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Stangata dal nuovo Codice della strada, Pagella Politica smentisce Salvini

Il nuovo Codice della strada, pronto a entrare in vigore, scatena polemiche e perplessità. Matteo Salvini, da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, è stato rapido nel respingere le critiche, sostenendo che non vi sarebbero “mega aumenti” nelle sanzioni, fatta eccezione per alcune categorie particolarmente sensibili come i parcheggi riservati ai disabili. Eppure ancora una volta i numeri sembrano raccontare una realtà diversa.

Dati alla mano: un giro di vite che pesa

L’analisi dei dettagli normativi, pubblicata da Pagella Politica, rivela che l’entità degli aumenti è significativa e riguarda una gamma ben più ampia di infrazioni. Per esempio, l’uso del cellulare alla guida, una delle violazioni più comuni e pericolose, subirà un incremento del 52% nella sanzione minima, passando da 165 a 250 euro. In caso di recidiva, il costo sale fino a 350 euro, con la sospensione della patente fino a tre mesi. Numeri che contraddicono nettamente l’idea di un semplice “ritocco”.

Non si tratta di un caso isolato. Le sanzioni per il superamento dei limiti di velocità subiscono anch’esse ritocchi significativi: “Chi supera i limiti di velocità con un eccesso tra i 10 e i 40 chilometri orari è già punito con una multa da 173 euro – scrive Pagella Politica -. Ma con il nuovo Codice della strada, se questa violazione è commessa all’interno di un centro abitato, e per almeno due volte in un anno, la multa sale a 220 euro e si rischia di perdere la patente per almeno 15 giorni”.

E ancora: “Crescono anche le multe per chi parcheggia la moto o l’auto vicino a un incrocio, che salgono da 25 a 87 euro e da 42 a 165 euro”. Incrementi che fanno riflettere, soprattutto se confrontati con l’inflazione corrente, che pure viene spesso usata come giustificazione per le modifiche legislative.

Salvini ha cercato di presentare il nuovo Codice come una misura “educativa”, mirata a proteggere categorie deboli e migliorare la sicurezza stradale. Ha enfatizzato le sanzioni per chi parcheggia motocicli o auto in posti riservati ai disabili: la riforma “aumenta” le sanzioni previste “rispettivamente a 165 euro e a 330 euro”. Tuttavia, questa narrazione non basta a coprire l’estensione del giro di vite, che colpisce una vasta platea di automobilisti e include infrazioni di ogni genere.

Sanzioni e retorica: chi paga davvero?

Il rischio, evidente, è che il nuovo Codice della strada venga percepito non come uno strumento per promuovere comportamenti responsabili ma come un modo per fare cassa. Un’accusa che, nel contesto attuale, pesa come un macigno. L’Italia è il paese in cui il governo sostiene di voler sostenere famiglie e imprese, eppure le stesse vengono colpite da rincari su infrazioni che spesso derivano da distrazioni più che da comportamenti dolosi.

C’è poi un’altra questione, più sottile e politica. Salvini sembra scommettere che il profumo dell’“ordine e disciplina” possa compensare il malcontento per gli aumenti. Ma la sua strategia rischia di trasformarsi in un boomerang: in un paese dove i costi della vita sono già alti e la fiducia nelle istituzioni è fragile, l’impressione di una politica che punisce senza offrire alternative concrete di miglioramento è destinata a incrinare ulteriormente il rapporto tra cittadini e istituzioni.

Il nuovo Codice della strada è un banco di prova non solo per le promesse di Salvini ma per il governo tutto. Dietro le dichiarazioni rassicuranti, resta un elenco di multe più alte e sanzioni più severe. Il dubbio che siano state sottovalutate le ripercussioni sociali di questi aumenti persiste, così come la sensazione che il racconto del ministro leghista si pieghi alla convenienza politica.

La domanda che resta sul tavolo è una: questa stretta sulle multe migliorerà davvero la sicurezza stradale o finirà per alimentare il dissenso? Salvini dovrà fare i conti non solo con i dati, ma con gli automobilisti italiani, che non sembrano molto disposti ad accettare retoriche semplicistiche. I numeri, del resto, non mentono.  

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Sì dell’Ue all’allargamento dell’area Schengen

Due giorni. Tanto è bastato per far crollare la maschera del leader della Lega. Matteo Salvini, che ha urlato la necessità di chiudere Schengen, si ritrova spettatore di un’Unione europea che non solo non gli dà ascolto, ma rilancia in direzione opposta. Bulgaria e Romania, dal primo gennaio, entreranno nell’area di libera circolazione. E sì, con il voto favorevole dell’Italia.

Salvini contro Schengen: urla in patria, silenzio a Bruxelles

L’ultima performance del Salvini ministro — quel mix di retorica e allarmismo di comodo — ha trovato il solito pubblico in patria, ma un silenzio assordante a Bruxelles. “Schengen va ripensato”, era il grido di battaglia. Ma l’Europa ha fatto orecchie da mercante, scegliendo di allargare il perimetro della libera circolazione anziché chiuderlo. Il voto del Consiglio dell’Unione europea è arrivato quasi senza intoppi: i ministri dell’Interno dei 27 Stati membri hanno dato il via libera definitivo all’ingresso di Romania e Bulgaria con una larga maggioranza. Il sostegno è stato schiacciante, con solo poche voci discordanti. Una vittoria netta per chi crede ancora in un’Europa aperta e inclusiva.

L’Italia, governata da una coalizione di destra, ha votato a favore. Una mossa che suona come una sberla politica a Salvini, ministro dei Trasporti e leader della Lega, che negli ultimi giorni aveva alzato il tiro contro Schengen, alimentando le solite paure sull’immigrazione. Non è la prima volta che il suo partito cerca di cavalcare l’onda del populismo, ma è forse una delle più clamorose sconfitte diplomatiche subite. Mentre Salvini agitava lo spauracchio del “nemico alle porte”, Romania e Bulgaria lavoravano con discrezione e serietà per soddisfare i criteri richiesti: controlli alle frontiere, lotta alla corruzione, riforme giudiziarie. Il risultato? Bruxelles ha preferito i dossier alle urla.

La decisione di allargare Schengen non è arrivata a cuor leggero. Negli ultimi anni, l’area ha subito pressioni crescenti. La pandemia ha riportato i controlli alle frontiere interne; la guerra in Ucraina ha aumentato le tensioni migratorie. Tuttavia, i ministri dell’Interno hanno scelto di guardare avanti, respingendo la retorica delle chiusure. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha definito il voto “un momento storico per l’Europa”. Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, ha parlato di “una vittoria per tutti i cittadini europei”. Parole che suonano come una sconfitta politica per chi, come Salvini, continua a evocare muri.

L’Italia vota sì: una sberla politica al leader della Lega

Eppure, la provocazione più grande arriva proprio dall’interno del governo italiano. Giorgia Meloni, impegnata a mantenere un fragile equilibrio tra le diverse anime della coalizione, ha scelto di sostenere l’allargamento. Salvini, così, si è trovato isolato anche a casa sua. Le ragioni del sì italiano sono chiare: il governo sa che bloccare l’accesso di Romania e Bulgaria avrebbe danneggiato gli interessi economici dell’Italia, uno dei principali partner commerciali dei due Paesi. L’allargamento di Schengen favorirà la circolazione delle merci, facilitando gli scambi e rafforzando le relazioni diplomatiche. Insomma, il pragmatismo ha vinto sull’ideologia.

Ma Salvini non demorde. Dopo il voto, ha ribadito la necessità di rivedere le regole di Schengen, accusando l’Europa di “ingenuità” di fronte alle sfide della sicurezza. È lo stesso refrain che il leader della Lega utilizza da anni, con sempre meno efficacia. L’Europa, intanto, si muove: il voto su Romania e Bulgaria è solo l’ultimo esempio di un’Unione determinata a mantenere vivo il progetto di integrazione, nonostante le difficoltà. Salvini, al contrario, sembra bloccato in un loop di slogan e paure.

Oggi, l’Italia deve fare i conti con un ministro che ha perso l’ennesima battaglia, lasciando spazio alla domanda: quanto ancora si potrà ignorare la distanza tra i proclami della Lega e la realtà di un’Europa che non si ferma Se la risposta non arriva dal governo, potrebbe arrivare presto dagli elettori.

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Aggrappata al buio del mare, affondata dalla crudeltà

La masnada di razzisti accarezzati dalla compagine di governo che passeggiano timidamente nel mondo reale e gaglioffamente nel mondo virtuale ieri ha passato l’intera giornata a cercare le parole per disinnescare la compassione verso Yasmine, bambina di undici anni trovata aggrappata in mezzo al mare.

Non potendo usare il vocabolario già pronto se i naufraghi sono maschi maschi adulti – quello che punta dritto alla criminalizzazione futura come insegna il grand visir della Lega – sono rimasti spiazzati dalla bambina per di più femmina brancolante nel buio del mare.

Frugando tutto il giovedì nel cassonetto delle loro obiezioni si sono aggrappati quindi al fatto che secondo i medici Yasmine non avrebbe potuto resistere nel Mediterraneo così freddo e così ondoso per tutto quel tempo. Qualche medico – che ne sa più di noi – ha spiegato che Yasmine potrebbe avere avuto una dilatazione del tempo dovuta dallo shock di avere visto suo fratello insieme a una quarantina di persone colare a picco. 

È iniziata così una cagnesca discussione sul tempo di aggrappamento di Yasmine con lo schema tipico degli spaventosi analfabeti funzionali (e quindi anche sentimentali) già certificati dall’Ocse. «Se un particolare della narrazione è discutibile allora tutto è falso anzi è un complotto», è la sofisticata cretineria della ciurma.

D’accordo, è vero: qualcuno ha messo una bambina in mezzo al mare dopo averla istruita sulla sceneggiatura per svelare la politica assassina del governo in carica. Mi pare così evidente e logico. Ecco svelato il complotto. 

Buon venerdì. 

v. anche il buongiorno del 12 dicembre Il piano di destabilizzazione? Una bambina di 11 anni con due salvagenti

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Italiani in bolletta per il gas, la guerra presenta il conto

Il gas costa e la guerra pure Le bollette di questo inverno parlano chiaro. Una famiglia milanese che vive in un appartamento di 70 metri quadrati in classe energetica G spenderà circa 1.403 euro per riscaldamento, cucina e acqua calda fino a marzo. È un aumento del 20% rispetto allo scorso inverno e del 68% rispetto al periodo pre-crisi del 2019-2020. A Roma, lo stesso appartamento costa 430 euro in più rispetto all’anno scorso. Anche a Palermo, nonostante il clima mite, le spese salgono fino a 420 euro per abitazioni più grandi. La causa principale è il prezzo del gas, salito a 48 euro per megawattora, tre volte tanto rispetto al 2019. Un paradosso: gli stoccaggi sono pieni, i gasdotti lavorano al 42% della loro capacità, ma le famiglie continuano a pagare caro.

Sono i costi della crisi geopolitica e di anni di ritardi sulla transizione energetica. L’Italia paga il prezzo della sua dipendenza dal gas e di politiche inefficaci. La maggior parte delle abitazioni italiane è in classe energetica G o F, un’eredità che si traduce in bollette insostenibili. Matteo Leonardi di Ecco sottolinea: “Case poco efficienti e dipendenza dal gas costringono oggi le famiglie a pagare i costi del ritardo”. Il risultato è davanti agli occhi: famiglie sempre più esposte e politiche incapaci di invertire la rotta. La stangata non è un imprevisto, è una condanna scritta tra le righe delle scelte sbagliate. Intanto nella Legge di bilancio attualmente in discussione in Parlamento, viene smantellato il sistema di detrazioni fiscali per l’efficienza energetica negli edifici. E fare cessare le guerre non sembra una priorità.

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Il piano mondiale di destabilizzazione? Una bambina di 11 anni con due salvagenti

Yasmine, a 11 anni, se ne va di notte tra la Tunisia e Lampedusa, aggrappata a due salvagenti in mezzo al mare. Stava su un barchino di ferro con suo fratello, insieme a una quarantina di persone. Poi le onde e il vento si sono portati via il barchino, si sono inghiottiti suo fratello e hanno spazzato via tutti gli altri. Tranne lei.

Yasmine si è salvata perché una di quelle maledette Ong, la Trotamar III, ha sentito le urla nonostante i motori accesi della sua imbarcazione. Quegli operatori umanitari che qualcuno al governo definisce “trafficanti di uomini” hanno l’empia abitudine di tenere le orecchie dritte in un pezzo di mare in cui l’Italia e l’Europa ordinano il silenzio e la cecità.
Yasmine, con suo fratello maggiore – che ora non c’è più – ha percorso 6.700 chilometri. È scampata agli allibratori del Sahara Occidentale, non è stata accalappiata dai bruti del presidente tunisino Kaïs Saïed, che l’Ue e l’Italia pagano profumatamente per fermare le Yasmine che arrivano fin lì.

Yasmine è approdata in Italia, dove si dice che lei – come suo fratello, anche se scomparso – sia un pericolo per la sicurezza nazionale. Ora sta qui, dove c’è un ministro dell’Interno che il 28 febbraio dell’anno scorso ha detto che lui, al posto di Yasmine, non prenderebbe il mare neanche se disperato, perché «educato alla responsabilità verso quello che si può dare al proprio Paese».

Yasmine, dicono qui, sarebbe l’indizio di un piano mondiale di destabilizzazione, la miccia della sostituzione etnica, la testimonianza di «un attacco alla sovranità italiana».
Ditemi voi come fanno a non vergognarsi.

Buon giovedì.

Foto di CompassCollective ” we are activists who support the rescue of refugees in the Mediterranean. Our sailing boat is TROTAMAR III”

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La propaganda non ha limiti sulla carneficina a Gaza

In Italia, l’arte di modellare la propaganda sembra aver trovato il suo culmine con la vicenda delle dimissioni del presidente di Amnesty Israele. Per giorni i media nostrani ci hanno raccontato che Ronen Raz si sarebbe dimesso per dissenso nei confronti del rapporto sull’accusa di genocidio di Israele a Gaza. Un racconto perfettamente aderente al clima politico dominante, tanto da sembrare fatto su misura per confermare pregiudizi più che informare. Ma bastava leggere la lettera di Raz per scoprire tutt’altra verità. “Mi sono dimesso perché non potevo più presiedere un ramo che non trattava i palestinesi come partner uguali, e non potevo avallare una critica al rapporto di Amnesty International che finge di essere un’opinione di una minoranza di esperti, ma è invece poco più che l’espressione di una visione del mondo israelo-ebraica, escludendo le voci palestinesi.”

Non una condanna al rapporto, ma una denuncia precisa della mancanza di equità e rappresentazione nelle dinamiche interne dell’organizzazione. Eppure, la narrazione italiana ha scelto di omettere il cuore del messaggio, trasformando un atto di critica verso la governance di Amnesty in un apparente rifiuto ideologico del rapporto su Gaza. Perché? Forse perché una narrativa più complessa, che includa le contraddizioni e i limiti delle istituzioni umanitarie, è meno digeribile per un’opinione pubblica abituata a schierarsi su fronti netti. Le dimissioni di Raz non sono un endorsement acritico per una parte o per l’altra, ma un richiamo al valore del dissenso costruttivo. Un valore che, tra le righe di tante testate, sembra essere stato sacrificato sull’altare della propaganda.

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Il patto commerciale con il Sudamerica mette nei guai Ursula

L’accordo di libero scambio tra Unione europea e Mercosur segna una svolta significativa nelle relazioni tra Europa e Sud America, ma non senza strascichi di polemica. Dopo 25 anni di negoziati, Bruxelles e i paesi del Mercosur – Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay – hanno finalizzato un patto commerciale che promette di creare una delle più vaste aree di libero scambio al mondo. Tuttavia, i dettagli dell’intesa e le sue implicazioni suscitano preoccupazioni, soprattutto nel settore agricolo europeo, tanto che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è già al lavoro per smussare gli angoli più spinosi.

I vantaggi e le tensioni dell’accordo commerciale

L’eliminazione di oltre il 90% dei dazi doganali sulle merci scambiate tra le due aree è al centro dell’accordo. Questo favorirà l’accesso delle esportazioni europee – inclusi macchinari, automobili e prodotti chimici – ai mercati sudamericani e viceversa. Per il Mercosur, l’accordo rappresenta un’opportunità di espansione, soprattutto per le esportazioni agricole come carne bovina, zucchero e soia. Ma è proprio su questo punto che si concentra la tensione. Gli agricoltori europei temono una concorrenza sleale: i prodotti sudamericani, spesso coltivati con standard ambientali e di sicurezza alimentare meno stringenti, rischiano di mettere in crisi i produttori locali, già alle prese con margini di guadagno sempre più ridotti.

Per calmare gli animi, von der Leyen ha annunciato modifiche al regolamento sull’Organizzazione comune dei mercati (Omc) e alla direttiva sulle pratiche commerciali sleali. Due strumenti chiave per rafforzare la posizione degli agricoltori europei di fronte a una competizione internazionale più agguerrita. Il nuovo regolamento Omc dovrebbe includere misure di salvaguardia più rigide, in grado di proteggere i settori agricoli più vulnerabili da un’eventuale invasione di prodotti a basso costo. Inoltre, la revisione della direttiva sulle pratiche sleali punta a garantire condizioni di parità tra agricoltori e grandi distributori, arginando gli abusi di posizione dominante che penalizzano i produttori più piccoli.

Le sfide politiche per von der Leyen

Von der Leyen non nasconde la sfida politica dell’operazione. Francia e Italia guidano il fronte degli scettici, preoccupate per gli effetti dell’accordo sul proprio settore agricolo. Macron, in particolare, ha ribadito che l’intesa sarà accettabile solo se il Mercosur garantirà il rispetto degli standard ambientali e sociali. Il tema della sostenibilità è infatti uno dei nodi più critici: l’Unione europea ha imposto vincoli stringenti per assicurare che il patto non alimenti la deforestazione in Amazzonia o violazioni dei diritti umani, ma resta da vedere quanto questi impegni saranno realmente rispettati.

Nonostante le controversie, l’accordo rappresenta una vittoria diplomatica per von der Leyen, che lo considera un pilastro della strategia commerciale dell’Unione. In un contesto geopolitico sempre più frammentato, rafforzare i legami con il Sud America è una mossa strategica per contrastare l’influenza cinese e statunitense nella regione. Tuttavia, il successo dell’intesa dipenderà dalla capacità della Commissione di equilibrare interessi divergenti: da un lato, promuovere l’apertura commerciale; dall’altro, proteggere i settori più esposti e garantire il rispetto degli standard europei.

Il processo di ratifica dell’accordo si annuncia lungo e complesso. Ogni Stato membro dovrà approvare l’intesa, e le divisioni interne rischiano di rallentarne l’attuazione. Nel frattempo, von der Leyen è chiamata a dimostrare che l’Europa è in grado di coniugare apertura e protezione, senza sacrificare i valori che ne definiscono l’identità.

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Conto da 327,7 milioni di euro per chiudere le frontiere: il costo economico e morale per l’Unione europea

Dal 2016 al 2027, Bruxelles ha destinato almeno 327,7 milioni di euro per potenziare i regimi di controllo alle frontiere di Libia e Tunisia, secondo quanto riportato nel documento di SOS Humanity. Un investimento che non solo consolida pratiche che sfidano il diritto internazionale, ma accende una luce inquietante su un sistema che sacrifica i diritti umani sull’altare della deterrenza migratoria.

Il caso Libia: un inferno finanziato dall’Europa

Nonostante la Libia non sia considerata un luogo sicuro ai sensi del diritto marittimo internazionale, l’Unione europea continua a collaborare con le autorità locali, incluse le cosiddette guardie costiere libiche, accusate di gravi violazioni dei diritti umani. Dal 2016 a novembre 2024, queste forze hanno intercettato e riportato illegalmente in Libia oltre 144.800 persone. Queste “riammissioni” forzate avvengono spesso sotto la minaccia di armi da fuoco e rappresentano un tradimento del principio di non-refoulement, uno dei pilastri del diritto internazionale.

Il sostegno europeo si è manifestato attraverso forniture di mezzi e addestramento per le guardie costiere libiche, oltre alla creazione di una zona Sar (Search and Rescue) libica che ha formalizzato il trasferimento di responsabilità nel coordinamento dei salvataggi. Tuttavia, rapporti dell’Onu e di varie organizzazioni denunciano come queste operazioni siano frequentemente orchestrate da milizie coinvolte nel traffico di esseri umani.

Tunisia: un nuovo modello di esternalizzazione

Anche la Tunisia, destinataria di 105 milioni di euro nell’ambito di un memorandum d’intesa firmato nel 2023, è protagonista di una crisi umanitaria aggravata dal coinvolgimento europeo. Nonostante il paese abbia ratificato la Convenzione sui rifugiati del 1951, non esiste un sistema di asilo funzionante e i migranti affrontano discriminazioni, violenze e deportazioni collettive. Gli accordi con l’Ue hanno contribuito a consolidare una zona Sar tunisina nel 2024, replicando il fallimento già visto in Libia.

Secondo Sos Humanity, l’Unione ha inoltre chiuso gli occhi sulle segnalazioni di collusione tra forze di sicurezza tunisine e trafficanti di esseri umani. Episodi documentati includono l’uso di gas lacrimogeni, violenze fisiche e manovre pericolose in mare, che hanno messo a rischio la vita di persone già vulnerabili.

L’esperimento albanese: una svolta pericolosa

Il recente accordo tra Italia e Albania segna un ulteriore passo nella strategia di esternalizzazione. Dal 2024, le persone salvate in mare e considerate “non bisognose di protezione” vengono trasferite nel porto albanese di Shengjin, dove le loro richieste di asilo sono esaminate sotto la legislazione italiana. Questo sistema, che costa 653 milioni di euro in cinque anni, solleva gravi preoccupazioni legali: le corti italiane hanno già giudicato il trattamento dei primi 19 rifugiati come contrario al diritto internazionale, ordinandone il trasferimento in Italia.

Un costo morale insostenibile

Dietro la logica dell’esternalizzazione si cela un progetto che mina i fondamenti del sistema internazionale di protezione dei rifugiati. Il prezzo di 327,7 milioni di euro non si misura solo in termini economici: è un costo morale che l’Europa paga sostenendo pratiche che violano la dignità umana. La narrazione di un continente impegnato nella difesa dei diritti umani si frantuma di fronte alle testimonianze di violenze, torture e morte nelle zone finanziate dall’Ue.

Sos Humanity invita a una riflessione urgente: è possibile conciliare sicurezza e umanità senza tradire i valori fondanti dell’Europa La risposta, per ora, resta tragicamente sospesa tra i numeri di bilancio e le storie di chi quei numeri li vive sulla propria pelle.

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Legge sull’aborto, la relazione è in ritardo ma non è una svista

Il governo Meloni continua ad avere una relazione complicata con l’aborto. Il ritardo accumulato sulla relazione annuale relativa all’applicazione della legge 194 del 1978 appare emblematico. La legge stabilisce che ogni anno, entro febbraio, il Ministero della Salute presenti al Parlamento un quadro aggiornato sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in Italia. Quest’anno, la relazione è arrivata con nove mesi di ritardo e priva di dati essenziali. Non un semplice errore tecnico, ma una scelta che alimenta dubbi sulla volontà politica di affrontare seriamente il tema.

Una legge sotto attacco per via burocratica

La relazione è l’unico strumento istituzionale che permette di monitorare l’applicazione della legge. Omettere tabelle fondamentali come quelle sugli obiettori di coscienza e sui centri in cui si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) equivale a occultare la realtà. Eppure, sappiamo che in alcune regioni il personale sanitario obiettore supera l’80%. Lazio, Campania e Molise sono l’emblema di questa realtà: in quest’ultima regione, un solo medico garantisce il diritto all’aborto pubblico. Le donne che vivono in queste aree sono costrette a migrare verso altre regioni o a rivolgersi al mercato privato, un lusso non accessibile a tutte.

Cifre incomplete e territori invisibili

Nel 2021, secondo i dati ufficiali, si sono registrate circa 66 mila Ivg, un calo costante dal 1983, ma le percentuali di obiettori rendono questi numeri fuorvianti. La realtà è che l’accesso al diritto dipende sempre più dal codice postale. Nella relazione mancano aggiornamenti chiave, come quelli sull’accessibilità ai farmaci abortivi. La RU486, che dovrebbe facilitare l’accesso all’Ivg, è disponibile in regime ambulatoriale solo in alcune regioni, un diritto trasformato in lotteria territoriale.

Un ritardo che non è mai neutrale

Giustificare questo ritardo con presunte difficoltà tecniche significa ignorare il messaggio politico che si cela dietro questa disattenzione. La legge 194 è stata concepita per garantire la salute e la libertà di scelta delle donne, ma non è mai stata al riparo dagli attacchi di chi vorrebbe relegarla a un guscio vuoto. I nove mesi di ritardo non sono un dettaglio: rinviare la pubblicazione significa rimandare la discussione, annullando ogni possibilità di confronto politico e pubblico.

Le parole del silenzio

Nel testo della relazione, il governo non menziona mai la necessità di ridurre l’obiezione di coscienza né propone soluzioni per colmare i divari regionali. Un vuoto che sa di strategia. Chi dovrebbe occuparsi della tutela dei diritti sembra invece concentrato sull’indebolirli, celandosi dietro tecnicismi che fanno apparire tutto come una casualità.

Una risposta necessaria

Il quadro è chiaro: il governo Meloni sta normalizzando l’erosione dei diritti fondamentali. Ma le responsabilità non sono solo del governo centrale. Le regioni giocano un ruolo cruciale nella raccolta dei dati e nell’implementazione della 194. L’assenza di trasparenza è condivisa, ma non è giustificabile.

La relazione sull’applicazione della legge 194 è un documento tecnico solo in apparenza: è un termometro della democrazia. Ritardi e omissioni non sono mai neutri. Sono scelte politiche mascherate da inefficienze. In Italia, nel 2024, il diritto delle donne all’aborto non è garantito allo stesso modo ovunque, e chi governa sembra preferire che non si parli di questo. Forse perché il silenzio, spesso, è l’arma più efficace per cancellare un diritto.

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Respingimenti e frontiere chiuse, l’Unione europea in tilt dopo la caduta di Assad

La caduta del regime di Bashar al-Assad, un evento che avrebbe dovuto generare speranza per il popolo siriano, sta invece svelando l’ennesimo fallimento dell’Europa nel difendere i principi che proclama a ogni tavolo internazionale. Non appena la notizia è arrivata, il riflesso istintivo di molti Stati membri non è stato quello di prepararsi a sostenere una transizione complessa o garantire protezione a chi fugge da anni di conflitto, ma di chiudere porte e sospendere vite.

Austria, Germania, Belgio e Grecia hanno rapidamente congelato le richieste d’asilo dei siriani, citando la necessità di rivalutare la situazione sul campo. L’Italia, che mai si lascia sfuggire l’occasione di allinearsi al blocco più conservatore, ha dichiarato di non accettare più nuove domande d’asilo dai cittadini siriani. La Siria, per l’Unione, diventa ora un paradosso: troppo instabile per garantire rimpatri sicuri, ma improvvisamente non abbastanza per offrire rifugio a chi continua a rischiare la vita.

La “Siria sicura”: un’invenzione politica

La narrazione della “Siria sicura” è un costrutto artificiale, una comoda giustificazione per rispondere alla pressione dei partiti di destra che soffiano sul fuoco dell’ostilità verso le persone migranti. Ma la realtà sul terreno racconta una storia ben diversa: città rase al suolo, infrastrutture inesistenti, una società frammentata da oltre un decennio di guerra civile. È un teatro di macerie in cui i rimpatri non solo sarebbero inumani, ma violerebbero apertamente il principio di non-refoulement, che vieta di restituire qualcuno a un luogo dove potrebbe subire persecuzioni, torture o morte.

Eppure, questa contraddizione non sembra frenare l’entusiasmo con cui alcuni Stati membri procedono verso politiche che, al di là del linguaggio diplomatico, consistono nell’espulsione delle responsabilità. L’Austria, che ha esplicitamente annunciato il proprio intento di deportare i siriani, si fa portavoce di un approccio che sempre più Stati sono pronti ad abbracciare, sacrificando il rispetto dei diritti umani sull’altare della politica interna.

L’Unione che si sgretola

Di fronte a questa crisi, l’Unione europea si dimostra ancora una volta incapace di agire come un corpo unico, preferendo la frammentazione alla solidarietà. La Commissione europea ha invitato gli Stati membri alla cautela, ma il richiamo non ha avuto alcun peso. Le risposte sono discordanti: mentre la Spagna adotta un approccio cauto e caso per caso, altri Paesi, come quelli del blocco centrale, si muovono con fretta e durezza.

Il risultato è una catena di decisioni che non solo tradiscono i diritti dei rifugiati, ma espongono l’intero progetto europeo a un grave rischio di credibilità. L’Unione si presenta come paladina dei diritti umani nei consessi internazionali, ma poi tradisce quei principi non appena le circostanze interne lo richiedono. È una retorica che si svuota di significato ogni volta che l’Europa gira le spalle a chi ne ha più bisogno.

La lunga ombra del passato

La scelta dell’Europa di sospendere le domande d’asilo per i siriani non è un caso isolato. È parte di un trend che già si era manifestato nell’accordo con la Turchia del 2016, quando l’Ue delegò ad Ankara la gestione dei rifugiati in cambio di fondi e silenzio. È il modello di una politica estera che si affida alla delega e alla negazione, piuttosto che alla responsabilità diretta. Ma se allora era la Turchia a fare il lavoro sporco, oggi l’Europa sembra pronta a farlo da sé.

Un futuro in frantumi

In questa vicenda, l’Unione europea si gioca molto di più della sua politica migratoria. Si gioca la sua identità. Continuare a sacrificare vite umane per inseguire l’effimero consenso elettorale significa accettare una trasformazione in cui i diritti umani diventano flessibili, negoziabili, sacrificabili. È un percorso che non porta solo all’abbandono di chi fugge dalla Siria, ma a una lenta e inesorabile erosione di ciò che l’Europa dovrebbe essere.

La “Siria sicura” è una bugia, e l’Unione lo sa. Il problema non è la mancanza di informazioni o di strumenti per affrontare la crisi. Il problema è la volontà politica. Ma ogni porta chiusa oggi costruisce un muro che sarà impossibile abbattere domani. E il prezzo, come sempre, sarà pagato da chi non ha voce.

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