Su ‘Repubblica c’è un estratto dal libro di Concetto Vecchio “Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano” (Feltrinelli). In questo capitolo parla per la prima volta Giovanni Santone, uno dei poliziotti in borghese su cui si concentrarono le polemiche dopo il delitto di Giorgiana Masi, uccisa da un colpo di pistola alla fine di una manifestazione indetta dai Radicali. Il libro, come tutti quelli che secondo noi vale la pena leggere, lo trovate nella nostra piccola Bottega dei Mestieri Letterari qui.
Passarono molti mesi prima che mi decidessi a contattare Giovanni Santone, il poliziotto con la borsa Tolfa e la pistola in pugno contro cui si erano scagliati i Radicali nelle settimane e nei mesi seguenti all’ uccisione di Giorgiana. Le sue foto, finite sulle pagine dei giornali, erano rapidamente assurte a simbolo della repressione attuata da Cossiga: il simbolo tout court del 12 maggio. Che ne era stato di lui? (…) Lo incontrai un venerdì di febbraio del 2016 al Gran Caffé Mazzini, a Roma. (…)
«Il 12 maggio finì tutto per me. Tutto!» Santone bolliva di rabbia. «E pensare che io di politica non capivo niente. La sera prima mi dissero che mi sarei dovuto aggregare alla Digos, che avrebbe prestato servizio a margine della manifestazione dei Radicali. Me lo chiese il mio dirigente, Alfredo Balassone, il capo della sezione antirapine, la sesta sezione della questura di Roma.
Scelsero me e altri due o tre. “Fatti trovare là, all’ una”, fu l’ ordine. Mi ritrovai assegnato alla sezione politica diretta da Umberto Improta senza avere chiaro cosa dovessi fare. Abitavo al Pigneto, presi l’ autobus, e intorno a mezzogiorno mi recai in centro». Fece una pausa, come per pesare il suo resoconto. «Guardi che quelli erano dirigenti di polizia eccezionali, sbirri veri, oggi è facile fare le inchieste con tutta questa tecnologia. Prima dei computer senza intelligenza investigativa eri perso. Serviva una tenacia spaventosa, la capacità di consumare le suole delle scarpe».
Sì, ma perché eravate in borghese?, provai a frenare la sua digressione.
«Ma io non lavoravo con la divisa! Camilla Cederna scrisse un lungo articolo per denunciare che eravamo degli infiltrati tra i manifestanti, una fesseria colossale. Eravamo guardie di pubblica sicurezza e come tali non obbligati alla divisa». Lo guardai con diffidenza. «Mi creda,» disse Santone. Venne montato ad arte uno scandalo inesistente».
Eravamo arrivati al centro della nostra chiacchierata. Insistetti: allora perché fecero così scandalo quelle presenze in borghese? Perché Santone venne descritto da tutti come un poliziotto travestito da extraparlamentare? Si alzò di scatto in mezzo alla sala. Gli altri avventori lo guardarono incuriositi.
«Mi vede? Ho più di 60 anni e vesto sportivo. Porto i jeans. Un maglioncino sotto la giacca. Proprio come allora. Mai messa una cravatta in vita mia. Ero un ragazzo che seguiva la moda del momento. Come avrei dovuto vestirmi? La borsa Tolfa, su cui ricamarono all’ infinito, mi serviva come portasigarette – fumavo due pacchetti al giorno – e per infilarci la carta igienica, i gettoni, il portafoglio.» Si sedette infervorato, passandosi la mano tra i capelli. Aveva detto, parola più parola meno, le stesse cose del prefetto Parlato nell’ intervista a Repubblica del maggio 1977. Un discorso teso a minimizzare, difensivo.
Si fece grave: «Se la presero con Cossiga, ma sbagliarono. Cossiga fu il più grande ministro dell’ Interno di sempre, non ha nessuna responsabilità per l’ ordine pubblico di quel giorno. Non sapeva niente».
Poi, con studiato calcolo, buttò lì: «Giorgiana fu uccisa dal fuoco amico ». «Fuoco amico», vergai sul mio taccuino. (…) Santone seguitava a raccontare. «Dopo il 12 maggio mi ritrovai ogni giorno sui giornali. A un certo punto Pannella fece tappezzare i muri di Roma con dei manifesti con la mia foto e la scritta “Disarmiamoli con la non violenza”. La sera tornavo a casa e mi fermavo basito a guardare quei poster.
Mi chiamò allarmato mio cugino, che studiava all’ università di Bologna: aveva partecipato a un’ assemblea nella quale avevano proposto di spararmi. Ricevevo telefonate minatorie in ufficio. Era quasi sempre una donna, mi dava del “pezzo di merda”, io le rispondevo “ti aspetto qua fuori, puttana!”, poi mettevo giù e mi prendeva una gran paura. Mi chiamò il mio dirigente, Giovanni Carnevale, e mi informò che mi trasferivano per motivi di sicurezza a Napoli, in un ufficio del ministero. Ma dopo pochi giorni si accorsero che a Napoli spadroneggiavano i Nuclei Armati Proletari, allora mi fecero tornare indietro. “Devi andare a Isernia”, disse Carnevale. “A fare cosa?” gli chiesi.
“Lavorerai allo spaccio della questura.” Non volevo crederci. Mi ribellai. Invece davvero mi seppellirono a Isernia, a fare il salumiere. Presi le mie cose e andai. Roma non era più un posto sicuro per me. Ho viva la mortificazione di quel trasferimento. I colleghi mi trattavano con fastidio, mi sentivo un lebbroso. Avevo dentro di me una spaventosa voglia di vita e invece ora affettavo panini dietro a un bancone di una caserma di provincia. Di cosa ero colpevole? Non c’ entravo con il delitto di Giorgiana, avevo solo fatto il mio dovere, eseguendo un ordine. Nel tempo libero rimanevo disteso sul letto con un fascio di giornali che parlavano di me.
Piangevo. Il sabato prendevo la macchina e tornavo tra mille precauzioni a Roma, per stare con mia moglie, viveva a Torre Spaccata: era nato mio figlio. Volevo sentirmi vivo almeno nel weekend, ma una mattina mi intimarono di non farlo più. In un covo delle Brigate Rosse avevano rinvenuto una mia foto nella quale tenevo in braccio il bambino. Mi si gelò il sangue. Mi avevano pedinato. Ero finito in cima a una lista di bersagli. Oramai fumavo ottanta sigarette al giorno, quando uscivo mi guardavo in giro in continuazione. Mi avrebbero scovato e ucciso, era solo questione di tempo».
Questa quindi era la storia del poliziotto Santone che per quattro decenni era stato soltanto una fotografia.