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Turismo, calano le presenze ma aumenta la propaganda: cosa non torna nei numeri del governo

Il turismo, nel discorso pubblico, è spesso il piatto forte delle narrazioni governative. Non fa eccezione la dichiarazione della ministra del Turismo, Daniela Santanchè, che nei giorni scorsi ha celebrato i dati Istat di novembre 2024, parlando di un “notevole incremento del turismo” con un +11,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. “Questo aumento si concretizza in 17,5 milioni di presenze,” ha sottolineato la ministra, “dimostrando l’ottima salute del comparto anche durante periodi non convenzionali”. Ma la realtà, come spesso accade, è più complessa di quanto un comunicato stampa possa raccontare.

Turismo, i numeri che smentiscono l’ottimismo di Santanchè

Secondo i dati ufficiali dell’Istat relativi al terzo trimestre del 2024, il settore turistico italiano ha registrato un calo complessivo rispetto allo stesso periodo del 2023. In particolare, gli arrivi sono diminuiti del 3,6% e le presenze dell’1,4%. A pesare è stata soprattutto la flessione del turismo domestico: gli italiani hanno viaggiato di meno, segnando un -7,3% negli arrivi e un -5,5% nelle presenze. La dinamica si è mantenuta negativa anche nei mesi tradizionalmente forti come luglio e agosto, evidenziando una contrazione che non può essere ignorata.

Se da un lato i turisti stranieri hanno mostrato una crescita contenuta (+4,5% a luglio, +3,0% ad agosto, +0,2% a settembre), il dato complessivo del trimestre è chiaro: il settore ha subito una battuta d’arresto. Parlare di “ottima salute” del comparto sembra quantomeno azzardato, specialmente se si considera che il terzo trimestre è storicamente uno dei più importanti per il turismo italiano. La destagionalizzazione, citata come punto di forza dalla ministra, può spiegare solo in parte il presunto recupero di novembre, ma non è sufficiente a compensare le perdite precedenti.

La narrazione governativa che celebra il turismo come settore “dinamico” e “fattore cruciale per il reddito della Nazione” rischia di trasformarsi in una cortina fumogena. Non è la prima volta che i numeri vengono estrapolati selettivamente per dipingere un quadro più roseo di quanto sia realmente. I numeri vanno contestualizzati: il confronto tra novembre 2024 e novembre 2023, per esempio, potrebbe essere influenzato da fattori contingenti, come la ripresa post-pandemia o eventi straordinari. Tuttavia, quando si allarga lo sguardo al 2024 nel suo complesso, il quadro è meno lusinghiero.

Vale la pena chiedersi quale sia l’effettivo impatto delle politiche promosse dal governo per sostenere il turismo. La flessione del turismo domestico è un campanello d’allarme: se gli italiani viaggiano di meno, ciò potrebbe essere sintomo di difficoltà economiche o di un’offerta turistica che non riesce più ad attrarre la domanda interna. Al contempo, la crescita del turismo internazionale è certamente positiva, ma non è uniforme e sembra concentrata in alcune aree specifiche del Paese, lasciando indietro altre regioni.

Le sfide strutturali ignorate dalla politica

In un contesto così articolato, l’entusiasmo delle dichiarazioni ufficiali suona fuori luogo. Se è vero che il turismo è uno dei pilastri dell’economia italiana, è altrettanto vero che servono analisi rigorose e interventi mirati per affrontare le sfide strutturali del settore. Ignorare i segnali di rallentamento e concentrarsi esclusivamente su dati positivi rischia di perpetuare una politica miope e autocompiaciuta.

Il turismo non è roba da ridurre a uno slogan o a una conferenza stampa. Richiede investimenti strategici, una visione a lungo termine e, soprattutto, onestà intellettuale nel raccontarne i successi e le criticità.

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Almasri è libero, la politica no. Opposizioni contro Meloni & C.

La scarcerazione di Najeem Osama Almasri Habish, arrestato a Torino sulla base di un mandato internazionale per crimini contro l’umanità, ha scatenato una tempesta politica che travolge il governo Meloni. Il comandante della polizia libica, noto per il suo presunto coinvolgimento in torture e abusi nei lager per migranti in Libia, è stato rilasciato dopo meno di 48 ore a causa di un vizio di forma, secondo quanto riferito dal ministro Nordio. Il rientro di Almasri a Tripoli, a bordo di un aereo di Stato italiano, ha scatenato l’indignazione delle opposizioni e sollevato interrogativi sul rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia.

Un rilascio pianificato: le ombre sull’operazione Almasri

“Non è possibile che il governo non fosse informato”, attacca Chiara Appendino del Movimento 5 Stelle. “Meloni spieghi agli italiani perché è stato liberato un torturatore”. Anche Elly Schlein, segretaria del Partito democratico, chiede chiarimenti immediati, denunciando il “risultato vergognoso” di una decisione che mina la credibilità del Paese.

La vicenda Almasri si intreccia con i fragili equilibri diplomatici tra Italia e Libia, evidenziando le contraddizioni del Piano Mattei per l’Africa. Da una parte, l’Italia si erge a baluardo della lotta contro i trafficanti di esseri umani; dall’altra, un uomo accusato di essere uno dei principali responsabili dei lager libici torna libero con un volo messo a disposizione dallo Stato italiano. Un quadro che, come sottolinea Angelo Bonelli di Europa Verde, “è l’emblema dell’ipocrisia di un governo che dichiara guerra ai trafficanti ma li libera quando fa comodo”.

“È un insulto alle vittime dei lager libici”, afferma Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi e Sinistra. Le immagini del festeggiamento a Tripoli per il ritorno di Almasri, accolto come un eroe, sono il simbolo di un’azione politica che, per Fratoianni, “macchia la dignità dell’Italia e pone ombre inquietanti sulla gestione delle relazioni con la Libia”. Dichiarazioni simili arrivano da Benedetto Della Vedova di +Europa, che definisce l’accaduto “una violazione degli obblighi verso la giustizia internazionale”.

La richiesta unanime è che Meloni e Nordio si presentino in Parlamento per fornire spiegazioni. Le opposizioni, compatte, chiedono trasparenza: “Con quali coperture Almasri è entrato in Italia Perché è stato rilasciato?”, incalza Davide Faraone di Italia Viva. Il deputato democratico Paolo Ciani aggiunge: “È indispensabile comprendere le motivazioni dietro una scelta che offende i valori della giustizia internazionale e svilisce il ruolo dell’Italia”.

Realpolitik o complicità? Il prezzo della cooperazione internazionale

Intanto, il ministro Nordio si difende, affermando che il rilascio è stato determinato da “irregolarità procedurali”. Tuttavia, è sulla tempistica e le modalità dell’intera operazione che si concentrano i dubbi delle opposizioni. Secondo le ricostruzioni, l’aereo di Stato era già pronto sin dal mattino, segno di una decisione pianificata. Una mossa che, per Fratoianni, “conferma una precisa volontà politica di evitare che Almasri fosse consegnato alla Corte penale internazionale”.

L’opposizione denuncia anche il silenzio del governo sulle responsabilità del generale libico nei lager di Mitiga. “Le sue rivelazioni avrebbero potuto esporre il sistema di controllo sui migranti finanziato con i soldi europei e italiani”, accusa Ilaria Salis, europarlamentare di Avs. La questione non riguarda solo la politica interna, ma investe la reputazione internazionale dell’Italia e il suo impegno verso i diritti umani.

La liberazione di Almasri non è solo un fatto di cronaca: è un simbolo delle tensioni e delle contraddizioni che attraversano la gestione delle migrazioni e i rapporti con la Libia. Un caso che pone domande urgenti sul prezzo della cooperazione internazionale e sulle linee rosse che l’Italia è disposta a superare in nome della realpolitik.

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Intelligenza artificiale, la nuova guerra già persa dall’Europa: l’Ue stanzia 750 milioni contro i 500 miliardi degli Usa

L’intelligenza artificiale è diventata il nuovo terreno di scontro geopolitico tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. L’annuncio di un piano da 500 miliardi di dollari per il potenziamento dell’IA da parte dell’amministrazione Trump ha il sapore di un guanto di sfida, una dichiarazione di intenti che mira a consolidare la supremazia americana nel settore. Non è solo una questione tecnologica, è una partita politica: chi controlla l’IA, controlla il futuro.

L’Europa in affanno

In Europa, i leader si affrettano a rispondere. Ursula von der Leyen ha più volte sottolineato l’ambizione di fare dell’Unione europea un leader globale nell’innovazione tecnologica. Ma la portata del piano statunitense – che prevede infrastrutture avanzate, come un nuovo data center in Texas, e partnership con giganti del settore – lascia l’Europa indietro, bloccata da budget frammentati e obiettivi meno aggressivi. I 750 milioni di euro stanziati per supercomputer distribuiti in sette siti europei sembrano poca cosa di fronte alla macchina americana.

“Più di una sveglia; è uno schiaffo in faccia”, ha dichiarato a Politico Christian Miele, investitore in startup europee di IA. Una sintesi brutale che fotografa il divario tra le due sponde dell’Atlantico. La sfida non è solo economica: gli Stati Uniti puntano sulla velocità e sul volume, mentre l’Europa insiste su regole etiche e protezione dei dati. Un approccio diverso che rischia di trasformarsi in un freno.

Trump, Musk e la sfida americana

L’ingerenza di Trump – e la sua alleanza di ferro con Elon Musk – aggiunge un livello di complessità. Musk, già in rotta con l’Europa sui temi della moderazione dei contenuti, diventa un elemento di peso nella corsa americana all’IA. Intanto, la strategia protezionistica di Trump minaccia di inasprire ulteriormente i rapporti con Bruxelles. Tariffe su tutte le importazioni europee sono già sul tavolo, e l’ombra di una guerra commerciale non è più solo una minaccia, ma una possibilità concreta.

Per l’Unione europea, la corsa all’IA è una sfida industriale e un test di resistenza politica e culturale. Mentre gli Stati Uniti possono contare su una strategia coordinata e su un mercato interno vastissimo, l’Europa si confronta con la difficoltà di armonizzare gli interessi di 27 Stati membri. Ogni Paese porta in dote le proprie priorità nazionali, spesso in contrasto con una visione comune. E la frammentazione rischia ancora una volta di condannare l’Europa a un ruolo marginale.

Mantenere e aggiornare i supercomputer annunciati costerà molto più del previsto. Il bilancio europeo è già al limite e le ambizioni di sovranità tecnologica rischiano di infrangersi contro le difficoltà pratiche. Il nodo cruciale è la mancanza di un piano finanziario a lungo termine capace di sostenere un’infrastruttura tecnologica competitiva.

La dimensione geopolitica si intreccia con quella etica. L’Europa punta a un’IA “responsabile”, che rispetti i diritti fondamentali e protegga i dati personali. Ma questa vocazione rischia di essere percepita come debolezza in un mondo dominato dalla competizione. Gli Stati Uniti avanzano con un pragmatismo spietato, privilegiando la velocità e il dominio tecnologico. L’approccio europeo, più lento e regolamentato, potrebbe rivelarsi inadatto a fronteggiare rivali disposti a sacrificare le norme per il potere.

Intelligenza artificiale, il terzo incomodo: la Cina

E poi c’è la Cina, il terzo grande giocatore, che osserva e avanza. Pechino investe massicciamente nell’IA, proponendo un modello autoritario che combina controllo statale e innovazione. Per l’Europa, il rischio è quello di trovarsi schiacciata tra due visioni inconciliabili: da una parte il modello statunitense, dall’altra quello cinese. Senza una strategia chiara e ambiziosa, l’Unione europea rischia di perdere rilevanza in uno dei settori più determinanti per il futuro.

Sul piano politico la sfida non è un semplice confronto tecnologico. L’IA diventa il metro con cui si misurano la capacità di leadership globale e l’abilità di influenzare gli equilibri futuri. Per l’Europa, c’è una sola strada: rilanciare con una strategia ambiziosa, investire in modo massiccio e credere nel proprio potenziale. Altrimenti, il rischio è quello di restare ancora una volta spettatori, mentre altri decidono le regole del gioco. E in un mondo dominato dall’IA, essere spettatori significa essere irrilevanti.

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Almasri, tutte le ombre dietro il rilascio del generale libico: minata la credibilità internazionale dell’Italia

Il rilascio del generale libico Njeem Osama Almasri da parte del governo italiano non è stato un errore e non è stato un caso. L’uomo, già comandante della polizia giudiziaria libica, è accusato di crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale (Cpi).

Chi è Almasri: il simbolo oscuro degli accordi tra Italia e Libia

Ma chi è Almasri? Non è solo un alto ufficiale di polizia libico, ma anche il simbolo di un sistema di violenze ignorato dagli accordi stretti negli anni tra Italia e Libia. La sua figura emerge già dai rapporti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni per i diritti umani, che lo descrivono come uno dei principali responsabili dei centri di detenzione in Libia, dove migliaia di persone migranti sono state sottoposte a torture, stupri e lavori forzati. Almasri, accusato di omicidi e riduzione in schiavitù, è stato per anni il garante di un sistema che ha trasformato i trafficanti di esseri umani in interlocutori dello Stato italiano.

Arrestato a Torino su mandato della Cpi, Almasri rappresenta il legame oscuro tra i finanziamenti europei e la gestione dei flussi migratori. Gestisce il lager di Mitiga, noto per essere una delle strutture più brutali della Libia, e supervisiona le operazioni militari dell’aeroporto omonimo, punto nevralgico per il controllo delle partenze verso l’Italia. Almasri è l’ uomo che conosce ogni dettaglio degli accordi tra Roma e Tripoli, comprese le trattative segrete che hanno trasformato la Libia in un argine violento contro le migrazioni.

Un’occasione mancata: la condotta del governo italiano

Dietro al velo delle scuse e dei cavilli che ne avrebbero determinato il rilascio, restano i fatti. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha lasciato passare oltre 24 ore prima di rispondere alle richieste della Corte d’Appello di Roma, mentre al Viminale si firmava il decreto di espulsione e si preparava un aereo per riportare Almasri a Tripoli. Mentre si dichiarava ufficialmente di voler valutare un’interlocuzione con la procura generale, il piano di rimpatrio era già operativo. La realtà è che, con un semplice documento, il ministro avrebbe potuto mantenere Almasri in custodia. Sarebbe bastato trasmettere alla Corte d’Appello di Roma una richiesta formale di esecuzione delle misure previste dai trattati internazionali, ai sensi della legge 237/2012, garantendo così il rispetto delle procedure richieste dalla Corte penale internazionale. Secondo fonti della Cpi, “l’Italia ha cercato un cavillo per evitare la collaborazione che era tenuta a dare”. 

È sufficiente osservare la scena dell’arrivo di Almasri all’aeroporto di Mitiga per cogliere la portata della decisione politica. Acclamato come un eroe nazionale, il generale è diventato il simbolo di una gestione dei rapporti con la Libia che è tanto opaca quanto compromettente. I video che lo ritraggono mentre scende dall’aereo, con un sorriso soddisfatto e una folla festante ad accoglierlo, sono stati rilanciati dai profili ufficiali delle autorità libiche e sono un segnale inequivocabile: meglio un alleato scomodo che rischiare di esporre i nervi scoperti di un sistema che scambia il silenzio sui diritti umani con un controllo apparente delle migrazioni. 

La Corte penale internazionale ha già definito la postura italiana come un’inadempienza grave dei propri doveri di cooperazione. Questo atteggiamento mina la credibilità internazionale dell’Italia e getta un’ombra sinistra sul rispetto delle convenzioni che il nostro Paese ha sottoscritto. Perché ignorare la richiesta di un’istituzione come la Cpi, che aveva già segnalato il problema al governo tramite l’ambasciata Perché sacrificare la giustizia internazionale sull’altare della realpolitik?

Gli accordi tra Italia e Libia dietro il caso Almasri

La risposta è nelle relazioni tra Italia e Libia, che da anni si reggono su una rete di compromessi per mantenere sotto controllo le migrazioni e che ora, anche il governo Meloni ha scelto di assecondare. 

Mentre i video del rientro di Almasri spopolano sui social libici con messaggi di derisione verso l’Italia, il governo resta in silenzio. Nessuna spiegazione convincente, nessuna assunzione di responsabilità. Nordio si è limitato a vaghe promesse di verifica, e la premier Meloni ha preferito postare immagini dei suoi incontri internazionali, ignorando il peso di questa decisione. 

La vicenda Almasri non è un incidente, è una dichiarazione d’intenti. Dietro alle scuse accampate, c’è una strategia che antepone la propaganda politica alla giustizia internazionale, la convenienza immediata ai valori fondamentali. E l’Italia, così, perde un altro pezzo della sua credibilità.

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Fratelli d’Italia si sgretola: l’Aventino di Santanchè e le vendette interne

Da qualche giorno la ministra del Turismo Daniela Santanchè si è barricata negli uffici del suo ministero. Ieri ha magnificato i risultati del turismo italiano, omettendo qualche cifra, com’è consuetudine della compagine di governo, per lanciare un messaggio ai suoi compagni di partito: sono qui e qui sto.

I ben informati raccontano che il pranzo con il presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa non abbia prodotto il risultato sperato: nonostante l’invito alle dimissioni, la “Santa” è tornata sul suo Aventino dopo il caffè con un messaggio limpido da rispedire al mittente: non mi dimetto.

Il mittente, però, è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, colei che da due anni dice agli italiani di essere forte più di ogni avversità, e colei che disse a Berlusconi di «non essere ricattabile» da nessuno. Tranne che dalla sua amica ministra Santanchè?

Che vuole la regina delle spiagge? La vendetta, semplicemente. La ministra vuole che Meloni chieda pubblicamente le dimissioni, senza tramiti di partito, e che se ne prenda le responsabilità. Il ragionamento è semplice: se Meloni costringe Santanchè alle dimissioni per un rinvio a giudizio non potrà continuare a fare finta di niente nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove e poi di tutti quelli che dovessero inciampare nella giustizia.

È un “muoia Sansone con tutti i filistei” con tanti saluti alla favoletta del “governo compatto” e del partito. Il tessuto di Fratelli d’Italia s’è rotto e la condottiera Meloni scricchiola tra i panni sporchi. E questo è tutto quello che c’è da dire sulla levatura e la responsabilità istituzionale della squadra di governo.

Buon giovedì.

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Trump non fa prigionieri, profanato pure il sacro

Donald Trump si conferma maestro dell’attacco personale, persino davanti alle parole di chi invoca misericordia e giustizia. L’intervento della vescova episcopale Marianne Budde alla National Cathedral ha scosso il presidente: un appello alla compassione verso le persone migranti e le comunità LGBTQI, un monito contro le politiche di esclusione, pronunciato con un linguaggio che non ammetteva ambiguità. La reazione del presidente? L’insulto e l’intimidazione pubblica. Trump ha etichettato Budde come “estremista della sinistra radicale”. Non è nuovo a queste sceneggiate: aveva già sfruttato il sacro spazio di St. John per una foto propagandistica nel 2020, ignorando ogni rispetto per il significato spirituale del luogo e la voce contraria della stessa vescova. Questa volta, però, c’è un ulteriore salto di qualità: si prepara a smantellare le tutele per le cosiddette “aree sensibili”, autorizzando retate in chiese e scuole, simboli di rifugio e inclusione. È la logica dell’oppressione travestita da sicurezza. L’amministrazione Trump non si ferma davanti a nulla: criminalizza. Non importa se queste persone mantengono in piedi settori vitali dell’economia statunitense. Per Trump il bersaglio non è mai il problema da risolvere, ma una leva per consolidare il potere. Mentre Marianne Budde parla di speranza e giustizia sociale, Trump replica con la paura e la divisione. La sua retorica è sempre la stessa: dipingere chi dissente come nemico, alimentare un clima di sospetto e giustificare politiche che negano umanità a intere comunità. Ma la compassione non è una debolezza. È l’unica forza che può salvare un Paese dalla deriva dell’odio.

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Il Cnel boccia l’Italia: disoccupazione, disparità e un futuro senza giovani

Il rapporto 2024 del Cnel traccia un quadro allarmante della relazione tra demografia e forza lavoro in Italia. Alla base vi è una realtà impietosa: la popolazione attiva diminuisce costantemente, aggravando le tensioni sul sistema economico e sociale. Un declino che, se non affrontato con urgenza, rischia di trascinare il Paese in una spirale di impoverimento strutturale.

La desertificazione generazionale

L’Italia, con una natalità ferma da decenni sotto il livello di sostituzione generazionale, vede le coorti giovanili ridursi progressivamente. Gli under 15, un tempo forza rigenerativa, sono stati superati dagli over 65 già negli anni ’90. Questo “inverno demografico” si traduce in un crollo della fascia 15-34 anni, la vera linfa vitale del mercato del lavoro. Una riduzione che non è stata compensata da politiche di sostegno strutturale alla natalità o all’immigrazione qualificata. Gli scenari previsti dal Cnel, con una popolazione in età lavorativa che potrebbe scendere sotto i 40 milioni entro il 2050, sono una chiamata alle armi per chi governa.

L’illusione della crescita occupazionale

Sebbene gli occupati siano aumentati nell’ultimo decennio, è evidente come questa crescita sia trainata quasi esclusivamente dagli over 50. La fascia giovane-adulta è in costante contrazione: nel 2024, gli occupati under 35 rappresentano meno del 18% del totale, contro il 27% di inizio secolo. Un segnale di allarme è l’assenza di un piano per valorizzare questa fascia, lasciando che il sistema produttivo continui a dipendere da lavoratori sempre più anziani, con inevitabili ricadute su produttività ed efficienza.

Le criticità regionali e di genere

Il rapporto evidenzia profonde disparità geografiche, con il Mezzogiorno che registra tassi di occupazione tra i più bassi d’Europa. La Sicilia, con un tasso inferiore al 50%, è l’emblema di un Sud che fatica a risollevarsi. Anche il divario di genere rimane un nodo irrisolto: le donne italiane lavorano meno delle loro omologhe europee, con un gap di circa 20 punti percentuali rispetto agli uomini. Senza un deciso intervento su conciliazione lavoro-famiglia e politiche di inclusione, questo squilibrio rischia di aggravarsi ulteriormente.

Immigrazione: risorsa o occasione persa

Un altro tema centrale è il ruolo dell’immigrazione. Secondo il Cnel, è indispensabile attrarre e integrare lavoratori stranieri per compensare il declino demografico. Tuttavia, l’Italia si distingue negativamente per politiche frammentarie e per la mancanza di una strategia di lungo termine. Nel 2024, il saldo migratorio è ben al di sotto dei livelli necessari a sostenere il mercato del lavoro, complice anche una crescente fuga di giovani italiani verso l’estero.

La trappola della bassa produttività

Con una popolazione sempre più anziana e una forza lavoro ridotta, la produttività rischia di diventare l’unico motore di crescita economica. Ma come migliorare un sistema che già oggi fatica a competere con le economie più avanzate? La risposta non può prescindere da investimenti massicci in tecnologia, formazione e innovazione. Tuttavia, il ritardo accumulato è tale da rendere questa strada estremamente complessa.

Un futuro a rischio

Il Cnel offre alcune soluzioni, come il potenziamento dell’occupazione femminile, il rafforzamento dei percorsi formativi e una gestione più efficace dei flussi migratori. Tuttavia, senza una visione strategica di lungo periodo, il rischio è che l’Italia si ritrovi intrappolata in uno scenario di declino demografico ed economico. La sfida non è più rinviabile: è necessario agire ora, prima che il sistema collassi sotto il peso delle sue contraddizioni.

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Alloggi sovraffollati e fatiscenti, il disagio minorile è un’emergenza

In Italia, il 16,2% dei bambini e degli adolescenti vive in abitazioni con problemi strutturali o di umidità, mentre oltre il 40% cresce in condizioni di sovraffollamento. I numeri analizzati da Openpolis descrivono vite segnate da un disagio che inizia tra le mura di casa e si propaga nelle opportunità educative, sociali e sanitarie. La casa, che dovrebbe essere rifugio e punto di partenza, si trasforma in una trappola.

Le ultime analisi Istat, pubblicate nell’ambito del rapporto del gruppo Crc (Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza), restituiscono un quadro allarmante. Le regioni del Mezzogiorno pagano il prezzo più alto: in città come Napoli, Catania e Reggio Calabria, più del 50% delle abitazioni risulta in cattive condizioni. Il legame tra disagio abitativo e povertà minorile è evidente, eppure difficile da affrontare senza una visione territoriale chiara.

Una questione di salubrità e spazi

L’abitazione inadeguata non è solo una questione estetica. Un ambiente umido o privo di riscaldamento danneggia la salute fisica dei minori, aumentando il rischio di patologie respiratorie. Ma il disagio è anche educativo: uno spazio sovraffollato è uno spazio in cui è difficile concentrarsi, studiare o semplicemente giocare. Privare un bambino di uno spazio adeguato significa negargli un tassello fondamentale per il suo sviluppo.

La dimensione sociale si intreccia con quella educativa. Famiglie costrette in alloggi sovraffollati o fatiscenti raramente possono permettersi il lusso di invitare amici o creare relazioni di comunità. L’isolamento diventa un effetto collaterale della povertà abitativa.

Il difficile monitoraggio del fenomeno

La mappatura del disagio abitativo è un’impresa complessa. I dati più recenti e dettagliati risalgono al censimento del 2011, un’eternità in termini di evoluzione sociale ed economica. Tuttavia, incrociando le informazioni disponibili, emerge una correlazione netta: le aree con un alto tasso di famiglie in difficoltà economica coincidono con quelle dove gli edifici residenziali sono in condizioni peggiori. Nel Mezzogiorno, l’indice di vulnerabilità sociale e materiale raggiunge i livelli più alti, con punte nelle province di Napoli, Reggio Calabria e Catania.

La disaggregazione dei dati è un passo necessario per definire politiche mirate. Eppure, l’esiguità del campione in alcune regioni – come Molise, Basilicata e Valle d’Aosta – rende le analisi incomplete. Un aggiornamento sistematico dei dati è essenziale per affrontare un problema che è insieme sociale e infrastrutturale.

Povertà abitativa e politiche educative

Le condizioni abitative dei minori si riflettono inevitabilmente sulla loro istruzione. Nelle scorse settimane, è emerso come la qualità degli edifici scolastici – dal riscaldamento al rispetto delle normative antisismiche – incida sull’esperienza educativa. Ma la scuola da sola non basta. Senza un ambiente domestico sicuro e salubre, ogni intervento educativo rischia di essere inefficace.

Il problema non è nuovo, ma la pandemia ha acuito le fragilità. Nel 2021, un minore su sette viveva in povertà assoluta. Questo dato, cresciuto del 3% rispetto al 2019, conferma una tendenza decennale che vede le famiglie numerose e con figli particolarmente esposte al disagio. Intervenire sulla povertà abitativa non è solo una questione di giustizia sociale: è un investimento sul futuro di milioni di bambini.

Le responsabilità istituzionali

La casa non è un privilegio: è un diritto. Eppure, in Italia, l’accesso a un’abitazione dignitosa continua a essere una questione di latitudine e reddito. Le politiche abitative, frammentate e spesso miopi, non riescono a rispondere a un problema strutturale che richiederebbe visione e coordinamento. L’urgenza di un piano nazionale per la riqualificazione degli edifici e il sostegno alle famiglie è sotto gli occhi di tutti.

Ma le responsabilità non si fermano qui. I dati dimostrano che, senza interventi mirati, il divario tra Nord e Sud – e tra chi può permettersi una casa e chi no – continuerà ad ampliarsi. E con esso, la distanza tra l’Italia che tutela i diritti dei minori e quella che li sacrifica all’inefficienza politica.

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Amici degli scafisti in tutto l’orbe terraqueo

La promessa di stanare i “gli scafisti in tutto l’orbe terraqueo” pronunciata con ardenti occhi sgranati dalla presidente del Consiglio a marzo del 2023 non sta andando benissimo. Al momento risultano arrestati come scafisti alcuni poveri disperati a cui è stato affidato il timone durante l’ultimo miglio, mentre gli scafisti veri erano già sulla via di ritorno per la Libia e per la Tunisia.

Era certamente molto vicino ai trafficanti – quelli veri – il torturatore libico Najeem Osema Almasri Habish, detto Almastri, che domenica era stato arrestato a Torino dopo aver assistito alla partita tra Juventus e Milan. Mica per niente su di lui pende un mandato di arresto internazionale della Corte penale internazionale.

Avrebbe potuto essere un bel colpo. Meloni avrebbe potuto benissimo organizzare una delle sue conferenze stampa dove è vietato fare troppe domande a colei che conferisce. Ma alla Corte dell’Aia temevano da subito che l’Italia avrebbe trovato un inghippo per liberare Almastri, troppo utile al nostro governo per fare il lavoro sporco in Libia.

Così è stato. Con poca vergogna il nostro governo ha scovato un presunto vizio procedurale e ha rilasciato il torturatore spolverandogli il colletto e porgendo tante scuse. Dopodiché ha pensato bene di mettere a disposizione un volo di Stato per riaccompagnarlo a Tripoli dove era atteso da una folla festante e fuochi d’artificio.

Riaccompagnare a casa “gli scafisti in tutto l’orbe terraqueo” è l’ultimo stadio dei sovranisti servi di decine di padroni.

Buon mercoledì.

La presidente Meloni a Bengasi, 7 maggio 2024

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Donald inaugura il nuovo corso e fa felici i signori delle armi

La guerra è un affare, e in questo caso un affare che si veste di nostalgia. Donald Trump, l’eterno candidato della retorica incendiaria, torna a occupare le pagine della politica internazionale con una promessa che suona come un brindisi nelle sale dei produttori d’armi: “Basta aiuti a Kiev“. Un annuncio che riempie di gioia non solo i falchi del trumpismo ma anche chi, dalla produzione di missili agli armamenti pesanti, sa trasformare l’incertezza in profitti stellari.

L’ironia è feroce: Trump, che si presenta come l’outsider pronto a sradicare gli interessi dei potenti, si rivela l’amico più affidabile per un settore che prospera sulla destabilizzazione. Il mercato delle armi, alimentato dalla crisi in Ucraina, è diventato un pilastro dell’economia per molti Paesi, soprattutto in Europa. Secondo i dati riportati da Politico, la promessa di un taglio agli aiuti statunitensi a Kiev apre scenari ben definiti: meno risorse americane significano più spazio per l’industria bellica europea. La guerra come opportunità, insomma, con Trump a fare da acceleratore.

Una guerra che cambia mercato

Il conflitto in Ucraina non è solo una tragedia umanitaria: è un volano per l’industria delle armi. Mentre i governi europei si affrettano a potenziare le proprie difese, temendo l’allargarsi del conflitto, i produttori di armamenti registrano bilanci in costante crescita. La Germania, ad esempio, ha varato un piano da 100 miliardi di euro per il riarmo. La Francia, dal canto suo, ha aumentato il budget per la difesa del 40% rispetto al periodo pre-bellico. I produttori di armi si sfregano le mani. Con l’ipotesi di un taglio agli aiuti americani, questi colossi si trovano nella posizione perfetta per colmare il vuoto.

E qui il paradosso: mentre si professa paladino del “prima gli americani”, Trump favorisce indirettamente una maggiore dipendenza europea dalle forniture locali. Non si tratta solo di denaro ma di un cambio di equilibri che potrebbe spingere i governi europei a un’autonomia che, sotto sotto, i produttori d’armi aspettano da anni. Gli alleati d’oltreoceano non sono solo indispensabili, sono anche concorrenti. E Trump potrebbe consegnare loro la scacchiera.

Il business dell’instabilità

La corsa agli armamenti non è mai stata tanto rapida. Lo dimostrano i dati: tra il 2021 e il 2023, gli ordini di armi in Europa sono aumentati del 93%, il più alto incremento dagli anni ’80. L’Ucraina ha bisogno di sistemi avanzati, ma non è solo Kiev a guidare la domanda. Polonia, Paesi baltici e persino Svezia e Finlandia stanno trasformandosi in nuovi hub militari. Trump, con il suo “America First”, non fa altro che alimentare il bisogno di armi e la paura dell’abbandono, trasformando ogni mossa in un moltiplicatore per l’industria.

È qui che si consuma il grande bluff. Gli stessi produttori che oggi sorridono alle dichiarazioni di Trump sanno che la sua politica non porta stabilità ma incertezza. Un’America meno presente significa più spese europee ma anche un mondo più instabile, il brodo primordiale per nuovi conflitti. E loro saranno sempre pronti a fornire le armi necessarie.

Chi paga il prezzo?

Mentre gli azionisti festeggiano e le borse registrano picchi record, la domanda resta la stessa: a quale costo? Chi pagherà per questo festino bellico? Non certo i produttori d’armi, che prosperano sia in tempo di guerra che in tempo di pace armata. Saranno le persone comuni, quelle stesse che vedono i loro governi destinare fondi sempre più consistenti alla difesa mentre sanità e welfare vengono lasciati indietro. Saranno i civili di Kiev, Mariupol o Kharkiv, che pagano il prezzo più alto in vite umane.

Trump, il miglior amico dell’industria bellica

La retorica di Trump è un’arma a doppio taglio, e i produttori d’armi lo sanno bene. Più incertezza significa più domanda. Più paura significa più contratti. Che l’industria bellica festeggi per il ritorno di Trump è il segreto peggio custodito di questa nuova stagione politica. Ma è anche la dimostrazione di come la politica, quando piegata agli interessi di pochi, non sia altro che un mercato. E a questo mercato, il prezzo lo paga sempre qualcun altro.

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