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Pfas, la denuncia di Greenpeace: acqua potabile contaminata in tutta Italia

L’acqua del rubinetto, in Italia, è un’illusione di sicurezza. Greenpeace ha messo in fila i dati, quelli che le istituzioni non pubblicano, e ha tracciato una mappa dell’inquinamento da Pfas, le cosiddette “sostanze eterne” che nessun sistema di depurazione riesce a eliminare. I risultati sono inquietanti: il 79% dei campioni di acqua potabile analizzati contiene almeno una di queste sostanze. La contaminazione è ovunque, senza distinzioni geografiche.

Pfas, un inquinamento diffuso e fuori controllo

Tra settembre e ottobre 2024 Greenpeace ha raccolto 260 campioni di acqua potabile da fontane pubbliche in 235 comuni italiani. L’analisi, condotta in un laboratorio indipendente, ha individuato Pfas nella maggior parte dei campioni. In 206 casi su 260, pari al 79%, è stata riscontrata almeno una delle 58 sostanze analizzate. In alcune regioni la situazione è drammatica: in Veneto, Liguria, Trentino-Alto Adige, Piemonte, Emilia-Romagna e Toscana la contaminazione è endemica. Milano è la città più colpita, con concentrazioni elevate riscontrate in diverse zone: via Padova (58,6 ng/L), via delle Forze Armate e Villa Litta. Ad Arezzo si registra il valore più alto di somma di Pfas, seguito da Perugia, Arzignano, Ferrara e Reggio Emilia.

I Pfas sono interferenti endocrini e possono causare danni al fegato, al sistema immunitario e all’apparato riproduttivo. Il Pfos, il più diffuso in Italia, è stato trovato nel 47% dei campioni analizzati. Questo composto, classificato come cancerogeno dall’Organizzazione mondiale della sanità, è presente in concentrazioni elevate a Bussoleno (28,1 ng/L), Rapallo, Tortona e Torino. Il Pfos, un altro possibile cancerogeno, è stato rilevato nel 22% dei campioni, con valori particolarmente alti a Milano, Bussoleno e Ancona. Il Tfa, sostanza ultracorta e difficilmente eliminabile dai sistemi di potabilizzazione, è stato trovato nel 40% dei campioni analizzati, con punte allarmanti a Castellazzo Bormida (539,4 ng/L) e Ferrara (375,5 ng/L).

Nonostante le evidenze scientifiche e i rischi per la salute, l’Italia non ha mai adottato misure stringenti per limitare l’uso e la dispersione di queste sostanze. La direttiva europea 2020/2184, che entrerà in vigore nel 2026, prevede un limite di 100 nanogrammi per litro per la somma di 24 Pfas, un valore ritenuto insufficiente da numerosi esperti. Il 41% dei campioni analizzati da Greenpeace supera i limiti vigenti in Danimarca e il 22% quelli degli Stati Uniti, segno di una regolamentazione inadeguata a proteggere la salute pubblica.

Le responsabilità politiche e la necessità di un intervento immediato

Di fronte a questi numeri emerge con chiarezza l’inerzia della politica italiana, che negli anni ha evitato di affrontare il problema e ha lasciato ai cittadini il compito di difendersi da soli. Nessun governo ha promosso un divieto europeo sui Pfas e nessuno ha fissato limiti severi alla loro presenza nelle acque potabili. Le aziende che continuano a produrre e utilizzare queste sostanze sanno di poter contare su un atteggiamento permissivo, quando non apertamente complice. E mentre altrove si investe su alternative più sicure, in Italia si continua a ignorare il problema.

Greenpeace chiede interventi immediati per fermare questa emergenza. La produzione e l’uso di tutti i Pfas devono essere vietati in Italia e le normative devono stabilire limiti più restrittivi per la loro presenza nelle acque potabili. I monitoraggi devono essere costanti e trasparenti, con una pubblicazione regolare dei dati per garantire ai cittadini il diritto a un’informazione completa. Serve inoltre un piano di riconversione industriale, per eliminare l’uso di Pfas nelle filiere produttive e investire in soluzioni più sicure. 

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Cpi, Meloni sulle orme di Trump, Orbán e Putin

L’asse dell’impunità si ricompatta contro la Corte penale internazionale (Cpi). Donald Trump minaccia sanzioni, Viktor Orbán offre protezione ai ricercati, Vladimir Putin ridicolizza la questione. E il governo italiano? Sulla scia delle polemiche scatenate dal caso Almasri, si mette in scia.

L’offensiva globale contro la Cpi

L’offensiva si scatena quando la Cpi apre la possibilità di mandati di arresto contro esponenti israeliani per i crimini commessi a Gaza. Trump reagisce subito con il consueto disprezzo per le istituzioni internazionali: “Non permetteremo che Israele venga preso di mira da un tribunale illegittimo”. Un avvertimento che arriva accompagnato dalla minaccia di sanzioni contro chiunque osi mettersi di traverso.

In Europa, Viktor Orbán si affretta a garantire protezione a Netanyahu, invitandolo a Budapest e dichiarando che in Ungheria il mandato della Cpi non avrà alcun effetto. Un modo per confermare, ancora una volta, che lo Stato di diritto nel suo Paese è solo un fastidio da aggirare. Dal Cremlino, Putin e il suo entourage liquidano la questione definendo le decisioni della Cpi “irrilevanti”. Una dichiarazione ovvia, considerando che la Corte ha già spiccato un mandato di arresto nei confronti del presidente russo per crimini di guerra.

L’Italia sceglie il campo sbagliato

Nel mezzo di questa alleanza di negazionisti del diritto, si distingue l’Italia. Giorgia Meloni, con il solito equilibrio apparente, si accoda al fronte della delegittimazione della Cpi con un gioco di parole rodato: “Non ci può essere una equivalenza tra le responsabilità dello Stato di Israele e l’organizzazione terroristica Hamas”.

A rafforzare la linea interviene il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che derubrica le indagini della Corte sul caso Almasri a “un’inchiesta come tante”, come se il diritto internazionale fosse un esercizio accademico. Antonio Tajani, più diretto, propone addirittura di “aprire un’inchiesta sulla Corte penale internazionale”, sposando la retorica trumpiana che mira a ribaltare l’accusa contro chi la formula.

Così, l’Italia finisce ai margini delle istituzioni europee e internazionali, accanto ai governi che la giustizia internazionale la temono, la aggirano o la combattono. Trump non ha mai nascosto il suo disprezzo per la Cpi, considerandola un intralcio alle operazioni degli Stati Uniti che non a caso non hanno aderito al trattato che l’ha costituita. Orbán la vede come un fastidio nella sua strategia di protezione degli alleati politici. Putin ha tutto l’interesse a delegittimarla, perché su di lui pende già un mandato di arresto.

Se la collocazione internazionale si misura dalla compagnia che si sceglie, il governo Meloni ha fatto una scelta rivelatrice. Si è allineato a leader che attaccano la Cpi e che considerano la giustizia un ingranaggio politico controllabile. In Europa, l’alleato più prossimo è Orbán, che fa dell’impunità un pilastro della sua politica estera. Dall’altra parte dell’Atlantico, Trump punta a smantellare qualsiasi organismo che possa limitare il suo potere. Così come la Russia che non riconosce la Corte dell’Aja.

L’Italia, che per anni si è dichiarata baluardo del diritto internazionale, oggi si accoda ai governi che lo minano. Non per convinzione, ma per opportunismo. Se la destra italiana ha deciso di schierarsi con chi delegittima la giustizia internazionale, dovrebbe almeno avere il coraggio di ammetterlo. Nel frattempo il governo Meloni si è messo dalla parte sbagliata della storia.

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Morire di carcere per 55 euro: un altro suicidio in cella

Cinquantacinque euro. Tanto valeva la rapina per cui Salvatore Rosano, 55 anni, è finito in carcere. I soldi erano stati restituiti, il danno risarcito, ma la giustizia ha continuato a presentargli il conto. Lo hanno trovato impiccato nella sua cella a Vigevano. Aveva chiesto una misura alternativa, ma gli è stata negata. Il suo è stato il nono suicidio in carcere del 2025. Ora sono già dieci. Gli ultimi tre decessi sono avvenuti lunedì e martedì scorsi a Livorno, Napoli Poggioreale e Modena, ma le cause devono ancora essere accertate. Nel 2024 erano stati 90, il dato più alto nella storia recente del sistema penitenziario. Le carceri scoppiano: 61.852 detenuti stipati in spazi per 10mila in meno, un sovraffollamento al 132%.

A San Vittore si arriva al 218%. Non sono numeri, sono vite. Continuano ad aumentare le aggressioni (668 nel 2024, cinquanta in più dell’anno precedente) e gli atti di autolesionismo (12.896, ovvero 514 in più). Cresciute anche le manifestazioni di protesta collettiva, come scioperi della fame o della sete, rifiuti di vitto o terapie, astensione dalle attività, percussioni rumorose di cancelli e inferriate. Eppure la politica risponde con un piano per 7mila nuovi posti, come se il problema fosse lo spazio e non la dignità.

Si muore di carcere in Italia. Non solo per la pena, ma per l’assenza di prospettive, per la solitudine, per l’abbandono. Un terzo delle persone detenute è in attesa di giudizio. Tra loro c’era anche Salvatore. Il carcere lo ha condannato prima della giustizia. Cinquantacinque euro, una vita. Nessuno si chiede più se sia giustizia.

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A braccetto con i Trump e gli Orbán

Beati coloro che si sono bevuti la storiella di Giorgia Meloni allineata – perfino autorevole – alla comunità internazionale. Beati quelli che, convinti, scrivevano che Meloni era “l’ago dell’Euro”, l’amica di von der Leyen, la più atlantista degli atlantisti perché a parole difendeva l’Ucraina. Beati anche quelli che, da due anni, cercano di convincerci che Meloni è diversa. “Non è Orbán, non è Trump”, dicono. I beati ieri hanno dovuto annotare che la presidente del Consiglio italiana ha scelto Trump, contraddicendo l’Unione europea, l’Onu e il diritto internazionale. Questa volta, però, non l’ha fatto per calcolo politico. Meloni, che deraglia dalle leggi internazionali e dall’Unione europea, da cui ha preteso una vicepresidenza, semplicemente segue la sua irrinunciabile natura. Non è niente di nuovo.

La natura della presidente del Consiglio è sempre quella, immutata. Non è un caso che molte delle sue affermazioni da inquilina di Palazzo Chigi siano smentite da video d’archivio di suoi interventi. La leader di Fratelli d’Italia ha capito che non c’è niente di meglio che simulare mansuetudine per pescare allocchi. Meloni, come il suo partito, sogna l’egoismo di Stato, l’amichettismo come linea d’azione, la vendetta come timone d’azione. Meloni – come Trump e come Orbán – ritiene la democrazia e il multilateralismo dei fastidiosi impicci, addirittura oppositori politici. Sogna il comando senza interferenze, a braccetto con i Trump e gli Orbán.

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Intanto l’Italia cola a picco

Mentre il governo si contorce tra le polemiche per il caso Almasri e per gli attivisti spiati dai servizi, l’Italia affonda. Non per modo di dire, ma con i numeri alla mano: l’Ufficio parlamentare di bilancio ha smentito le previsioni trionfali di Giorgetti, confermando che la crescita economica rimarrà sotto l’1% almeno fino al 2026. Dopo il +0,7% del 2024, si prevede un misero +0,8% nel 2025 e un +0,9% nel 2026, ben al di sotto delle stime del governo. Il divario tra le promesse e la realtà si amplia di quattro decimi rispetto alle previsioni del Piano strutturale di bilancio. Un’economia stagnante, intrappolata tra promesse elettorali irrealizzabili e una realtà che presenta il conto. E il peggio deve ancora arrivare: senza il traino del Pnrr, dopo il 2026 l’Italia rischia di ritrovarsi senza alcun paracadute.

Il dibattito pubblico è altrove. Si litiga sui voli di Stato, sulle faide interne ai partiti e su un’operazione di intelligence pasticciata che ha rispedito in Libia un trafficante di esseri umani accolto come un eroe. Ma c’è anche un Paese che si sta lentamente spegnendo, mentre il governo continua a insistere su previsioni di crescita ottimistiche che vengono puntualmente smentite. La guerra commerciale annunciata da Trump potrebbe peggiorare ulteriormente il quadro, con dazi che penalizzerebbero le esportazioni italiane, mentre il costo del gas, già elevato, potrebbe aggravarsi con l’inasprirsi delle tensioni geopolitiche. I

Si può ignorare la matematica per un po’, si possono raccontare favole di ripresa e resilienza. Ma alla fine i numeri tornano sempre.

Buon venerdì. 

In foto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti

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Meno libri, più propaganda: ecco l’Italia dei creduloni

In Italia si legge poco. Pochissimo. Il 65 per cento della popolazione sopra i 16 anni non ha aperto un libro nell’ultimo anno, secondo i dati Eurostat analizzati da Lorenzo Ruffino. La media europea Il 47 per cento. Significa che mentre altrove il libro rimane un’abitudine, da noi è un’eccezione. Peggio di noi, in Europa, solo Romania, Turchia, Cipro e Serbia.

Leggere poco non è un peccato veniale. È una condanna. A cosa Alla mediocrità politica, al dibattito pubblico ridotto a risse televisive in cui il tono della voce sostituisce la sostanza, alla classe dirigente che non sa articolare un pensiero complesso ma sa imitare il verso del cane davanti alle telecamere. A una parlamentare che va in televisione facendo il verso del cane. 

Non stupisce, allora, che il titolo di studio sia il principale discrimine: il 66 per cento delle persone laureate in Italia legge almeno un libro all’anno, contro il 40 per cento dei diplomati e il 19 per cento di chi ha solo la terza media. Numeri drammatici, se confrontati con la media europea: 77 per cento per i laureati, 50 per cento per i diplomati e 32 per cento per chi ha la licenza media.

Chi legge, pensa. Chi pensa, riconosce la propaganda, smaschera le bugie, esercita il dubbio. Non è un caso che in un Paese che legge poco si tenda a credere a tutto. O a chi urla di più.

In Svizzera il 19 per cento della popolazione non legge libri. In Francia il 28 per cento. In Spagna il 46 per cento. In Italia il 65 per cento. Qui non è una questione di svago o di preferenze: è un dato politico. È un problema di libertà. E la libertà ha a che fare anche con la conoscenza. 

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Lobby fantasma e accuse vuote. Il Ppe attacca le Ong, ma senza prove

Quando si parla di Ong e Green Deal, i Conservatori europei sembrano aver trovato il loro capro espiatorio preferito. Le accuse sono banali e ripetitive: la Commissione europea finanzia le Ong ambientaliste per fare lobbying a favore delle proprie politiche. Ma dietro queste affermazioni, come dimostra l’analisi di Politico su 28 contratti tra la Commissione e le Ong, c’è ben poco. Propaganda, insomma. 

Le accuse del Ppe: propaganda senza prove

Il programma LIFE, approvato dal Parlamento europeo nel 2020, è stato ideato proprio per bilanciare l’influenza del settore privato nei processi decisionali dell’Unione. Le condizioni per ottenere questi fondi sono pubbliche e accessibili: nessuna clausola richiede alle Ong di allinearsi con le posizioni della Commissione o di esercitare pressioni su altri organi istituzionali.

Le Ong presentano piani di lavoro dettagliati, ma questi sono redatti autonomamente e non subiscono modifiche da parte della Commissione. Le clausole contrattuali, invece, stabiliscono solo norme contro frodi, corruzione e disinformazione, specificando chiaramente che le opinioni espresse dalle Ong non rappresentano necessariamente quelle dell’Unione europea.

Due dei contratti analizzati da Politico menzionano azioni legali per contrastare pratiche agricole dannose per l’ambiente, ma si tratta di iniziative in linea con il diritto ambientale europeo, non di attacchi mirati. Nessun documento fa riferimento a proteste o campagne contro l’accordo commerciale Mercosur, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni esponenti del Ppe.

Trasparenza e indipendenza: cosa dicono i fatti

Il budget del programma LIFE per il periodo 2021-2027 è di 5,4 miliardi di euro, ma solo 15,6 milioni annui sono destinati alle Ong ambientaliste. Il resto finanzia innovazione verde, economia circolare, efficienza energetica e conservazione della natura. Le campagne delle Ong contro l’uso dei pesticidi sono documentate, ma non vi è traccia di attacchi diffamatori contro agricoltori o imprese.

L’assegnazione dei fondi avviene tramite bandi pubblici con criteri rigorosi: le Ong devono essere indipendenti da partiti politici e interessi commerciali. Le domande sono valutate da agenzie come la European Climate, Infrastructure and Environment Executive Agency (CINEA), non dalla Commissione. I controlli e gli audit garantiscono l’uso corretto dei fondi, e i nomi dei beneficiari e gli importi ricevuti sono disponibili online.

Politico non ha trovato alcuna prova di un “lobbying ombra” orchestrato dalla Commissione. Nessun contratto obbliga le Ong a promuovere il Green Deal o a fare pressione su membri specifici del Parlamento europeo. Le attività delle Ong rispettano le normative vigenti e i finanziamenti pubblici favoriscono una partecipazione equilibrata ai processi decisionali dell’Unione.

Le Ong, insomma, contribuiscono a mantenere vivo il dibattito sulle politiche ambientali, offrendo una voce critica che bilancia l’influenza del settore privato. Le accuse dei Conservatori europei non trovano riscontro nei documenti ufficiali: i finanziamenti del programma LIFE sono trasparenti e regolamentati, destinati a sostenere la partecipazione civica e la tutela dell’ambiente. Le critiche del Ppe sembrano più un tentativo di delegittimare il Green Deal che una denuncia basata su fatti concreti.

In un’Europa dove le voci indipendenti continuano a trovare spazio, è proprio questo equilibrio che sembra spaventare chi preferisce un dibattito monopolizzato dagli interessi economici più forti. Le Ong fanno le Ong, semplicemente. Resta da vedere se la politica fa la politica, mantenendo le promesse fatte, oppure si trincera dietro nemici immaginari. 

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Attivisti e giornalisti spiati, Paragon chiude il contratto con l’Italia. Il governo nega responsabilità, ma le opposizioni vanno alla carica

Non è solo un caso di sorveglianza illegale. È un terremoto diplomatico che getta ombre sull’Italia. La società israeliana Paragon Solutions, produttrice dello spyware Graphite, ha annunciato di aver rescisso il contratto con il nostro Paese dopo la scoperta che almeno tre persone erano state intercettate con il suo software. L’azienda, che vende spyware a governi con l’impegno che venga usato solo per scopi legali, ha deciso la sospensione prima e la rottura definitiva poi perché l’Italia avrebbe violato i termini d’uso e il quadro etico concordato. Il governo Meloni nega ogni coinvolgimento, ma la decisione di Paragon – come racconta il Guardian – è stata presa.

Un’operazione mirata

Tra i bersagli figurano Francesco Cancellato, direttore di Fanpage,  Luca Casarini, fondatore della Ong Mediterranea Saving Humans e Husam El Gomati, attivista libico che ha denunciato il ruolo dell’Italia nei centri di detenzione in Libia. Tutti e tre hanno qualcosa in comune: il loro lavoro mette in difficoltà il governo; in tutti e tre i casi Paragon ha riscontrato una violazione grave al punto da chiudere i rapporti.

Per Haaretz Paragon forniva il trojan alla polizia e a un’organizzazione di intelligence italiane

Il governo italiano ha confermato due giorni fa di essere stato informato da WhatsApp che sono almeno sette le persone intercettate illegalmente. Ma chi siano le altre quattro, e chi abbia autorizzato tutto, resta un mistero. Il caso presenta contraddizioni evidenti. Il governo italiano ha negato ogni responsabilità. Ma allora chi c’è dietro? E perché Paragon ha interrotto il contratto? Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, Paragon avrebbe tra i suoi clienti “l’Italia, dove lavora con due diversi enti, un’agenzia di polizia e un’organizzazione di intelligence“.

Un governo che minimizza

La risposta dell’esecutivo Meloni è stata un rifiuto netto di ogni responsabilità. Dal Copasir, che dovrebbe vigilare su operazioni di intelligence di questo tipo, non trapela – come scontato – nulla. Al ministero degli Interni tutto tace, Palazzo Chigi nega qualsiasi coinvolgimento, ma non spiega perché Paragon abbia tagliato i ponti.

L’unico a parlare, tra le file dell’esecutivo, è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alberto Barachini: “La protezione dei giornalisti, così come la cyber-sicurezza, sono due punti centrali dell’azione di governo”. “Non abbiamo informazioni in merito ma sappiamo che esistono molti software non solo di provenienza israeliana ma anche cinese che in qualche modo intervengono per esempio nelle chat utilizzate sugli smartphone”, ha aggiunto, “È un tema molto strategico che prevede una massima attenzione  dei dipartimenti di sicurezza e dei servizi italiani e su questo ovviamente le autorità predisposte stanno lavorando, ma sono ancora indagini in corso, quindi è bene che chi sta indagando indaghi fino in fondo e poi dia le notizie che in questo momento sono riservate”.

Le opposizioni all’attacco: il Governo riferisca in Parlamento

Ieri tutti i partiti di opposizione hanno chiesto a Meloni di riferire urgentemente al Parlamento. Per Giuseppe Conte “è un fatto molto grave: venire a sapere che ci sono giornalisti italiani che sono stati spiati è un attentato alla libertà di stampa, è un attentato ai diritti di uno Stato democratico. È una questione assolutamente da chiarire. Per cui ci aspettiamo che il Governo chiarisca perché siamo al cospetto di una vicenda gravissima”.

“Se la notizia del Guardian fosse confermata”, aggiunge l’Avs Angelo Bonelli, “vorremmo sapere chi sono i soggetti, nell’esecutivo italiano o nelle agenzie alle dirette dipendenze del governo, che utilizzavano il software. Ci troviamo di fronte all’ennesimo episodio gravissimo: la presidenza del Consiglio, nella nota diffusa ieri (mercoledì, ndr) sera, smentiva di aver mai spiato giornalisti e attivisti, senza però rivelare di aver usato Paragon. Oggi (ieri, ndr), invece, il quotidiano The Guardian fornisce una versione opposta a quella di Palazzo Chigi. Il governo venga in Aula a spiegare pubblicamente quanto accaduto. La sede del chiarimento non può essere il Copasir”.

L’Ordine: “Intercettare un i giornalisti è un crimine”

“Intercettare tramite spyware i giornalisti non solo è inaccettabile e contrario al principio di libertà di stampa ma è anche vietato dalla legge. Il Media Freedom Act, il regolamento europeo sui media, è vincolante per gli stati membri e sancisce il divieto di intercettare, soprattutto con i software-spia, i giornalisti, salvo casi di estrema gravità”, sostiene invece il Comitato Esecutivo del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. “Prendiamo atto delle dichiarazioni del governo che ha escluso lo spionaggio a danno di giornalisti, ma serve chiarezza sul rapporto della società israeliana Paragon Solution con gli apparati dello Stato italiano”.

Il punto di non ritorno

Questa vicenda è molto più di un caso isolato. È il segnale che in Italia si può finire sotto sorveglianza per aver fatto il proprio lavoro. È la conferma che esistono zone grigie nella gestione della sicurezza e dei relativi controlli. E da un governo che nega con forza ogni responsabilità, è legittimo aspettarsi che pretenda e faccia chiarezza con la stessa forza.

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Meloni scappa, ma la verità la insegue

Spedire in Parlamento come controfigure i suoi ministri non ha funzionato. Giorgia Meloni sarà costretta, volente o nolente, a dare spiegazioni sul volo di Stato offerto al torturatore libico Almasri. La strategia, già usata, di lasciare assopire la polemica usando membri del governo come scudo ha ottenuto l’effetto opposto: il ministro dell’Interno e il ministro della Giustizia hanno offerto altri fianchi all’opposizione.

La denuncia contro l’Italia presentata alla Corte penale internazionale aggiunge sale alla ferita. Palazzo Chigi puntualizza che non ci sono inchieste (per ora) e la Cpi lo conferma. Nordio ironizza e Tajani attacca. Anche questo non basterà: l’Italia, nella percezione internazionale, è il Paese che ha negato la giustizia per centinaia di persone – anche bambini – che sono state vittime delle brutalità del capo della polizia giudiziaria libica. Alla faccia dell’autorevolezza internazionale.

Nello stesso giorno Palazzo Chigi è costretto ad ammettere che esistevano contratti con Paragon Solutions. I suoi spyware hanno ascoltato giornalisti e attivisti che – sarà una coincidenza – non sono amati dal governo. Tra gli spiati c’è anche l’attivista Husam El Gomati che – sarà una coincidenza – denuncia le attività illecite in Libia.

È vero, questo governo è ancora forte nei sondaggi ma dimostra ogni giorno di più di aver perso lucidità. A ogni azione corrisponde una reazione. E la propaganda capitola davanti alla verità.

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Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili: la violenza che resiste nell’ombra

Oggi, 6 febbraio, si celebra la Giornata internazionale della tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili (MGF). Una pratica brutale che colpisce ancora 230 milioni di donne e bambine in oltre 90 Paesi, nonostante le dichiarazioni di condanna e le leggi proibitive. Non è un retaggio di un passato lontano, ma una realtà attuale, diffusa in molte regioni del mondo, dall’Africa all’Asia, fino a toccare l’Europa e l’Italia, dove oltre 87.000 donne convivono con le conseguenze di questa violenza, di cui 7.600 sono minorenni.

Le mutilazioni genitali femminili sono spesso presentate come un rito di passaggio all’età adulta, una prova di appartenenza alla comunità. In molte culture, la “circoncisione femminile” è considerata un requisito per il matrimonio, una garanzia di verginità e onore familiare. Dietro queste giustificazioni si nasconde, invece, il controllo patriarcale sui corpi delle donne, un meccanismo di oppressione che priva le vittime della loro integrità fisica e psicologica.

La violenza dietro la tradizione

La testimonianza di Fatoumata Diallo, riportata dal blog ‘Le persone e la dignità’ del Corriere della Sera, attivista senegalese e sopravvissuta alle MGF, risuona ancora con forza: “Eravamo un gruppo di ragazze, ci hanno portato in un bosco per ‘tagliarci’. Una delle ragazze è morta, hanno agito in modo selvaggio e non riuscivano a fermare l’emorragia”. L’infibulazione, la forma più estrema, prevede l’asportazione del clitoride e la cucitura dei genitali esterni, lasciando solo una piccola apertura per l’urina e il sangue mestruale. Le complicanze mediche sono devastanti: infezioni, emorragie, dolori cronici, difficoltà nei rapporti sessuali e nel parto, con un alto rischio di mortalità materna e neonatale.

Non si tratta solo di un problema sanitario, ma di una questione di diritti umani. L’Onu ha stabilito l’obiettivo di eliminare questa pratica entro il 2030, ma la strada è ancora lunga. In Europa, si stima che oltre 600.000 donne siano portatrici di MGF e 190.000 siano a rischio. La disinformazione, l’assenza di interventi strutturati e lo stigma sociale rendono difficile il contrasto efficace del fenomeno.

L’Italia e la lotta ancora insufficiente

In Italia la legge 7/2006 vieta le mutilazioni genitali femminili e prevede misure di prevenzione e assistenza. Tuttavia, mancano dati aggiornati sull’efficacia degli interventi. L’ultimo monitoraggio ufficiale risale al 2019, mentre l’esito del bando per una nuova mappatura del fenomeno, indetto nel 2023 dal Dipartimento Pari Opportunità, non è ancora stato reso noto.

ActionAid chiede un’applicazione più incisiva della legge, un’integrazione delle MGF nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e una presenza costante di mediatrici culturali nei servizi sanitari e sociali. Un altro problema è la difficoltà di accesso ai servizi sanitari per le donne che hanno subito mutilazioni: molte evitano di rivolgersi ai consultori per paura di essere giudicate, altre non sanno che esistono cure per alleviare le conseguenze della pratica.

Il dialogo come strumento di cambiamento

Per spezzare il ciclo della violenza, serve un lavoro di sensibilizzazione profondo. Le community trainer, figure chiave nel contrasto alle MGF, lavorano nelle comunità a rischio per far emergere una consapevolezza diversa. “Non bisogna dire ‘siete cattive madri’, bisogna far comprendere che la violenza non è tradizione” spiega Edna Moallin Abdirahman, attivista e mediatore culturale. La lotta contro le MGF non si vince con la stigmatizzazione, ma con l’educazione e l’empowerment delle donne, perché quando una generazione decide di interrompere questa pratica, le generazioni future ne saranno libere.

Le storie di chi è riuscito a dire “basta” dimostrano che cambiare è possibile. Ma servono azioni concrete, strumenti efficaci e soprattutto volontà politica. Perché le mutilazioni genitali femminili non sono un problema di culture lontane, ma una ferita che attraversa il mondo intero.

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