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L’Italia è una Repubblica fondata sulla rendita – Lettera43

Scordiamoci l’articolo 1 della Costituzione. Nel nostro Paese la ricchezza non si crea con il lavoro o con il merito, ma si eredita. I capitali familiari si ingrossano grazie a un regime fiscale amico. E per chi non ha lun cognome alle spalle, in assenza di ascensori sociali, il futuro resta una promessa.

L’Italia è una Repubblica fondata sulla rendita

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. In teoria. Perché in pratica, oggi, il Paese si regge su un principio opposto: quello della rendita. È quanto emerge dal rapporto La pesante eredità, pubblicato dal think tank Tortuga insieme a FutureProofSociety, che disegna un Paese in cui la ricchezza non si crea, si eredita. Non si guadagna, si conserva. E soprattutto non si redistribuisce: si accumula, si tramanda, si protegge dietro franchigie milionarie e aliquote irrisorie.

A Millennial e Gen Z resta il 9 per cento del patrimonio nazionale

I dati sono inequivocabili. Il 10 per cento più ricco della popolazione detiene il 60 per cento della ricchezza nazionale, mentre alla metà più povera resta un misero 7,4 per cento. Una forbice che si è allargata negli ultimi 10 anni di 7 punti percentuali, il doppio della media europea. Il risultato è un Paese dove la ricchezza è sempre più polarizzata, e dove l’anomalia non è solo verticale – tra ricchi e poveri – ma anche generazionale. Nel 2022, il 75 per cento della ricchezza italiana era nelle mani degli over 50, di cui il 40 per cento pensionati. Ai giovani – Millennial e Gen Z  – resta appena il 9 per cento del patrimonio nazionale. A parità di età, un baby boomer possedeva il 50 per cento in più rispetto a un 40enne di oggi. Questo non è un normale effetto anagrafico: è una condanna anagrafica. Un sistema che ha funzionato per chi è entrato nel mondo del lavoro prima degli Anni 90 – salari in crescita, casa accessibile, welfare solido – oggi lascia ai nuovi entranti solo precarietà, affitti esorbitanti e contratti a termine. Con il lavoro che non basta più a costruire un futuro, l’unica leva diventa l’eredità. Ma solo per chi può permettersela.

L'Italia è una Repubblica fondata sulla rendita
dal rapporto di Tortuga.

Nei prossimi 20 anni 6.486 miliardi di euro passeranno di mano

Nei prossimi 20 anni, stimano Tortuga e FutureProofSociety, si assisterà al più grande trasferimento di ricchezza intergenerazionale nella storia d’Italia: 6.486 miliardi di euro. Ma a beneficiarne saranno, ancora una volta, i figli dei già ricchi. In assenza di una riforma fiscale, questa “pesante eredità” rischia di trasformarsi in un acceleratore di disuguaglianze: la ricchezza concentrata in pochi nuclei familiari si trasmetterà quasi intatta ai loro eredi, consolidando un’aristocrazia economica di fatto. L’Italia ha una delle peggiori mobilità sociali dell’area Ocse: l’indice di elasticità intergenerazionale del reddito è fermo a 0,5. Significa che metà del reddito di un individuo dipende da quello della famiglia di origine. Più che un ascensore guasto, un sistema a classi fisse, dove i figli dei dirigenti diventano dirigenti e i figli degli operai restano operai. E dove la scuola non basta a cambiare il destino: solo l’8 per cento dei figli di genitori senza titolo di studio superiore riesce a ottenere una laurea.

La proprietà della casa è sempre più inaccessibile

Il problema è che i giovani italiani sono penalizzati su entrambi i fronti: lavoro e capitale. Sul primo, Eurostat certifica un tasso di disoccupazione giovanile del 21,6 per cento (maggio 2025), con un’incidenza del lavoro a termine che raggiunge il 47 tra i lavoratori a basso reddito. Sul secondo, la proprietà della casa – che rappresenta il principale asset patrimoniale – è sempre più inaccessibile: i prezzi sono cresciuti del 120 per cento dal 2000, mentre il 62,7 per cento degli under 36 riesce a possedere un’abitazione, spesso grazie al sostegno familiare.

L'Italia è una Repubblica fondata sulla rendita
Elaborazione di Tortuga sui dati Eurostat.

L’Italia si conferma un paradiso fiscale per l’eredità

La beffa è che a fronte di un trasferimento potenziale di 6.486 miliardi di euro, l’attuale sistema fiscale prevede un gettito stimato in appena 50 miliardi in 20 anni. Meno di 2,5 miliardi l’anno. Con franchigie da un milione di euro e aliquote ferme al 4 per cento, l’Italia si conferma un paradiso fiscale per l’eredità. In Francia, l’aliquota massima arriva al 45 per cento, in Germania al 30, nel Regno Unito al 40. Qui no: chi eredita milioni di euro paga una tassa inferiore a chi guadagna mille euro al mese. Secondo le stime del report, riallineare l’imposta di successione agli standard europei potrebbe generare almeno 17 miliardi di euro in più ogni anno, da destinare a un “Fondo per il Futuro” a favore dei giovani. Un’occasione che il governo non sembra intenzionato a cogliere. Il problema non è solo economico: è politico, sociale, culturale. È una crisi di legittimità.

Oggi la vera cittadinanza si eredita con il capitale e con il codice fiscale

L’articolo 1 della Costituzione recita che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Ma il lavoro non garantisce più l’accesso alla cittadinanza economica. Non emancipa, non premia il merito, non offre mobilità. Oggi la vera cittadinanza si eredita: con il capitale, con le reti familiari, con il codice fiscale. E allora la domanda non è più «che lavoro fai?», ma «di che famiglia sei?». Se non si interviene, il rischio è di scivolare verso una società neo-feudale, dove le classi si riproducono per nascita e dove i giovani, privi di capitale e di futuro, diventano cittadini dimezzati. Un sistema che non solo tradisce la Costituzione, ma spezza ogni promessa di giustizia. E una Repubblica così non è solo fondata sulla rendita. È fondata sull’ingiustizia.

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L’Italia dei “senza rete”, la frattura nascosta che paralizza il Paese: l’esercito silenzioso di chi vive senza protezioni

In un Paese ossessionato dalle classifiche, dalle percentuali e dai ranking europei, c’è un dato che racconta più di molti discorsi sulla modernità mancata: nel 2024 il 15,2% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora e non è inserito in percorsi di formazione. I Neet. Un’etichetta clinica per un problema politico, sociale ed economico che affonda le radici in un sistema incapace di costruire percorsi di emancipazione. L’Italia è seconda in Europa, dietro solo alla Romania, per incidenza del fenomeno, secondo Openpolis. 

Ma sotto il dato aggregato si nasconde una frattura più profonda e trasversale, quella che separa chi ha una rete – patrimoniale, familiare, relazionale – da chi vive senza nessuna protezione. La “Netless Class”, come la chiama Simone Cerlini su Lavoce.info, è fatta di giovani e adulti che non rientrano nei canoni classici della povertà: lavorano, spesso studiano, a volte si affacciano sul mercato con competenze formali anche elevate. Ma basta un inciampo – una malattia, una separazione, una crisi economica – per vederli franare. Perché non hanno un capitale su cui contare, né tutele accessibili, né la possibilità di difendere i propri diritti senza rimetterci tutto.

Una generazione senza appigli

La condizione dei Neet, giovani che non studiano e non lavorano, non è solo un indicatore statistico: è l’effetto visibile di una struttura che non garantisce percorsi, non orienta, non accompagna. Il 17,8% dei giovani diplomati italiani è Neet, una percentuale superiore persino a quella dei coetanei con solo la licenza media (13,3%). Tra i laureati si scende all’11,8%, ma sempre sopra la media europea. Segno che anche il titolo di studio, da solo, non protegge più. E che il mercato del lavoro italiano, con le sue richieste sempre più sbilanciate verso competenze digitali e flessibilità estrema, non assorbe la fatica formativa dei giovani. Soprattutto se non accompagnati, se privi di una rete familiare che li orienti, se provenienti da territori svantaggiati.

Non a caso, l’incidenza dei Neet è massima nelle aree urbane più dense (16,3%) e in particolare nel Mezzogiorno: a Catania si tocca il 42%, a Palermo il 39,8%, a Napoli il 37,3%. È un dato strutturale, non episodico, che resiste agli slogan e alle riforme annunciate. E che mostra una correlazione netta tra esclusione educativa e vulnerabilità socio-economica.

Il lavoro senza scialuppa

La crisi dei giovani “senza rete” si intreccia con quella di adulti che non riescono più a “farcela da soli”. Il mercato del lavoro flessibile e segmentato, la contrazione dei diritti, l’erosione del welfare e la concentrazione delle ricchezze hanno prodotto una nuova classe trasversale: chi lavora, ma non ha alcuna protezione. Non sono poveri nel senso tradizionale, ma lo diventano al primo colpo di vento. “L’imprevisto – scrive Cerlini – non è solo un rischio: è una soglia che li separa dalla caduta”.

Questa condizione si traduce in disuguaglianze materiali e simboliche. Chi non ha capitale, non può permettersi di sbagliare. Né può difendersi legalmente: non ha i soldi per un avvocato, per reggere una causa, per contrastare una diffamazione o un licenziamento illegittimo. L’accesso alla giustizia diventa privilegio di chi ha mezzi. L’insicurezza economica si trasforma in insicurezza politica e sociale, e apre la strada alla frustrazione, alla rabbia, alla delega a soluzioni identitarie.

Contro l’Italia disarmata

Non si esce da questa trappola con qualche bonus o con la retorica del “merito”. Serve un cambiamento strutturale. Investimenti pubblici orientati all’inclusione, un welfare che non sia residuale, un riequilibrio fiscale che faccia pagare di più a chi ha di più. E politiche educative che non siano solo trasmissione di nozioni, ma costruzione di possibilità.

Oggi chi ha capitale lo vede moltiplicarsi, chi ha solo lavoro vive in equilibrio precario. E chi non ha né l’uno né l’altro si perde per strada. È l’Italia disarmata, quella che non fa notizia, ma che pagherà il conto più salato della prossima crisi. Se non si costruiscono reti, si scavano fossati. E chi cade, in fondo, non fa più rumore.

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La guerra di Salvini ai monopattini finisce a Roma. Con il suo stesso ministero che li finanzia

C’è una distanza siderale tra ciò che Matteo Salvini dice e ciò che Matteo Salvini firma. Non è una novità, certo. Ma la vicenda dei monopattini elettrici riesce nell’impresa di cristallizzare in un solo dossier l’intera parabola di un ministro che gioca a fare lo sceriffo mentre il suo stesso ministero distribuisce buoni viaggio per quei mezzi che il ministro diceva di voler combattere.

Il Capitano contro la “giungla”

È dal 2023 che Salvini ha trasformato i monopattini nel bersaglio preferito della sua propaganda “di sicurezza”. “Basta giungla”, “stop ai rischi”, “prima la sicurezza poi il business”: slogan martellanti, puntualmente accompagnati da annunci di strette legislative. E la stretta, in effetti, è arrivata. Con la legge 177/2024, i monopattini sono stati equiparati ai ciclomotori: casco obbligatorio per tutti, targa adesiva rilasciata dallo Stato, assicurazione RC e divieto di circolazione fuori dai centri urbani.

Il ministro ha brindato alla “fine del far west” su Facebook e nelle conferenze stampa, ma qualcosa – come spesso accade – non ha funzionato: la legge, per entrare in vigore pienamente, necessita di decreti attuativi che il ministero non ha mai scritto. Così, mentre il Codice della Strada impone vincoli pesantissimi, chi dovrebbe applicarli non ha neppure fornito le istruzioni. La repressione, insomma, è rimasta un titolo di giornale.

Roma, capitale dell’incentivo

Intanto, nella città simbolo del degrado da monopattino secondo Salvini, il ministero delle Infrastrutture ha finanziato un progetto esattamente opposto: si chiama “Bonus Sharing” e regala fino a 100 euro agli abbonati Atac per l’uso di mezzi in sharing. Anche i monopattini, ovviamente. L’iniziativa, presentata a luglio 2025, è frutto di un accordo tra Regione Lazio e Mit, con fondi ministeriali pari a 5 milioni di euro. Il risultato? Migliaia di romani sono incentivati a utilizzare proprio quei veicoli ai quali il ministro aveva dichiarato guerra.

A rendere il paradosso ancora più evidente, c’è il coinvolgimento attivo di operatori privati come Dott, che ha persino co-finanziato il voucher, portandolo a 40 euro. E mentre i mezzi aumentano e gli utenti anche, gli effetti della legge nazionale restano fermi al palo.

Parla Salvini, tace Salvini

Il vero corto circuito è tutto qui: Salvini il politico denuncia la “giungla”, Salvini il ministro la finanzia. Per giustificare la stretta, ha invocato la sicurezza e il decoro urbano. Ma i dati dell’Asaps (Associazione Amici della Polizia Stradale) raccontano altro: nel primo semestre 2025 i morti in monopattino sono già 14, contro i 20 dell’intero 2024. Il trend è in crescita nonostante la legge, o forse proprio per la confusione che ha generato.

E Roma, che riceve soldi pubblici per aumentare l’uso dei mezzi, continua a essere il laboratorio del fallimento: mezzi buttati nel Tevere, parcheggi selvaggi, vandalismi, batterie pericolose nelle acque. Il governo, con un atto, sovvenziona il problema e poi si lamenta del risultato.

Le voci che Salvini non ascolta

Il settore privato è in rivolta: Assosharing e Ancma hanno denunciato norme “inapplicabili”, avvertendo che 1.200 posti di lavoro sono a rischio, insieme a 300 milioni di fatturato. Gli ambientalisti, spiazzati, applaudono l’incentivo romano ma criticano l’ostilità nazionale. Il Codacons, favorevole alla stretta, chiede però l’applicazione effettiva della legge, che manca. L’unica cosa unanime è la constatazione del caos.

Il Parlamento? Silente. Le opposizioni sembrano incapaci di cogliere e denunciare il nodo politico: un ministro che da una parte firma decreti repressivi, dall’altra finanzia iniziative che li smentiscono. Una schizofrenia governativa che dovrebbe alimentare interrogazioni e proteste. Invece nulla.

Il ministro con il fon elettrico

A novembre, Salvini si vantava: “Io di elettrico ho solo il microonde e il fon”. La battuta, utile per le dirette social, oggi si scontra con l’azione del suo dicastero. Ogni euro distribuito per incentivare la micromobilità è un silenzioso sberleffo a quel populismo muscolare che tenta di trasformare ogni problema urbano in un nemico da abbattere.

Ma i monopattini non sono spariti. Nonostante Salvini. Forse anche grazie a Salvini. O, più precisamente, grazie alla mano sinistra del ministero che non sa – o fa finta di non sapere – cosa predica la mano destra. Nell’Italia della mobilità, il vero ostacolo non sono i mezzi elettrici: è la coerenza che manca.

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Garantisti a geometria variabile

Dicono di essere garantisti. Lo ripetono ogni volta che uno dei loro finisce sotto inchiesta, come se bastasse un aggettivo per coprire l’odore della convenienza. Ma il garantismo di governo è un privilegio, non un principio. Lo si applica agli amici, lo si nega ai nemici.

Per Beppe Sala, sindaco di Milano, toni sobri e rispetto istituzionale. Ma bastava ricordare la furia scatenata contro Emiliano in Puglia: lì si parlava di “resa dei conti”, si chiedevano dimissioni prima ancora di un interrogatorio, e si convocava l’antimafia come tribunale politico. Garantismo a geometria variabile, a seconda della casacca.

Alla Camera, Giovanni Donzelli ha usato atti riservati per accusare il Pd di connivenze con ambienti malavitosi. Disse: “Sta con lo Stato o con i mafiosi?” Nessuno lo fermò. Nessuna sanzione. Perché colpiva l’avversario giusto. Quando invece Delmastro, suo compagno di partito, fu condannato per aver passato quelle stesse informazioni, il ministro Nordio gli espresse “totale fiducia” e si augurò “una riforma radicale della sentenza”. La coerenza Soppressa in nome della militanza.

Quando a finire sotto accusa è il figlio del Presidente del Senato, il garantismo diventa attacco preventivo alla vittima: “Ha assunto cocaina”, disse il padre, “ha denunciato dopo 40 giorni”. Nessun rispetto, solo colpevolizzazione della denunciante.

Nel frattempo Daniela Santanchè, accusata di truffa all’Inps e falso in bilancio, resta saldamente al suo posto. Quando mentì sul suo status giudiziario al Senato, nessuno chiese chiarimenti. Il garantismo, in quel caso, serviva a congelare ogni responsabilità.

Fuori dal cerchio, invece, basta un sospetto per scatenare il linciaggio. E nelle piazze, il governo invoca pene più dure, nuovi reati, stretta sui migranti e i “giovani violenti”. Il garantismo è la maschera. Il giustizialismo, il volto vero. La legge si applica agli altri. Per i propri, si interpreta. Sala incluso, curiosamente.

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Giornata per i giornalisti uccisi, non dimenticate quelli di Gaza

Giorgia Meloni saluta “con grande soddisfazione” l’approvazione della Giornata nazionale in memoria dei giornalisti uccisi a causa del loro lavoro. Parole solenni, da capo di governo che onora il mestiere di chi racconta il mondo rischiando la vita. Eppure basta scorrere la cronaca di questi mesi per inciampare nella domanda che spezza la retorica: anche quelli uccisi a Gaza rientrano nella memoria istituzionale della premier Meloni?

Dal 7 ottobre 2023, secondo i dati del Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), almeno 238 giornalisti palestinesi sono stati uccisi sotto i bombardamenti israeliani mentre documentavano, fotografavano, testimoniavano. La strage silenziosa che accompagna il genocidio non trova spazio nei comunicati ufficiali del governo. Eppure erano giornalisti, esattamente come quelli celebrati dalla nuova legge italiana. Stavano facendo il loro lavoro. Esattamente come quelli di cui si onora il coraggio.

Il dubbio non è retorico, è politico. Dopo il risveglio tardivo di Palazzo Chigi davanti alle bombe sulle chiese cristiane, ci si chiede se davvero ci sarà anche un secondo scatto di coscienza. Sarebbe un miracolo, di questi tempi. Riconoscere il sacrificio dei reporter palestinesi significherebbe smentire l’alleato Netanyahu, rompere la linea dell’equidistanza pavida, spezzare il silenzio complice.
Ma la memoria, si sa, è un muscolo politico selettivo. Funziona bene quando non disturba i rapporti internazionali, meno quando nomina i carnefici. Così il governo che celebra i giornalisti uccisi, dovrebbe includere quelli fatti a pezzi dai suoi alleati. Altrimenti il rispetto per il giornalismo resta confinato ai comunicati stampa.

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Debito pubblico, tra propaganda e realtà: FdI esulta per un presunto calo che non c’è

Quando il debito pubblico cala di dieci miliardi in un mese, Fratelli d’Italia esulta: “Grazie al Governo Meloni, i conti migliorano e l’Italia cresce”, si legge in un post celebrativo sui social datato 15 luglio. Un successo sbandierato con toni trionfali, condito da una grafica acchiappa-like e dalla solita accusa alla sinistra di “catastrofismo”. Ma come dimostra una puntuale analisi di Pagella Politica del 16 luglio, quel calo non solo è marginale, ma viene usato in modo fuorviante per costruire una narrazione autoassolutoria e distorta.

Il debito non cala, aumenta

Il dato utilizzato dal partito di Giorgia Meloni fa riferimento a una pubblicazione della Banca d’Italia, che segnala effettivamente un calo di dieci miliardi tra aprile e maggio 2025. Ma si tratta di una flessione episodica, in un quadro tendenziale ben diverso. Da gennaio a maggio, infatti, il debito era aumentato ogni mese. E rispetto a maggio 2024 è cresciuto di ben 129 miliardi, passando da 2.924 a 3.053 miliardi di euro. Una differenza che smonta qualunque trionfalismo: si tratta del livello più alto mai registrato nella storia repubblicana, in termini assoluti.

Inoltre, come fa notare Pagella Politica, dall’insediamento del governo Meloni il debito è aumentato di quasi 300 miliardi di euro. Altro che risanamento. E anche la variazione mensile tanto sbandierata – quei famosi dieci miliardi – rappresenta un misero -0,33%, del tutto fisiologico in un ciclo annuale dominato da picchi e rientri.

Quando il trucco è ignorare il contesto

Il problema, tuttavia, non è solo quantitativo, ma metodologico. Il post di Fratelli d’Italia presenta il dato del debito in valore assoluto, ignorando il principio basilare dell’analisi economica: rapportare il debito al Pil. È questo indice a restituire la reale sostenibilità di un debito, poiché tiene conto della capacità di un Paese di generare reddito e, dunque, di rispettare i propri impegni. Non a caso, è questo l’indicatore utilizzato da tutte le istituzioni internazionali, Commissione europea compresa.

E proprio il governo Meloni, nel Piano strutturale di bilancio di medio termine pubblicato nel settembre 2024, prevede un peggioramento: il rapporto debito/Pil dovrebbe salire dal 135,8% del 2024 al 137,7% nel 2025. Nessuna inversione di tendenza, ma un deterioramento annunciato.

Tra numeri e propaganda

La manipolazione semantica messa in atto da Fratelli d’Italia è ben nota: isolare un dato, decontestualizzarlo, trasformarlo in prova regina di un presunto successo politico. È lo stesso schema già usato per i salari, la povertà, gli sbarchi, l’occupazione, la spesa sanitaria. Così il debito pubblico diventa l’ennesimo terreno di propaganda, piegato alle esigenze di una narrazione preconfezionata. Ma i numeri, per quanto maltrattati, non mentono.

Se guardiamo ai dati reali, il quadro è nitido: il debito italiano continua a crescere. E se cala per un mese, fa notare Pagella Politica, lo fa in misura irrilevante rispetto alla dinamica complessiva. Nessun effetto Meloni, nessun merito particolare, nessun ribaltamento delle “narrazioni catastrofiste”. Anzi: le previsioni meno ottimistiche – quelle bollate come “ideologiche” – si stanno dimostrando più fondate di certi bollettini trionfali da social media manager.

La dura verità: la realtà non mente

L’insistenza con cui Fratelli d’Italia attribuisce al governo meriti inesistenti tradisce un dato culturale prima che economico: l’incapacità di riconoscere i vincoli oggettivi, la tendenza a riscrivere le regole del dibattito pubblico in funzione dell’efficacia comunicativa, la convinzione che la percezione valga più della sostanza. In altre parole, un rifiuto sistematico del principio di realtà.

Ma la realtà, prima o poi, presenta il conto. E su quel conto – che si chiami debito Pil, inflazione o disoccupazione – il Paese continuerà a pagare interessi, anche se qualcuno preferisce raccontare favole.

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Agricoltura, il ministero che scotta: intorno al dicastero la sfida dietro le quinte tra Lollobrigida, Prandini e il nodo Zaia

Nelle ultime settimane, le voci su una possibile “promozione europea” per Francesco Lollobrigida si sono fatte sempre più insistenti nei corridoi romani. Si parla di un incarico di prestigio – non meglio definito – legato alla “sovranità alimentare”, concetto identitario per Fratelli d’Italia e cavallo di battaglia di Coldiretti. Ma le ipotesi si scontrano con i fatti: la casella di Commissario europeo per l’Italia è già stata assegnata a Raffaele Fitto, le principali poltrone agricole dell’Ue sono occupate da altri e un “inviato speciale” con reali poteri a Bruxelles semplicemente non esiste, anche se si sussurra di un nuovo inviato “per la sovranità alimentare” fatto su misura per il cognato d’Italia.

La promozione che non c’è

Lollobrigida, figura chiave nel cerchio ristretto di Giorgia Meloni, ex cognato della premier, resta un punto fermo per il governo. Nonostante sia stato protagonista di gaffe clamorose – dal treno fermato all’allarme “sostituzione etnica” – e la sua legge contro la carne coltivata, celebrata come baluardo identitario, abbia già attirato critiche e rischi di infrazione da Bruxelles.

L’idea di una sua uscita verso l’Europa avrebbe potuto risolvere elegantemente un problema d’immagine per Palazzo Chigi. Ma lo scenario è saltato: la promozione non c’è, e Meloni – che ha fatto della stabilità del governo una bandiera – ha escluso ogni ipotesi di rimpasto. Il mantra resta uno solo: fedeltà e continuità.

Nel frattempo, si muove Ettore Prandini. Il presidente di Coldiretti, uomo d’azione, è il nome che i beninformati accostano da tempo al dicastero agricolo. Figura ingombrante e assertiva, Prandini è più di un semplice leader di un’associazione di categoria: è un operatore politico a tutti gli effetti, con canali diretti sia con Palazzo Chigi che con la Commissione europea. Il sodalizio tra Coldiretti e il governo Meloni è saldo e visibile: il nome del ministero è stato modificato su proposta dell’organizzazione, le leggi bandiera coincidono con le sue battaglie e tra le file del ministero operano figure da tempo orbitanti nella galassia Coldiretti.

La poltrona contesa

Ma è attorno a questo stesso ministero che si addensa un altro fronte: quello del futuro politico di Luca Zaia. Il presidente del Veneto, bloccato dalla legge sul terzo mandato e dal no della Corte Costituzionale, si trova senza una destinazione chiara. E tra le opzioni in campo, una poltrona da ministro – proprio all’Agricoltura – sarebbe per lui l’approdo più naturale.

Zaia, già titolare del dicastero in passato, ha un profilo tecnico-amministrativo che piace agli elettori e incute timore agli alleati. Il suo consenso personale supera largamente quello della Lega, il suo stile da “amministratore puro” lo distingue dalla retorica salviniana e dalla macchina di Fratelli d’Italia. Ma è proprio questa forza personale a renderlo scomodo. Alla Lega, che teme un Zaia troppo autonomo, e a FdI, che non vuole cedere un ministero strategico né interrompere con un rimpasto il record di durata del governo.

Il vero tema, quindi, non è dove andrà Lollobrigida, ma chi controllerà il ministero dell’Agricoltura nel prossimo futuro. Tra Prandini, il cui potere è già consolidato, e Zaia, che cerca una collocazione nazionale, si gioca una partita ad alta tensione. Il dicastero diventa il crocevia di interessi divergenti: la rappresentanza territoriale del Nord-Est, l’influenza delle lobby agricole, gli equilibri interni alla maggioranza.

Giorgia Meloni, nel mezzo, deve bilanciare tutto: le ambizioni dei suoi, il consenso che non può permettersi di perdere e il controllo di un alleato che non vuole rendere troppo forte. Non si tratta solo di scegliere un ministro, ma di decidere chi può permettersi di pesare davvero in questo governo. E alla fine Zaia potrebbe rompere tutti i piani: presentare una sua lista alle prossime regionali e mettere nei guai, sul serio, il suo segretario Salvini.

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La memoria fa paura: per questo Federico non ha pace

Venti anni dopo, la memoria di Federico Aldrovandi è un dolore che si rinnova e una cartina tornasole dell’Italia che abbiamo deciso di diventare. Un ragazzo di diciotto anni, nato il 17 luglio 1987, disarmato, incensurato, lasciato morire sull’asfalto, con i polsi ammanettati e il volto tumefatto, mentre quattro agenti lo “bastonavano di brutto”. Così, senza vergogna, dissero via radio.

A Ferrara, quella notte del 25 settembre 2005, non è morto solo un ragazzo: si è infranta l’illusione che lo Stato sia sempre garante della sicurezza. Si è affermata invece la possibilità — concreta, tangibile — che chi dovrebbe proteggere possa uccidere, e poi insabbiare, e poi tornare al proprio posto. I poliziotti condannati per omicidio colposo rientrarono in servizio nel 2014. La pena, tre anni e mezzo, fu ridotta dall’indulto a sei mesi. Come se la vita di un diciottenne valesse meno di un permesso non timbrato.

Federico non è stato ucciso solo dalla violenza fisica ma da un sistema che ha mentito, coperto, deviato. Dai manganelli spezzati ai verbali manipolati. Dai primi comunicati alla versione smentita dei “pali contro cui si sarebbe sbattuto da solo”. Dai funzionari chiamati a coprire, fino alle accuse pubbliche contro la madre, “colpevole” di voler sapere. E da un ex ministro, Carlo Giovanardi, che osò definire Federico un “eroinomane”, aggiungendo infamia alla morte.

Ogni 25 settembre, la famiglia Aldrovandi ripete il suo calvario, ricordando un figlio lasciato morire per strada mentre gli veniva negata anche la dignità di un lenzuolo. Ma ogni 25 settembre dovrebbe essere anche il giorno in cui lo Stato si guarda allo specchio. E ha il coraggio di stanare i traditori, i torturatori e gli assassini. Anche quando indossano la divisa.

Buon venerdì.

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Ben svegliata, Meloni! Ma i cocci di Gaza sono anche tuoi

C’è voluto un missile sulla chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza, due donne cristiane dilaniate, otto feriti (tra cui il parroco Gabriel Romanelli) e il silenzio imbarazzato del Patriarcato per risvegliare Giorgia Meloni dal coma etico. Dopo mesi di mattanza trasmessa in diretta, la premier ha scoperto che “gli attacchi sui civili” – che stavolta non sono anonimi palestinesi, ma fedeli cristiani con nome, volto e parrocchia – “sono inaccettabili”.

Ben svegliata, presidente! Ma è tardi. E lei, su quel sonno selettivo, ha già lasciato diverse impronte. Le risoluzioni Onu boicottate, le armi italiane vendute, i silenzi coperti da formule ipocrite (“attacchi inaccettabili”) a cui non seguono mai i fatti. La verità è che questo governo ha contribuito, anche con l’indifferenza, a rompere l’argine dell’umanità. E ora non può far finta che i cocci non siano anche suoi.

Israele continua a colpire case, scuole, ospedali, tende di sfollati, chiese. La carneficina a Gaza è una routine. Decine di morti solo all’alba di ieri. Famiglie intere polverizzate, quartieri spianati, bambini mutilati. E se qualcuno osava chiamarlo crimine, era accusato di antisemitismo.

Poi è arrivato un proiettile sul tabernacolo, e i muscoli della premier si sono contratti. Forse perché la politica estera italiana, in questo governo, è tutta una questione di categoria dell’empatia I cristiani valgono, i palestinesi si contano?

Se oggi si accorge delle vittime, non è perché ha aperto gli occhi che avrebbe potuto aprire 60mile vittime fa. Forse è perché il sangue ha sporcato anche i suoi.

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Un governo lungo con le gambe corte

A mille giorni dall’insediamento, il governo Meloni può vantare una longevità inusuale nella storia repubblicana. Ma la stabilità, da sola, non garantisce qualità. L’analisi dei dati raccolti da Openpolis restituisce un bilancio che smentisce i toni trionfalistici. Il governo ha fatto ampio ricorso allo strumento del decreto-legge: 103 in totale, di cui 86 convertiti e 11 decaduti. È il numero più alto tra le ultime legislature, con una media mensile di 3,09.

Ma il dato più significativo riguarda i voti di fiducia: 94 in tutto, distribuiti in 54 alla Camera e 40 al Senato. Una strategia sistematica per comprimere il dibattito parlamentare e neutralizzare qualsiasi dissenso interno. Anche la tanto sbandierata coesione di maggioranza si regge più sull’uso di vincoli procedurali che su un’effettiva sintonia politica: l’indice di compattezza parlamentare si ferma al 72,6% alla Camera e al 64,8% al Senato. L’azione legislativa si è poi arenata sul versante dell’attuazione: il 43% dei decreti attuativi necessari per rendere operative le leggi è ancora da adottare. Ciò significa miliardi di euro già stanziati ma non spendibili, per mancanza delle regole applicative.

Solo alla Presidenza del Consiglio sono bloccati quasi 3 miliardi. La paralisi riguarda tutti i ministeri: dalla salute al lavoro, dall’agricoltura all’ambiente. Quanto alle riforme costituzionali annunciate come pilastri identitari, solo l’autonomia differenziata ha completato l’iter. Il premierato è fermo alla Camera dopo il primo voto al Senato, mentre la separazione delle carriere in magistratura è ancora in corso. Il governo guidato da Meloni, insomma, ha costruito il proprio consenso più sulla messa in scena dell’efficienza che sulla reale efficacia delle sue politiche.

Mille giorni dopo, le leggi non producono effetti, il Parlamento è svuotato, la retorica del cambiamento si misura in decreti ancora incompiuti. La promessa di “fare presto e bene” ha generato un sistema dove si fa tanto, si approva in fretta, ma si realizza poco e spesso anche male.

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