981 aveva affermato che i documenti sarebbero stati rilasciati in bianco, ed in quello successivo del 23.7.1981 aveva finito per ammettere di non essere sicuro se quei documenti erano stati rilasciati in bianco o completi, e cioè con le false generalità della Mambro;

3) l’individuazione della persona che aveva materialmente effettuato la falsificazione dei due documenti: infatti, dopo aver affermato che quella persona si identificava in un certo “Mario”, una volta identificato costui in Mario Ginesi, aveva chiarito che non di costui si trattava, bensì di Fausto De Vecchi, il quale, a sua volta, era solito avvalersi dell’opera di Mario Ginesi.

La sentenza impugnata, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti nei loro ricorsi, ha dato atto dell’esistenza di tali contrasti, ma nel contempo ha riconosciuto che, rispetto al nucleo essenziale del racconto, essi avevano un carattere marginale, e, soprattutto, erano più apparenti che sostanziali.

E tale valutazione è conseguente all’analisi del contenuto complessivo delle dichiarazioni di Massimo Sparti e, come tale, non è censurabile in questa sede: non v’è dubbio, infatti, che i due documenti falsi erano stati richiesti per la Mambro e che per acquisirli Sparti si rivolse a De Vecchi, così come da questi confermato.

Non è neppure condivisibile il rilievo dedotto dai ricorrenti, secondo i quali la sentenza impugnata aveva trascurato di considerare che Sparti aveva, nel corso del procedimento, modificato anche il nucleo essenziale del suo racconto.

Vero è, invece, che la sentenza impugnata ha analiticamente esaminato quanto Sparti aveva affermato nell’interrogatorio del 5 maggio 1982, allorquando aveva dichiarato di non essere più certo che la visita di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro era avvenuta il 4 agosto 1980. Il giudice di rinvio ha però e tal proposito doverosamente ricordato che Sparti, sentito nel corso del giudizio di primo grado, aveva spiegato che i dubbi da lui prospettati sul giorno in cui quell’incontro era avvenuto, erano stati conseguenti alle pressioni che alcune persone avevano su di lui esercitato affinché la verità venisse nascosta. E la sentenza impugnata, dopo aver verificato l’oggettiva attendibilità di quest’accusa, non ha potuto che rilevare come quella apparente ritrattazione, avente ad oggetto il nucleo essenziale del racconto, accreditava l’originaria versione, più volte ribadita dallo stesso Sparti.

Si era infatti accertato che allorquando i Carabinieri avevano fatto irruzione in un albergo di Fidenza, il 21.12.1986, ed avevano perquisito la camera occupata da Fausto De Vecchi e da Massimo Sparti, avevano trovato, oltre e numerosi arnesi da scasso, anche un’istanza che Sparti aveva scritto e presentato a varie autorità, e, tra queste, anche al presidente della nona sezione del Tribunale di Roma, istanza risalente al gennaio del 1986: in questa istanza Sparti si lamentava del comportamento della moglie, perché, ottenuto dopo la separazione l’affidamento dei figli, aveva poi fatto in modo che costoro non avessero più alcun rapporto con lui. Sparti ricordava altresì che il consenso alla separazione gli era stato estorto con la compiacente disponibilità del professionista che lo aveva assistito, il defunto avvocato Francesco De Cataldo, in quanto gli era stato fatto credere che la separazione altro non era che un espediente al quale bisognava ricorrere per salvaguardare la sicurezza dei figli dopo le minacce ricevute, e che, quanto alla strage di Bologna, vi erano stati dei “tentativi per fargli modificare l’originaria versione”, oltre a numerosi “suggerimenti affinché tacesse, o, comunque, non rivelasse ulteriori responsabilità” relative ad altri episodi di terrorismo.

Interrogato sulla genesi e sul contenuto di quella istanza, Sparti confermò come gli autori di quelle iniziative menzionate nel documento erano stati l’avvocato De Cataldo e la propria consorte ed aveva ricordato che particolarmente quest’ultima lo aveva ripetutamente esortato a “togliersi dai pasticci”, proponendogli a tal fine che il mezzo più semplice come ottenere questo risultato era quello di posticipare la date dell’incontro con Fioravanti.

Una volta spiegata la genesi storica dell’unica modifica sostanziale delle dichiarazioni dello Sparti, la sentenza impugnata non si è neppure sottratta alla ricerca delle ragioni per le quali Valerio Fioravanti e Francesca Mambro , in quella occasione, avrebbero dovuto rivolgersi a Sparti anziché agli appartenenti alla stessa organizzazione terroristica.

E tale interrogativo, compreso nei temi di indagine che le Sezioni Unite della Corte avevano delegato al giudice di rinvio, è stato congruamente risolto attraverso una diligente ricostruzione dei rapporti intercorsi tra Valerio Fioravanti e Massimo Sparti. Che quest’ultimo rappresentasse, soprattutto a causa della sua qualificata esperienza, l’amico disponibile per qualsiasi, improvvisa necessità, era dimostrato, secondo la sentenza impugnata, da alcuni sintomatici episodi: Cristiano Fioravanti, appena dimesso dal carcere di Regina Coeli il 2 agosto 1980, come primo atto della sua riacquistata libertà, scelse di recarsi a casa di Massimo Sparti per ottenere i primi aiuti finanziari; poco prima, cioè il 28 maggio 1980, quando Luigi Ciavardini rimase ferito dopo l’uccisione dell’agente di poliziaEvangelisti, ci si rivolse a Sparti per far sottoporre alle cure mediche, clandestinamente, il giovane Ciavardini; ed alcuni anni prima, e precisamente il 6 marzo 1978, entrambi i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, per loro esplicita ammissione, dopo il sanguinoso epilogo della rapina ai danni dell’armeria Centofanti nel corso della quale era stato ucciso Franco Anselmi, si rifugiarono a casa dello Sparti.

Del resto, Cristiano Fioravanti, interrogato il 9.12.1981, aveva esplicitamente riconosciuto che allorquando occorrevano documenti falsi era allo Sparti e non ad altri che ci si rivolgeva e la riprova cheCristiano Fioravanti non avesse mentito è stata tratta dalle stesse ammissioni di entrambi gli imputati ricorrenti, posto che costoro non hanno mai negato di essersi rivolti allo Sparti per ottenere due documenti falsi, ma hanno sempre affermato di averlo fatto non nell’agosto del 1980, ma nell’aprile dello stesso anno, e nell’interese di altri due giovani, appartenenti alla stessa organizzazione, Fiore eAdinolfi .

La Corte di Assise di Appello di Bologna per verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Sparti non si è neppure sottratta dall’onere di esaminare quelle testimonianze che con quelle dichiarazioni non si armonizzavano, e precisamente quelle della moglie e della domestica dello Sparti.

La sentenza impugnata ha dato atto – e la circostanza non è stata mai contestata dai ricorrenti – che la moglie di Massimo Sparti, Maria Teresa Venanzi, interrogata per la prima volta il 5.5.1982, aveva dichiarato che, una volta chiuse le scuole per le vacanze estive, nel luglio del 1980 si era trasferita con i figli nella casa di campagna di Cura di Vetralla, dov’era stata poco dopo raggiunta dal marito, e dopo il 2 agosto, si era trasferita, insieme al marito ed ai figli in Alto Adige: la teste precisava però che prima di tale trasferimento, il marito “poteva essere tornato a Roma” ed essersi fermato in quella città “per qualche giorno”.

Riesaminata nel corso del giudizio di primo grado, la Venanzi confermava quella versione, avendo cura di precisare che, dato il tempo trascorso, non poteva arricchire quel racconto con altri ricordi. Senonché, nuovamente sentita l’8 gennaio 1990, allorquando, nel corso del-giudizio di appello, fu disposta la rinnovazione del dibattimento, asseriva di essere certa che il marito il 4 agosto 1980 era rimasto per tutto il giorno con lei, nella casa di Cura di Vetralla, dove erano stati raggiunti dalla domestica, Luciana Torchia.

Anche la testimonianza resa da Luciana Torchia subiva lo stesso, progressivo sviluppo che aveva avuto quello della moglie di Sparti.

Sentita, infatti, il 5.5.1982, Luciana Torchia non era in grado di ricordare se prima del trasferimento in Alto Adige Sparti si era allontanato da Cura di Vetralla; nel corso del giudizio di primo grado, ammise, che, a causa del tempo trascorso, non aveva alcun ricordo preciso di quei giorni, e, infine, nel giudizio d’appello, all’udienza dell’8.1.1990, anche lei dichiarava di essere certa che Sparti era rimasto a Cura di Vetralla nei primi giorni dell’agosto 1980, e, in particolare sia il 4 che il 5 agosto.

È sulla base di questi presupposti che la Corte di Assise di Appello di Bologna ha ritenuto di poter affermare che queste due testimonianze, lungi dallo screditare le accuse dello Sparti, finivano anch’esse per rappresentare la riprova di come lo Sparti non avesse mentito nell’indicare nel 4.8.1980 il giorno in cui quella richiesta di documenti falsi era stata fatta a lui da Fioravanti e Mambro.

Orbene, gli imputati con i propri ricorsi hanno, innanzi tutto denunciato l’applicazione dell’art. 192 c.p.p. ed il difetto di motivazione dell’impugnata sentenza in relazione alla valutazione che il giudice di rinvio ha effettuato con riferimento alle dichiarazioni di Massimo Sparti.

Secondo gli stessi ricorrenti la sentenza impugnata aveva, in particolare, omesso di considerare che Sparti non era un testimone, ma un imputato di un reato connesso, sicché era onere del giudice di rinvio, prima di prestar fede a quelle dichiarazioni, acquisire adeguati riscontri e poi verificare se essi potevano essere sufficienti per accreditare quelle accuse. Inoltre, il giudice di rinvio, una volta commesso tale errore metodologico, era incorso in una serie di omissioni, tutte rilevanti, invece, per dimostrare l’intrinseca inattendibilità dello Sparti: non si era tenuto conto che questi era un delinquente professionale, già dichiarato seminfermo di mente nel 1960, abitualmente aduso alla mistificazione della verità, com’era dimostrato dalle precedenti condanne per truffa, falso e simulazione di reato. Né si era considerato che Massimo Sparti aveva dimostrato di essere animato da un vivo risentimento nei confronti di Valerio Fioravanti, tant’è che aveva manifestato al giudice istruttore la speranza e il desiderio che venisse ucciso, e che, comunque, se veramente essi avessero avuto bisogno in quel periodo di documenti falsi avrebbero potuto agevolmente soddisfare quel bisogno rivolgendosi a Cavallini, noto per essere il falsificatore ufficiale del gruppo.

Osserva la Corte che nessuno dei su esposti rilievi può essere condiviso.

È doveroso, innanzi tutto, osservare che la verifica che la Corte di Cassazione è abilitata a compiere sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza non può essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice del merito. Né il giudizio sulla rilevanza, sull’attendibilità delle fonti di prova può essere da questa Corte esercitato, giacché esso, anche in base all’ordinamento processuale preesistente all’entrata in vigore nel nuovo codice di procedura penale, e nel quale non esistevano i limiti preclusivi che un’avvertita esigenza di maggiore razionalizzazione del sistema ha introdotto con l’art. 606 (comma 1° lett.E), era attribuito, in via esclusiva, al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questi compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di una imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova.

Quanto al giudizio positivo espresso del primo giudice e condiviso dalla sentenza impugnata in relazione all’attendibilità delle dichiarazioni di Massimo Sparti, è agevole rilevare che esso è stato ampiamente e correttamente motivato, sia con riferimenti alla genesi di quelle rivelazioni che in relazione al loro complessivo contenuto.

Non è esatto quanto affermato dai ricorrenti e cioè che il giudice di rinvio non avrebbe tenuto presente, nella valutazione di quelle dichiarazioni, che Sparti non era un testimone, ma un imputato di un reato connesso, peraltro aduso alla menzogna, e ad essa sollecitato da particolari risentimenti personali.

La sentenza impugnata invece, proprio perché ha tenuto presente la personalità del dichiarante, il suo ruolo in questa vicenda processuale, le sue pregresse esperienze giudiziarie, le contraddizioni nelle quali era incorso, ha compiuto, com’era doveroso fare, e come era stato già avvertito da questa Corte allorquando aveva disposto il giudizio di rinvio, un’analitica, minuziosa e precisa rassegna di tutti i riscontri acquisiti al fine di verificare se era possibile dissipare ogni possibile dubbio.

Il giudice di rinvio non si è affatto sottratto alla ricerca delle ragioni per le quali Massimo Sparti aveva deciso di rivelare alcune importanti circostanze dalle quali emergeva la partecipazione di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro a quella strage: la sentenza impegnata ha ripercorso lo sviluppo della vicenda processuale che aveva riguardato Massimo Sparti ricordando che costui, dopo essere stato arrestato perché accusato di aver partecipato ad un’associazione sovversiva, nonché di altri gravi reati, invitato a spiegare le ragioni per le quali, pur essendo un delinquente comune, avesse poi avuto così frequenti e importanti rapporti con coloro che gravitavano nell’area della destra eversiva, alcuni dei quali impegnati nell’attuazione di una violenta strategia terroristica, non solo confessava le proprie responsabilità in relazione ad alcune rapine ma forniva indicazioni dettagliate e specifiche anche con riferimento ad alcuni reati che l’accusa, sino a quel momento, né a lui né ad altri imputati aveva attribuito: e dalle confessioni rese non era materialmente possibile dissociare le concorrenti responsabilità di altri soggetti, e, tra questi, in particolare, quelle dei fratelli Valerio e Cristiano Fíoravanti. Ed il processo che ne seguì si concluse dinanzi alla Corte di Assise di Roma il 2 maggio 1985 con la condanna dello Sparti e di tutti coloro che lo Sparti aveva accusato: alcuni di costoro, dopo un primo diniego, finirono per ammettere le loro responsabilità, confermando, anche in relazione ad alcune modalità esecutive di singoli reati, le rivelazioni che Sparti aveva fatto agli inquirenti

E Massimo Sparti, dopo avere spiegato, nel corso di quel processo, che il fine da lui perseguito attraverso la realizzazione di quelle imprese delittuose era soltanto quello di poter trarre dei vantaggi economici, finì per spiegare che soltanto in due occasioni la collaborazione con i n. AR. non aveva avuto quella concreta finalità, e tutte e due quelle occasioni erano sorte quando era stato Valerio Fioravanti il protagonista della richiesta: ciò era accaduto quando Valerio Fioravanti gli aveva chiesto di conservare alcune armi, e, quando, facendo ricorso anche alla forza persuasiva della minaccia, due giorni dopo la strage, si era a lui rivolto per chiedere due falsi documenti che dovevano servire per la Mambro.

E nel contesto di tale specifica realtà processuale le rivelazioni di Massimo Sparti sono state accuratamente vagliate, proprio perché la credibilità intrinseca del dichiarante non poteva fruire dell’affidabilità che un diverso ruolo processuale ed una diversa personalità avrebbero potuto giustificare.

Né può essere giudicata irrilevante la considerazione alla quale è pervenuta l’impugnata sentenza dopo aver rilevato come, sulla base delle risultanze acquisite, era emerso. che nel primo interrogatorio nel corso del quale Sparti fece quelle rivelazioni importanti sulla strage di Bologna egli non aveva dato alcuna specifica importanza a quelle dichiarazioni, perché si era soltanto preoccupato di riferire che quei due favori fatti a Fioravanti erano stati la conseguenza non di una realizzazione di profitti personali ai quali era aduso, bensì il risultato di pressanti richieste e spaventose minacce: e ciò era avvenuto sia quando Valerio Fioravanti, venuto in possesso, a Pordenone, di bombe a mano ed armi, aveva deciso di farle da lui custodire, sia allorquando il 4.8.1980 lo stesso Fioravanti, in compagnia della Mambro gli chiesero quei documenti.

Non può certo giudicarsi illogica la conclusione che ne ha tratto il giudice di rinvio, una volta verificata l’occasionalità di quella specifica rivelazione che si armonizzava con il contenuto complessivo dell’interrogatorio e, nel contempo, poteva essere sintomatica non di una meditata e falsa accusa, quanto, piuttosto della necessità di circoscrivere, in limiti definiti, il proprio contributo ad alcune imprese delittuose quando queste erano state percepite come strumentali al perseguimento di una strategia terroristica o funzionali a favorire chi quella strategia aveva attuato.

I possibili risentimenti gli interessi personali dallo Sparti perseguiti, la sua non affidabile personalità, non sono stati, come sostenuto dai ricorrenti, trascurati nella valutazione dell’attendibilità di quelle accuse, ma la Corte di Bologna, pur dopo aver tenuto presenti quei limiti che potevano incidere sulla credibilità intrinseca del dichiarante, ha affrontato l’indagine privilegiando, com’era doveroso fare, non solo la genesi storica di quelle rivelazioni che ne accresceva l’attendibilità, ma soprattutto quegli oggettivi riscontri che avevano la potenziale capacità di disperdere le più radicate perplessità.

Determinante, nell’ambito di tale ricerca, è stata la deposizione resa da Fausto De Vecchi: costui non solo confermò che Sparti si era a lui rivolto per ottenere quei documenti, ma offrì riscontri su tutte le circostanze essenziali. De Vecchi confermò che la richiesta gli fu fatta o il 4 o il 5 agosto 1980; essa aveva ad oggetto la preparazione di due documenti falsi, una patente ed una carta di identità; e soprattutto, ribadì che Sparti a lui aveva sottolineato la particolare premura che aveva nel dover consegnare quei documenti a chi glieli aveva chiesti.

Né può ritenersi illogica la conclusione alla quale è pervenuta la Corte di Assise di Appello di Bologna allorquando ha ritenuto che effettivamente quei documenti erano stati chiesti allo Sparti benché Fioravanti potesse disporre della collaborazione specifica di Cavallini, perché il rilievo, oltre ad essere espressione di una mera congettura, manifesta la sua stessa inconsistenza nel momento stesso in cui viene proposto: non va dimenticato, infatti, che l’imputata Mambro interrogata il 25.8.1984 dal giudice istruttore di Bologna, aveva ammesso espressamente che allo Sparti sia lei che Valerio Fioravanti si erano rivolti per ottenere due documenti falsi che dovevano servire per Fiore e Adinolfi , non avendo essi il tempo per recarsi a Treviso per reperire Cavallini.

La sintomaticità di questa pur parziale, ma rilevante ammissione è stata colta non solo rispetto al fatto oggettivo che una richiesta di documenti falsi era stata fatta, ma anche con esplicito riferimento ai motivi di urgenza che quella richiesta caratterizzavano. Inoltre, non è superfluo ricordare che la stessa sentenza impugnata ha rilevato come la stessa Mambro, nel successivo interrogatorio del 21.12.1985, nel ribadire quella circostanza, rivelò che il primo documento falso di cui era venuta in possesso era quello a nome di Smania Morena, ottenuto da Cavallini, e che allorquando doveva venire a Roma, dopo la strage, aveva bisogno di un documento falso; pertanto era stata la stessa imputata ad ammettere che il bisogno di un documento falso era sorto in occasione di uno spostamento a Roma. dopo il 2.8.1980.

Un altro, oggettivo riscontro, è rappresentato dal fatto, che, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, non contestata dai ricorrenti, sia Valerio Fioravanti che Francesca Mambro avevano ammesso di essersi trovati a Roma il 5.8.1980 giorno in cui entrambi avevano partecipato alla rapina in piazza Menenio Agrippa.

Inoltre, lo stesso Valerio Fioravanti aveva riconosciuto, nel corso degli interrogatori ai quali era stato sottoposto dopo il suo arresto, che poiché nei giorni successivi alla strage era apparsa sulla stampa la notizia secondo la quale la polizia ricercava una donna dai capelli biondi, egli si era preoccupato per la Mambro, benché escludeva di averle suggerito di tingersi i capelli per non insospettire coloro che la conoscevano e la frequentavano: ne consegue che non è illogica la conclusione che da tali dichiarazioni ha tratto la sentenza impugnata e cioè che dopo il 2 asosto 1980 effettivamente i capelli biondi della Mambro avevano rappresentato un problema per gli imputati.

E, quanto alle giustificazioni offerte in ordine alla destinazione dei documenti richiesti allo Sparti e da questi procurati, nella sentenza impugnata si è considerato che né la patente, né le carta d’identità potevano, nella primavera del 1980, essere necessari per Fiore ed Adinolfi, perché costoro, a quell’epoca, non erano latitanti e tale circostanza non giustificava quella richiesta, ma neppure quell’urgenza con la quale essa era stata caratterizzata.

Viceversa, era stato accertato che soltanto dopo il 2 agosto 1980 Francesca Mambro aveva avvertito la necessità di disporre di un documento falso.

Infatti, nella notte del 4 l’imputata era stata ospitata da Stefano Soderini e soltanto il 5 agosto, cioè dopo aver ottenuto dallo Sparti i documenti richiesti, si era presentata presso l’albergo “Cicerone” di Roma.

Dalle considerazioni su esposte si evince come la polivalenza indiziaria riconosciuta dalla sentenza impugnata alle dichiarazioni rese da Massimo Sparti, lungi dall’essere il risultato di una diffusa utilizzazione di ipotesi e congetture, è conseguente ad una corretta valutazione delle risultanze acquisite, valutazione compiuta secondo quei criteri metodologici che erano stati evidenziati da questa Corte in relazione all’applicazione del 2° comma dell’art. 192 c.p.p.: pertanto essa si sottrae ai rilievi dedotti dagli imputati ricorrenti.

 

In relazione ai motivi che avrebbero indotto Luigi Ciavardini a differire il viaggio da Roma a Venezia che era stato programmato per il 1° agosto 1980 tra la sua fidanzata Elena Venditti e l’amica di costei, Cecilia Loreti ed il fidanzato, Marco Pizzarri, la Corte di Assise di Appello di Bologna dopo aver ricordato quali erano stati i rapporti di collaborazione che in quel periodo, erano emersi traCiavardini e Valerio Fioravanti, tant’è che entrambi, insieme a Francesca Mambro, tra la fine di luglio ed i primi dell’agosto del 1980 erano stati insieme a Treviso, in casa di Gilberto Cavallini, ha dato atto che Cecilia Loreti, esaminata dal giudice istruttore il 23.12.1980, espressamente rivelò che la telefonata di Ciavardini, con la quale si informava che, essendo insorti alcuni “grossi problemi”, era necessario rinviare l’appuntamento e quindi il viaggio da Roma a Venezia, pervenne prima del l° agosto 1980, perché la partenza era stata fissata proprio per quel giorno. Orbene, Ciavardini, dopo un primo diniego, ammise di aver fatto quella telefonata e di aver spostato l’appuntamento per il 2 agosto, a Venezia, ma precisò che le “difficoltà” alle quali aveva fatto riferimento riguardavano la sopravvenuta indisponibilità di un documento falso: quello di cui prima disponeva era stato da lui restituito a Valerio Fioravanti, dopo che questi era andato a Treviso.

Senonché, nell’interrogatorio del 5.6.1982 lo stesso Ciavardini aveva espressamente escluso che in quel periodo egli avesse incontrato difficoltà nel reperimento di documenti falsi, e che tale versione corrispondesse a verità, secondo la sentenza impugnata era confermato dal fatto che nel corso di un incidente stradale avvenuto a Treviso il 5 agosto 1980, Ciavardini, come da lui stesso ammesso, esibì una falsa patente.

Inoltre, la Corte di Assise di Appello di Bologna ha correttamente rilevato che lo stesso Fioravanti pur avendo confermato di aver ottenuto da Ciavardini il documento intestato a “Flavio Caggiula”, aveva altresì precisato di aver dato, in sostituzione di quel documento, quello che aveva sino ad allora utilizzato, intestato ad “Amedeo De Francisci “. A ciò si aggiunga che Ciavardini, arrestato nel settembre del 1980, era stato trovato in possesso di un terzo documento, intestato a “Marco Arena”: da tali risultanze processuali il giudice di rinvio ha tratto il convincimento che non era la difficoltà del reperimento di un documento ciò che aveva indotto Ciavardini a spostare quel viaggio, posto che dal 1° al 4 agosto del 1980 l’imputato sicuramente disponeva di un falso documento: prima dell’incontro con Valerio Fioravanti aveva quello intestato a “Caggiula”, e dopo quell’incontro poteva disporre di quello intestato a “De Francisci”, quale che fosse il periodo in cui era venuto in possesso dell’altro documento, quello rinvenuto all’atto del suo arresto.

Da tale conclusiva premessa, accertata sulla base delle risultanze acquisite, il giudice di rinvio ha tratto la duplice conclusione:

1) che la causa giustificatrice del rinvio del viaggio non poteva consistere nella mancata disponibilità di un documento falso;

2) che l’impedimento dedotto certamente si era dissolto il giorno 3 agosto 1980, tant’è che in quel giorno Loreti Venditti e Pizzarri si incontrarono a Venezia con Ciavardini.

Non può essere condiviso quanto è stato affermato dalla difesa degli imputati ricorrenti in ordine alla rilevanza probatoria di tale indizio; la sentenza impugnata, lungi dall’aver accreditato quella rilevanza con gratuite congetture, ha espressamente riconosciuto ch’essa non esprimeva se non una duplice realtà: la falsità della giustificazione del rinvio del viaggio e l’effettiva esistenza di un impedimento per il giorno in cui la strage si era verificata. E tali conclusioni sono legittima espressione di una corretta ed esauriente valutazione delle risultanze acquisite.

Del resto la partecipazione di Luigi Ciavardini ad altre imprese terroristiche (dall’omicidio del giudice Amato, nel giugno del 1980, alla partecipazione all’assalto del Giulio Cesare ed al conseguente omicidio dell’appuntato di pubblica sicurezza Evangelista e al ferimento di altri due agenti, fatti avvenuti nel maggio dello stesso anno) giustificavano quella ricostruzione che la sentenza impugnata ha compiuto in relazione ai rapporti che legavano Ciavardini a Valerio Fioravanti, posto che quei delitti erano stati commessi, come risulta dalle relative sentenze di condanna divenute ormai irrevocabili, da entrambi, in attuazione di una vera e propria strategia terroristica. Inoltre quell’attiva e reciproca collaborazione, accertata con sicurezza, proprio nel periodo immediatamente precedente alla strage del 2 agosto 1980, non solo autorizzava a supporre che si fosse manifestata anche in relazione a quell’evento – e non è certo casuale il fatto che Ciavardini sia stato rinviato a giudizio dal Tribunale per i Minorenni di Bologna per rispondere del delitto di strage – ma si armonizzava con la più favorevole ipotesi, e cioè con la preventiva conoscenza di quello che sarebbe dovuto accadere a Bologna il 2 agosto 1980.

 

E che entrambe queste ipotesi fossero possibili era dimostrato dal fatto che dopo la strage, proprio Valerio Fioravanti aveva al fratello Cristiano rivelato che Ciavardini andava punito, per aver riferito “alcuni particolari” alla sua donna e lo stesso Ciavardini aveva spiegato, di avere avvertito come nell’ambiente da lui frequentato si pensasse alla sua eliminazione fisica, essendo egli ritenuto, per gli errori commessi, una specie di “bomba vagante”.

L’ipotesi prospettata già dal primo giudice e recepita dal giudice di rinvio, era accreditata da un altro, rilevante elemento: Angelo Izzo, nel dissociarsi dal movimento eversivo del quale aveva fatto parte, al G.I. di Bologna, l’8.4.1986 aveva dichiarato che Cristiano Fioravanti gli aveva riferito, alla presenza di Raffaella Furiozzi, che l’organizzazione aveva deciso di scagionare Ciavardini dall’accusa di partecipazione all’omicidio del giudice Amato, perché bisognava favorirlo, in quanto lui sapeva cose compromettenti sulla strage di Bologna, sicché per comprare il suo silenzio bisognava offrirgli quell’aiuto. E la circostanza veniva confermata da Raffaella Furiozzi.

Collegando tali risultanze alla tempestiva intuizione, manifestata da Ciavardini, sul proposito di ucciderlo, la sentenza impugnata ha tratto la logica conseguenza secondo la quale, una volta constatata la difficile attuazione dell’originario proposito, si era scelta l’accomodante strada del baratto, nel senso che il prezzo del silenzio di Ciavardini sulla strage di Bologna era rappresentato da un impegno che Valerio Fioravanti d il suo gruppo aveva assunto, e cioè quello di non coinvolgere Ciavardini nell’omicidio del giudice Amato.

Attraverso tali collegamenti la telefonata fatta da Ciavardini alla Loreti prima della strage si armonizzava, nella sua valenza probatoria, con le dichiarazioni dello Sparti.

E non risulta che rispetto a tele conclusiva enunciazione la sentenza impugnata abbia tralasciato di esaminare alcuna delle risultanze acquisite.

Non è neppure condivisibile l’altro rilievo dedotto dai ricorrenti, e cioè che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto di un fatto, e cioè che la strage era stata eseguita la mattina del 2 agosto 1980 e che tutti i treni che partono de Roma alla volta di Venezia attraversano la stazione di Bologna nelle ore notturne, sicché in nessun caso gli amici di Ciavardini, pur partendo il 1 agosto sarebbero stati esposti ai prevedibili rischi che Ciavardini, secondo l’accusa, aveva voluto evitare.

Il rilievo, a parere della Corte è privo di qualsiasi consistenza, non solo perché dalle risultanze acquisite non era consentito trarre, in termini di certezza, la circostanza dedotta, e cioè che la Venditti ed i suoi amici sarebbero dovuti partire con un treno che consentisse loro di viaggiare solo nelle ore notturne, e poi perché la motivazione del rinvio del viaggio, nella prospettiva dell’accusa, non escludeva, ma comprendeva la partecipazione materiale di Ciavardini alla strage, e, questa giustificava più che la percezione del rischio per la incolumità fisica dei suoi amici, la consapevolezza della propria indisponibilità per la mattina del 2 agosto 1980, all’appuntamento di Venezia.

 

In relazione oll’omicidio di Francesco Mangiameli la sentenza impugnata dopo aver analiticamente riesaminato le risultanze acquisite ed idonee e risolvere il problema relativo all’accertamento del reale movente del delitto, haa, innanzi tutto precisato che, come risultava dalla sentenza definitiva intervenuta su quel delitto – nessuna preclusione esisteva alla sua indagine, posto che le confessioni rese da coloro che di quel delitto erano stati accusati avevano reso superflua la ricerca del movente, né questo era stato, comunque, in quella sentenza individuato.

I ricorrenti, pur contestando tale conclusione, non hanno però indicato da quali elementi probatori essi hanno tratto il loro diverso convincimento, posto che la sentenza di condanna pronunciata nei confronti dei fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, nonché Francesca Mambro, Dario Mariani e Giorgio Vale, espressamente dà atto che quanto al movente del delitto, gli accusati con le loro molteplici e contraddittorie versioni, avevano prospettato una molteplicità di ipotesi, tutte possibili e ciascuna compatibile con le risultanze acquisite.

Ne consegue che da quel giudicato nessuna preclusione sussisteva per il giudice rinvio nell’accreditare, tra le molteplici ipotesi, quelle che più si armonizzava ai fini della dimostrazione della responsabilità di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro.

Orbene, nella sentenza impugnata si è data rilevanza più che alla relazione preparata dal colonnello Amos Spiazzi sull’attività investigativa da lui svolta, per incarico del “Sisde”, all’intervista che l’Ufficiale aveva rilasciato all’Espresso prima del 2 agosto 1980, e pubblicata dopo quel tragico evento: e non v’è dubbio che in quella intervista l’ufficiale non solo rivelava che la destra eversiva, riassorbiti una parte dei gruppi spontanei che si erano costituiti dopo lo scioglimento di “Ordine Nuovo” e “Avanguardia Nazionale”, si era riorganizzata, per una più decisa strategia terroristica, ma indicava, quale fonte informativa di tale realtà, un aderente allo stesso movimento, denominato “Ciccio”.

Altrettanto incontestabile è che Francesco Mangiameli, letta l’intervista, ne rimase sconcertato, e, identificatosi nella fonte divulgata dal colonnello Spiazzi, mostrò il proprio disappunto alla moglie, così come costei ha sempre dichiarato nel corso del procedimento.

E che questa non fosse un’arbitraria o suggestiva ipotesi del Mangiameli, era dimostrato dal fatto che subito dopo il rinvenimento del suo cadavere nelle acque del bacino artificiale di Tor dei Cenci, i suoi più fedeli collaboratori, nel deplorare l’assassinio, concludevano che “la strage di Bologna aveva fatto l’ultima vittima”.

Il collegamento tra quel delitto e quell’intervista e tra quel delitto e la strage, prima di essere il risultato del libero convincimento del giudice di rinvio era nella realtà processuale affidato a tali specifiche risultanze processuali.

Nel contesto di tali risultanze assumevano una importanza decisiva, com’era stato avvertito da queste Sezioni Unite allorquando avevano annullato con rinvio la sentenza emessa a conclusione del giudizio di Appello, due circostanze specifiche:

a) prima della fine dell’agosto 1980 Valerio Fioravanti – che pure risultava aver preso la decisione di uccidere Mangiameli – aveva avuto rapporti di collaborazione e di amicizia con la vittima, tant’è che sia lui che Francesca Mambro, benché entrambi latitanti, erano stati ospitati da Mangiameli, in Sicilia, per circa quindici giorni.

b) la decisione di uccidere Mangiameli era stata presa da Valerio Fioravanti dopo la strage del 2 agosto 1980, ed era stata attuata il 9 settembre del 1980. Da tali incontestabili premesse il giudice di rinvio ha dovuto verificare se il movente del delitto poteva avere una giustificazione diversa rispetto e quella prospettata dall’accusa e tale indagine ha avuto un risultato negativo.

Tutte le ipotesi alternative rispetto a quella indicata dall’accusa – dalla inettitudine attribuita a Mangiameli nella direzione del gruppo terroristico alla sottrazione dei fondi di cui l’organizzazione disponeva – non si conciliavano con la gravità della decisione assunta, e, soprattutto, con la tempestività con la quale era stata deliberata ed eseguita.

Inoltre, si era rivelata improbabile quella che Valerio Fioravanti aveva indicato, dopo l’eseguito delitto, al fratello Cristiano, e cioè il pericolo che in Mangiameli rivelasse che nella sua abitazione si era decisa l’uccisione del Presidente della Regione Siciliana, Pier Santi Mattarella: il coinvolgimento di Fioravanti nel delitto Mattarella era stato escluso da una sentenza definitiva, e tra il delitto Mattarella e l’uccisione di Mangiameli erano decorsi otto mesi durante i quali Valerio Fioravanti aveva continuato ad avere rapporti di attiva e proficua collaborazione con Mangiameli, tant’è che neppure aveva esitato di porre nelle mani di costui la difesa della propria latitanza, e ancor più, quella della sua donna, Francesca Mambro, e per un così lungo periodo.

Non è quindi il risultato di un’arbitraria ipotesi il fatto che la sentenza impugnata abbia concluso la sua indagine, rivelando che la decisione di uccidere Francesco Mangiameli non poteva che essere riferibile ad un evento verificatosi nell’agosto del 1980, e in quel periodo, null’altro era accaduto che potesse attivare una reazione di difesa del gruppo terroristico che faceva capo a Valerio Fioravanti, rispetto al pericolo di ulteriori rivelazioni che potevano essere fatte al Colonnello Spiazzi, se si prescindeva dalla esecuzione della strage alla stazione di Bologna.

L’ipotesi a questa alternativa, suggerita dalle rivelazioni di Cristiano Fioravanti, veniva giudicata un’illogica congettura, perché non solo non si armonizzava con il lungo periodo di tempo intercorso tra l’omicidio dell’On. le Mattarella e quello del Mangiameli, ma, soprattutto con il fatto che la decisione di sopprimere Mangiameli era stata assunta soltanto nell’agosto di quell’anno, e l’esecuzione del delitto non disperdeva il pericolo che la moglie della vittima potesse sostituirsi al marito nel divulgare ciò che, secondo quanto riferito da Valerio Fioravanti al fratello Cristiano, anche lei conosceva, e cioè che in quella loro abitazione, in Sicilia, era stata decisa l’uccisione di quell’uomo politico. Infine, quella stessa ipotesi proprio perché, se da Mangiameli o da sue moglie rivelata, avrebbe implicato l’inevitabile coinvolgimento nell’accusa di partecipazione al delitto, era la meno probabile rispetto e quella, ben diversa, della rappresentazione di una conoscenza indiretta di un evento che, per quanto grave era stato, poteva essere rappresentato dissociando la propria posizione rispetto alle altrui decisioni.

La sentenza impugnata nel compiere tali valutazioni, non si è addentrata nel campo delle mere congetture, ma ha doverosamente verificato. sul piano della coerenza logica. come. le risultanze acquisite non accreditano che una sola ipotesi, e cioè quella che Mangiameli era stato ucciso solo allorquando, attraverso la divulgazione dell’intervista rilasciata dal colonnello Spiazzi, chi quella strage aveva eseguito ha avuto la materiale certezza che Mangiameli potesse rivelare ciò di cui era venuto a conoscenza.

Vero è che le risultanze non consentivano di affermare, come pure è stato obiettato dai ricorrenti, che Valerio Fioravanti e Francesca Mambro avessero confidato a Francesco Mangiameli qual era il loro prossimo progetto da realizzare; ma è incontestabile – e di tutto ciò ha dato atto l’impugnata sentenza – che entrambi gli imputati si erano trattenuti in Sicilia, ospiti in casa di Mangiameli, sino alla fine del luglio 1980, e cioè proprio nel periodo nel quale non poteva che essere stata predisposta tutta la complessa attività preparatoria che quella strage doveva aver necessariamente richiesto.

E dalla valenza probatoria dell’indizio, nell’ambito della ricostruzione del movente dell’omicidio Mangiameli, quella rilevante circostanza, affidata ad una constatazione di un fatto realmente avvenuto, qual’era stata quella lunga e continua permanenza dei due imputati nella casa di Mangiameli in quel periodo, non solo non poteva essere dissociata, ma finiva, essa stessa, per essere idonea alla formazione del convincimento espresso dal giudice di rinvio, per la sua intrinseca logicità.

Nè va dimenticato che l’indizio, anche quando assume i caratteri della certezza e della univocità resta sempre una fonte probatoria incompleta, non foss’altro perché non si identifica con i fatti o le circostanze direttamente rappresentative della responsabiltà di un soggctto: l’intrinseca incompletezza di una prova non ne esclude la utilizzabilità, specie quando, come nel caso in esame, i limiti intrinseci alla circostanza supposta sono superabili attraverso una serie di argomentazioni logiche, non suscettibili di diversa valutazione.

Del resto, i rilievi prospettati dai ricorrenti in relazione alle conclusioni alle quali, in relazione alla valutazione della vicenda Mangiameli, è pervenuta l’impugnata sentenza, pur quando non investono soltanto il contenuto intrinseco del convincimento espresso dal giudice di rinvio, finiscono per riproporre ipotesi giudicate illogiche dalla sentenza con la quale le Sezioni Unite di questa Corte annullarono la decisione dei giudici di appello, sicché è del tutto improponibile il tentativo di riaccreditarle utilizzando quelle stesse argomentazioni che così negativamente erano state qualificate.

Osserva inoltre la Corte che il quadro indiziario nei confronti di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro si esaurisce con la conferma della inattendibilità dell’alibi da essi offerto per il giorno in cui la strage fu realizzata.

La sentenza impugnata ha rilevato che sin dalle prime dichiarazioni era emerso un indubbio contrasto: la Mambro aveva asserito di aver trascorso quel giorno a Padova, in compagnia di Valerio Fioravanti; quest’ultimo, invece, affermava di essere stato sempre a Treviso, insieme alla Mambro. Soltanto dopo tre anni Valerio Fioravanti modificherà tale versione, confermando quella della coimputata. Ma il contrasto tra le due posizioni si è cristallizzato in relazione alla individuazione di coloro che li avrebbero seguiti, quel giorno, a Padova: secondo la Mambro tra costoro vi eraCiavardini; secondo Fioravanti Ciavardini era assente. Inoltre, altre contraddizioni sono emerse tra i due imputati in relazione all’individuazione del mezzo usato per raggiungere Padova, ed al modo con il quale essi sarebbero stati informati dell’avvenuta esecuzione della strage.

Esaminando le dichiarazioni di quanti avrebbero dovuto quell’alibi confermare e dissipare le contraddizioni emerse, la sentenza impugnata ha rilevato che dalle dichiarazioni acquisite emergeva un’inquietante realtà e cioè che l’allineamento progressivo rispetto alle giustificazioni offerte dagli imputati si era verificato nella fase conclusiva del processo, quando, per esplicita ammissione dei protagonisti della vicenda, nel corso di un colloquio, era stata messa a punto la ricostruzione. di quanto era avvenuto quel giorno, cioè il 2.8.1980.

Ed infatti, Luigi Ciavardini dopo aver sempre dichiarato di essersi trovato a Palermo, ospite di Francesco Mangiameli, solo successivamente ricordava di essersi recato a Padova, e nell’ultimo interrogatorio del 24.10.1984 aggiungeva di essere stato in quella città in compagnia di Cavallini, nonché di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.

E lo stesso sviluppo progressivo avevano le dichiarazioni di Gilberto Cavallini, dal quale però gli inquirenti apprendevano che tutti insieme, gli imputati, avevano ricostruito i movimenti fatti in quel giorno.

Numerose contraddizioni erano altresì emerse in relazione alla ricostruzione che Flavia Sbrojavacca, al termine di una lunga latitanza, farà agli inquirenti: dopo aver dichiarato, allorquando era stata interrogata il 28.9.94, che dal giorno in cui era nato suo figlio, e cioè dal 10.7.1980 al settembre dello stesso anno, e per soli venti giorni, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro erano stati ospiti in casa sua, ricordava poi, con precisione che quando il suo bambino aveva compiuto il suo primo mese di vita i due imputati erano già a casa sua e da qualche giorno.

Era quindi, evidente, così com’è stato correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, che Flavia Sbrojavacca con quelle prime dichiarazioni smentiva i due imputati, asserendo che essi si erano presentati a Treviso non prima, ma dopo il 2 agosto 1980.

È soltanto nel corso del giudizio di primo grado che Flavia Sbrojavacca, modificando radicalmente quelle originarie dichiarazioni, affermerà di essere certa che quella presenza era stata da lei constatata proprio il giorno 2 agosto, ma, posta di fronte alla necessità di spiegare come tale precisa sicurezza l’avesse acquisita dopo un così lungo tempo, Sbrojavacca affermava la sua incapacità a fornire ogni possibile e necessaria giustificazione.

Non può, quindi, definire arbitraria la conclusione alla quale è pervenuta la sentenza impugnata, quando, constatata la difformità di quelle più recenti dichiarazioni rispetto a quelle rese a breve distanza dall’accaduto, ha dovuto constatare che le modificazioni, oltre ad essere manifestamente ingiustificate, divenivano sospette perché connotavano di una insolita certezza quella presenza dei due imputati in quel preciso giorno, a Treviso, benché quel ricordo non fosse evocato da circostanze o fatti idonei alla sua conservazione.

Inoltre era stato accertato, sulla base delle dichiarazioni rese dalla moglie di Mangiameli, che sicuramente i due imputati sino al 30 luglio 1980 erano stati in Sicilia: i dubbi e le incertezze sui loro movimenti si concentrano, con singolare coincidenza, proprio nel periodo sospetto.

Risulta infatti dalla ricostruzione dei giudici di merito – ed il fatto non è contestato dai ricorrenti – che due biglietti aerei, per il volo Alitalia Palermo-Roma del 30 luglio 1980 erano stati prenotati a nome “Cucco”, ma non erano stati utilizzati; per lo stesso volo, invece, erano stati utilizzati due biglietti intestati ai coniugi ” De franceschi “, circostanza che ha indotto la difesa dei ricorrenti a sostenere che questa era la prova che Fioravanti e Mambro avevano utilizzato quel volo per recarsi da Palermo a Roma e poi a Treviso.

Ha però rilevato il giudice di rinvio – ed il rilievo, perché conseguente ad una corretta ricostruzione delle risultanze acquisite, è in questa sede non censurabile – che Fioravanti non avrebbe potuto usare il nome “De Francisci”, pur ipotizzando che questo fosse stato, per errore materiale, trasformato in ” De Franceschi “, perché sin dal 15.1.1980 Fioravanti aveva deciso di non utilizzare il documento di identità intestato a quel nome, essendo stato informato che De Francisci era stato nel frattempo arrestato, perché sorpreso in possesso di un certo quantitativo di droga.

Ma i contrasti e le contraddizioni assumevano dimensioni ben più rilevanti secondo la valutazione della sentenza impugnata, allorquando i due imputati hainno dovuto descrivere i movimenti successivi a quel viaggio. Fioravanti dirà di essere andato da Roma a Taranto, in treno, per incontrarsi con Mauro Addis,; la Mambro, invece dirà di essere stata a Roma e da questa città, insieme a Valerio Fioravanti, aveva raggiunto Treviso. Ma anche questo contrasto veniva, nel corso del giudizio d’appello, risolto, nel senso che la Mambro finiva per confermare quanto dichiarato da Fioravanti, pur non riuscendo a spiegare perché, qualche anno prima avesse avuto un così errato ricordo, benché avesse percepito il pericolo di essere coinvolta nelle indagini relative alla strage di Bologna.

I ricorrenti hanno evidenziato, con i loro ricorsi, che la sentenza impugnata, pur dopo aver screditato l’alibi offerto dagli imputati, non si era posta il problema di come quelle contraddizioni potessero rappresentare la prova migliore dell’innocenza degli accusati, giacché se la strage era stata accuratamente preparata ed eseguita, coloro che ad essa avevano partecipato non avrebbero potuto prescindere dalla precostituzione di un alibi e tale precostituzione era smentita proprio dal contrasto emerso tra le dichiarazioni di Fioravanti e quelle della Mambro.

Il rilievo non può essere condiviso.

Deve, innanzi tutto, precisarsi che se, in linea generale, non può contestarsi che spesso i cattivi o imprecisi ricordi sono espressione della spontaneità e della genuinità con la quale un soggetto ricostruisce il passato, altrettanto non può dirsi quando la ricostruzione ha riferimenti specifici con un grave episodio delittuoso rispetto al quale un soggetto abbia immediatamente percepito il rischio di un personale coinvolgimento: in questi casi alla precisione e costanza del ricordo contribuisce necessità stessa della propria difesa da un’accusa ingiusta, ma possibile.

E tale pericolo fu percepito da entrambi gli imputati, tant’è che Mambro lo rivelò a Cavallini, ed entrambi gli imputati, pur negando la loro partecipazione alla strage, hanno sempre riconosciuto che, appresa la notizia di quanto era successo a Bologna il 2.8.1980, essi immediatamente ebbero il timore che il loro gruppo poteva essere additato come il maggiore indiziato: e, del resto, tutte le fonti di informazioni attribuivano quella strage alla destra eversiva.

Inoltre, non è esatto che un alibi non sia stato offerto dagli imputati, ma è vero, invece, che la sua consistenza si è rivelata, secondo l’appropriata conclusione del giudice di rinvio, contraddittoria e non affidabile. L’alibi era stato affidato a Cavallini, a Ciavardini, a Sbrojavacca e, infine, a Mauro Addis: ma l’analisi approfondita delle dichiarazioni di costoro, via via allineatisi con sospetta tempestività, a quella degli imputati, ha giustificato quel convincimento al quale è pervenuta le Corte di Assise di Bologna, ed al cui processo formativo non è stata sottratta alcuna circostanza rilevante, ed idonea, in ipotesi, a giustificare una diversa decisione.

Tutti gli elementi acquisiti nella loro intrinseca valenza probatoria, sono stati giudicati convergenti nella prospettiva dell’accusa: dalla visita fatta a Massimo Sparti, ai motivi che l’avevano determinata, dalle minacce alle ammissioni esplicite, indicative della partecipazione alla strage; dal contributo di Ciavardini, ai motivi che lo avevano indotto a spostare un incontro con la fidanzata; dalle ragioni per le quali si pensò prima di ucciderlo per poi risparmiarlo, alle raccomandazioni che quest’ultima scelta condizionò; dal movente dell’omicidio Mangiameli al falso alibi fornito dagli imputati.

È un imponente quadro indiziario, nel quale confluiscono elementi diversi, eterogenei, nei quali concorrono accertamenti di carattere oggettivo ed incontrovertibili, ed analisi di determinati comportamenti, o di determinate dichiarazioni scaturite da precisi presupposti, o ricollegabili, secondo criteri di razionalità logica, a determinate ipotesi: è un quadro, che, così come rappresentato, e valorizzato più che dall’intrinseca univocità delle singole componenti, dalla loro manifesta convergenza verso la prova della partecipazione di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro alla strage del 2.8.1980 e tale convergenza probatoria, acquisita secondo il metodo suggerito da questa Corte, e motivatamente giustificata, si sottrae al sindacato del giudice di legittimità.

Né può affermarsi, come pure è stato sostenuto dai ricorrenti, che il riconoscimento delle responsabilità di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro siano state conseguenti all’accettazione immotivata di una presunzione, e cioè l’attribuzione della strage all’area della destra eversiva.

Vero, è, invece, il contrario: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro sono stati accusati e condannati per la strage non in base a premesse aprioristiche ed immotivate sulla riferibilità di quell’evento ad una determinata area politica, ma perché nei loro confronti è stata acquisita la prova della loro specifica partecipazione.

Quanto alla riferibilità della strage all’area politica nella quale entrambi gli imputati militavano, la sentenza, lungi dal formulare ipotesi astratte o arbitrarie illazioni, è pervenuta a quelle conclusioni, dopo aver esaminato i più rilevanti documenti provenienti dalle stesse organizzazioni politiche, e dai quali emergeva che proprio la strategia terroristica diretta contro impianti ferroviari era stata già collaudata da alcuni gruppi che in quell’area gravitavano. Ha tenuto conto, altresì, del contenuto della relazione del colonnello Spiazzi, dell’intervista da questi rilasciata all’Espresso, e, soprattutto, delle stesse indicazioni offerte, in relazione all’accentuarsi della nuova strategia terroristica, da quanti si erano da essa dissociati, pur dopo aver dato rilevanti contributi operativi. E, quindi, anche in relazione a tale tematica, non si è affatto dissociata dalle conclusioni alle quali questa Corte, a Sezioni Unite, era pervenuta, nel fissare due realtà: e cioè che la strage di Bologna era oggettivamente compatibile con la strategia terroristica che in quel momento una parte della destra eversiva stava attuando, e, che, molteplici erano le fonti dalle quali emergeva che quella strage era a quella strategia riferibile.

Il manoscritto rinvenuto, pochi giorni dopo la strage, in una cabina telefonica di Bologna, nel quale si rivendicava che d’ora in poi lo scopo della lotta allo Stato era quello di causare le massime perdite possibili; le stesse anticipazioni fatte da Vettore Presilio, un simpatizzante della destra extra-parlamentare, le rivelazioni di Fiore a Giovagnini, e, soprattutto, i risultati investigativi acquisiti su alcuni episodi, dalla strage di Peteano del 1972 in poi, accreditavano quella ipotesi, dando ad essa un contenuto di concreta e drammatica attualità: per l’attentato terroristico al treno Torino-Roma del 7.4.1973 erano stati condannati, con sentenza definitiva, Mauro Marzorati, Nico Azzi e Francesco De min, tutti riconosciutisi come aderenti ad un’organizzazione di estrema destra; per gli attentati sulla linea ferroviaria Chiusi-Arezzo, nel 1974 e nel 1975, erano stati condannati Mario Tuti e Luciano Franci.

Pertanto, che quella strategia non fosse estranea a quell’area politica, era un fatto acquisito, più che da qualsiasi analisi, dalle precedenti imprese terroristiche sulle quali erano già intervenuti dei giudicati e quanto alla riferibilità specifica di quella strage a quella stessa matrice ideologica vi erano le indicazioni concordanti di numerose fonti, dalle quali non corretto sarebbe stato prescindere.

Ed è del tutto ovvio che ai fini della formazione del convincimento del giudice di rinvio in relazione alla partecipazione di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro alla strage del 2.8.1980 non può non aver contribuito anche l’esito di quella indagine, una volta che questa si era in quel modo conclusa: ma una cosa è riconoscere come questa conclusione si armonizzava con le prove acquisite nei confronti di Fioravanti e Mambro per la strage, altra cosa, ben diversa, è affermare – come, senza fondamento, hanno sostenuto i ricorrenti, – che la condanna è conseguente all’accettazione di quella premessa, e che questa ha viziato lo stesso procedimento valutativo della prova I ricorrenti hanno altresì riproposto alla Corte, sotto il profilo della mancanza e della manifesta illogicità di motivazione dell’impugnata sentenza quello che avevano già prospettato nei motivi di appello, e cioè che entrambi erano stati vittime dei servizi di sicurezza, interessati ad occultare responsabilità di altri soggetti.

Il rilievo è, innanzi tutto, smentito dal fatto che l’accertamento delle responsabilità di Fioravanti Giuseppe Valerio e di Mambro Francesca è stato conseguente all’utilizzazione di numerose fonti probatorie, nessuna delle quali è oggettivamente riconducibile all’attività investigativa dei servizi di sicurezza.

Inoltre, già nella sentenza di primo grado il problema, sollevato dalla difesa degli imputati, era stato esaminato e già in quella sede si era accertato che tutta l’operazione di “depistaggio” del Sismi era diretta ad allontanare i sospetti sui gruppi della destra eversiva operanti in Italia, per concentrarli sulle piste internazionali: e siffatta conclusione è stata motivatamente recepita dall’impugnata sentenza. Infatti nessuna indicazione specifica, né tanto meno indiretta, suscettibile di appropriate conferme, era stata mai prospettata dal Sismi in quella direzione, anzi, non a caso era stato escluso il coinvolgimento dei N.A.R. perché ciò rappresentava una condizione essenziale per rendere verosimile l’artificiosa ipotesi che era stata accreditata dall’espediente temerario al quale si era fatto ricorso, e cioè verso la collocazione ed il successivo ritrovamento della valigia carica di esplosivo sul treno Taranto-Milano. Vero è che la informativa del Sismi coinvolgeva anche esponenti italiani del terrorismo di destra: ma trattavasi di mendaci informazioni, tali rivelatesi non appena l’autorità giudiziaria bolognese poté svolgere le sue indagini: Giorgio Vale non era mai stato nell’appartamento di Via Rizzo, ad Imperia, né aveva acquistato i biglietti rinvenuti in quella valigia. Pertanto, aver indicato Vale quale autore possibile della strage non significava affatto voler coinvolgere Valerio Fioravanti, perché in tal caso si sarebbe dovuto scegliere una indicazione di fatti o circostanze capaci di resistere almeno ad una prima, sommaria verifica investigativa.

Viceversa, accreditava l’ipotesi che il depistaggio che i servizi di sicurezza avevano effettuato favorisse Fioravanti ed il gruppo che a questi faceva capo, il fatto che il M.A.B. rinvenuto in quella valigia proveniva, secondo le rivelazioni di Maurizio Abbatino, da Massimo Carminati, cioè da un personaggio della cosiddetta “banda della Magliana” che aveva rapporti con i fratelli Fioravanti e con Gilberto Cavallini: la stessa realizzazione della calunnia era stata resa possibile, nella sua conclusiva manifestazione, dal soccorso di chi aveva tutto l’interesse affinchè quell’opera di depistaggio riuscisse nelle finalità che i suoi artefici speravano di conseguire.

Né può affermarsi, come hanno sostenuto i ricorrenti, che sintomatica della falsità delle dichiarazioni di Massimo Sparti e del coinvolgimento dei servizi di sicurezza nelle accuse a Fioravanti e Mambro era la circostanza dallo Sparti riferita, e cioè che Fioravanti avrebbe rivelato che la mattina del 2 agosto 1980, per non farsi riconoscere, aveva girato per le strade di Bologna dopo aver avuto l’accortezza di vestirsi in modo da sembrare un turista tedesco o un altoatesino: secondo la nota informativa del Sismi, tedeschi erano coloro che avevano trasportato quell’esplosivo che era stato rinvenuto il 13.1.1981 e che doveva servire per altri attentati sui treni, sicché Fioravanti aveva scelto il travestimento meno appropriato per sottrarsi al rischio di una possibile identificazione.

II rilievo prospettato dalla difesa non tiene conto di un fatto essenziale, e cioè che le rivelazioni fatte da Fioravanti allo Sparti risalgono al 4 agosto 1980, mentre l’operazione che si concluse con il ritrovamento di quella valigia risale al 13.1.1981, sicché nessun collegamento tra le due vicende è proponibile nell’ottica prospettata dalla difesa e d’altronde, secondo la rappresentazione fatta da Fioravanti a Sparti sugli accorgimenti usati per non farsi riconoscere, quella misura, e cioè vestirsi in modo da sembrare un turista, quale che fosse la sua apparente provenienza, era l’unico mezzo di cui l’imputato in quel momento, poteva disporre, per limitare i rischi di un possibile riconoscimento.

La sentenza impugnata non si è neppure sottratta all’onere di verificare se la personalità dei due imputati ricorrenti era compatibile con la partecipazione a quel delitto e con il comportamento successivo: ha verificato quale esperienza professionale, in attentati e gravi delitti, avesse acquistato Valerio Fioravanti e quale rapporto di collaudata e fedele collaborazione avesse sempre a lui offerto Francesca Mambro, tant’è che questa anche in altre vicende, quasi per naturale vocazione, aveva legato la sua sorte al suo uomo.

E da tale complessa realtà umana, esplorata sulla base delle rivelazioni di Walter Sordi del 15.3.1984, di Raffaella Furiozzi e di Laura Lauricella, rispettivamente risalenti al 25.3.1986 ed al 2.6.1982, la Corte di Bologna ha tratto il convincimento di come quella strage, pur avendo rappresentato un evento ineguagliabile, per gli effetti drammatici, ripetto ai reati precedentemente commessi da Valerio Fioravanti, era pur sempre il risultato di una scelta di vita che aveva conosciuto già il disinteresse verso la vita altrui e come lo stesso comportamento successivo avesse una sua razionale spiegazione: confessare la partecipazione alla strage significava assumersi la tremenda responsabilità di quanto era accaduto, perdere consensi e solidarietà nello stesso arnbiente, e, soprattutto, la prospettiva di possibili benefici carcerari.

Nell’impugnata sentenza non si riscontra alcuna valutazione sommaria, parziale, imprecisa o illogica delle risultante acquisite, nemmeno in relazione a tali, marginali aspetti della vicenda, sicché anche con riferimento ad essi le censure prospettate dai due ricorrenti non sono accoglibili.

 

Non sono neppure meritevoli di accoglimento i rilievi dedotti da entrambi i ricorrenti in relazione alla violazione dell’art. 90 c.p.p, violazione prospettata con riferimento alla condanna per il reato previsto dall’art. 306 c.p.

Le Sezioni Unite della Corte con la sentenza del 12.2.1992 pur dopo aver rigettato i ricorsi che Fioravanti e Mambro avevano presentato in relazione alla condanna per quel reato, avevano devoluto al giudice di rinvio il solo compito di verificare, sulla base delle risultanze disponibili, se la condanna che entrambi gli imputati avevano riportato nel 1986 per un’analoga imputazione poteva comprendere la costituzione e l’organizzazione della banda armata alla quale era ascrivibile la decisione di quella nuova strategia terroristica, culminata nella realizzazione della strage di Bologna.

Ed il giudice di rinvio tale onere ha assolto, rilevando che quella condanna definitiva, pronunciata dalla Corte di Assise di Appello di Roma il 19.4.1986, nulla aveva a che vedere con l’organizzazione della banda armata che costituiva l’oggetto del presente giudizio.

Sia Valerio Fioravanti che Francesca Mambro hanno denunciato, nei loro ricorsi, l’errata applicazione dell’art. 90 c.p.p. ed il difetto di motivazione dell’impugnata sentenza, sostenendo che nessuna soluzione di continuità era ravvisabile, sulla base delle risultanze acquisite, tra il gruppo costituitosi a Roma nel 1977 e che aveva operato sino alla primavera del 1981 e quello al quale faceva riferimento l’accusa, nel presente procedimento.

Osserva la Corte che entrambi i rilievi sono infondati.

L’impugnata sentenza, dopo aver ricostruito le molteplici vicende che si svilupparono, in quegli anni, per effetto delle strategie eversive realizzate su iniziative di alcuni gruppi, diretti da Dario Pedretti eLuigi Aronica, ha evidenziato come dopo l’arresto di Valerio Fioravanti avvenuto a Ponte Chiasso il 18.6.1979, i rapporti di collaborazione con quella vasta organizzazione nella quale erano confluiti vari gruppi (gruppo “Prati”, gruppo “Eur”, gruppo “Vigna Clara”, gruppo “Piazza Rosolino Pino”, gruppo “Monteverde”, etc.), furono interrotti, non solo perché erano sorti vari contrasti sull’uso del denaro e delle armi, procacciate nel corso di numerose rapine, ma soprattutto perché proprio Valerio Fioravanti, secondo le sue esplicite ammissioni, si rese conto che quella organizzazione si era dispersa attraverso la realizzazione dei reati che appagavano gran parte delle necessità personali, sicché per esaltare la tensione rivoluzionaria, bisognava creare un nucleo ristretto, per operazioni di più vasto respiro. Ed a tale decisione contribuì dapprima la rottura del rapporto affettivo della Mambro con Pedretti e poi, in maniera risolutiva, l’arresto di quest’ultimo.

E nella sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma del 19.4.1986 tale realtà viene rappresentata con estrema precisione – come dà atto la sentenza impugnata – tant’è vero che si afferma (cfr. pag. 300 e seg.) che dopo la rottura del legame con Pedretti, sia Fioravanti che la Mambro, organizzarono un “nuovo Gruppo politico criminale, che si renderà responsabile di numerosi altri reati”, gruppo che nulla aveva a che vedere con quella più vasta organizzazione, se si prescindeva dalla comune matrice eversiva.

Ne consegue che la sentenza impugnata, nell’escludere il “bis in idem” non solo non è incorsa in alcun vizio di motivazione, ma ha fedelmente recepito il contenuto della sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Appello di Roma, verificando come quella decisione avesse ottenuto, anche sulla base delle nuove risultanze acquisite in questo processo, appaganti riscontri.

Si era, infatti, accertato che solo dopo la rottura dei rapporti con Pedretti, Fioravanti e Mambro avevano instaurato un’intensa collaborazione con Soderini, Giuliani e Cavallini, così privilegiando quell’accentuata strategia terroristica che era stata posta in evidenza dal colonnello Spiazzi e nell’ambito della quale andava collocata la realizzazione della strage di Bologna.

Pertanto, la sentenza impugnata anche in relazione a tale statuizione, si sottrae ai rilevi dedotti da entrambi gli imputati ricorrenti.

Esame dei motivi di ricorso relativi a Egidio Giuliani

Non è neppure meritevole di accoglimento il ricorso presentato di Egidio Giuliani.

L’imputato ha dedotto il difetto di motivazione dell’impugnata sentenza, perché il giudice di rinvio non avrebbe indicato le ragioni in base alle quali aveva ritenuto che la condanna definitiva per il reato previsto dall’art. 306 c.p., pronunciato dalla Corte di Assise di Appello il 9.6.1989 riguardava fatti diversi rispetto a quelli, oggetto del presente giudizio.

Il rilievo non può essere condiviso.

Risulta dalla sentenza impugnata che la diversità oggettiva ai due fatti attribuiti all’imputato ricorrente è stata rappresentata attraverso un’analisi accurata dei fondamentali aspetti caratterizzanti la banda armata alla quale Giuliani aveva aderito, offrendo la sua collaborazione a Valerio Fioravanti. Il giudice di rinvio, infatti, dopo aver ricostruito, sulla base delle indicazioni offerte da Cristiano Fioravanti, Marco Guerra, Laura Lauricella e Bruno Hassemer, i contributi specifici offerti dall’imputato ricorrente al ristretto gruppo operativo organizzato da Valerio Fioravanti ha verificato come la condanna definitiva pronunciata dalla Corte di Assise di Roma non solo riguardava fatti che, dal punto di vista cronologico, erano antecedenti rispetto a quelli accertati nel presente giudizio – essi, infatti, risalivano al 1978 ed ai primi mesi del 1979 – ma, soprattutto, presentavano una diversità oggettiva.

Infatti l’organizzazione che aveva formato oggetto del giudicato aveva la sua sede sulla Casilina, nel casale di Via del Torraccio, ed era costituita da soggetti diversi (Colantuoni, Guerra, Conti, Palermo,Alvarito, Onesti) e nessuno di costoro risultava aver avuto rapporti con Valerio Fioravanti.

Pertanto, l’esclusione dell’efficacia preclusiva del giudicato è stata conseguente ad un’esauriente valutazione delle risultanze acquisite e tale valutazione, congruamente motivata, si sottrae ai rilievi dedotti dall’imputato ricorrente, in quanto né presenta aspetti di manifesta illogicità, né appare conseguente all’omesso esame di circostanze capaci di giustificare una diversa decisione.

Esame dei motivi di ricorso relativi a Gilberto Cavallini

Ritiene altresì la Corte di dover rigettare anche il ricorso proposto da Gilberto Cavallini.

Con l’unico motivo dedotto l’imputato ha denunciato le violazione dell’art. 90 del codice di procedura penale del 1930, sostenendo che nessuna decisione avrebbe dovuto assumere nei suoi confronti la Corte di Assise di Appello di Bologna, in quanto la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza del 12.2.1992 aveva reso definitiva la condanna per il reato previsto dall’art. 306 c.p., condanna pronunciata a conclusione del giudizio di appello.

Osserva la Corte che il rilievo dedotto dal ricorrente è fondato su di un errato presupposto.

L’imputato, condannato dalla Corte di Assise di Bologna per il reato previsto dall’art. 306 c.p., nel proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza che, in appello, quella condanna aveva confermato, aveva rilevato che sussisteva la preclusione del giudicato in conseguenza della precedente condanna per lo stesso reato, condanna divenuta ormai definitiva.

Le Sezioni Unite della Corte, dopo aver riconosciuto che la conferma della condanna già inflitta al Cavallini dal primo giudice era stata correttamente motivata, sicché il ricorso dell’imputato nella parte in cui il vizio di motivazione della sentenza impugnata era stato dedotto andava rigettato, aveva osservato che il problema sollevato dallo stesso imputato, e cioè quello relativo alla possibile applicazione dell’art. 90 c.p.p. andava risolto dal giudice di rinvio, perché bisognava verificare se tra il fatto contestato e quello già giudicato vi era una perfetta identità, e solo se tale accertamento di merito avesse avuto un risultato positivo si sarebbe dovuta dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale.

Orbene, non v’è dubbio che tale evento, coinvolgendo la verifica della genesi, dello sviluppo e della caratterizzazione intrinseca delle due organizzazioni armate, oltre che del contenuto del loro programma, non poteva che essere rimesso al giudice di rinvio, trattandosi di un’indagine che, per il suo stesso contenuto, esorbitava dai limiti del sindacato di legittimità.

Né, d’altronde, in questa sede, è più consentito rimettere in discussione le statuizioni contenute nella sentenza della Corte di Cassazione del 12 febbraio 1992 ed i criteri dai quali quelle statuizioni sono state ispirate.

La Corte di Assise di Appello di Bologna, attenendosi ai criteri enunciati da questa Suprema Corte, dopo aver stabilito, e nei limiti oggettivi dell’accertamento che le era stato affidato, che il reato contestato era diverso da quello per il quale Cavallini era stato già condannato, ha ritenuto di applicare la continuazione tra i due reati, e, quindi ha apportato un aumento di pena su quella che era stata applicata all’imputato con la sentenza definitiva. Tale statuizione non era preclusa dalla sentenza che quel giudizio di rinvio aveva disposto, perché rappresentava una conseguenza non evitabile rispetto al contenuto oggettivo del giudizio di rinvio, posto che, ai fini della verifica devoluta dalla Corte di Cassazione alla Corte di Assise di Appello di Bologna, rimetteva in discussione la sussistenza di un reato diverso da quello già giudicato. Ed una volta risolto in senso affermativo tale problema, il giudice di rinvio non poteva sottrarsi all’onere di determinare, in concreto, la pena applicabile al reato che formava oggetto del suo giudizio.

E tale onere è stato assolto dalla Corte di Assise di Appello di Bologna, nel rispetto del divieto della “reformatio in peius”, riconoscendo il vincolo della continuazione tra i due reati e, quindi adottando una statuizione più favorevole per l’imputato ricorrente.

Ne consegue che anche il ricorso di Gilberto Cavallini deve essere rigettato.

Esame dei motivi di ricorso relativi a Licio Gelli, Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci

Relativamente alle condanne di Licio Gelli, Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci per il delitto di calunnia aggravata ad essi ascritto, nei ricorsi presentati da tutti e quattro gli imputati vengono formulati numerosi e specifici rilievi avverso la sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna, rilievi che richiedono un approfondito esame.

Licio Gelli, con i primi quattro motivi di ricorso prospettati alla Corte, ha denunciato la mancanza e la contraddittorietà di motivazione dell’impugnata sentenza in relazione a tutti gli aspetti rilevanti della prova esaminata dal giudice di rinvio, ed in particolare:

A) sul contenuto e sulle finalità della relazione che il colonnello Spiazzi, del Sisde, aveva avuto occasione di redigere a conclusione dell’incarico che gli era stato affidato, prima della esecuzione della strage;

B) sul rapporto di subordinazione che l’accusa aveva costruito tra esso ricorrente ed il dr. Cioppa, nel tentativo di attribuire un contenuto di apprezzabile concretezza a quel suo intervento, valutato arbitrariamente come sintomatico della strategia funzionale al depistaggio, benché nella stessa sentenza impugnata si desse atto che personaggi ben più autorevoli del dr. Cioppa avrebbero potuto recepire quei messaggi ed attuarli, senza alcuna necessità di intermediari;

C) sul carattere e sulle finalità del colloqui con il dr. Cioppa, avendo la sentenza impugnata confuso le opinioni personali espresse sulla matrice della strage con delle vere e proprie direttive, esorbitanti dalle sue competenze e dalle sue stesse conoscenze.

D) sulla idoneità concreta di quel colloquio a spostare l’attenzione degli inquirenti dalle piste nazionali a quelle internazionali;

E) sui rapporti di collaborazione con Francesco Pazienza, giacché nessuna prova, diretta o indiretta, accreditava tale ipotesi, ma dalle risultanze aquisite emergeva un’indicazione di segno opposto, perché dagli atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 emergeva che Pazienza non era compreso tra gli iscritti a quella loggia, ed aveva espresso giudizi negativi su chi quella loggia dirigeva, in occasione delle travagliate vicende nelle quali era stato coinvolto il Banco Ambrosiano;

F) sul fatto che illogica ed erronea era la conclusione alla quale era pervenuto il giudice di rinvio allorquando aveva attribuito ai servizi di sicurezza che l’indicazione da essi fatta, nel febbraio del 1981, di Giorgio Vale come uno dei possibili autori della strategia del “terrore sui treni” era espressione della volontà di scagionare Valerio Fioravanti ed il suo gruppo: secondo il ricorrente, la sentenza impugnata non aveva considerato che Giorgio Vale era stato già coinvolto, insieme a Valerio Fioravanti, nell’omicidio di due carabinieri, avvenuto e Padova poco prima ed altrettanto era avvenuto perAdinolfi e Fiore, accusati di avere partecipato ad associazioni eversive.

Infine, nel quinto motivo di ricorso Gelli ha denunciato l’errata applicazione dell’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15 – rilievo questo prospettato, con analoghe argomentazioni anche da Pazienza, Musumeci e Belmonte: ha in particolare rilevato il ricorrente che la sentenza impugnata aveva omesso di considerare che, per effetto della condanna definitiva di Musumeci e Belmonte per ili reato di peculato, si era ormai consolidato il giudicato sulla finalità riconducibile alla condotta incriminata, e cioè lo scopo di lucro, sicché le diverse conclusioni alle quali era pervenuta la sentenza impugnata, oltre ad essere la conseguenza di un intreccio di congetture ed ipotesi, si ponevano in contrasto con il contenuto stesso di quel giudicato.

 

Non meno articolati sono i rilievi prospettati nell’interesse di Tommaso Pazienza.

Il ricorrente ha denunciato, innanzi tutto, l’errata applicazione dell’art. 368 c.p., sostenendo che il giudice di rinvio, non adeguandosi ai criteri enunciati da questa Corte, a Sezioni Unite, il 12 febbraio 1992 in ordine all’applicazione del secondo comma dell’art. 192 del nuovo codice di procedura penale, aveva fatto largo uso di congetture ed illazioni nel ricostruire alcune vicende dalle quali aveva tratto suggestive conclusioni, non confortate da alcun obiettivo riscontro.

Secondo il ricorrente, in particolare, non si era tenuto conto del fatto che l’articolo apparso su “Agenzia Repubblica” ed attribuito ad una sua callida iniziativa, altro non conteneva che una generica critica sui modi con i quali l’indagine per scoprire mandanti ed esecutori della strage di Bologna era stata sino a quel momento condotta. Inoltre, nemmeno si era considerato che nessun esplicito accenno alla strage del 2 agosto 1980 conteneva il pro-memoria consegnato al giornalista Barberi, e che, quanto alla nota informativa offerta al dr. Pompò, della Questura di Roma, essa faceva riferimento ad un’organizzazione terroristica collegata con le “brigate rosse”, avente sede a Monaco, e quindi si era omesso di tener conto che trattavasi di notizie generiche, irrilevanti e comunque già note ai Ministri della Difesa e dell’Interno.

Quanto; infine, all’incontro avvenuto a Ciampino, il ricorrente ha rilevato che la sentenza impugnata aveva immotivatamente disatteso la ricostruzione da lui prospettata, benché fosse stata confermata dal generale Notarnicola, ed aveva riproposto, in forma apodittica, la suggestiva certezza dell’esistenza di un prestabilito programma, già immotivatamente costruita dal primo giudice, sull’erroneo presupposto che una siffatta conclusione confermava l’ipotesi della predisposizione della realizzazione un’articolata condotta calunniosa.

Lo stesso ricorrente ha altresì contestato la configurabilità giuridica del delitto di calunnia, sostenendo che ai sensi dell’art. 9 della legge 24 ottobre 1977 n. 801 soltanto i direttori del “Sismi” e del “Sisde” avevano l’obbligo giuridico di informare l’autorità giudiziaria sui risultati ottenuti in relazione alle indagini sulla strage: pertanto, il generale Notarnicola, quale capo della prima divisione del “Sismi”, non era tenuto all’osservanza di quell’obbligo, e comunque l’accusa neppure aveva dimostrato che il generale Notarnicola, violando il segreto di stato, avrebbe rivelato il contenuto delle informazioni ricevute a coloro che indagavano sulla strage di Bologna

La difesa di Francesco Pazienza ha infine denunciato il vizio di motivazione dell’impugnata sentenza, sostenendo clhe questa aveva utilizzato, come prova del commesso reato, la testimonianza resa dal maresciallo Sanapo, al fine di dimostrate l’esistenza di un intreccio di rapporti illeciti con Belmonte: ma si era omesso di considerare che quella testimonianza resa dopo molte incertezze non conteneva la rappresentazione di un episodio caduto sotto la diretta percezione del testimone, ma semplicemente la rievocazione di quanto al sottufficiale era stato riferito dal Belmonte, allorquando poteva apparire utile confermare l’esistenza concreta della fonte di quella rivelazione.

Nei motivi aggiunti, presentati nell’interesse dello stesso ricorrente, si analizzano tutti gli aspetti rilevanti della vicenda e, completando le censure già formulate nei motivi principali, si osserva che la sentenza impugnata aveva omesso di considerare che il coinvolgimento di Tommaso Pazienza non era emerso nel processo che si era concluso con la condanna di Musumeci e Belmonte per i reati di peculato e di detenzione di armi ed esplosivo; che non vi era prova alcuna sui rapporti che il giudice di rinvio aveva supposto tra Pazienza e Gelli ed a tal proposito si era ignorato che nell’aprile del 1981 Pazienza aveva esortato il presidente del Banco Ambrosiano a prendere le distanze da Gelli, con ciò dimostrando che non esistevano né rapporti di amicizia né, tanto meno, di reciproca simpatia o fiducia.

 

Sia Giuseppe Belmonte che Pietro Musumeci hanno contestato, con i loro ricorsi, la configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15, formulando rilievi già proposti da Gelli e Pazienza.

Musumeci, in particolare, ha evidenziato che il giudice di rinvio non doveva ritenersi vincolato al rispetto delle valutazioni contenute nella sentenza che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano pronunciato il 12 febbraio 1992, perché quelle valutazioni, quando non sconfinavano in un sindacato di merito, sottratto alla competenza della Corte di Cassazione, erano soltanto servite per individuare i vizi logici nei quali era caduta la sentenza annullata.

Pertanto, era onere del giudice di rinvio procedere ad una rinnovata ed autonoma rivalutazione delle risultanze acquisite, onere al quale si era sottratto. Con l’ultimo motivo di ricorso Musumeci ha altresì sostenuto che la sentenza impugnata, violando il 2° comma dell’art. 192 del nuovo codice di procedura penale ed i criteri metodologici indicati dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza, aveva fatto largo uso di apodittiche congetture, traendo dalle stesse arbitrarie conclusioni.

Due, invece, sono i motivi di ricorso presentati nell’interesse di Giuseppe Belmonte: con il primo ha denunciato l’errata applicazione dell’art. 90 del codice di procedura penale del 1930, sostenendo che essendosi nei suoi confronti già formato il giudicato in relazione alla condanna per il reato di peculato, il movente di lucro in relazione a quella condotta non poteva più esser contestato, ed esso escludeva, per la sua incompatibilità logico-giuridica, la ritenuta finalità di terrorismo e di eversione; con il secondo motivo ha prospettato la violazione dell’art. 81 c.p., affermando che una volta formatosi il giudicato anche in relazione alla unificazione, sotto il profilo della continuazione, tra i fatti giudicati dalla Corte di Assise di Appello di Roma il 14 marzo 1986, ed il reato di calunnia, nessun aumento di pena il giudice di rinvio avrebbe dovuto disporre per effetto della riconosciuta configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15, conservando la calunnia il ruolo di un reato satellite nell’ambito della continuazione, rispetto alla più grave violazione di legge, rappresentata dal reato di peculato.

 

Prima di passare all’esame dei rilievi prospettati dai ricorrenti in relazione alla motivazione dell’impugnata sentenza, non è superfluo ricordare che le Sezioni Unite di questa Suprema Corte con la sentenza del 12 febbraio 1992 avevano respinto i ricorsi che Musumeci e Belmonte avevano presentato contro la decisione con la quale la Corte di Assise di Appello di Bologna aveva confermato il riconoscimento della loro responsabilità per il delitto di calunnia, riconoscimento già contenuto nella sentenza del primo giudice. È altresì divenuta definitiva, per effetto dell’esaurimento dei mezzi di impugnazione esperibili la condanna pronunciata nei confronti degli stessi imputati dalla Corte di Assise di Appello di Roma il 14 marzo 1986 per i reati di peculato e di detenzione di armi ed esplosivo, condanna pur essa conseguente al rinvenimento di quella valigia sul treno Taranto-Milano, nella notte del l3 gennaio 1981.

Ne consegue che entrambi quei giudicati precludono la rivalutazione delle acquisite risultanze probatorie sia in relazione all’accertata sussistenza del fatto, che con riferimento alla verifica della riferibilità del fatto ai due imputati.

In entrambe le definitive pronunce si è dato atto che l’episodio del 13 gennaio 1981 altro non rappresentava che la manifestazione più clamorosa di una programmata azione di depistaggio, opportunamente predisposta ed inserita in una complessa strategia, già attuata, in forma subdola, prima ancora che quella valigia venisse collocata sul treno.

Pertanto, l’episodio del 13 gennaio 1981 non può essere dissociato dalla complessa condotta rispetto alla quale rappresentò l’epilogo, se non a costo di infrangere la stessa verità organica dell’oggetto del giudizio già concluso.

Deve peraltro rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto da tutti e quattro gli imputati ricorrenti, la sentenza impugnata non solo non ha attribuito al contenuto dei due giudicati un’ampiezza diversa da quella consentita, ma neppure ha criticamente recepito le indicazioni formulate da questa Corte nella citata sentenza del 12 febbraio 1992: è doveroso precisare che con quella sentenza la Corte di Cassazione, lungi dal voler esorbitare dai limiti del sindacato consentitole dall’ordinamento processuale sulla motivazione del provvedimento impugnato, aveva soltanto indicato le ragioni per le quali né illogica, né contraddittoria ma correttamente motivata era la condanna di Belmonte e Musumeci, al contrario di quanto era constatabile in relazione alle assoluzioni dallo stesso reato di Gelli e Pazienza: pertanto la Corte, nell’invitare il giudice di rinvio ad una rinnovata analisi delle risultanze acquisite, anche al fine di verificare se in concreto sussistevano le condizioni per applicare a tutti e quattro gli imputati l’aggravante prevista dall’art. l della Legge 6 febbraio 1980 n. l5, non poteva non evidenziare quali erano gli aspetti dei fatti accertati bisognosi di un approfondimento valutativo, o di una analisi che il giudice di appello aveva trascurato.

Ed il giudice di rinvio, vincolato al rispetto dei limiti oggettivi dell’indagine devoluta dalla Corte di Cassazione, non poteva neppure sottrarsi all’osservanza dei criteri metodologici che la stessa Corte aveva avuto cura di enunciare in relazione all’analisi ed alla valutazione della prova indiziaria, secondo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 192 del nuovo codice di procedura penale.

E la Corte di Assise di Appello di Bologna quei limiti non ha superato ed a quei criteri metodologici si è rigorosamente attenuta, senza però abdicare alla sua autonomia decisoria, conseguente al corretto esercizio della sua capacità valutativa delle risultanze probatorie acquisite.

Non può essere definita, come si è prospettato dalla difesa dei ricorrenti, una “gratuita illazione” o il risultato di “arbitrarie congetture” o “suggestive ipotesi” l’aver riconosciuto, come ha fatto la sentenza impugnata, che la collocazione della valigia su quel treno si inseriva, a pieno titolo, alle precedenti e meno clamorose iniziative attribuite a Gelli e Pazienza ed ai servizi di sicurezza sui quali entrambi esercitavano una determinante influenza. A questa conclusione il giudice di rinvio è pervenuto non già recependo, acriticamente, le valutazioni già espresse dal primo giudice, ma verificando, sulla base di una completa analisi delle risultanze acquisite, che quelle valutazioni si sottraevano ai rilievi dedotti dagli imputati con il risultato consentito da una legittima applicazione del secondo comma dell’art. 192 c.p.p..

La Corte di Bologna, nel riesaminare le risultanze acquisite, ha constatato che le iniziative assunte da Gelli e Pazienza si sovrapponevano nella omogeneità dei contenuti e delle finalità, omogeneità connotata da un evidente sicronismo cronologico pur esso sintomatico di una comune e solidale volontà, quella, cioè, di accreditare la ipotesi della riferibilità della strage del 2 agosto 1980 ad organizzazioni internazionali, offrendo agli inquirenti, in maniera subdola ed indiretta, artificiose e suggestive indicazioni, aventi tutte una costante ed immutata connotazione: quella di screditare la riferibilità della strage ad un’autonoma decisione dei gruppi terroristici organizzatisi in Italia, nell’area della destra eversiva.

Orbene, che fosse stata realizzata una complessa azione di depistaggio da parte di alcuni preposti ai servizi di sicurezza emergeva già dalle condanne definitive riportate da Belmonte e Musumeci, avendo la Corte di Assise di Appello di Roma, nella citata sentenza, dato atto delle ragioni per le quali l’episodio del l3 gennaio 1981 non poteva essere riconducibile nell’alveo di una personale ed estemporanea iniziativa dei due ufficiali del “Sismi”, non foss’altro perché essa aveva avuto l’autorevole avallo del defunto generale Santovito, che, in quel periodo, dirigeva il servízio di sicurezza militare.

Non rientra certamente nei poteri di questa corte sindacare se il contenuto delle informazioni e dei consigli e dei suggerimenti attribuiti a Gelli e Pazienza rappresentavano la manifestazione innocente ed ingenua di soggettive intenzioni, o di superficiali valutazioni, giacché siffatto giudizio coinvolge un sindacato di merito che alla Corte di Cassazione era ed è precluso.

Ma una volta precisato che il controllo consentito a questo Supremo Collegio anche in base al codice del 1930, può avere ad oggetto solo la motivazione posta dal giudice del merito a fondamento della propria decisione e che i parametri utilizzabili, sono quelli della completezza dell’indagine, della correttezza della valutazione dei singoli elementi acquisiti al processo e della continuità logica dei vari sillogismi attraverso i quali si perviene a determinate conclusioni, è agevole osservare che le ragioni espresse dall’impugnata sentenza per escludere che gli interventi di Gelli e Pazienza fossero riconducibili nell’alveo di soggettive intuizioni, prive di qualsiasi fraudolenta finalità, non solo sono coerenti sul piano logico, ma si armonizzano compiutamente con le risultanze acquisite e correttamente analizzate.

In relazione a tale conclusivo e positivo giudizio va altresì precisato che, contrariamente a quanto sostenuto dagli stessi imputati ricorrenti, la sentenza impugnata non si è affatto sottratta all’onere di verificare se le informative che il Sismi aveva predisposto coinvolgevano anche esponenti italiani del terrorismo di destra; questa indagine, sollecitata dalla difesa dei ricorrenti, è stata compiuta, ma i suoi risultati, lungi dall’accreditare l’innocenza degli accusati, si è rivelata utile per giustificare il diverso convincimento della loro colpevolezza. Infatti, la presenza di Giorgio Vale ad Imperia e l’asserito suo intervento per l’acquisto, in un’agenzia di Bari, dei due biglietti aerei intestati a cittadini stranieri e rinvenuti nella valigia collocata sul quel treno, si dimostrarono il risultato di una vera e propria invenzione non appena su quelle notizie gli inquirenti potettero svolgere gli opportuni accertamenti: Vale non era mai stato in quell’appartamento ad Imperia, e non aveva acquistato quei biglietti. E, una volta dimostrato agevolmente che Giorgio Vale non poteva essere coinvolto in quella vicenda, era più che logico dedurre che quella indicazione non sarebbe mai potuta servire per risalire a Valerio Fioravanti, anche ammesso che i rapporti tra Vale e Fioravanti fossero stati rappresentati nella loro effettiva consistenza.

Quanto a Fiore ed Adinolfi , il loro coinvolgimento personale in azioni terroristiche era già emerso precedentemente all’episodio del 13.1.1981, sicché anche nei loro confronti le informazioni fornite non acquisivano alcuna rilevanza sintomatica di una volontà diversa da quella attribuita agli imputati dai giudici di merito. Inoltre, la partecipazione di Francesco Pazienza al reato di calunnia continuato ed aggravato non è stata desunta soltanto dalla sua presenza all’aeroporto di Ciampino, allorquando Musumeci, alla presenza di Belmonte e del generale Santovito, consegnò al generale Notarnicola quella relazione informativa che era stata fraudolentemente predisposta, con la determinante collaborazione del maresciallo Sanapo, presso la stazione dei carabinieri di Vieste.

Già nella sentenza pronunciata dalle Corte di Assise di Roma il 29 luglio 1995 nei confronti di Belmonte e Musumeci si era dato atto che si era accertato, attraverso le dichiarazioni rese dal giornalista Lando Dell’Amico, che il giornale, da quest’ultimo diretto, l”Agenzia Repubblica” era uno degli strumenti dei quali Pazienza si serviva per attuare quella contro-informazione perseguita dal “Sismi” e che le contingenti occasioni suggerivano.

Pertanto, una volta accertatosi attraverso le indicazioni offerte dallo stesso giornalista, che Pazienza era stato l’ispiratore dell’articolo pubblicato su quel giornale il 1° settembre 1980, la sentenza impugnata ne ha valutato il contenuto, non senza porsi il problema che le era stato devoluto dalla sentenza di questa Suprema Corte che il giudizio di rinvio aveva disposto, e cioè quello di ricercare le ragioni per le quali quella iniziativa, in quel momento, Pazienza aveva assunto. Ed il giudice di rinvio non ha potuto che prendere atto che pochi giorni prima della pubblicazione di quell’articolo la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna aveva pubblicamente riconosciuto la proficua collaborazione che era stata offerta dal “Sisde” in relazione alle indagini che avevano giustificato l’adozione di misure cautelari nei confronti di numerosi appartenenti ad organizzazioni eversive della destra, operanti in Italia.

Orbene, nell’articolo, ispirato da Pazienza, si ironizzava su quella operazione e sul contributo offerto per la sua realizzazione; se ne prevedeva l’insuccesso a breve termine e, soprattutto si affermava che il “Sisde” aveva riesumato vecchie pratiche”, con ciò alludendo implicitamente alla materiale impossibilità di sviluppare in quella direzione le indagini se con queste si voleva perseguire con successo lo scopo di individuare i responsabili della “nuova” strategia terroristica, culminata nella strage di Bologna.

Né può essere definito arbitrario il collegamento che la sentenza impugnata ha colto tra quell’episodio e la successiva iniziativa assunta da Francesco Pazienza nei confronti di un altro giornalista, Andrea Barberi. L’incontro era stato sollecitato, secondo quanto risulta dalla ricostruzione dei giudici di merito, dallo stesso imputato e nel corso del colloquio, dal quale poi scaturì la pubblicazione dell’articolo “La grande ragnatela”, apparso su di un periodico di larga diffusione il 15 settembre del 1980, Pazienza al giornalista, presente il generale Santovito, aveva manifestato il suo disappunto per quanto si era in quei giorni verificato, in quanto il “Sisde” era stato dalla magistratura bolognese elogiato, benché non avesse fatto altro che “riesumare vecchie informazioni”, al contrario del “Sismi”, che “aveva fatto molto più”, e che aveva informazioni più attuali e più importanti. Era altresì emerso, attraverso le dichiarazioni di Barberi, che Pazienza, nell’invitare il giornalista a constatare personalmente quanto da lui affermato, lo aveva accompagnato nella sede del “Sismi”, facendo in modo che quella valutazione venisse autorevolmente confermata dal generale Santovito, avendo questi affermato, in quella circostanza, e con temeraria sicurezza, che il “Sismi” a differenza del “Sisde” proprio perché aveva utilizzato informazioni più recenti “ormai aveva scoperto tutto”, lasciando al suo interlocutore la certa convinzione che quella “scoperta” non ad altro si riferiva, se non alla strage compiuta poco più di un mese prima.

È pur vero che come dedotto dall’imputato ricorrente, il teste Barberi escluse che in quel colloquio, conclusosi alla presenza del generale Santovito, Pazienza non fece riferimento esplicito alla strage di Bologna, ma tale omissione, lungi dall’essere esplicativa di un suo disinteresse, è stata valutata come sintomatica di un accorgimento malizioso al quale si era fatto ricorso per accrescere l’interesse del giornalista alla conoscenza di quanto gli veniva rappresentato in ordine a notizie che venivano artificiosamente presentate come risolutive ai fini dell’accertamento delle responsabilità delle imprese terroristiche realizzate in Italia in quel periodo, e, tra queste, quella compiuta a Bologna, per le sue drammatiche conseguenze, era la più importante.

A tale conclusione la sentenza impugnata è pervenuta attraverso la ricostruzione del contenuto di quel colloquio, così come riferito da chi ne era stato partecipe, e con la vigile attenzione di chi, per le sue stesse esigenze e capacità professionali, non poteva rimanere indifferente rispetto a quelle certezze, così come autorevolmente ribadite da chi aveva la responsabilità della direzione del “Sismi”, in relazione ad un fenomeno – il terrorismo politico – che in quei giorni si era così drammaticamente proposto alla doverosa attenzione di tutta la pubblica opinione.

Né dubbi potevano sussistere sulla individuazione delle ragioni per le quali Pazienza assunse quella iniziativa, posto che i giudici di merito avevano accertato – e la circostanza non è mai stata contestata – che al giornalista Barberi era stata consegnata la copia di una relazione che il “Sismi” aveva preparato sui collegamenti internazionali del terrorismo, relazione che conteneva un lungo elenco di centrali terroristiche straniere, quasi tutte gravitanti nell’area politica della sinistra, tant’è che l’articolo pubblicato dopo l’acquisizione di quelle relazione riapriva il problema della stessa individuazione della matrice politica alla quale andava collegata la strategia terroristica manifestatasi a Bologna il 2 agosto 1980 e. nel contempo, spegneva gli entusiasmi e ridimensionava le aspettative di quanti, sino a quel momento, avevano creduto nel successo dell’opera investigativa del “Sisde”, sfociata nella indagine che aveva portato la procura di Bologna a quei primi risultati.

Una volta acquisito tale oggettivo riscontro, la conclusione alla quale è pervenuta l’impugnata sentenza si sottrae ai rilievi dedotti dall’imputato ricorrente, perché essa non è il risultato di mere congetture, ma è conseguente alla ricostruzione delle circostanze di fatto accertate nel corso del procedimento, ed è stata motivatamente rappresentata in tutti i più essenziali e rilevanti aspetti.

Nell’ambito dello stesso disegno criminoso il giudice di rinvio ha valutato l’altra iniziativa assunta da Francesco Pazienza nel gennaio del 1981, allorquando egli fornì al dr. Pompò, che allora dirigeva il primo distretto di polizia di Roma, notizie informative su una organizzazione criminale composta da italo-tedeschi, collegata con le “brigate rosse” e con sede a Monaco di Baviera.

Orbene, secondo la valutazione dei giudici di merito, quella segnalazione, pur non riguardando la strage di Bologna, finiva pur sempre per additare all’attenzione degli inquirenti l’attività terroristica internazionale sia pure attraverso la rappresentazione di organizzazione operativa che aveva rapporti con il terrorismo politico: e questa segnalazione, pur provenendo dalla stessa fonte, cioè dal “Sismi”, era stata fatta a quel funzionario perché venisse recepito il suo contenuto da coloro che in quel momento alle indagini sul terrorismo politico si dedicavano, senza però che potesse mai apparire la fonte alla quale attribuirla.

Ed anche tale espediente non poteva che essere valutato come indicativo di una meditata strategia, cioè quella di indurre comunque gli inquirenti a spostare la loro attenzione sulle piste internazionali ma senza creare sospetti sulla artificiosità di quelle ripetitive indicazioni.

E non v’è dubbio che se l’episodio, isolatamente considerato, poteva anche non essere rilevante ai fini della verifica della fondatezza dell’accusa, una volta collegato agli altri, e verificato che ad essi si omologava nella sintomaticità di un delittuoso programma di depistaggio, in tali termini poteva essere valutato dal giudice del merito, giacché la sua ricostruzione era conforme alle risultanze acquisite, e la sua valutazione non poteva essere dissociata dal concorrente contributo degli altri indizi.

Alla stessa conclusione deve questa Suprema Corte pervenire in relazione alla ricostruzione del ruolo attribuito a Francesco Pazienza nell’episodio del 13 gennaio 1981.

La sentenza impugnata, contrariamente a quanto dedotto dall’imputato ricorrente, non ha supposto la partecipazione all’operazione che si concluse con il rinvenimento delle armi e dell’esplosivo su quel treno, desumendola dalla sola presenza dell’imputato all’aeroporto di Ciampino il 9 gennaio 1981, allorquando Musumeci consegnò al generale Notarnicola quella nota informativa sulla base della quale si avviarono le operazioni per il recupero di quella valigia.

Il giudice di rinvio è pervenuto alla conclusione contestata dal ricorrente dopo aver puntualizzato la posizione che Pazienza rivestiva nell’ambito del “Sismi” e quella che aveva acquisito. nella stessa struttura, Musumeci: Pazienza risultava essere stato inserito nel “Sismi” su iniziativa di qualificati ambienti americani, e ben presto era divenuto il più fidato collaboratore del direttore del servizio, il generale Santovito. Queste erano le indicazioni offerte da alcune testimonianze, – il colonnello Cagliandro ed il generale Lugaresi – confermate dallo stesso Pazienza allorquando, nel corso di un’intervista televisiva del 25 aprile 1985, aveva ammesso di avere ricevuto dal generale Santovito l’incarico di formare, all’interno del “Sismi” un “gruppo informale”, composto di pochi elementi per portare avanti alcune delicate operazioni.

A sua volta Musumeci, secondo la testimonianza del colonnello Cogliandro, era il referente abituale di Pazienza, ed entrambi rappresentavano il “cardine operativo” del servizio.

E una volta ricostruito il ruolo che Pazienza e Musumeci rivestivano all’interno del “Sismi”, la sentenza impugnata, attenendosi ai principi fissati da questa Corte a proposito della valutazione della prova indiziaria, ha riesaminato accuratamente le dichiarazioni rese dal maresciallo Francesco Sanapo, proprio al fine di verificare se esse potevano offrire una valenza probatoria concordante con gli altri indizi.

Infatti il giudice di rinvio, nel ricostruire gli sviluppi che quella deposizione aveva avuto nel corso del procedimento, ha dato atto che il maresciallo Sanapo alla Procura di Bologna, sia il 22 novembre 1984 che il 28 marzo 1985 aveva espressamente rivelato che Belmonte gli aveva confidato che il generale Musumeci era in difficoltà in relazione alle indagini sulla strage di Bologna e che bisognava aiutarlo, ma che, nel contempo, era assolutamente necessario non svelare la fonte di quella notizia, perché si trattava di un “personaggio importantissimo, a capo di una rete spionistica internazionale”, talvolta indicato da Belmonte come “nipote” del generale Santovito, ed altre volte come “il segretario” del direttore del servizio di sicurezza.

Non può essere ritenuta fondata la censura prospettata dalla difesa di Pazienza in relazione al fatto che la sentenza impugnata avrebbe tradotto in certezza quanto era stato da Sanapo recepito sulla base delle dichiarazioni a lui fatte da Belmonte.

In realtà, nella deposizione del 28 marzo 1985 Sanapo ribadì che Belmonte gli aveva fatto il nome di Pazienza allorquando aveva dovuto dirgli da quale fonte aveva appreso che quell’esplosivo sarebbe stato consegnato quel giorno su quel treno. Inoltre nella stessa sentenza impugnata si dà atto che nel corso del giudizio di appello Sanapo modificò quelle originarie dichiarazioni, escludendo che Belmonte gli avesse mai fatto il nome di Pazienza, ma la giustificazione della ritrattazione – la mancata lettura del verbale da parte del pubblico ministero – è stata giudicata inattendibile dalla Corte di Assise di Appello di Bologna, una volta accertatasi che il verbale della deposizione resa il 28 marzo 1985 era stato redatto a macchina da un agente di polizia giudiziaria che assisteva il pubblico ministero, sicché il suo contenuto non poteva che essere stato dettato ad alta voce dal magistrato, alla presenza del testimone, e via via che le sue dichiarazioni venivano rese.

Inoltre, nella stessa sentenza si dà atto che del verbale del 28 marzo 1985 fu data lettura all’udienza del 16.10.1987, a conclusione del dibattimento celebratosi dinanzi alla Corte di Assise di Bologna, ed in quella sede Sanapo non avvertì affatto la necessità di effettuare alcuna precisazione o rettifica.

Pertanto, l’analisi compiuta dalla sentenza impugnata è stata effettuata sulla base dell’effettivo contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone e le conclusioni che ne sono state tratte rappresentano una legittima espressione del libero convincimento del giudice di merito, giustificato con logica coerenza e, come tale non più censurabile in questa sede.

Va inoltre rilevato che la identificazione di Francesco Pazienza era implicita sin dal primo colloquio che Belmonte aveva avuto con Sanapo, ma la descrizione che ne era stata fatta nulla poteva significare per quel sottufficiale che operava in quella lontana stazione dei carabinieri sul Gargano, se i connotati annunciati non fossero stati ulteriormente esplicitati da chi in quel momento aveva una perfetta conoscenza della struttura organizzativa ed operativa del “Sismi”.

Infine, se il nome di Pazienza fu rivelato, senza alcuna residua reticenza, nel settembre del 1983, quando ormai l’operazione fraudolenta era stata scoperta, ciò aveva una sua logica spiegazione:Belmonte, nel settembre del 1983 si era ripresentato a Sanapo prostrato e sfiduciato per essere stato da tutti abbandonato, e, prevedendo come imminente il suo arresto, chiedeva aiuto, conforto e assicurazioni: era, come ha evídenziato il giudice di rinvio, il momento in cui versava in condizioni psicologiche meno compatibili con una possibile enfatizzazione del proprio ruolo all’interno del “Sismi”.

Peraltro il ricorrente, pur avendo prospettato l’esistenza di possibili allusive invenzioni da parte di Belmonte che lasciassero intravedere atteggiamenti rivelatori di una possibile propensione ad assicurarsi la compiacente disponibilità del maresciallo Sanapo, non solo non ha tenuto conto di una circostanza, cioè che la indicazione del suo nome era stata fatta quando l’operazione del 13 gennaio 1981 si era ormai da tempo conclusa, ma neppure ha spiegato per quali motivi quella rivelazione tardiva avrebbe dovuto tranquillizzare il destinatario, una volta che questi non conosceva, per scienza diretta, né il ruolo che Pazienza rivestiva nel “Sismi”, né il rapporto fiduciario che era intercorso con il generale Santovito.

Né compete alla Corte, in questa sede, sostituire alle motivate conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di rinvio le ipotesi congetturali prospettate dal ricorrente; tali ipotesi, nel processo formativo del libero convincimento del giudice, non avevano diritto di cittadinanza, tanto più che erano disancorate da oggettivi presupposti, obiettivamente riconoscibili. Invece la sentenza impugnata, nell’esaminare la testimonianza di Sanapo, ha rilevato come i numerosi riferimenti a fatti e circostanze che le risultanze probatorie avevano confermato dimostravano come quel testimone quei fatti e quelle circostanze poteva avere appreso solo da chi ne era stato il protagonista, cioè da Belmonte e che la presenza di quest’ultimo e di Musumeci a Brindisi, pochi giorni prima che venisse collocata la valigia sul treno non escludeva, ma, semmai evocava la partecipazione di Pazienza all’intera operazione. Il ruolo di Pazienza nel “Sismi” si armonizzava, nella valutazione complessiva degli indizi acquisiti, con l’iniziativa assunta da Musumeci allorquando, proprio nel gennaio 1981 lo stesso ufficiale consegnava ai giudici che indagavano sulla strage di Bologna una relazione informativa secondo la quale quel delitto andava attribuito al gruppo “Hoffmann” e a Delle Chiaie, proprio così com’era stato confidato da Belmonte a Sanapo allorquando bisognava accreditare quella ipotesi attraverso il rinvenimento dell’esplosivo.

Ed i rapporti esistenti tra Musumeci e Pazienza, così come già evidenziati, confermavano quella conclusione, una volta stabilito che la collocazione della valigia sul treno aveva la finalità di sviare le indagini sulla strage di Bologna, cioè la stessa finalità che i giudici di merito avevano riconosciuto alle precedenti iniziative assunte direttamente da Pazienza.

E sul quadro complessivo di tali interventi lai presenza di Pazienza all’aeroporto di Ciampino, allorquando Musumeci consegnò al generale Notarnicola quella nota informativa estorta con inganno a Sanapo, arricchiva la valenza probatoria degli altri indizi, nel momento stesso in cui se ne coglieva il reale significato: era una presenza che, pur ostentata come un evento riferibile ad una occasionale e fortuita coincidenza, in concreto esprimeva una completa adesione ad una iniziativa che era parte integrante di un programma al quale Pazienza aveva dato il suo personale contributo di idee e di azione.

Tale conclusione non è smentita dalle dichiarazioni rese dal generale Notarnicola sulle modalità dell’incontro avvenuto a Ciampino, perché se vero è che fu Notarnicola ad indicare l’ora ed il luogo dell’incontro, è altrettanto certo che all’appuntamento convennero tutti coloro che erano interessati ad accreditare quella iniziativa, finalità che poteva essere conseguita a due condizioni: non insospettire il destinatario, e, nel contempo, assicurarlo sulla reale paternità della stessa, con la semplice loro presenza.

Infondato è anche il motivo di ricorso con il quale la difesa di Francesco Pazienza ha contestato la configurabilità del reato di calunnia, sotto il profilo della giuridica irrilevanza del comportamento a lui attribuito dall’accusa e recepito dall’impugnata sentenza.

Ha sostenuto il ricorrente che ai sensi dell’art. 9 della Legge 24 ottobre 1977 n. 801 sono soltanto i direttori dei servizi di sicurezza obbligati a fornire ai competenti organi di polizia giudiziaria le informazioni e gli elementi di prova relativi ai fatti configurabili come reato: pertanto, la relazione informativa consegnata da Musumeci al generale Notarnicola non obbligava quest’ultimo a trasmetterla all’autorità giudiziaria, perché il generale Notarnicola non era il direttore del servizio, ma soltanto il titolare della prima divisione dello stesso servizio di sicurezza.

Il rilievo, pur prospettando una corretta interpretazione del 3° comma dell’art. 9 della suddetta legge, norma che effettivamente rappresenta una deroga alle generali disposizioni che impongono l’obbligo di denuncia di un reato perseguibile d’ufficio a tutti i pubblici ufficiali che del reato siano venuti a conoscenza nell’esercizio o a causa delle loro funzioni, non può comunque giustificare l’invocata conclusione.

Infatti, una cosa è l’obbligo che incombe sui servizi di sicurezza, altra cosa, ben diversa, è l’obbligo che il 2° comma dell’art. 9 pone a tutti gli appartenenti ai servizi di sicurezza: quello cioè di fare rapporto, tramite i loro superiori, ai direttori dei servizi.

Il generale Notarnicola quindi, una volta ricevuta quella segnalazione che preannunciava la consumazione di gravi reati – la consegna di esplosivo da utilizzare per attentati sui treni – era per legge obbligato a riferirne il contenuto al direttore del servizio al quale apparteneva e, questi a sua volta, doveva informare l’autorità giudiziaria competente.

Non va peraltro dimenticato che il delitto di calunnia può essere commesso non solo nella forma diretta, cioè attraverso una denuncia presentata all’autorità giudiziaria, ma anche in forma indiretta, cioè attraverso una segnalazione del fatto-reato ad un’altra autorità che a quella giudiziaria ha l’obbligo di riferire. Il delitto, inoltre è configurabile, non solo quando si riferiscono fatti dei quali si assume aver avuto una diretta percezione, ma anche allorquando si rappresentano quei fatti come oggetto di altrui conoscenze, o addirittura, com’è avvenuto nel caso in esame, predisponendo maliziosamente quanto era stato sufficiente perché potesse profilarsi la necessità di avviare determinate indagini nei confronti di soggetti della cui innocenza si era così certi da dover ricorrere all’artificiosa creazione della prova della loro responsabilità.

 

Non sono neppure meritevoli di accoglimento i motivi di ricorso con i quali la difesa di Licio Gelli ha denunciato il difetto e la contraddittorietà di motivazione dell’impugnata sentenza in relazione alla valutazione degli indizi acquisiti a suo carico.

La Corte di Assise di Appello di Bologna, pur dopo aver ricordato a quali conclusione era pervenuta la commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica diretta da Licio Gelli, non ha esaurito la sua indagine nella ricezione passiva di quelle conclusioni, ma ha verificato, utilizzando altre risultanze probatorie, che nell’attuazione del programma diretto a realizzare il controllo ed il condizionamento della pubblica amministrazione e dei vertici militari, ancor prima del 1980 si era verificata una massiccia penetrazione di quell’organizzazione proprio nei servizi di sicurezza dello Stato: affiliati alla P2 erano entrambi i direttori generali del “Sismi” e del “Sisde”, e cioè sia il generale Santovito, che il generale Grassini, nonché il capo dell’Ufficio Controllo e Sicurezza del “Sismi”, cioè il generale Musumeci, ed il capo del centro “Sisde” di Roma, il dr. Elio Cioppa.

Inoltre la stessa Corte ha tenuto presente, sulla base di quanto emergeva dalle risultanze acquisite, che il “Sisde” subito dopo la strage di Bologna, non solo aveva offerto la sua collaborazione agli inquirenti per lo sviluppo delle indagini ma durante tutto il mese di agosto del 1980, utilizzando i risultati ai quali era pervenuto il colonnello Spiazzi sulla riorganizzazione dei gruppi della destra eversiva, nonché le informazioni attinte, in epoca successiva, dal dr. Elio Cioppa, al quale Giorgio Farina aveva confidato che Signorelli, Semerari, Fiore, Adinolfi e Calore volevano procurarsi dell’esplosivo da utilizzare per alcuni clamorosi attentati terroristici, aveva dato privilegiata importanza a queste fonti ai fini della ricerca dei mandanti e degli esecutori della strage del 2 agosto 1980.

Ed infatti, collegando le notizie attinte dalle due fonti, il “Sisde” aveva ravvisato l’opportunità, subito dopo quella strage, di invitare entrambi gli Uffici di Roma a completare le indagini nell’ambito di quell’area eversiva, esortandoli a raccogliere a tal riguardo ogni utile informazione.

Senonché, a distanza di oltre un mese da tale richiesta e precisamente in data 25 settembre 1980 il dr. Cioppa, quale capo del centro “Sisde” di Roma 2, informava la direzione centrale che i successivi accertamenti non avevano fornito elementi di conferma, né nuove circostanze utili a quello scopo, perché “tutte le fonti sensibilizzate avevano dato risposte negative”.

Orbene, essendosi accertato che il dr. Cioppa, prima di sottoscrivere quella relazione aveva sollecitato un incontro con Licio Gelli, incontro avvenuto nei primi giorni del settembre 1980, il giudice di rinvio, adeguandosi al criterio metodologico che questa Corte aveva indicato ai fini dell’analisi e della valutazione della prova indiziaria, ha doverosamente collegato il contenuto di quella relazione al colloquio che il funzionario affiliato alla P2 aveva avuto con il capo della stessa loggia massonica. È indubbio, infatti, che la risposta del dr. Cioppa azzerava la rilevanza delle notizie che erano state fornite dal colonnello Spiazzi e dal detenuto Farina, disperdendo ogni speranza di positivi sviluppi e si omogeneizzava con il contenuto del colloquio che Gelli aveva con lui avuto. Tale conclusione, lungi dall’essere presumibile nell’ambito di una semplice congettura, è conseguente ad un’esauriente analisi delle risultanze acquisite.

La richiesta di approfondimento di quelle informazioni era al dr. Cioppa pervenuta due mesi prima della risposta, e questa fu dal “Sisde” espressamente sollecitata; si era altresì accertato che il dr. Cioppa aveva chiesto di incontrarsi con Gelli subito dopo aver ricevuto quella prima richiesta dal “Sisde”, ma l’incontro a causa degli impegni di Gelli era stato differito alla fine dell’agosto del 1980; nel corso del colloquio Gelli non solo aveva manifestato il suo dissenso rispetto alle conclusioni alle quali era sino a quel momento pervenuto il “Sisde” in relazione alle indagini sulla strage di Bologna, ma aveva altresì prospettato che la pista proficua di possibili risultati positivi era quella del terrorismo internazionale: cioè proprio quella che era stata individuata dal “Sismi” ed accreditata dalle iniziative di Pazienza, Musumeci, Belmonte e Santovito. È, quindi, la ricostruzione cronologica degli eventi oltre al contenuto del colloquio Cioppa-Gelli a giustificare la conclusione che ne ha tratto il giudice di rinvio: il ritardo con il quale il dr. Cioppa rispose al “Sisde” era dovuto al ritardo con il quale quel funzionario poté ottenere il determinante contributo di Gelli, tant’è che la risposta fornita al “Sisde” altro non riproduceva che il pensiero e la volontà di Licio Gelli.

È doveroso altresì ricordare che il generale Grassini, avallando la risposta fornita dal dr. Cioppa, si premurerà di informare, circa un mese dopo, la Procura di Bologna che le informazioni più recenti pervenute al “Sisde” proponevano la “pista libanese” come quella più probabile ai fini della ricerca dei responsabili della strage di Bologna e tale ulteriore circostanza non poteva che armonizzarsi con la supposta adesione del vertice del “Sisde” alla tesi propugnata da Licio Gelli, posto che le indicazioni offerte segnavano un radicale cambiamento rispetto alle originarie prospettive.

Non è neppure apprezzabile una contraddittorietà di motivazione dell’impugnata sentenza sotto il profilo prospettato dal ricorrente: se vero è che Gelli poteva disporre direttamente del generale Grassini, che in quel momento era al comando del “Sisde” ed era affiliato alla P2, altrettanto incontestabile era che nessuna azione di depistaggio era concretamente attuabile senza disporre di un’affidabile giustificazione: e questa non poteva che essere offerta dal dr. Cioppa, per la semplice ragione che all’Ufficio da quel funzionario diretto era stato devoluto il compito di approfondire le investigazioni alle quali erano e avevano contribuito Spiazzi e Farina.

Secondo la sentenza impugnata, quindi, il dr. Cioppa non poteva non essere l’interprete del mutato comportamento del “Sisde”, avallato dal generale Grassini.

 

Le iniziative di deviazione delle indagini verso le piste internazionali, sia nell’ambito del “Sismi” che del “Sisde”, erano affidate a coloro che risulteranno affiliati alla P2, e poiché la ricostruzione di tali iniziative aveva consentito di accertare come esse si erano sviluppate secondo un piano prestabilito, al giudice di rinvio non restava altra possibilità se non quella di prenderne atto e trarne le dovute conseguenze.

Quanto poi all’indagine relativa alla ricerca delle possibili cause che avrebbero indotto Gelli ad assumere quella posizione, la sentenza impugnata non solo ha esaminato come quella iniziativa si inseriva nella strategia generale perseguita da quella loggia massonica, che era quella di condizionare gli interventi dei servizi di sicurezza per poter gestire il potere politico in Italia, ma ha anche verificato come il pericolo di un possibile cedimento psicologico da parte del criminologo Semerari, provato da una lunga carcerazione sofferta, rendeva attuale e concreto il pericolo del coinvolgimento di altre persone nell’ambito della stessa indagine: e che Semerari fosse sul punto di rivelare tutto ciò che sapeva sui gruppi della destra eversiva non era una suggestiva ipotesi, perché quella sua intenzione era stata già manifestata al personale di custodia ed ai suoi famigliari.

Quanto, infine, alla tematica dei rapporti tra Gelli e Pazienza, la sentenza impugnata ha dato atto che era la contestualità cronologica e l’identità contenutistica delle iniziative assunte da entrambi ciò che illuminava, più di ogni altra prova, il rapporto di solidarietà evocato dall’attuazione del medesimo programma.

Del resto, già il primo giudice aveva rivelato che Pazienza, nell’ambito del “Sismi” non avrebbe potuto assumere quel ruolo senza l’avallo della P2, una volta stabilito che era stato il generale Santovito, iscritto a quella loggia, ad accreditarlo come suo fiduciario: e tale conclusione è stata recepita nell’impugnata sentenza, dopo essersi accertato che Pazienza, benché non risultasse iscritto alla P2, secondo gli elenchi rinvenuti dalla Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi, ciò nonostante, per essere stato un “massone alla memoria”, era, per ciò solo, affiliato a quella loggia. Inoltre la Corte di Assise di Appello di Bologna oltre ad aver condiviso l’analisi compiuta dal primo giudice, ha anche osservato come l’adesione di Pazienza a quelle iniziative di depistaggio più che essere il risultato di motivate scelte ideologiche, era conseguente ad avvertite necessità egoistiche che consigliavano di sincronizzarsi con le volontà di chi in quel momento aveva il reale controllo dei servizi di sicurezza, giacché tale adesione voleva significare assicurarsi un ruolo rilevante nell’ambito del “Sismi”.

E siffatta motivazione utilitaristica si armonizzava, secondo la sentenza impugnata, con la stessa personalità di Pazienza, un mercenario al servizio di qualsiasi ideologia, e, quindi disponibile ad assecondare l’articolata strategia perseguita dalla loggia massonica diretta da Gelli.

Nel contesto di tale realtà la mancanza di qualsiasi prova sui rapporti intercorsi tra Gelli, Musumeci e Belmonte, non poteva assumere un rilevante significato, una volta che si era riconosciuto che Pazienza aveva avuto il compito di gestire, in concreto, i conclusivi sviluppi delle iniziative idonee alla realizzazione del concordato depistaggio, pur se non trascurabile era il fatto che anche il generale Musumeci risultava iscritto alla P2. L’omogeneità delle iniziative, la loro tempestività ed il loro stesso sviluppo progressivo rendeva superflua la stessa ricerca delle relazioni intersoggettive che le risultanze acquisite non consentivano di dimostrare.

Ne consegue che nell’ambito delle complessive valutazioni espresse dal giudice di rinvio sulla partecipazione di Gelli al reato di calunnia non sono apprezzabili salti logici, né dalla motivazione della sentenza risultano sottratte circostanze idonee, per la loro intrinseca valenza probatoria, a giustificare, in ipotesi, una diversa statuizione.

 

Non fondato è anche il primo dei due motivi di ricorso proprio nell’interesse di Pietro Musumeci.

L’imputato, nel contestare le conclusioni alle quali è pervenuta l’impugnata sentenza, ha rilevato che il giudice di rinvio doveva procedere ad una rinnovata analisi delle risultanze acquisite e non limitarsi alla materiale adesione alle valutazioni espresse dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza del 12 febbraio 1992.

Il ricorrente, nel formulare tale rilievo, non tiene conto del fatto che il suo ricorso, avverso la condanna per il reato di calunnia, condanna confermata in appello, era stato rigettato dalla Corte di Cassazione con la citata sentenza. Pertanto, al giudice di rinvio era precluso dal giudicato, ormai consolidatosi sull’accertamento del fatto e sulla sua riferibilità all’imputato, procedere ad una rivalutazione delle risultanze acquisite, se non ai fini della verifica sulla configurabilità possibile della circostanza aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15: ed in tali rigorosi limiti è stata contenuta l ‘indagine compiuta dal giudice di rinvio.

 

Alla stessa conclusione deve il Collegio pervenire in relazione al motivo di ricorso con il quale Giuseppe Belmonte ha denunciato l’errata applicazione dell’art. 81 c.p., sostenendo che poiché la statuizione contenuta nella sentenza di appello in relazione alla ritenuta continuazione tra il reato di calunnia, oggetto del presente procedimento, e quello di peculato, sul quale era intervenuto il giudicato, non era stata annullata dalla Corte di Cassazione, essa non poteva più formare oggetto di riesame da parte della Corte di Assise di Appello di Bologna, sicché il giudice di rinvio non solo non poteva individuare come reato più grave un reato diverso da quello di peculato, ma neppure poteva modificare la misura della pena.

Orbene, risulta innanzi tutto dalla sentenza impugnata che il giudice di rinvio non ha in alcun modo modificato la statuizione contenuta nella sentenza di appello in relazione alla ritenuta continuazione ed alla scelta del reato più grave: la continuazione non è stata revocata ed il reato più grave, ai fini della determinazione della pena-base è rimasto quello di peculato.

Senonché, il giudice di rinvio, una volta riconosciuta per il reato di calunnia l’aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15, esclusa in appello, lungi dal modificare la pena-base già stabilita, in maniera irrevocabile per il peculato dalla Corte di Assise di Appello di Roma, ha rideterminato l’aumento per la continuazione, rilevando come per uno dei reati satelliti, e cioè per la calunnia, il disvalore morale e sociale della condotta, connotata dalle gravi finalità perseguite, che concorrevano con i motivi di lucro, esigeva una più adeguata sanzione.

E tale statuizione, conseguente al corretto esercizio del potere discrezionale del giudice di merito, non è in questa sede sindacabile.

Neppure meritevoli di accoglimento sono i rilievi che tutti e quattro i ricorrenti e cioè Pazienza, Gelli, Musumeci e Belmonte, hanno formulato in relazione alla configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. l della Legge 6 febbraio 1980 n. 15.

I ricorrenti hanno sostenuto, sia pure con diverse argomentazioni, che la conclusione alla quale era pervenuto il giudice di rinvio oltre ad essere il risultato di un’errata applicazione di quella norma, era fondata su mere ipotesi, prive di qualsiasi adeguato riscontro probatorio. Secondo i ricorrenti si era in particolare omesso di considerare che ai fini della configurabilità di quell’aggravante occorreva, invece, la prova di un dolo specifico; prova che l’accusa non aveva fornito: anzi, si era accertato, attraverso una sentenza definitiva, che l’iniziativa assunta da Belmonte e Musumeci in relazione alla collocazione della valigia sul treno Taranto-Milano aveva avuto finalità diverse cioè quelle di trarre illeciti profitti o, al massimo, favorire alcune persone, finalità incompatibili con quelle che erano richieste per la sussistenza di quell’aggravante.

Osserva il Collegio che prima di esaminare gli analitici rilievi prospettati dai quattro imputati ricorrenti, è doveroso precisare che le Sezioni Unite di questa Corte nell’annullare, per difetto e contraddittorietà di motivazione, la sentenza emessa a conclusione del giudizio di appello che quell’ aggravante aveva escluso per Belmonte e Musumeci, benché avesse confermato la loro condanna per il reato di calunnia, avevano osservato che la configurabilità di quell’aggravante non era condizionata affatto dalla partecipazione degli autori del reato ad un’associazione terroristica od eversiva, essendo prospettabile una condotta con fini eversivi anche al di fuori dei legami di tipo associativo e che per verificare la concreta applicabilità di quella circostanza occorreva esaminare l’episodio del 13 gennaio 1981 nel contesto in cui era maturato, senza dissociarlo dalle precedenti iniziative assunte nella stessa direzione dagli imputati.

Orbene, il giudice di rinvio ad entrambi tali principi si è attenuto, e con rigore logico ha indicato le ragioni poste a fondamento della sua decisione.

Infatti, dalle risultanze acquisite era emerso che il mitra rinvenuto nella valigia che era stata collocata il 13.1.1981 sul treno Taranto-Milano apparteneva alla cosiddetta “banda della Magliana”, una vasta associazione per delinquere, operante a Roma in quegli anni: Maurizio Abbatino, che di quell’associazione aveva fatto parte, aveva rivelato che negli scantinati del Ministero della Sanità l’organizzazione diponeva di un cospicuo deposito di armi e che alcune di esse erano state temporaneamente cedute a Paolo Aleandri, ma non erano state più restituite. Per costringere Aleandri a rispettate l’impegno assunto era stato sequestrato, ma poi era stato liberato, con la mediazione di Massimo Carminati quando all’associazione, in sostituzione delle armi date in prestito ad Aleandri, erano state date due bombe a mano e due mitra ed uno di questi mitra era stato prelevato da Carminati e mai più restituito. Abbatino, dopo aver descritto le peculiari caratteristiche del mitra finito nelle mani di Carminati, caratteristiche conseguenti ad un’artigianale modifica del calcio, riconosceva quell’arma nel M.A.B. che era stato trovato a Bologna la notte del 13 gennaio 1981, in quella valigia. Infine lo stesso Abbatino aveva precisato che Carminati faceva parte di un gruppo di giovani che gravitava nell’area della destra eversiva, gruppo del quale facevano parte i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini.

La Corte di Assise di Appello di Bologna riteneva attendibili le dichiarazioni rese da Abbatino, perché numerosi erano stati i riscontri acquisiti:

a) Paolo Aleandri aveva confermato il subito sequestro e le ragioni che lo avevano determinato;

b) negli scantinati del Ministero della Sanità il 25 novembre 1981 era stato trovato quel deposito di armi al quale Abbatino, aveva fatto riferimento;

c) sui rapporti che univano Massimo Carminati ai fratelli Fioravanti ed alla Mambro, non solo etano state acquisite conferme da parte di un altro associato alla stessa banda, tale Claudio Sicilia, ma era intervenuta l’esplicita ammissione di Cristiano Fioravanti, il quale aveva precisato che Carminati aveva militato nelle fila del gruppo neo-fascista “Eur-Marconi”, tant’è che insieme avevano partecipato il 27 novembre 1979 ad una rapina;

d) un revolver “Smith-Wesson” cal.38, sottratto da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro dall’armeria Fabrini, nel corso della rapina alla quale entrambi gli imputati avevano partecipato il 5 agosto 1980, a Roma, in Piazza Menenio Agrippa, era stato rinvenuto nel deposito di armi di cui la banda disponeva, negli scantinati del Ministero della Sanità;

e) infine, anche Valerio Fioravanti aveva ammesso di essere stato ospitato, assieme al fratello, dalla “banda della Magliana” in uno degli appartamenti di cui questa disponeva a Roma, in Via degli Artificieri.

Una volta riconosciuta, sulla base di tale complesso ed articolato quadro probatorio, piena attendibilità alle dichiarazioni di Abbatino,, al giudice di rinvio è stato agevole rilevare che quel MAB. rinvenuto in quella valigia proveniva dalla “banda della Magliana”, e questa, attraverso Carminati, collaborava con alcuni appartenenti ai N.A.R., come Fioravanti, Mambro e Cavallini: il percorso del mitra rappresentava la prova del rapporto di collaborazione tra i soggetti coinvolti nel processo.

Inoltre, la sentenza impugnata, nel ricostruire l’episodio del 13 gennaio 1981, ha evidenziato come questo rappresentasse una concreta attuazione di quanto era stato annunciato nella informativa consegnata da Musumeci al generale Notarinicola: si voleva, infatti, dimostrare che chi aveva compiuto la strage di Bologna aveva la possibilità concreta di compiere altri attentati su impianti o convogli ferroviari, tant’è che disponeva dello stesso, micidiale esplosivo, già collaudato e con positivi risultati, a Bologna, la mattina del 2 agosto 1980. Era, quindi la stessa oggettiva ricostruzione del fatto, per le sue singolari modalità, ad csprimere la finalità terroristica della condotta realizzata dagli imputati ricorrenti.

Né può affermarsi, come pure hanno sostenuto i ricorrenti, che tale conclusione si porrebbe in contrasto con le premesse dalle quali era stata tratta, perché essa, invece, è ineccepibile sul piano della coerenza logica, una volta accertato, e nelle sue reali dimensioni, in quale rapporto si ponevano con la strategia del terrore le reiterate iniziative alle quali si era fatto ricorso per depistare le indagini sulla strage di Bologna: dalle critiche agli indirizzi investigativi che erano stati originariamente, e con successo, proposti dal “Sisde”, si era passati a proporre piste alternative suggerite, con appropriati accorgimenti, ad organi di stampa e ad uffici preposti a vario titolo, alle attività investigative, per poi concludersi in quella insidiosa dimensione, cioè prospettando la possibile reiterazione di analoghi eventi, attraverso la subdola preordinazione della prova reale di una iniziativa terroristica che aveva anche la potenziale capacità di spostare l’attenzione degli inquirenti verso piste destinate ad assicurare ai colpevoli della strage la loro impunità. E tale finalità favoreggiatrice dei colpevoli lungi dal porsi in antitesi allo scopo terroristico che connotava quella condotta, quest’ultimo esaltava, giacché favorira chi la strategia terroristica aveva già con successo attuato non poteva altro scopo avere se non quello di consentire l’ulteriore realizzazione di analoghe imprese, così temerariamente preannunciate.

Ed una volta accertato che l’episodio del 13 gennaio 1981 altro non era che la manifestazione più saliente di un unico, precostituito programma delittuoso, alla cui realizzazione, con diversi ma omogenei contributi, avevano partecipato tutti e quattro gli imputati ricorrenti, quella circostanza aggravante non poteva non essere riconosciuta sussistente in relazione alla condotta degli stessi imputati: l’attribuzione di una unitaria, articolata e solidale condotta calunniatrice, animata da una costante ed omogenea volontà, culminata con la drammatica rappresentazione della persistente attualità della strategia del terrore, non giustificava una diversa decisione, neppure nei confronti di Licio Gelli e Francesco Pazienza, non foss’altro perché la collocazione di quella valigia su quel treno altro non era, come già si è detto, se non l’ultimo degli atti esecutivi di un unico programma delittuoso.

Infine, la sentenza impugnata si è rigorosamente attenuta ai principi di diritto indicati da questa Corte, a Sezioni Unite, nella decisione del 12 febbraio 1992 sia per quanto concerne il carattere soggettivo dell’aggravante prevista dall’art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15, che per quanto riguarda la possibilità di una sua configurazione in relazione a reati diversi da quelli di tipo associativo.

Non può fondatamente contestarsi che quella circostanza aggravante, lungi dall’identificarsi con le finalità primarie ed essenziali dei reati cui inserisce, può qualificare qualsiasi condotta illecita, se il fine perseguito dall’agente è quello di porre in essere atti idonei a destare panico nella popolazione.

Quella circostanza aggravante, come ha riconosciuto nei motivi di ricorso sia la difesa di Pazienza che quella di Gelli, si ricollega ad una particolare connotazione del dolo, e, quindi, non può dissociarsi dalla specifica finalità perseguita dall’autore del reato, anche quando questo, nella sua struttura fisiologica, non esprime il pericolo dell’eversione dell’ordine democratico, né un’ontologica e naturale propensione a suscitare terrore tra le persone.

Non esiste, quindi, alcuna strutturale incompatibilità tra quell’aggravante ed il contestato reato di calunnia.

Inoltre la sentenza impugnata ha esattamente rilevato che nella decisione assunta nei confronti di Musumeci e Belmonte dalla Corte di Assise di Appello di Roma il 14 marzo 1986 nessuna statuizione preclusiva dell’applicabilità concreta di questa circostanza aggravante era contenuta: infatti, nella motivazione di quella sentenza si dava atto, espressamente, che il fine di lucro realizzato dai due imputati attraverso la consumazione del reato di peculato non escludeva concorrenti finalità; e queste, se esistenti, andavano accertate nella sede competente, e cioè nel presente processo, dove le responsabilità di coloro che la strage avevano deciso ed attuato si sovrapponevano con quelle di quanti avevano realizzato, in epoca successiva, una complessa strategia di depistaggio non dissociabile, nella sua concreta esecuzione, dalla volontà di suscitare terrore e così creare i presupposti per l’eversione dell’ordine democratico. E siffatto accertamento è stato compiuto dalla Corte di Assise di Appello di Bologna, attraverso una corretta utilizzazione delle risultanze probatorie acquisite, e le conclusioni alle quali è pervenuta, per la loro intrinseca logicità, si sottraggono a tutti i rilievi dedotti dagli imputati ricorrenti.

Conclusioni

Alla reiezione dei ricorsi di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Licio Gelli Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte, Pietro Musumeci, Gilberto Cavallini, e Egidio Giuliani, ed all’inammissibilità del ricorso proposto da Massimiliano Fachini consegue la condanna di tutti i suddetti imputati ricorrenti, in solido, alle spese del procedimento, e di ciascuno, al versamento della somma di lire cinquecentomila in favore della Cassa delle ammende.

Inoltre, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro debbono essere altresì condannati, in solido, al rimborso delle spese nei confronti delle costituite parti civili, intervenute nel presente giudizio, e così liquidate:

  • per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e per il Ministero dell’Interno, rappresentati entrambi dall’Avvocatura dello Stato, in complessive lire nove milioni, di cui otto milioni per onorario;
  • per il Comune e la Provincia di Bologna, in lire sei milioni per ciascuno, di cui lire cinque milioni per onorario, ed in analoga misura per la società “Ferrovie dello Stato”;
  • per Bolognesi Paolo in complessive lire tre milioni, di cui due milioni a titolo di onorario;
  • per Secci Torquato e Piccolini Lidia in lire due milioni per ciascuno, a solo titolo di onorario, non essendo stato da entrambi richiesto alcun rimborso di spese.

 

P.Q.M.

 

La Corte, a Sezioni Unite, annulla l’impugnata sentenza nei confronti di Picciafuoco Sergio e rinvia per nuovo esame alla Corte di Assise di Appello di Firenze. Dichiara inammissibile il ricorso diFachini Massimiliano.

Rigetta i ricorsi del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bologna e delle parti civili – Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell’Interno, S.p.A. Ferrovie dello Stato e Comune di Bologna – nei confronti di Fachini Massimiliano e Rinani Roberto.

Rigetta i ricorsi di Fioravanti Giuseppe Valerio, Mambro Francesca, Cavallini Gilberto, Giuliani Egidio, Belmonte Giuseppe, Musumeci Pietro, Gelli Licio e Pazienza Francesco.

Condanna Fachini, Fioravanti, Mambro, Cavallini, Giuliani Belmonte, Musumeci, Gelli e Pazienza, in solido, alle spese del procedimento e, ciascuno, al versamento della somma di lire cinquecentomila in favore della Cassa delle ammende.

Condanna altresì Fioravanti Giuseppe Valerio e Mambro Francesca, in solido, al rimborso delle spese verso le costituite parti civili, che liquida, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Interno, in complessive lire nove milioni, di cui otto milioni per onorario;

per il Comune e la Provincia di Bologna, in complessive lire sei milioni per ciascuno, di cui lire cinque milioni per onorario;

per la S.p.A. Ferrovie dello Stato, in complessive lire sei milioni, di cui lire cinque milioni per onorario;

per Bolognesi Paolo in complessive lire tre milioni, di cui lire un milione a titolo di rimborso spese;

per Secci Torquato e Piccolini Lidia in lire due milioni per ciascuno, a solo titolo di onorario.

 

Roma, lì 23.11.1995

 

IL CONSIGLIERE ESTENSORE
(dr. Nicola Marvulli)

 

IL PRESIDENTE
(dr. Aldo Vessia)

 

Depositato in Cancelleria
il 23 febbraio 1996.

IL CANCELLIERE
dott.ssa Valeria Minniti