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Fuggire dal 25 aprile, come se fosse un virus

Ci sono malattie che si presentano puntuali, ogni anno. Per Giorgia Meloni e i suoi, l’allergia al 25 aprile è cronica. Quando arriva la Liberazione, c’è sempre un biglietto prenotato, una missione inderogabile, un viaggio che chiama. Quest’anno è l’Uzbekistan. Giusto il tempo di una cerimonia all’Altare della Patria, poi via, lontano, a Samarcanda, fino al 27 aprile. Un’assenza calibrata per evitare che il fastidio dell’antifascismo possa durare più di qualche ora.

Il presidente Mattarella, invece, sarà a Genova. Non fosse bastata la sua recente degenza ospedaliera, qualcuno aveva temuto di dover assistere a un 25 aprile officiato da Ignazio La Russa. Ma la Costituzione non prevede supplenze di comodo. La Russa, comunque, la sua parte l’ha già fatta: l’altro giorno era a Primavalle, a commemorare l’attentato del 1973. Un omaggio strumentale, tanto che Giampaolo Mattei, fratello delle vittime, ha denunciato la speculazione elettorale. Loro, i fascisti, si raccontano martiri per riscrivere la storia: trasformano carnefici in vittime, dissolvono le trame golpiste, dimenticano le aggressioni. Così, il 25 aprile si trasforma da celebrazione della Resistenza a terreno minato da narrazioni tossiche.

Due anni fa La Russa si rifugiava a Praga, l’anno scorso scompariva dopo il Vittoriano. Lollobrigida, quando contava ancora qualcosa, spiegava che la parola antifascista “ha portato a morti”. Fratelli d’Italia è questo: la destra anti-antifascista. In bilico tra negare e riscrivere. Intanto le opposizioni chiedono una cerimonia solenne al Senato. La Russa tace. Ma loro scappano: perché il 25 aprile, per chi ha certe radici, resta il giorno più difficile dell’anno.

Buon martedì. 

In foto la presidente del Consiglio Meloni, e i presidenti del Senato La Russa e della Camera Fontana Roma, all’Altare della Patria il 17 marzo 2025, foto Gov 

 

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Comolake: l’evento privato con soldi pubblici (e bugie di Stato)

Nel governo dell’intransigenza a orologeria, c’è sempre un momento in cui il boomerang del potere torna a colpire. Stavolta ha scelto la via del lago: Comolake, evento digitale su misura del sottosegretario Alessio Butti, è finito al centro di un’inchiesta giornalistica che, carte alla mano, disegna una rete di favori, bugie e silenzi.

Nel mirino c’è la moglie del sottosegretario, Lisa Giussani. Secondo i documenti pubblicati da Domani, avrebbe inviato mail, indicato nomi, fornito contatti e suggerito sponsor. Non un dettaglio marginale, visto che Comolake era – nelle parole di Butti – «evento privato». Peccato che dentro ci fossero l’Agenzia per l’Italia digitale e società controllate dal ministero dell’Economia. Quando il privato si fa pubblico per convenienza e viceversa per difesa.

Meloni tace, ma s’irrita. Non è l’indignazione per il merito, è il fastidio per il rumore. A palazzo Chigi la linea è cauta: non una smentita, non una difesa. Butti è uno dei suoi. E si sa quanto la presidente detesti dover rinunciare a un uomo di fiducia.

Intanto, i fili si annodano. Dalla consulenza da 80mila euro affidata all’allora regista dell’evento, Raffaele Barberio – poi allontanato in silenzio – fino al coinvolgimento diretto del super consulente Serafino Sorrenti, uomo chiave nel dipartimento per la trasformazione digitale e citato esplicitamente nei documenti inoltrati da Giussani per agganciare gli sponsor: il cerchio intorno a Butti non è mai stato tanto affollato. Eppure, nelle dichiarazioni ufficiali, tutto sembrava ridursi a una semplice «iniziativa privata».

Nel silenzio tombale del partito, risuonano solo le interrogazioni delle opposizioni. Ma la domanda vera è un’altra: perché in Italia il conflitto d’interessi resta sempre un reato d’opinione?

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Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere – Lettera43

Il governo Usa ha minacciato il prestigioso studio Paul, Weiss, che ha accettato in pratica di essere commissariato dalla Casa Bianca pur di salvarsi. E succederà anche con altre società che hanno rappresentato clienti invisi al presidente, come migranti, giornalisti, minoranze. Confondendo giustizia e vendetta, la democrazia perde un altro pilastro della sua architettura.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere

Il 18 marzo 2025 Brad Karp, uno degli avvocati più potenti d’America, ha ricevuto una telefonata dal presidente degli Stati Uniti. Donald Trump lo aspettava nello Studio Ovale per concludere un accordo. Non su una causa, non su una legge, ma sul futuro stesso dello studio legale che Karp dirigeva: Paul, Weiss, Rifkind, Wharton & Garrison LLP. Uno dei pilastri della grande avvocatura americana, appena finito nella lista nera dell’amministrazione presidenziale.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
Brad Karp dello studio legale Paul, Weiss (foto Getty).

L’arbitrio del potere usato per punire un nemico

Trump aveva firmato un ordine esecutivo che vietava allo studio l’accesso agli edifici governativi e metteva a rischio i contratti dei suoi clienti. Nessuna prova di reato, nessuna condanna, nessuna indagine in corso: solo l’arbitrio del potere usato per punire un nemico personale. Lo studio aveva rappresentato clienti invisi al presidente. Aveva assunto avvocati coinvolti in procedimenti contro di lui. Aveva contestato apertamente le politiche dell’amministrazione. Tanto era bastato. Per evitare il collasso, Karp si era rivolto a Robert Kraft, proprietario dei Patriots, la squadra di football americano della National Football League con sede nell’area metropolitana di Boston, e amico personale di Trump, affinché intercedesse. Il risultato è stato un’udienza straordinaria nello Studio Ovale, durata oltre un’ora e mezzo, in cui il presidente, tra aneddoti sul golf e rancori contro gli avvocati che lo avevano sfidato, mise sul tavolo la richiesta: un accordo, immediato.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
Robert Kraft, proprietario dei Patriots (foto Getty).

Dopo l’intimidazione, l’imposizione di condizioni

Il giorno successivo Trump ha pubblicato il testo dell’accordo con Karp su Truth Social: lo studio si impegnava a versare 40 milioni di dollari in attività pro-bono, revisione delle politiche di assunzione, rinuncia alle pratiche di diversity. Nessuna condanna formale, nessuna accusa riconosciuta: solo l’imposizione di condizioni per revocare un provvedimento illegittimo, scritto per intimidire. La Casa Bianca lo difese apertamente: «Trump mantiene la promessa di proteggere la nazione da attori partigiani», disse la portavoce Karoline Leavitt.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca (foto Getty).

Il caso Paul, Weiss segnò un precedente. Nei giorni seguenti ordini simili colpirono altri studi: Covington & Burling, Perkins Coie, Jenner & Block, WilmerHale. Ogni provvedimento prendeva di mira avvocati o clienti sgraditi al presidente. Ogni reazione era più debole della precedente. Paul, Weiss, invece, aveva scelto di negoziare. Nessuna opposizione pubblica, nessuna difesa formale del principio di autonomia dell’avvocatura.

La professione legale diventata un campo di battaglia

La portata della vicenda supera la sorte di un singolo studio. Trump ha trasformato la professione legale in un campo di battaglia personale. Ha colpito non solo chi l’ha sfidato, ma chi potrebbe farlo. Ha reso tossico il lavoro pro-bono, minato la neutralità delle aziende legali, cancellato la distinzione tra giustizia e vendetta. Le società che rappresentavano i migranti, i giornalisti, le minoranze sono state colpite per prime. Quelle che restavano a guardare hanno imparato a tacere.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
Persone manifestano contro Paul, Weiss col cartello “codardi dell’anno” (foto Getty).

L’episodio ha anche una valenza simbolica precisa: dimostra quanto velocemente il diritto può piegarsi quando il potere pretende obbedienza. Il presidente ha trattato uno studio legale come un’azienda sotto ricatto, dettandone i comportamenti, scegliendone i clienti, definendone l’agenda. Paul, Weiss ha accettato di essere commissariato dalla Casa Bianca pur di salvare il bilancio.

Protesta degli ex partner: «Una macchia permanente»

Molti, dentro e fuori dallo studio, si sono detti sconvolti. Novanta ex partner hanno firmato una lettera di protesta parlando di una «macchia permanente» sull’identità dell’azienda. Altri hanno giustificato la scelta: «Meglio sopravvivere con compromessi che morire con coerenza». In gioco, oltre alla reputazione, c’erano profitti milionari, clienti instabili, partner pronti a disertare. Ma la rinuncia alla battaglia legale ha lasciato scoperto l’intero fronte. Il messaggio era chiaro: Trump può dettare condizioni agli avvocati, e loro obbediranno.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
Proteste contro lo studio Paul, Weiss: “Cosa direte ai vostri figli?” (foto Getty).

Pomerantz, l’ex partner accusato da Trump di avere “fatto del male” per aver guidato un’indagine contro di lui, è stato implicitamente disconosciuto dallo studio. Trump ha dichiarato pubblicamente che Karp ne aveva ammesso le colpe. Karp ha negato. Ma nessuno dello studio ha difeso pubblicamente il collega. Nessuno ha smentito l’ingerenza del presidente. Nessuno ha ricordato che Pomerantz agì da pubblico ufficiale, su mandato di una procura. Il silenzio, anche stavolta, è stato eloquente.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
Un ordine esecutivo firmato da Donald Trump (foto Getty).

Disponibilità a cedere alla pressione politica

La storia ha avuto una coda ancora più cupa. Paul, Weiss ha sospeso la collaborazione con Lulac, la principale organizzazione latina per i diritti civili, proprio mentre l’associazione stava contestando la revoca della cittadinanza a decine di persone. Dopo le proteste pubbliche, lo studio è tornato sui suoi passi. Ma il segnale – la disponibilità a cedere alla pressione politica per proteggere se stessi – era ormai stato lanciato.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
L’associazione Lulac.

Trump ha impiegato tre settimane per ottenere la sottomissione della Big Law. Ha firmato ordini esecutivi senza base giuridica, ha usato la sicurezza nazionale come scusa per punire gli oppositori, ha minacciato di annientare aziende private colpevoli di avere troppi principi. E ha vinto. Il diritto, per esistere, ha bisogno di chi lo difende anche quando è scomodo. Quando i grandi studi legali accettano di barattare l’indipendenza per una tregua personale, la democrazia perde un pezzo della sua architettura. Non è una questione di codici, si tratta di coraggio. Di sapere che, senza resistenza, la legge diventa solo un’altra funzione del potere. Trump, da presidente, ha messo sotto contratto la legalità. Ha trattato gli avvocati come impiegati privati del suo rancore. E nessuno, finora, lo ha fermato.

Trump strozza pure il mondo degli avvocati: così la professione legale si piega al potere
Le proteste contro lo studio legale Paul, Weiss, accusato di codardia per aver ceduto alle condizioni di Trump (foto Getty).

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Save the Children boccia la scuola delle destre: “Garantire a tutti l’accesso a un’istruzione inclusiva, equa e di qualità”

Un tempo si sarebbe chiamata pedagogia dell’esclusione. E adesso anche Save the Children lo dice chiaramente: servono didattica inclusiva e partecipazione attiva. Due parole che suonano come una smentita formale del modello di scuola che il governo sta imponendo, passo dopo passo.

Nel comunicato dell’organizzazione si legge che è “fondamentale garantire a tutte le studentesse e a tutti gli studenti, a prescindere dal contesto socio-economico di provenienza, l’accesso a una scuola inclusiva, equa e di qualità”. Non una frase da convegno: una presa di posizione. Perché oggi la scuola italiana è tornata a distinguere tra chi può e chi no, tra chi ha gli strumenti per eccellere e chi deve adattarsi, in silenzio, a restare indietro. Altro che ordine, disciplina e merito. La scuola delle destre non corregge le disuguaglianze: le premia.

Scuola, l’inclusione non è un favore

Save the Children parla di “personalizzazione dei percorsi educativi”, ma con un significato opposto a quello governativo. Non classi differenziate, non piani personalizzati come scorciatoie per il declassamento, ma attenzione reale ai bisogni di ogni alunno. L’inclusione non come retorica, ma come struttura. Il contrario delle politiche ministeriali che chiedono sempre più rigore, sempre più voto, sempre meno ascolto.

La scuola delle destre è una scuola punitiva. Dove il voto in condotta torna a pesare sugli scrutini, dove l’educazione al rispetto viene insegnata come fosse una caserma, dove chi sbaglia viene schedato, sorvegliato, sospeso. E chi fatica viene lasciato solo. La partecipazione studentesca non è prevista, se non quando si piega al decoro. Il pensiero critico non è incoraggiato, se non quando resta educatamente fuori dalle decisioni.

Save the Children, invece, lo ribadisce: “Le studentesse e gli studenti devono essere messi nelle condizioni di partecipare in modo significativo alla vita scolastica”. È una questione democratica, non pedagogica. Una scuola che esclude è una scuola che reprime. Una scuola che reprime è una scuola che serve a formare sudditi, non cittadini. E il disegno ormai è chiaro: un’educazione che obbedisce al potere, che non ne discute mai la legittimità.

Il merito come alibi per la disuguaglianza

I dati intanto raccontano un’altra verità: dispersione scolastica oltre la soglia europea, povertà educativa in aumento, disuguaglianze territoriali che si allargano. Eppure il ministero rilancia. Vuole una scuola performativa, dove contano i risultati, le medie, le prove Invalsi. Dove ogni ragazzo è un codice fiscale che si gioca la vita su una pagella. Ma così si riproducono le distanze, si istituzionalizza l’ingiustizia.

Nel silenzio delle classi pollaio, nelle scuole con il tetto che crolla e i bagni fuori uso, il merito è solo una beffa. E la povertà educativa non è una variabile da contenere, ma un elemento strutturale. Perché permette di giustificare ogni scelta: se non ce la fai, è colpa tua. Se resti indietro, è perché non ti impegni abbastanza. La scuola italiana ha smesso di essere un ascensore sociale. Ora è una scala ripida, e chi scivola non trova più nessuno che lo aiuti a rialzarsi.

L’intervento di Save the Children è una denuncia lucida. Ricorda che “l’educazione è il pilastro dello sviluppo umano e sociale, della democrazia e della cittadinanza attiva”. Un principio basilare che sembra cancellato dal lessico istituzionale. Oggi si parla solo di ordine, voti, premialità. Il linguaggio del comando ha sostituito quello della cura. E non è un caso. Perché una scuola che cura è una scuola che trasforma. Una scuola che accoglie è una scuola che sovverte. E questa, per il governo, è la vera minaccia.

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Dopo la fame pure la sete: crimini indicibili a Gaza

Non è una metafora, non è una suggestione poetica. È un fatto. L’acqua è finita. E dove l’acqua finisce, finisce tutto il resto. Non c’è battaglia che giustifichi la sete, non c’è ostaggio che valga un bicchiere negato. Eppure Gaza muore lentamente, mentre il mondo distratto misura la tragedia a colpi di breaking news.

A Shajaiya, sobborgo orientale di Gaza city, l’acquedotto che forniva il 70% dell’acqua potabile è stato distrutto dai bombardamenti israeliani. Le autocisterne non arrivano, i valichi restano chiusi, le taniche restano vuote. Chi non ha forza per resistere beve acqua contaminata. Muore di dissenteria. Muore senza un colpo di arma da fuoco. La sete è diventata una condanna a morte silenziosa.

Un milione e ottocentomila persone — oltre la metà sono bambini — vivono con 3-5 litri d’acqua al giorno. L’Organizzazione mondiale della sanità ne raccomanda almeno quindici in emergenza. A Rafah si è scesi sotto il 5% dei livelli pre-offensiva. Nel nord, l’impianto di desalinizzazione è stato colpito a gennaio. A marzo, Israele ha tagliato l’elettricità a quello nel sud. Senza energia non si desalinizza. Senza desalinizzazione si beve acqua sporca. E si muore lentamente, dice l’Unrwa.

Nel lessico disumanizzante della guerra, la sete è un’arma. Francesca Albanese, relatrice Onu, l’ha definita un crimine di guerra. Lo ha ribadito anche Michael Lynk: negare l’acqua a una popolazione sotto assedio viola il diritto internazionale umanitario. Nessuno muore mai per sete, in televisione. Ma è lì che si muore davvero. Lentamente, nell’indifferenza.

E chi decide che questo sia tollerabile non combatte il terrorismo. Lo imita. Sistematicamente.

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Strage nel Mediterraneo, il ceffone di Mattarella: “La vita umana è un valore da rispettare sempre”

Sergio Mattarella ha scelto Malta e un anniversario scomodo per dire l’essenziale: in mare si salva, punto. “La vita umana è un valore da rispettare sempre”, ha dichiarato ricordando le vittime del naufragio nel Canale di Sicilia, dieci anni fa. E ha aggiunto che “la civiltà non consente di voltare le spalle a chi è in difficoltà in mare”. In un Paese dove il governo cerca di scrollarsi di dosso ogni responsabilità, il capo dello Stato si assume la propria.

Poi il passaggio che pesa: “L’Italia ha sempre rispettato la legge del mare”. Un’affermazione che suona come un monito, più che una descrizione. Perché quel “sempre” è sotto attacco da anni. Perché ci sono ministri che sequestrano navi civili, che firmano accordi per esternalizzare i respingimenti, che trattano le Ong come scafisti in giacca a vento. Perché si spediscono persone in Albania pur di evitarle. E perché di fronte al dovere morale di salvare vite, c’è chi risponde con burocrazia, rimpalli e campagna elettorale.

Lo schiaffo di Mattarella

Mattarella ringrazia esplicitamente chi soccorre “nel rispetto delle regole”. Un ringraziamento rivolto alle navi militari italiane, che “stanno svolgendo bene questo compito”. È una carezza a chi salva e uno schiaffo a chi ostacola. Il messaggio è tutto lì: chi salva fa il proprio dovere. Chi blocca, chi ostacola, chi criminalizza, invece no. La differenza non è tecnica, è etica. E costituzionale.

“È giusto contrastare l’illegalità”, ha detto ancora il presidente, “ma senza rinunciare all’obbligo morale e giuridico di salvare le persone”. È una linea rossa, tracciata con sobrietà. Eppure inequivocabile. Che lascia nudo chi, da anni, costruisce consenso sull’indifferenza. Mattarella non si sostituisce alla politica, ma la richiama al dovere. Chiede “un impegno massimo dell’Unione europea” per governare i flussi migratori. Mentre a Roma si parla di sicurezza, a scapito dell’umanità. Mentre si scrivono norme per voltarsi dall’altra parte, purché sia legale. La civiltà, invece, non lo consente.

La politica tace, il presidente parla. E, con poche frasi, rimette al centro la dignità delle persone. Un ceffone silenzioso, ma pubblico. Come si addice a una Repubblica.

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Scampagnate atlantiche

Da due giorni c’è un nutrito mazzo di politici e giornalisti che si spremono per trovare risultati politici nella sequela di scampagnate del triangolo Meloni-Trump-Vance sull’asse Roma-Washington. La scena, osservata con la giusta distanza, è piuttosto messinscena, un melodramma fatto di pranzi, buffet, visite guidate, sorrisi larghissimi, messe in posa, complimenti da sit-com e nazionalpopulismo che sembra uscito dagli anni Ottanta.

Ieri Trump ha descritto Meloni come fantastica, Vance s’è detto emozionato di essere a Roma nei giorni di Pasqua perché ci tiene ai cristiani (americani, ha aggiunto). Sappiamo che Meloni, al contrario di Renzi, parla bene l’inglese. Abbiamo scoperto che l’accoglienza, sia a Roma che a Washington, è stata “a 5 stelle”. Abbiamo tutti i particolari dell’amichettismo rigoglioso tra la presidente italiana e presidente e vicepresidente Usa.

Se invece dovessimo incaponirci per sapere dei risultati politici concreti, quelli reali che incidono sulle vite dei cittadini e delle aziende azzoppate dalla psichedelia geopolitica e commerciale di Trump, possiamo fare affidamento su due sole fonti. La prima è la risposta di Trump a una giornalista che gli chiedeva se Meloni l’avesse spinto a rivedere la sua politica dei dazi: “No”, ha detto il presidente americano. E questo è tutto quello che c’è da dire sull’autorevolezza nella mediazione della nostra premier.

La seconda fonte è uno scarno comunicato congiunto diffuso dalla Casa Bianca. Lì si legge che, sulla Difesa, Meloni e Trump sono d’accordo nel negare un progetto europeo, preferendo spingere il riarmo sparso per comprarsi armi americane. Sulla tecnologia, Meloni è d’accordo con Trump nel boicottare la possibilità che l’Ue tassi le big tech americane per reagire ai dazi. Sull’energia, Meloni è d’accordo con Trump nell’aumentare la dipendenza europea nei confronti degli Stati Uniti. Sono d’accordo anche su un’Europa che dipenda, per la tecnologia dello spazio, da Musk.

Non ha torto Donald: Meloni con lui è stata fantastica. Sovranista in patria e vassalla in trasferta. Lui, i leader europei, li vorrebbe tutti così.

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Il governo arruola pure le pensioni, la trovata per centrare il 2% del Pil

Si ripete da mesi, come se fosse già legge, come se fosse scontato. Il 2% del Pil da destinare alle spese militari è diventato il feticcio della politica italiana, il metro di misura della fedeltà atlantica, il lasciapassare per sedersi ai tavoli che contano. Eppure, dietro la formula, non c’è alcun vincolo giuridico, nessuna ratifica parlamentare, nessuna necessità strategica dimostrata. Solo una promessa non vincolante, trasformata in comandamento contabile da chi ha scelto di blindare le armi e lasciare il resto scoperto.

Secondo l’Osservatorio Mil€x, la spesa militare “diretta” prevista per il 2025 ammonta a poco più di 32 miliardi di euro, pari all’1,42% del Pil stimato. Una cifra inferiore a quella dichiarata dal governo, che la colloca all’1,57% includendo voci esterne al perimetro della difesa pura: fondi del Mimit per gli armamenti, spese del Mef per le missioni all’estero, pensioni Inps ai militari in congedo e una parte dei Carabinieri. Così il totale sale a 35,4 miliardi. Ma per raggiungere davvero il fatidico 2% servirebbero almeno 45,1 miliardi. Mancano quasi dieci miliardi, e il problema non è solo contabile.

Le voci camuffate della guerra

Per colmare il divario si stanno allargando i confini di cosa viene definito “spesa militare”. Il governo tenta di far rientrare nel calcolo corpi che per la Nato non rispondono ai criteri minimi di definizione: Guardia di Finanza (quasi un miliardo), Guardia Costiera (oltre tre miliardi), Carabinieri (oltre sette miliardi). Tutti costi che, se sommati, aiuterebbero a raggiungere l’obiettivo, ma che difficilmente passeranno al vaglio dell’Alleanza. Le linee guida Nato parlano chiaro: solo le forze addestrate secondo criteri militari, sotto comando diretto e impiegabili in operazioni fuori dai confini nazionali possono essere incluse.

Attualmente l’Italia riesce a conteggiare una parte dei Carabinieri, pari a 8.600 unità “deployable”, che valgono 543 milioni. Per Guardia Costiera e Guardia di Finanza, ogni tentativo di inclusione è stato finora respinto. Eppure si insiste. Il trucco somiglia a quello dei carri armati spostati da una parte all’altra nei piazzali per gonfiare l’inventario. Si sposta la spesa da una colonna all’altra del bilancio, la si moltiplica con una riga di Excel, la si presenta in sede internazionale come prova di allineamento. Ma resta un’illusione.

Quando la fedeltà costa più della verità

Nel 2024 la differenza tra i dati Mil€x e quelli “in chiave Nato” dichiarati dal ministero della Difesa era di 3,8 miliardi. I ricalcoli OCSE e SIPRI mostrano scostamenti costanti: rispettivamente 200 e 600 milioni in più rispetto alle stime dell’osservatorio. Il trend è chiaro: i numeri vengono forzati verso l’alto, anche a costo di forzare la realtà. La spesa militare diventa l’unica voce blindata in un bilancio pubblico fatto di tagli, rinunce, revisioni al ribasso.

Il riarmo è già in corso: 73 miliardi impegnati in programmi attivi. E intanto si alzano le soglie. Gli Stati Uniti chiedono il 3,5%, qualcuno ipotizza il 5%. Il 2% serve più a placare Washington che a rispondere a un bisogno reale del Paese. Nessuna analisi tecnica ha mai giustificato quella cifra. Il parametro lega la spesa pubblica a un dato instabile come il Pil, fluttuante, indefinito, gonfiato dalla ricchezza privata. Un esercizio ideologico travestito da necessità contabile.

Ogni euro arruolato nella difesa senza confronto pubblico è un euro sottratto alla politica. Ogni cifra manipolata per esibire lealtà è un passo più vicino alla sottomissione. In un contesto in cui la spesa militare si impone senza dibattito, la sola cosa da difendere è il diritto a fare domande. E il primo bersaglio, ancora una volta, è la trasparenza.

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Il paradosso italiano sui redditi, si dichiara di più e si guadagna meno

In Italia si dichiara di più, ma si guadagna di meno. È il paradosso che emerge dall’analisi di Lorenzo Ruffino pubblicata da Pagella Politica basata sui nuovi dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, diffusi 16 aprile e relativi ai guadagni del 2023. In termini nominali, i redditi medi lordi sono cresciuti del 5% rispetto all’anno precedente, arrivando a 23.950 euro. Ma se si tiene conto dell’inflazione, il reddito reale scende: 90 euro in meno rispetto al 2022. La fotografia è nitida: da quindici anni il reddito medio italiano è inchiodato, schiacciato dall’aumento dei prezzi e da una crescita economica che non riesce a scalfire le disuguaglianze strutturali.

l dato più brutale è che il 64% dei contribuenti vive con meno di 900 euro al mese netti. Non è una minoranza marginale: è la maggioranza. E mentre la base si allarga verso il basso, l’1,7% più ricco continua a sostenere quasi un quarto dell’intera IRPEF. Il sistema è progressivo, ma la progressività ha un tetto: chi guadagna poco paga comunque, ma non riceve servizi all’altezza di quel sacrificio. La redistribuzione promessa si scontra con un welfare logoro, frammentato, troppo spesso progettato per non funzionare.

Una geografia della disuguaglianza

I divari sono ovunque. I lavoratori autonomi dichiarano in media 75.710 euro, ma è una stima che non tiene conto dell’evasione: è lo stesso ministero a dirlo. I dipendenti restano fermi a 25.110 euro, con una perdita reale del potere d’acquisto. È il dato più eloquente di un mercato del lavoro che scarica l’instabilità sulle spalle di chi ha meno strumenti per difendersi. I pensionati, invece, dichiarano 23.730 euro e sono tra i pochi ad aver registrato un aumento del reddito reale. Segno che l’unico scudo contro l’inflazione, oggi, è la rendita, non il lavoro.

La frattura generazionale è profonda: i giovani tra i 15 e i 24 anni dichiarano 7.980 euro, una soglia che somiglia più a una paghetta che a un reddito. Anche qui, non c’è solo precarietà, ma la normalizzazione della precarietà. Il picco si raggiunge tra i 45 e i 64 anni, oltre i 28.000 euro, per poi ridiscendere. È un ciclo che non si rinnova, una curva che non si sposta. La retorica del talento si frantuma contro una realtà dove si entra tardi nel mercato del lavoro, si guadagna poco e si invecchia poveri.

Il divario di genere resta imbarazzante: quasi 9.000 euro in meno per le donne, ferme a 19.410 euro medi contro i 28.080 degli uomini. A nulla servono i discorsi sulle pari opportunità se la realtà retributiva resta questa: le donne lavorano di più, guadagnano meno e reggono ancora il peso delle fragilità sociali, spesso invisibili. In un Paese dove il part-time femminile è spesso imposto più che scelto, la diseguaglianza salariale è solo la punta del problema.

Nord e Sud, due mondi separati

Poi c’è l’Italia a due velocità, anzi a due geografie. Nel Nord-Ovest si dichiarano 26.950 euro, nel Mezzogiorno appena 19.570. Milano è l’unica provincia sopra i 30.000 euro, con Portofino che gioca in un campionato a parte (94.500 euro per 277 contribuenti), mentre Crotone si ferma a 17.040. Non sono differenze: sono dislivelli strutturali, scelte politiche sedimentate, investimenti mai fatti, infrastrutture mai arrivate. Sono la mappa precisa della diseguaglianza spaziale, quella che non si può correggere con qualche bonus una tantum.

La radiografia dei redditi non racconta solo quanto guadagniamo. Racconta come siamo stati governati. Racconta chi è stato lasciato indietro e chi è stato protetto. Racconta perché certe zone non riescono a ripartire e perché in alcune famiglie il reddito è diventato un concetto teorico. Racconta l’illusione del merito in un Paese dove la mobilità sociale si è fermata e l’ascensore è rotto da anni.

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Cimitero Mediterraneo: dieci anni dopo quel barcone è ancora qui

A dieci anni dal peggior naufragio nel Mediterraneo, l’Italia si ricorda delle sue vittime come si onorano i morti di una guerra dimenticata: senza conoscerne i nomi, senza sapere dove siano finiti i corpi, senza assumersi fino in fondo la responsabilità delle circostanze che hanno reso possibile la tragedia. Il 18 aprile 2015, un peschereccio con a bordo almeno 900 persone si è capovolto al largo della Libia mentre tentava di avvicinarsi a un mercantile, il King Jacob. Ventotto superstiti. Un numero incalcolabile di dispersi. Una bara comune senza croce, sotto forma di mare.

Dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum, sostituita con Triton, l’Europa aveva scelto di investire meno nella ricerca e soccorso e più nel controllo delle frontiere. La distanza tra la costa libica e la prima nave in grado di salvare fu allungata per decreto. Quella notte, il soccorso arrivò tardi, male e con una dinamica ancora oggi oggetto di sospetti e omissioni.

Un’identificazione lasciata al volontariato

Nel 2015 ci dissero che nulla sarebbe stato più come prima. L’allora governo Renzi decise almeno di recuperare il relitto, portarlo a galla, dare un segno. Il barcone fu sistemato a Melilli, in un ex pontile Nato, e affidato agli antropologi forensi del Labanof di Milano. Cristina Cattaneo e il suo team iniziarono a raccogliere indizi, analizzare corpi, estrarre profili genetici. A oggi, hanno restituito un nome a 33 persone. Gli altri restano numeri, accompagnati da etichette: KR70M6, “etnia africana, deceduto causa fenomeno migratorio”, “collana con due cuori”, “banconota da 100 dollari”, “pagella cucita nella tasca”.

Il lavoro è proseguito pro bono. Nessun fondo stanziato, nessuna procedura sistematica. Solo una solidarietà spontanea e clandestina, fatta di ricercatori che si danno il cambio, università che raschiano i fondi di bilancio, e madri che dall’altra parte del mare aspettano ancora una telefonata che non arriverà.

L’Europa che non ha voluto sapere

Nel frattempo, altre migliaia di persone sono affogate nello stesso tratto di mare. Dal 2015 al 2021, più di 18.000 vite spezzate nel Mediterraneo centrale, la rotta più letale al mondo secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Il 2016 fu l’anno nero, con oltre 5.000 morti. L’anno in cui, invece di rafforzare il soccorso, si decise di colpire le Ong che lo praticavano.

Il relitto che doveva diventare un monumento è oggi un relitto e basta. Ruggine, silenzio, abbandono. Nessuna lapide, nessuna memoria ufficiale. La nostra civiltà non ha trovato il modo di dare un nome ai morti, e neppure un posto nei libri. Sono scomparsi nel mare e poi anche nel linguaggio, nella narrazione. Nessuno ha chiesto loro chi fossero prima di affondare. Nessuno ha provato davvero a restituirli ai vivi.

Nel 2025, il Comitato 3 ottobre, Labanof e Asgi hanno presentato a Bruxelles una proposta per istituire un database europeo delle persone migranti scomparse. Chiedono regole comuni, supporto alle famiglie, sepolture tracciabili. È una proposta minima, che riconosce il diritto all’identificazione. Un diritto elementare, che da noi ancora manca. È il certificato di morte che serve a chi resta. È il filo che tiene insieme le storie, anche quando finiscono nel fango.

Dicono che non possiamo fare di più. È falso. Sappiamo come si fa. Lo abbiamo fatto per pochi, a fatica. Possiamo farlo per tutti. Basterebbe scegliere. Come si sceglie di voltarsi dall’altra parte, si può anche scegliere di guardare.

Perché quel barcone, a dieci anni di distanza, è ancora qui. Non nel ferro contorto lasciato ad arrugginire, ma in quello che non siamo riusciti a cambiare. E che ci somiglia.

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