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Vittorio Mangano

Intanto vediamo di farcela.

Schermata 2015-01-10 alle 15.27.43Siamo all’ultimo mese del cammino lunghissimo di preparazione dello spettacolo e libro L’AMICO DEGLI EROI. In questi giorni alcune associazioni ci hanno fatto sapere di essere in fase di raccolta per stabilire la propria cifra di partecipazione alla produzione sociale (il nostro #crowdfunding è qui) e ovviamente li ringraziamo fin da subito. Lo spettacolo armai sta assumendo forme quasi definitive e devo dire di esserne soddisfatto. Qualcuno mi dice che in giro ormai la vicenda di Dell’Utri sia considerata “vecchia”, “passata” e “poco interessante” ma faccio questo lavoro da abbastanza tempo per sapere che inoculare disinteresse ed indifferenza è il modo migliore per non essere costretti a pagare anche lo scotto “politico” e “sociale” di una vicenda. L’ho detto moltissime volte e l’ho anche scritto: credo che il teatro abbia il dovere di tenere la guardia alta lì dove è facile lasciarsi andare. Non cavalchiamo onde ma con molta umiltà cerchiamo di provocarne, piuttosto. Siamo fatti così. A giorni dovremo anche essere in grado di avere le prime bozze del libro. Lavoriamo, quindi. E possiamo crederci solo perché voi ci state credendo con noi. Per questo vi chiediamo, se potete e se volete, di aiutarci in queste ultime settimane dando visibilità alla nostra raccolta fondi. Le informazioni le trovate nella pagina di produzionidalbasso e sul blog.

Intanto buon venerdì.

Cantiere in corso: “L’amico degli eroi”

Artwork_A3_L'amico_degli_Eroi_CMYKlightIl progetto di spettacolo (e libro) L’amico degli eroi sta prendendo corpo e in questi giorni trova la sua (quasi) forma finale: oltre alla parte prettamente teatrale (quella di narrazione pura di cui ho parlato anche con gli amici de L’Ora Quotidiano qui) stiamo concludendo il montaggio degli spezzoni video che saranno le fondamenta della parte “documentale”. Non che ci sia molto da aggiungere agli atti processuali (che credo, ancora una volta, avrebbero procurato un terremoto politico in un Paese normale con un muscolo della curiosità non atrofizzato) ma quello che mi interessa, che ci in teressa è cogliere in Marcello Dell’Utri (e Vittorio Mangano e ovviamente il loro padrone) una formula di servilismo che non dista troppo dall’Arlecchino servitore di due padroni di goldoniana memoria: anche il fine di Marcello è quello di mangiare a sazietà.

Dopo l’anteprima stiamo anche cominciando a preparare la distribuzione dello spettacolo che, come tutti i nostri lavori ultimi, seguirà poco i canoni ufficiali del malandato teatro canonicamente inteso quanto piuttosto le molte associazioni di cittadini che ritengono la memoria un esercizio quotidiano fondamentale per l’ecologia democratica. Mi sorprende tra l’altro (anzi no, non mi sorprende per niente) che nessuno dei miei “colleghi” teatranti o comunque generalmente “operatori culturali” sottolinei la distribuzione sociale come il vero grande ritorno di questi anni di crisi della cultura: come già ci insegnò il maestro Dario Fo esiste un teatro che per argomenti e modi può continuare a vivere senza bisogno di istituzionalizzarsi e questa non può che essere una buona notizia (a proposito: tutti zitti sulla distribuzione sociale anche del film di Sabina “La trattativa”, che non si sappia che il pubblico desidera un film di più di quanto lo dovrebbe desiderare la “grande distribuzione”).

Stiamo cercando di parlare e far parlare anche del crowdfunding (io continuo a preferire “produzione sociale”) che ci permette di completare la produzione dello spettacolo e la stampa e distribuzione dei libri. Se ci credete anche voi aiutateci a spargere la voce. Le donazioni si raccolgono qui.

Buona lavoro. A noi e a voi.

è la buona cultura che forse può essere madre di una buona politica

La mia intervista per L’ORA QUOTIDIANO:

Schermata 2015-01-02 alle 16.56.35La storia di Marcello Dell’Utri, raccontata direttamente dall’ex senatore, in un monologo a metà tra la cronaca giudiziaria e la letteratura. S’intitola L’Amico degli Eroied è l’ultimo lavoro di Giulio Cavalli, il regista teatrale milanese già autore di un libro e di uno spettacolo su Giulio Andreotti (L’innocenza di Giulio, Chiarelettere, 2012). “Andreotti – spiega Cavalli – ha creato la politica come padrona della mafia. Dell’Utri invece ha inventato la mafia che si fa politica”.

In pratica è questa la differenza tra prima e seconda Repubblica?
Si. Anche la differenza tra la gestione del processo Andreotti e quello Dell’Utri cambia in questo senso.

Ovvero?
Con Andreotti i giornali tendevano a smentire la sentenza, con Dell’Utri invece l’obbiettivo era addebitare tutte le condotte soltanto all’ex senatore. E’ a questo che serve il mio  spettacolo: a ricordare che oggi il governo è sostenuto anche da quel partito creato proprio da Dell’Utri, l’uomo che fa da tramite tra Berlusconi e Cosa Nostra. Ed è proprio così che finisce in un certo senso lo spettacolo.

Come?
Con Dell’Utri che il giorno prima della fuga in Libano incontra Berlusconi in un ristorante. L’ex premier dice, rivolto ai giornali: “Volevate il politico mafioso, prendetevi Marcello ma adesso basta”. E Dell’Utri ribatte: “la mia fedeltà ti è ancora più utile adesso che finisco in galera”. E’ il concetto del servitore del potere, dell’uomo che cerca un padrone su cui puntare e che fa del servilismo la sua icona. L’incipit dello spettacolo racconta proprio gli albori del servo Dell’Utri.

Che sarebbero quali?
C’è questa scena in cui un giovane Dell’Utri si mette per la prima volta la cravatta e vede la città di Palermo divisa in due: da una parte persone da abbattere, dall’altra tanti pioli, gente a cui aggrapparsi per salire i gradini sociali. Se ci pensiamo, presi singolarmente personaggi come Dell’Utri, Mangano e Berlusconi sono anche comici in un certo senso. Uniti insieme, a Milano, diventano la miscela perfetta della politica per legittima difesa.Che arriva a creare il prototipo di Berlusconi che diventa addirittura premier per legittima difesa.

Hai avuto problemi nella produzione di questo spettacolo?
Si, c’era un strano tizio che si era impegnato a produrlo, firmando anche un contratto. Ma poi è svanito: ovviamente l’ho denunciato, vedremo le indagini a cosa porteranno. Di certo però ci ha causato un rallentamento, dovevamo essere pronti per ottobre, e invece credo che una data ipotetica per il debutto possa essere marzo. Certo adesso mi serve il sostegno del pubblico: per questo motivo ho lanciato una campagna di produzione sociale.

Una sorta di crowdfunding.
Si, l’ho chiamata così perché non mi piacciono gli inglesismi. Semplicemente credo che per essere liberi dobbiamo lavorare soltanto con il sostegno del pubblico. Per questo chiedo un sostegno a chiunque pensi che la storia di Dell’Utri non sia da derubricare semplicemente a uno dei tanti berlusconismi, insieme alle prostitute e al resto, ma sia da ricordare come atto fondamentale di questa seconda repubblica. Penso che il cosiddetto teatro civile serva a questo. Anche se la parola teatro civile non significa nulla: come dire che esiste un teatro incivile.

Mi ricorda la famosa frase scritta sul teatro Massimo a Palermo: vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire. Credi ancora che la cultura possa avere un valore sociale così importante oggi?
Assolutamente si. Io ho fatto il consigliere regionale in Lombardia, durante l’ultimo mandato di Formigoni. Erano anni in cui ero l’unico ad arrivare in Regione scortato dai carabinieri, mentre gli altri venivano portati via in manette dalle forza dell’ordine. Nonostante quell’esperienza penso di poter fare di più con i miei spettacoli.

Non pensi che anche a livello culturale questo paese sia ormai ridotto in macerie?
Certo. Questo perché si continua a pensare che, come vent’anni fa, ci vuole una buona politica che faccia da matrigna ad una buona cultura. Il rapporto si è invertito da anni: è la buona cultura che forse può essere madre di una buona politica. D’altra parte in questi anni la cultura è arrivata prima della magistratura su molte cose.

Hai parlato della prima e della seconda Repubblica: e la terza invece? Che cos’è cambiato oggi?
Fino a pochi giorni fa pensavo che fossero cambiati gli interpreti mantenendo identiche le modalità. Dopo Mafia Capitale credo che non siano cambiati nemmeno gli interpreti: viviamo di un ritorno dell’attività criminale.

Nessuna differenza col recente passato quindi?
Assolutamente no. La terza Repubblica non riesce neanche a nominare Nino Di Matteo nei discorsi di fine anno delle alte cariche. E’ una Repubblica identica a quella di Andreotti. E’ una Repubblica in cui il non detto vale sempre di più rispetto al resto.

Clicca qui per leggere un’estratto dello spettacolo

Puoi contribuire alla produzione dello spettacolo cliccando qui 

Il nostro progetto #lamicodeglieroi è in bilico: ecco perché.

Berlu-cappellone-800-800x540-680x365Come vi avevo scritto qui (prendendolo un po’ alla larga) oggi si può ufficialmente dire che il presunto “benefattore” che aveva deciso di sottoscrivere un contratto di coproduzione con noi di 7500 euro per il nostro spettacolo (e libro) L’amico degli eroi è ufficialmente non rintracciabile (sono in qualche link sparso per la rete tipo questo). Per i molti che ci chiedono come abbiamo potuto fidarci ripetiamo che in realtà è stato sottoscritto un regolare contratto di partecipazione alla produzione.

Ora però lo spettacolo è in preparazione, ovviamente, nonostante la nostra impossibilità di regolarizzare tutti i pagamenti.

Qualcuno mi chiede anche se il “danno” sia causato “premeditatamente” o no: questo lo lasciamo decidere a chi di dovere.

Di certo continuo a credere che una produzione sociale per il nostro spettacolo sia la formula che meglio rispecchia il nostro modo d’intendere il “fare teatro”.

Come scrivevo già qualche mese fa:

Certo poi alla fine le storie che racconti le paghi e non le cicatrizzi come dovresti, ne soffri le conseguenze e ne acquisisci i benefici, succede così a tutti, in ogni lavoro possibile ma in questi quindici anni alla fine ho imparato che nonostante gli sforzi (più o meno riusciti) di tenere libere le parole ogni libro ed ogni spettacolo sono il risultato del percorso di condivisione. Niente di troppo filosofico, eh: ragionarci insieme, litigarsi una scena o un capitolo, aspettare un cenno di approvazione o banalmente applaudire.  Poi pubblicare o andare in scena sono semplicemente la fase ultima, l’emersione di uno spigolo di tutto il resto.
Fare cultura in questo tempo è un lavoro terribilmente politico, inutile fingere, soprattutto se raccontando storie si decide di dichiarare la propria posizione. Fa politica ciò che dici, come lo scrivi, il pubblico a cui decidi di rivolgerti,  la storia che scegli e l’editore e il produttore.

Per questo ci siamo rimboccati le maniche e siamo partiti. Se volete aiutarci potete farlo qui, oppure condividendo, scrivendone, parlandone.

Storia di un ragazzo che emigrò da Palermo a Milano. E che protesse, a modo suo, un giovane signore.

Un vecchio articolo (dovrebbe essere del 2008)  che vale la pena non perdere:

Storia di un ragazzo che emigrò da Palermo a Milano. E che protesse, a modo suo, un giovane signore
di ENRICO DEAGLIO

Vittorio Mangano è morto giovane, neanche 60 anni. Ed è morto male. Carcerato da cinque anni, giallo come un limone per un tumore che gli aveva invaso il fegato, aveva 18 litri di acqua nella pancia l’ultima volta che gliela siringarono. All’inizio di luglio dell’anno scorso, viene trasportato dalla sezione di massima sicurezza di Secondigliano a casa, in via Petralia Sottana, Palermo. I funerali hanno seguito un costume in voga tanto a Palermo quanto nel New Jersey quando il defunto è accomunato a Cosa nostra. “Via i fotografi, rispettate il nostro dolore”, intima la famiglia. “Fotografate tutti, con discrezione”, dà ordine il magistrato. Poche persone, abitanti del quartiere, sono intervenute per l’ultimo saluto nella Chiesa di San Gabriele, quartiere Villa Tasca, i luoghi in cui Mangano aveva abitato e in cui, per diversi anni, aveva esercitato il “controllo”.Era il 23 luglio del 2000 e i giornali non diedero tanto spazio alla sua morte. D’accordo, era un boss ed era stato lo “stalliere” di Arcore. Ma non era un super boss, ed era sempre stato un tipo discreto.Non tutti i giornali, a dire il vero. La stampa controllata dal gruppo Berlusconi dedicò a Vittorio Mangano articoli commossi: era morto un martire, torturato dallo Stato con la carcerazione dura, era morto un uomo che aveva rifiutato di “barattare la dignità con la libertà”. Il Giornale, il Foglio, Panorama – tutti ispirati dalla penna del giornalista Lino Jannuzzi – erano concordi: Vittorio Mangano aveva affrontato il carcere con la potente serenità di un eroe risorgimentale. Che cosa chiedevano i suoi torturatori? Che denunciasse, ai magistrati comunisti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Se l’avesse fatto, sarebbe stato libero e avrebbe potuto curarsi, ma lui non lo fece. Un eroe popolare, come il partigiano musicato nel “Ma mi, ma mi, ma mi quaranta dì, quaranta nott” da Giorgio Strehler. Gli stessi giornali del gruppo Berlusconi facevano notare che, nonostante condanne all’ergastolo per tre omicidi, traffico di stupefacenti, associazione mafiosa, estorsione, Vittorio Mangano non era un condannato definitivo, e quindi, un “presunto innocente”. Mi sono chiesto perché non lo avessero detto prima, ma forse l’avevano detto e mi era sfuggito. Ma, ragionando, mi sembra che la task force berlusconiana abbia avuto ragione nel tributare onori all’uomo d’onore. Vittorio Mangano, se (sotto tortura o sotto promessa) avesse parlato, sarebbe stato in grado di mettere nei guai tanta gente importante. Ma ora la storia era finita. E, come dicono a Palermo, “quando uno muore bisogna pensare ai vivi”. Mi auguro che abbiano pensato alla famiglia Mangano. Tutta questa vicenda è diventata ora, in campagna elettorale, argomento scottante, da quando la Rai ha trasmesso una dimenticata intervista al magistrato di Palermo Paolo Borsellino. L’aveva registrata il giornalista francese Fabrizio Calvi, nell’ambito di un’inchiesta sui “padrini” europei. Era il 1992, Paolo Borsellino appariva rilassato e non aveva difficoltà a parlare diffusamente della mafia, della sua ascesa a Milano, di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, i primi due all’epoca personaggi sconosciuti al grande pubblico, il terzo invece noto per essere il magnate delle televisioni private. Disse che erano persone che gli erano note dalle segnalazioni di polizia, e su cui era in corso un’indagine a Palermo. Parlava tranquillamente, il magistrato; senza pompa, vestito con una maglietta, raccontava di traffici di droga e della strategia imprenditoriale della mafia siciliana. Non immaginava che due giorni dopo il suo amico Giovanni Falcone sarebbe saltato in aria; che lui ne avrebbe raccolto l’eredità, e che lui stesso sarebbe saltato in aria 50 giorni dopo. E non sapeva neppure, il giudice Paolo Borsellino, che un caro amico di Vittorio Mangano, l’imprenditore Salvatore Sbeglia, stava proprio in quelle ore mettendo a punto il telecomando con il quale sarebbe stato fatto saltare Giovanni Falcone.Nel 1992 Vittorio Mangano, aveva assunto la reggenza della famiglia mafiosa di Porta Nuova – una delle più numerose ed estese di Palermo – e lavorava a pieno ritmo. Un cinquantenne ben vestito e dai modi urbani; non aveva pendenze giudiziarie, poteva circolare liberamente e quindi gli venivano dati anche incarichi di rappresentanza, come il far giungere, attraverso un avvocato di Roma, 200 milioni al giudice Corrado Carnevale. Il suo periodo milanese, i suoi due anni trascorsi a casa di Silvio Berlusconi, gli avevano dato inoltre un certo carisma: Vittorio Mangano era un uomo che aveva conosciuto tante persone importanti. Strana storia. Per cercare di capirla, bisogna tornare indietro nel tempo, alla Milano degli anni Settanta. Anni difficili, per gli imprenditori. Non solo per le vaste agitazioni sociali e la prospettiva di un aumento elettorale del Partito comunista, ma anche per la diffusa violenza che dominava la metropoli. Le Brigate rosse sparavano, l’Anonima sequestri rapiva, la P 2 occupava il Corriere della Sera, la mafia aveva nelle sue mani i più importanti banchieri, Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano e Michele Sindona, il “salvatore della lira”. Cosa nostra era salita da Palermo a Milano in forze, perché a Milano si potevano fare buoni affari. Loro mettevano i loro metodi spicci di gestione, ma soprattutto portavano in dono due merci molto appetibili: il capitale e la protezione. A quei tempi, infatti, Cosa nostra era ricchissima e “liquida”, per il più redditizio commercio che l’Italia abbia mai avuto: acquisto di droga dall’est, raffinazione in Sicilia e spedizione negli Stati Uniti e in Canada. I siciliani avevano praticamente il monopolio del mercato nordamericano e spuntavano profitti da capogiro. I soldi dai cugini americani arrivavano nella forma più classica: assegni, con cifre che andavano da un milione di dollari in su. Non c’erano controlli bancari all’epoca, né la Banca d’Italia trovava curioso che signori che a malapena sapevano fare la propria firma sulla girata incassassero, senza muovere un muscolo della faccia, miliardi. Miliardi che ora avevano voglia di far fruttare. Scelsero Milano, la metropoli più aperta, pragmatica, la città che non respinge nessuno. E non era solo una questione di riciclaggio di denaro: i ragazzi di Cosa Nostra volevano riciclare se stessi. Volevano le belle macchine, volevano entrare in società, volevano essere dei borghesi come tutti gli altri. Era una grande colonia, quella della mafia siciliana a Milano, roba da farci un film, all’americana. La famiglia Grado controllava l’ortomercato e forniva l’eroina per il nascente mercato dei tossicodipendenti. Luciano Liggio organizzava i sequestri di persona dietro la rispettabile veste di commerciante di vino. Tommaso Buscetta si occupava di bische in accordo-scontro con la vecchia mala della città (e ancora oggi si parla di quando Pippo Bono perse un miliardo da Francis Turatello, nella bisca di via Panizza). I fratelli Bono (Alfredo, con una faccia da democristiano per bene, Pippo che girava in Rolls Royce) accumulavano buone amicizie con la finanza milanese e prendevano il controllo dei casinò del conte Borletti. Poi c’erano i Mongiovì, braccio locale della multinazionale della droga Cuntrera-Caruana. I cugini Salvo, i grandi esattori di Salemi, venivano discretamente ad ordinare le prime due Alfa Romeo blindate direttamente dal presidente dell’Alfa Antonio Massacesi. Ma il più appariscente della compagnia era un certo Filippo Alberto Rapisarda che, venuto dal niente della profonda Sicilia, aveva costruito quello che lui chiamava il terzo gruppo immobiliare italiano. Un tipo sanguigno, ben vestito, capace di improvvisi e violentissimi scoppi d’ira, Rapisarda aveva il suo quartier generale in via Chiaravalle, in uno splendido palazzo dagli ampi saloni e dai soffitti affrescati. Lo aveva dotato di telecamere e lo faceva controllare da un buon gruppo di guardaspalle. In via Chiaravalle, Rapisarda concludeva operazioni di borsa, acquisiva storiche aziende del Nord Italia, ma il luogo era anche un indirizzo conosciuto per gente che aveva problemi con la giustizia e che veniva a chiedere se c’era qualche buon affare cui partecipare. Se la sede fisica di Cosa Nostra a Palermo non è stata mai trovata, quella della sua filiale milanese era ben nota alla polizia. (A questo punto, per non dilungarci troppo in nomi e sigle, rimando ad un ottimo lavoro di due giornalisti, Peter Gomez e Leo Sisti che nel 1997 hanno pubblicato, dall’editore Kaos il libro L’intoccabile, Berlusconi e Cosa Nostra. Dove scoprirete, spesso sobbalzando, quante inchieste, quanti chilometri di intercettazioni, quante segnalazioni di reati fossero in atto allora sui nostri potenti di oggi). Ma che c’entrava Silvio Berlusconi – un giovane imprenditore che più milanese non si può – con questo mondo? C’entrava attraverso il suo “segretario particolare” Marcello Dell’Utri, che invece in quel mondo era molto inserito. E così successe che il giovane Berlusconi venne pesantemente minacciato, perché questo era il sistema dei siciliani. Misero una bomba ai suoi uffici, minacciarono di rapirgli il figlio. Una volta, a Palermo queste cose le chiamavano “fucilate di chiaccheria”. Ovvero: tu spari a uno, ma non per colpirlo, solo per fargli sentire il colpo che passa vicino. Lui si spaventa e allora si comincia a “chiacchierare”. Cioè, si diventa soci. In buona sostanza, Dell’Utri si fece garante della sicurezza di Berlusconi e, per rendere la cosa ufficiale, gli mise vicino un “tutore”. Era un ragazzo di Palermo, che lui aveva conosciuto sui campi di calcio. E così Vittorio Mangano prese possesso della villa di Arcore, una prestigiosa magione di 147 stanze che Silvio Berlusconi aveva appena comprato e aveva pagato poco, grazie alle arti del suo avvocato Cesare Previti. Vittorio Mangano, per prendersi cura del padrone, lo seguiva in molte delle sua attività: controllava la villa, curava i cavalli, mangiava a tavola con gli ospiti illustri del giovane imprenditore, si occupava della sicurezza dei figli Marina e Piersilvio. Nella grande villa aveva portato la sua famiglia e ospitava spesso molti suoi amici. Alcune volte questi amici rubavano un quadro, o un pezzo di argenteria. Spesso erano il fiore fiore dei latitanti di Cosa nostra, che ad Arcore evidentemente sapevano di avere un punto di appoggio. E un sera, visto che c’erano, decisero di fare un sequestro di persona di un ospite in villa, che però non riuscì. Così si scoprì che questo Mangano non era proprio uno stinco di santo e che della compagnia dei rapitori faceva parte anche Pietro Vernengo, questo sì un vero boss specializzato in droga. Ci fu un’inchiesta, Mangano venne accusato, ma in realtà non ebbe molti guai. Si trasferì stabilmente in un grande albergo di Milano, il Duca di Milano, fece per un po’ l’autista di Pippo Bono, rimase in buoni rapporti con Marcello Dell’Utri, commerciò droga e infine se ne tornò a Palermo dove, nel suo ambiente, era conosciuto come una persona importante, perché aveva buoni contatti con Silvio Berlusconi e Cosa nostra gli diede la reggenza della famiglia di Porta Nuova. Che, volendo fare un paragone indebito, è un po’ come se gli avessero dato la vicepresidenza della Confindustria.È passato alle cronache come lo “stalliere”, ma Mangano era un servo padrone. Fece bene il suo lavoro, perché Berlusconi non venne più tormentato, ma ancora oggi si possono trovare dei milanesi vecchio stile che ti dicono: “Sì, sarà anche bravo quel Berlusconi, ma non mi piace che abbia fatto allevare i suoi figli da un capo della mafia”. Poi cominciarono a venir fuori altre storie. Quel Filippo Alberto Rapisarda fece bancarotta e se ne scappò latitante. E Marcello Dell’Utri, che, con il suo fratello gemello Alberto era stato suo dipendente, lo seguì nella sua avventura. Storiacce: passaporti falsi, giri brutti, minacce e ricatti. State a sentire questa. Rapisarda se ne stava a Parigi con un passaporto intestato Dell’Utri e faceva una bella vita. Nel 1980 si presenta a lui un sequestratore sardo, tale Giovanni Farina di Tempio Pausania, che aveva rapito un bel po’ di persone ricche (in nome della rivoluzione: il suo riferimento ideologico era Antonio Gramsci) e gli chiede un passaporto perché ha voglia di cambiare vita. Rapisarda glielo procura e Giovanni Farina parte per il Sudamerica con un passaporto intestato a Marcello Moriconi, nato a Gualdo Tadino, provinca di Perugia. Lo prenderà l’attuale vice capo della polizia, Antonio Manganelli. Andrà in galera a Siena, uscirà. E solo l’altro ieri taglierà un pezzo di orecchio all’industriale bresciano Giuseppe Soffiantini.Una bella compagnia, in cui tutti sono amiconi. Ma poi succede che il Rapisarda litiga con Marcello Dell’Utri e si mette a raccontare un sacco di storie. Per esempio: che l’idea della televisione l’ha avuta lui e non il Berlusconi. Che la televisione stessa è stata finanziata da Stefano Bontade (negli anni Settanta il più potente capo mafia di Palermo) e che poi la stessa Cosa nostra ha fornito i miliardi per comprare i diritti dei film americani. In pratica, che Cosa nostra è socia del Biscione. Insieme a lui, qualcosa come 17 “pentiti” palermitani aggiungono dettagli sulle origini e sviluppi di questa curiosa intrapresa palermitana-lombarda. Che, se fosse vera, sarebbe per Cosa nostra il più grande colpo di genio. Ma sarà molto difficile andare a fondo della questione: pezzi di carta non ce ne sono, molta gente nel frattempo è morta, Berlusconi è l’uomo più ricco d’Italia, la sua società è da tempo quotata in Borsa e lui è l’uomo politico più glamour del Paese.La cosa si complica quando Berlusconi “scende in campo”. Si sa che lui era tentennante, ma alla fine venne convinto a “bere l’amaro calice”. Era il 1994 e, come ricorderete, prese un sacco di voti e divenne addirittura presidente del Consiglio. Oggi propone di cambiare la Costituzione, di limitare il potere dei giudici, di abolire il reato di falso in bilancio. Il suo amico Marcello Dell’Utri – che in pochi mesi gli ha costruito Forza Italia – nel frattempo, è diventato un “raffinato bibliofilo”. Nel 1994 sfiorò l’arresto, per mafia. Poi venne eletto deputato. La Procura di Palermo chiese il suo arresto (per mafia), ma il Parlamento ha votato contro. Siede anche all’Europarlamento. Ha avuto una condanna definitiva. Da anni, per difendersi e per spiegare, rilascia un’intervista alla settimana, più o meno. Molti discutono su quale sia la migliore. Per me è quella pubblicata dal Corriere della Sera il 19 giugno 1995. Marcello Dell’Utri usciva da 20 giorni di detenzione nel carcere di Ivrea; era stato arrestato per false fatture della Publitalia di cui era presidente. Ai giornalisti, leggermente allibiti, dichiarò: “Meglio D’Alema che tanti del Polo. Se vogliamo uscire da questa guerra continua che avvelena il Paese, ho la sensazione che D’Alema sia il più disponibile, quello che cerca il dialogo…”.Massimo D’Alema non lo deluse. Presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali, chiamò a riscrivere la Costituzione proprio un Silvio Berlusconi all’epoca nel pieno di accuse di corruzione. Questi gli chiese solamente di promuovere delle leggi che non lo facessero andare in galera. Un po’ le ha ottenute. Tutte le altre le otterrà se vincerà le prossime elezioni.A conclusione di questa storia, mi sembra di poter dire che i ragazzi di Palermo che sbarcarono a Milano negli anni Settanta hanno sostanzialmente vinto la loro partita. Sono entrati in società, hanno investito i loro quattrini, non hanno trovato particolari resistenze da parte della borghesia del Nord. Pur disponendo di una massa enorme di documenti, nessun partito politico italiano ha mai sollevato il tema. Nessuno ha mai proposto un’inchiesta parlamentare. Così come 30 anni fa la borghesia del Nord accettò l’abbraccio della mafia che, tutto sommato, portava soldi; così oggi nessuno pensa che quello che si è unito si possa separare. Anche perché, a questi siciliani, se gli togli i picciuli, ti mettono le bombe. E l’Italia di oggi non ha voglia di combattere. A dire il vero, un uomo politico che sparò a zero su Berlusconi e la mafia c’è stato. Era Umberto Bossi, appena un anno fa. Oggi è il più fedele alleato di Berlusconi. Così andiamo alle elezioni, con un Berlusconi costretto sempre più ad alzare il tiro, perché i suoi vecchi amici gli tirano la giacchetta: “Silvio, Silvio, ricordati di noi…”, gli dicono. Esattamente come gli dicevano 30 anni fa. Poveracci, Silvio e Marcello: non deve essere stata una bella vita la loro, con tutte le persecuzioni che hanno subito. Non so perché, ma e me Silvio ha sempre dato l’impressione di essere ancora sotto tutela. Spero che la prossima generazione non sia costretta a studiare “giovinezza, opere e martirio di Vittorio Mangano”. Per intanto mi permetto di proporre a Paolo Guzzanti, Lino Jannuzzi, Stefano Zecchi, Vittorio Sgarbi, Tiziana Maiolo, Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Emanuele Macaluso, Vittorio Feltri di organizzare, su di lui, almeno un convegno di studi. In fin dei conti, è l’unico che non ha vinto.

#lamicodeglieroi Vittorio

41779_138782349468245_240_nPer l’occasione Vittorio ha deciso di indossare la cravatta. La masseria verso cui si dirigono con questa macchina calda e scassata sta appena fuori Palermo e il sole rende questo abito inusuale ancora più scomodo e unto. Vittorio ama l’aria, la salsedine, le canotte e i pantaloni larghi e leggeri. Così si sente un imbecille, “devo sembrare ‘nu scemo”. Però per l’occasione ha deciso di tagliarsi anche la barba; di solito la tiene incolta per aggiungere maturità alle minacce di violenza: la barba rende più burberi anche i burberi e da quando gli sono comparsi i primi peli deboli e biondi quasi trasparenti ha sempre voluto tenerne almeno un velo per invecchiarsi. E infatti adesso con la barba tagliata le guance gli bruciano di dopobarba e sono lisce come il culo di un bambino. Non gli piacciono per niente. Suda come sudano gli assicuratori d’estate a Palermo. E teme di puzzare, anche. Ma come tiene fissa la faccia da padrino Vittorio non la sa tenere nessuno e infatti anche adesso nella macchina che sfila veloce e scassata tiene una faccia ferma che sembra una paresi.

(L’amico egli eroi, inizio della terza scena, in scrittura)

Quindi è possibile

Quando abbiamo deciso di lanciare una produzione “sociale” per lo spettacolo (e libro) L’amico degli eroi (ne scrivevamo qui) sono stati in molti a dirci che non sarebbe stato possibile raggiungere il risultato senza il contributo di qualche ente, teatro o amministrazione. E invece no: il traguardo è stato raggiunto ieri con largo anticipo ultimo e già oggi stiamo inviando ai nostri “produttori” la seconda scena (o capitolo, che qui si balla sempre tra palcoscenico e pagine). Certo ci siamo incastrati poiché non ci bastano rendicontazioni acrobatiche per accontentare i termini di legge ma su questo progetto lavoriamo sulla soddisfazione, che è una parola bellissima, davvero, se non fosse stata scippata dal marketing metallizzato. Soddisfare i lettori e gli spettatori adesso è il nostro lavoro, senza altri rimbalzi. E io ne sono onorato. Onorato e felice.

Grazie, davvero.

Che poi

Stupirsi e rilanciare in prima pagina la notizia di Totò Riina che conferma il pagamento regolare del pizzo a Cosa Nostra da parte di Silvio Berlusconi (con Vittorio Mangano come utile intermediario) significa non avere compreso, letto e nemmeno mai discusso con nessuno della sentenza di condanna infilitta a Marcello Dell’Utri. In quella sentenza c’è scritto questo e molto altro ma evidentemente è sfuggita. Guarda il caso, a volte, come si dice.

(E guarda il caso è proprio ciò su cui stiamo lavorando noi qui).

Perché produrre con noi “L’amico degli eroi” secondo Carla

berlusconi-mangano-dellutriCarla ci scrive i motivi che l’hanno spinta a coprodurre con noi il progetto “L’amico degli eroi”. Se volete (e potete) darci una mano potete farlo anche voi qui.

Teramo, 23 agosto 2014

Ciao Giulio, sono passate circa due settimane dalla mail con cui chiedevi di scrivere o registrare il perché dell’adesione alla tua produzione sociale “L’amico degli eroi”. Ho provato a farlo in video, ma per ora non viene bene. Riproverò. Forse con le citazioni ho appesantito il mio discorso. Porta pazienza: è deformazione professionale… ed anche un po’ timore che le mie sole parole non bastino a rendere l’idea. Ed allora ecco:

aderisco ai contenuti, alla rabbia, all’indignazione, ai modi, ai toni, al colore, al desiderio, che vedo nel tuo impegno e che per me sono i presupposti per la costruzione di una nuova antropologia: “Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.” (Pier Paolo Pasolini)

aderisco soprattutto al COME di questo progetto. Mi riempie di gioia leggerti quando dici “Ho scritto e detto dappertutto che il lavoro vogliamo svolgerlo insieme a tutti i nostri produttori, quindi voi, e insieme raccoglieremo tutti gli eventuali suggerimenti e eventuali critiche”. Trovo sia un grande salto quantico. E’ quello che si chiama “coevoluzione”. La diponibilità, l’apertura all’altro sguardo, la fatica che ne consegue rappresentano il tipo di esperienza che dovremmo imparare a vivere. “Sta diventando generale, ai nostri tempi, una grottesca incapacità dell’intelletto umano a intendere che la vera garanzia della propria persona non si raccomanda già agli sforzi dell’individuo isolato, ma all’universale comunanza umana”. (Fëdor Dostoevskij)

aderisco alla grande voglia di futuro che si respira sempre nelle tue storie e che mi aiuta a riflettere sulle bugie che ci raccontiamo: quelle piccole e quotidiane, quando la vita ci dice di andare avanti ma noi ci fermiamo per paura pigrizia opportunismo o quando c’invita a respirare consapevolezza davanti al bivio per evitare l’inerzia; quelle grandi e collettive, quando scegliamo di fingere di non vedere oppure di opporci. Aderisco alla tua “finzione” (non fiction) perché ho imparato che certe volte fingere serve ad opporsi. “Insomma, gli era presa quella smania di chi racconta storie e non sa mai se sono più belle quelle che gli sono veramente accadute e che a rievocarle riportano con sé tutto un mare d’ore passate, di sentimenti minuti, tedii, felicità, incertezze, vanaglorie, nausee di sé, oppure quelle che ci s’inventa, in cui si taglia giù di grosso, e tutto appare facile, ma poi più si svaria più ci s’accorge che si torna a parlare delle cose che s’è avuto o capito in realtà vivendo.” (Italo Calvino)

aderisco alla felicità di portare nel tuo progetto il mio “sacro poco”, che non è “poco sacro”. “è come andare per il mondo incinti di quello che il mondo, di fatto, al momento, non è, non sa, non può” (Luisa Muraro). Buon lavoro e spero a presto. Ma, soprattutto, Grazie della tua fiducia.

#lamicodeglieroi secondo Ada

wpid-dellutri1.jpgScrive Adamantia che ha deciso di produrre insieme a noi il progetto L’amico degli eroi perché:

Dunque, perché ho deciso di credere in questa produzione “sociale”. 
In ordine sparso: 
* perchè da un po’ di anni ti leggo e ti vengo a sentire e mi hai sempre convinto e informato
* perchè sei costruttivo, genuino e incazzato al punto giusto
* perchè passarci uno straccio per logorare una macchia lercia dà più soddisfazione che vederlo fare dalla platea.
Un abbraccio da una Milano piovosa.
Ada

Anche voi potete essere nostri produttori partecipando qui.