Vai al contenuto

weinstein

Weinstein, il lupo cattivo e l’avvento del reale

Per evidenti motivi personali ho vissuto e vivo la vicenda del movimento #Metoo molto da vicino. Vicinissimo, direi, visto che per mesi ho raccolto la merda in giro per casa, convivendo con gli schizzi al mattino, al pomeriggio e la sera. Ho potuto assaggiare le reazioni (quelle buone e quelle cattive) con tutta l’amplificazione con cui sono arrivate addosso alle protagoniste, insieme alle reazioni scomposte di predatori parecchio preoccupati, alle inattese vicinanze di donne e uomini che hanno colto la fatica e il dolore e alle promesse più o meno disinteressate di certa politica.

Per tutto questo l’arresto di Weinstein oggi so quanto sia una liberazione. Per Asia, ovviamente, ma anche per Miriana, per Ambra e per tutte quelle che il nome non hanno nemmeno potuto dirlo, fragili come sono in una carriera che probabilmente non inizierà nemmeno, confuse come sono in mezzo agli aiuti promessi che poi non si sono realizzati, spaventate da una fallocrazia che se le è ingoiate con ferocia.

Weinstein di fronte alla polizia è l’avvento della realtà: i racconti escono dal gossip o dalle pagine unte di certa stampa e entrano nelle stanze della legge, dello Stato. So che sembra incredibile ma è rassicurante essere verificate dalle indagini quando per mesi si è state masticate da (pessimi) editorialisti.

Ed è il passo che, vedrete, arriverà anche qui. Ed è significativo come certi dolori possano essere rassicurati dalla giustizia, quella stessa che i predoni sventolano per zittire le vittime e di cui invece hanno una paura fottuta.

È un giorno buono. Sì.

 

«Gli uomini molestano perché possono farlo. Le donne stanno parlando oggi perché, in questa nuova era, finalmente possiamo farlo.»: Salma Hayek (tradotta bene)

HARVEY WEINSTEIN era un appassionato cinefilo, un uomo capace di assumersi dei rischi, un mecenate di talenti cinematografici, un padre amorevole e un mostro.

Per anni, è stato il mio mostro.

Questo autunno, sono stata avvicinata da dei giornalisti, attraverso diversi canali, compresa la mia cara amica Ashley Judd, perché raccontassi un episodio della mia vita che, benché sia stato doloroso, pensavo di aver superato. Mi ero fatta da sola il lavaggio del cervello al punto di convincermi che fosse passata e che fossi sopravvissuta; ho sfuggito la responsabilità di parlarne con la scusa che c’erano già abbastanza persone intente a gettare luce sul mio mostro. Non pensavo che la mia voce fosse importante, né che avrebbe fatto qualche differenza.

In realtà, quello che stavo facendo era cercare di risparmiarmi la sfida di spiegare alcune cose ai miei cari: perché, quando ho occasionalmente detto di essere stata bullizzata, come molti altri, da Harvey, ho omesso alcuni dettagli. E perché, per così tanti anni, siamo stati in buoni rapporti con un uomo che mi aveva ferita così profondamente. Ero stata orgogliosa della mia capacità di perdonare, ma il semplice fatto che mi vergognassi di descrivere i dettagli di ciò che avevo perdonato mi ha fatto dubitare che quel capitolo della mia vita fosse veramente risolto.

Quando così tante donne si sono fatte avanti per descrivere quello che Harvey aveva fatto loro, ho dovuto affrontare la mia codardia e accettare con umiltà che la mia storia, per quanto importante per me, non era che una goccia in un oceano di dolore e confusione. Ho sentito che a quel punto a nessuno sarebbe importato del mio dolore – forse era un effetto di tutte le volte che mi è stato detto, in particolar modo da Harvey, che non ero nessuno.

Stiamo finalmente diventando consapevoli di un vizio che è stato socialmente accettato e ha insultato e umiliato milioni di ragazze come me, perché in ogni donna c’è una ragazza. Sono ispirata da coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare, in particolar modo in una società che ha eletto un Presidente che è stato accusato di molestie sessuali e aggressione da dozzine di donne e che tutti abbiamo sentito affermare che un uomo di potere può fare ciò che vuole alle donne.

Bene, non più.

Nei quattordici anni in cui sono passata faticosamente da studentessa a star delle soap opera messicane a extra in alcuni film americani, ad avere un paio di colpi fortunati in “Desperado” e “Fool Rush in”, Harvey Weinstein era diventato il mago della nuova ondata di cinema che ha portato dei contenuti originali al grande pubblico. Nello stesso tempo, era inimmaginabile che un’attrice messicana potesse aspirare a un posto a Hollywood. E anche se avevo dimostrato che sbagliavano, non ero ancora nessuno.

Una delle forze che mi hanno dato la determinazione di inseguire la mia carriera era la storia di Frida Kahlo, che nell’età dell’oro dei pittori murali messicani faceva dei piccoli quadri intimistici che tutti guardavano dall’alto in basso. Ha avuto il coraggio di esprimere se stessa ignorando lo scetticismo. La mia più grande ambizione era quella di raccontare la sua storia. Divenne la mia missione, raccontare la vita di questa artista straordinaria e mostrare il mio nativo Messico in una luce che combattesse gli stereotipi.

L’impero di Weinstein, che era allora la Miramax, era diventato sinonimo di qualità, raffinatezza e audacia – una casa per artisti complessi e non conformisti. Era tutto ciò che Frida era ai miei occhi e tutto ciò che aspiravo ad essere.

Avevo iniziato un percorso per produrre il film con un’altra compagnia, ma lottai per riaverlo indietro e portarlo da Harvey.

Lo conoscevo un po’ tramite il mio rapporto con il regista Robert Rodriguez e la produttrice Elizabeth Avellan, che era allora sua moglie, con cui avevo fatto diversi film e che mi aveva preso sotto la sua ala. Tutto quello che sapevo di Harvey a quel tempo era che aveva un’intelligenza degna di nota, che era un amico leale e un padre di famiglia.

Sapendo quello che so ora, mi chiedo se non sia stata la mia amicizia con loro – e con Quentin Tarantino e George Clooney – a salvarmi dallo stupro.

(continua qui)

Ma i Weinstein di noialtri, qui, non li nomina nessuno

Qualcuno di loro ha addirittura cambiato numero di telefono. Qualcun altro, invece, ha già scambiato due parole con il suo avvocato per prevenire l’attacco. Poi c’è il regista napoletano che non sa più dove sbattere la testa e non si perdona di avere esagerato anche via sms o via mail, convinto della propria impunità. C’è il mostro sacro della televisione che rassicura tutti dicendo di avere “amicizie politiche importanti”, di stare tranquilli, come se non si sapesse che i suoi cambi alla conduzione siano legati più al concedersi che chissà a quali scelte editoriali. C’è addirittura lo storico conduttore che gigioneggia negli speciali, sul caso Weinstein, come uno spettatore indignato qualsiasi. Tutto intorno poi un bel pezzo del cinema italiano (e della televisione) s’è fatto corporazione per dire che non bisogna “sparare nel mucchio” eppure poi, sotto sotto, sono in molti tra agenti e produttori a far intendere che chi denuncia è fuori, che è meglio ripensarci.

Da una settimana Dino Giarrusso de Le Iene confeziona servizi che sono un conato che dovrebbe intasare lo stomaco del Paese, una sequela di donne attirate con un copione o la promessa una trasmissione o di una parte usate come esca che alla fine si sono ritrovate davanti al bivio dell’amplesso come prerequisito essenziale per essere valutate. Ci sono le voci di donne che hanno avuto addosso le mani unte di chi poi scorrazza sui giornali a insegnarci l’etica. Ci sono anche le aspiranti attrici a cui gli agenti dicono di lasciar perdere, di non rovinarsi la carriera. «Stronzetta, non l’hai capito che qui funziona così?» ha detto un prezzo grosso della Rai, sposato e con figli, a più d’una.

E mentre loro, gli orchi, cominciano a tremare, in giro c’è uno strano silenzio: “va bene la difesa a Asia Argento”, dicono in molti, “ma succede dappertutto, bisogna cambiare il paradigma”. E nessuno sembra avere voglia di spingere davvero, sui nomi. Tutti a godersi la para-pornografia dei racconti e nessuno che alzi la mano per dire “questo dobbiamo cacciarlo”. Tutti a dire che negli Usa il nome di Weinstein è stato fatto troppo tardi e intanto qui i nostri Weinstein non li nomina nessuno.

«E perché non li fanno le vittime, i nomi?», mi chiedono. I nomi ci sono, tutti, segnati. Tutti. Solo che ancora nel 2017 non ci si rende conto che la forza di denunciare sta in una mobilitazione generale che deve confermare una possibilità di cambiamento e che è l’ossigeno necessario alle vittime per avere la forza. Forse non ci si rende conto che, ancora una volta, ci si sta perdendo sull’ultimo passo di una denuncia che sarebbe drammatico lasciare cadere.

Bisogna sentire coraggio intorno per trovare il coraggio. E intorno ci siamo noi. Noi che scriviamo sui giornali ma abbiamo l’anaffettivo vizio di disamorarci così in fretta delle storie e delle loro vittime; noi che se la denuncia non arriva dalla “nostra” trasmissione o dal “nostro” giornale la riteniamo meno degna e nel frattempo sono meno degne anche le sue testimonianze; noi che ci indigniamo leggendo il New York Times ma non toccateci i porci nostrani; noi che abbiamo imparato a difendere le donne senza nemmeno prenderci la briga di attaccare gli uomini che lo meriterebbero; noi che ci buttiamo sulla caccia alle streghe ma gli stregoni chissà perché li lasciamo tranquilli.

Noi che negli ultimi quindici giorni non siamo stati capaci di dire “state tranquille, denunciateli tutti, denunciamoli tutti, denunciamo tutto. Ci siamo noi, qui”. Anche se vi è antipatica quell’attrice. Anche se non guardate Le Iene.

Buon venerdì.

(continua su Left)

Weinstein – Asia Argento: quindi lo stupro ha una data di scadenza?

Che meraviglia vedere i benpensanti che benpensano e benscrivono un po’ dappertutto ergendosi giudici dei tempi di denuncia di Asia Argento, che “solo ora” (come Angelina Jolie e Gwyneth Paltrow) ha trovato il coraggio di denunciare il produttore di Hollywood Harvey Weinstein, uno dei tanti uomini che vive il potere spicciolo della propria posizione come carne a forma di uomo attaccata al proprio pene.

La colpa di Asia Argento (e di molte altre) sarebbe quella di avere “beneficiato” del rapporto sessuale estorto oppure di averlo denunciato troppo tardi oppure di non avere avuto “il coraggio di dire no” e per qualcuno anche tutte e tre le colpe insieme.

Evidentemente, mi deve essere sfuggito, da qualche parte si è deciso, in caso di stupro, di aprire la sagra della bile e dei giudizi sulla stuprata piuttosto che sullo stupratore, tutti presi (uomini e donne) dall’ansia di farsi saputelli come dal manuale della “brava stuprata”, seguendo le regole dei modi e dei tempi che ha deciso il senso comune. Evidentemente da qualche parte ci deve essere scritto che la paura (come la sottomissione e la vergogna e il dolore così difficile da elaborare) debba seguire le buone maniere. Mica lui, il maiale, no: tutti a giudicare la paura.

Nessuno che si interroghi sui contesti e sulle condizioni del ricatto. No, no. Troppo complesso. E la complessità non va di moda nei pensieri che annaspano per stare nei 140 caratteri. E la ferocia delle donne che, come dice bene Michela Murgia, “hanno ingoiato la cultura maschilista” racconta bene lo stremo di questo Paese nella capacità di comprendere le fragilità degli altri.

Poi, in tutto questo, mai nessuno che qui da noi (nemmeno gli eroi e le eroine che strepitano in queste ore) abbia il coraggio di raccontare delle migliaia di Harvey Weinstein nostrani, con nomi e cognomi italiani, che tastano l’eventuale disponibilità delle provinanti o delle “sottoposte” solo per aggiungere un tacca alla propria viscida libido. Quello che tutti sanno ma non dicono di “mostri sacri della televisione”, di registi vicini all’Oscar, di decine di agenti televisivi che trattano le donne come carne fresca. Nessuno che abbia il coraggio di dire che di Asie Argento qui in Italia è zeppo, anche se hanno dovuto subire per prospettive molto più corte. O forse è proprio quello il problema. E la ferocia.

Buon venerdì.

(continua su Left)