Le aziende italiane e la grande bugia dell’inclusione sul lavoro -Lettera43
Nelle imprese si parla tanto di empatia, merito, di strategie DE&I. Eppure secondo una ricerca di Tack TMI Italy, il 28 per cento dei lavoratori dichiara di aver subito discriminazioni. Per l’etnia, per l’orientamento sessuale, l’aspetto fisico, la disabilità. È il diversity washing. E non è solo ipocrisia, è un danno.
L’Italia delle imprese si dichiara moderna, empatica, orientata alla diversità. Nei codici etici si parla di rispetto, nei convegni si celebra l’inclusione, nelle brochure si sorride in tutte le lingue e tutti i colori. Ma basta scorrere i dati per svelare la messa in scena. Una ricerca condotta da Tack TMI Italy su un campione di 1.500 lavoratori ha rivelato che il 90 per cento degli intervistati percepisce ancora discriminazioni nei luoghi di lavoro. Il 28 per cento dichiara di averle subite personalmente. E l’80 per cento non ha mai ricevuto una formazione sulla diversità.
I pregiudizi sul lavoro sono la regola, dall’etnia all’orientamento sessuale fino al genere e l’età
Le aziende italiane, insomma, sono molto brave a raccontarsi. Molto meno a fare i conti con ciò che sono. Il 64 per cento dei lavoratori afferma che «tante aziende parlano di programmi di diversità e inclusione, ma non fanno niente per i lavoratori come me». Solo il 37 per cento dichiara che esistano strumenti concreti per affrontare il problema, una quota che scende al 30 nelle piccole imprese. I pregiudizi non sono un inciampo, ma una regola. L’etnia è il primo fattore di discriminazione osservato (62 per cento), seguita da orientamento sessuale (49 per cento) e disabilità (48 per cento). Sul piano dell’esperienza diretta, i dati indicano che le principali discriminazioni subite sono legate al genere e all’età (entrambe al 14 per cento), seguite dall’aspetto fisico (10 per cento). Le donne e gli under 35 sono i più penalizzati. I lavoratori stranieri o nati all’estero riferiscono discriminazioni nel 75 per cento dei casi.

L’esclusione sistemica abbassa la produttività e spinge i talenti a scappare
Questa esclusione sistemica non è neutra. Produce un ambiente di lavoro diseguale, mina la fiducia, limita la produttività e spinge i talenti a guardare altrove. Il nodo si stringe al momento dell’assunzione. Il candidato ideale resta, nella percezione dei recruiter, “uomo, adulto, bianco”. I test proiettivi confermano: il top manager è immaginato come un maschio caucasico di mezza età, il magazziniere come un giovane straniero, la segretaria come una donna giovane. Una suddivisione gerarchica dell’identità, in cui l’inclusione resta fuori dalla porta. Il problema non è solo culturale: è metodologico. I bias inconsci guidano i processi di selezione. Il similarity bias spinge a scegliere chi ci somiglia. L’effetto alone fa sì che un tratto superficiale – l’università, l’accento, l’aspetto – determini il giudizio complessivo. Il bias di conferma cerca negli altri conferme delle proprie convinzioni. E il risultato è che si continua a premiare lo specchio.

L’Italia è all’85esimo posti su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni
In questo contesto, la parola “merito” diventa un feticcio. Un alibi. Le imprese la usano per mascherare l’omologazione. Ma la meritocrazia vera richiede di rimuovere gli ostacoli strutturali. In Italia, invece, il “merito” serve spesso a legittimare privilegi, consolidare la gerarchia, mantenere le distanze. Non a premiare il talento. Secondo un’indagine del World Economic Forum ripresa da The Guardian, l’Italia si collocava all’85esimo posto su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni. Nella percezione comune, trovare lavoro senza “conoscenze” sembra impossibile. E chi appartiene a minoranze – donne, giovani, stranieri – resta ai margini di queste reti informali. La distanza tra retorica e pratica è certificata anche dalle cifre sulla formazione e sulle strategie. Il 77-80 per cento dei lavoratori non ha mai ricevuto formazione sulla diversità. Solo il 41 per cento delle aziende dichiara di avere una strategia specifica di DE&I (Diversity, Equity, and Inclusion) e appena il 22 per cento ha stanziato un budget dedicato. In un’azienda su tre, le iniziative DE&I sono percepite come fumo negli occhi dai lavoratori stessi che ne denunciano l’impatto negativo sul clima interno.

Il diversity washing va oltre all’ipocrisia: è un danno
È il diversity washing: raccontarsi inclusivi senza esserlo. E non è solo ipocrisia. È un danno. Perché chi si sente escluso lavora meno, crede meno, resta meno. E chi guarda da fuori sceglie di non entrare. Nel mercato del lavoro italiano, la diversità è ancora vista come un problema da gestire, non come una risorsa da coltivare. Le aziende che parlano di equità ma selezionano secondo stereotipi stanno costruendo muri, non ponti. E chi parla tanto di merito spesso si limita a premiare chi gli somiglia. La grande bugia dell’inclusione aziendale non è solo uno scarto tra parola e azione. È una questione di giustizia. E finché resterà impunita, continuerà a rendere il lavoro italiano un luogo meno libero, meno equo, meno umano. E continuerà a renderci sempre più imbarazzanti. Forse conviene concentrarsi un po’ meno sugli spot e di più nelle azioni. L’equità va usata, non lasciata esposta in vetrina.
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