(Il testo che ho recitato ieri sera nella piazza della sua Balestrate in ricordo dell’omicidio dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Bommarito)
È un gioco e se provi funziona. Basta crederci, certo, le cose che ci credi così forte da farti sanguinare il naso poi succede che succedono davvero.
Prendi una strada, un marciapiede, ci metti il bene e il male, poi ci aggiungi un poco di mafia (poco, e sottovoce, però) e niente mandanti. Poi ci sono i morti gli applausi e il sangue. E le commemorazioni. Poi arrivano gli esecutori, poi arrivano i mandanti e passa la storia come passano i lutti. Da noi i lutti sono cenere. Cenere che si alza una volta all’anno e si nota ma in fondo poi il dolore è una brace nascosta.
Ecco, io quando mi metto a scrivere o a provare a raccontare una commemorazione mi sento sempre una barca sul bagnasciuga. Si vede che ci sono fatto poco, per le commemorazioni. Per le commemorazioni che sembrano un lunga messa laica in cui al ricordo conta che ci siano giusti il condizionale e il congiuntivo e si perde l’aria, l’acqua, il mare e tutto il sentimento; e alla fine ci si sente sul bagnasciuga, ecco, appunto, non so se oggi qui in piazza succede anche a voi.
È che Giuseppe Bommarito trent’anni fa era appuntato dei carabinieri, era scorta fedele di D’Aleo, era collega di Pietro Morici, tutti nel solco di Basile e lì dove galleggiano i corpi degli eroi e le feci dei mafiosi, ecco, è che Giuseppe Bommarito forse trent’anni dopo si meriterebbe, lui con tutti e gli altri, che uscissimo dalle parole e provassimo ad essere anche noi coraggiosi, per una sera, come lui. Coraggiosi nelle domande che fischiano più delle pallottole e rimangono conficcate nel cuore per almeno altri trent’anni.
Quante parole dobbiamo inventare ancora per parlare ad una piazza dove stanno i sopravvissuti di questi trent’anni? Che aggettivo dovrei riuscire a martellare per parlare agli orfani, i fratelli e quelli per cui via Scobar è l’indirizzo del loro inizio del restare soli? Come guardiamo negli occhi queste vedove che prese tutte per mano sono lunghe come una nazione? Come parliamo a questi orfani che sono un nodo in gola che pesa come un pianeta con una faccia sempre al buio?
Oggi leggevo del padre di Giuseppe che appena saputo della nascita del figlio torna di corsa dai campi per abbracciare la moglie e il neonato o di quando Giuseppe concedeva un “cinema” a sua sorella con i soldi del proprio lavoro, ecco, io, dico a me, piacerebbe che in questa piazza si stilasse un patto. Un patto per esercitare la memoria oltre che commemorarla. Un patto perché Giuseppe non galleggi su Balestrate, su Monreale ma sedimenti. Scenda adesso con tutto il dolore così, senza aggettivi inutili da teatranti, ma con tutta la pelle dura, le lacrime fiere e il ricordo inchiodato ogni giorno, ecco, che Giuseppe scenda dalla testa e scivoli giù dal collo per il bracciolo della sedia e sia terra. Terra di una terra che tra le parole che ha da confiscare ha anche le ferite che abbiamo sempre avuto troppa paura di esibire. E terra che ci tenga forti e dritti.
Caro Giuseppe, io con le commemorazioni ultimamente sono una barca sul bagnasciuga che non si sente nemmeno all’altezza di scegliere la punteggiatura per una morte di servizio. Non riesco nemmeno a dirlo che burrone c’è tra la dicitura “dell’omicidio di Cosa Nostra” e la voce com’è rimasta in gola ad un tuo figlio, non riesco a non sentire la vertigine tra il rumore degli spari e il silenzio compito della memoria.
Possiamo, questo sì, però prometterci che non stiamo ad aspettare, andiamo a prendercele le onde per disincagliarci dal bagnasciuga e andare in mare aperto. Eroici nello stare diritti e professionali. Professionali nel senso bellissimo del professare ideali e la propria natura nel proprio lavoro. Così come insegnavi tu. Buona notte.