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Codice degli appalti, De Magistris: “La riforma è un regalo al sistema criminale”

Il governo, Salvini in primis, esultano per il nuovo Codice appalti parlando di cancellazione della burocrazia e maggiore rapidità nei lavori pubblici. Luigi De Magistris, (Unione popolare), quanto costa in termini di legalità questo risultato?
“La politica vuole mani libere per avere mani in pasta. C’è un fiume di denaro pubblico da spendere: una grande opportunità per il paese ma anche una occasione ghiotta per il sistema criminale che sempre più si è mimetizzato a tutti i livelli istituzionali. Il 98% dei lavori sarà affidato senza gara pubblica, i sub-appalti saranno senza limiti, meno sicurezza e tutele per i lavoratori, meno vincoli a tutela del paesaggio. Si doveva invece semplificare il quadro normativo e ridurre la burocrazia, non cancellare le regole che garantiscono trasparenza e legalità e impediscono una devastazione dei nostri territori. Stiamo affidando la cura a chi ci ha portato alla distruzione di ambiente e territori ed è come affidare a Dracula la banca del sangue”.

Secondo la sua esperienza da magistrato e da amministratore è esagerato definire questo Codice un regalo alle mafie?
“Non è affatto esagerato, è un regalo a quel sistema criminale che vive di rapporti tra un pezzo significativo della politica, diverse imprese e le organizzazioni mafiose guidate da colletti bianchi e sempre più infiltrate nell’economia e nelle istituzioni. Il denaro pubblico serve alla mafie per entrare nelle istituzioni a livelli locali e nazionali”.

In vista delle ingenti somme che arrivano dall’Europa (se arrivano) questo paese le sembra strutturato per difendersi da mafie e corruzione?
“La lotta alle mafie e alla corruzione da troppi anni non è più la priorità di governi e parlamenti. Anche un pezzo dell’opinione pubblica, in buona fede, pensa che meno tritolo=meno mafie. Mentre invece le mafie, soprattutto la ’ndrangheta, sono penetrate ad ogni livello ed in ogni parte del nostro paese. Si assiste ad un crollo complessivo della tensione morale su questi temi ed anche la magistratura, con lodevoli eccezioni, sembra arretrare nel contrasto alla borghesia mafiosa avendo perso anche credibilità negli ultimi anni per troppi scandali. Chi si è opposto da dentro le istituzioni al sistema criminale è stato ed è duramente contrastato e talvolta fermato e gli organi di controllo efficaci vengono sistematicamente depotenziati. I prossimi passaggi saranno ridimensionamento della giustizia amministrativa e delle sovrintendenze”.

Cosa ne pensa del combinato disposto Cartabia-Salvini che consentirà anche a imputati, indagati, sotto processo, di accedere agli appalti pubblici?
“Semplicemente una conferma di un disegno politico che non vuole contrastare opacità e zone d’ombra. Addirittura chi ha patteggiato reati gravi può partecipare. Gli onesti sono i fessi, per i furbi si trova sempre il cavillo. Il governo Draghi, con la Cartabia alla giustizia, non era l’esecutivo dei migliori, forse lo era per i poteri forti e per un certo circuito mediatico-finanziario-politico, ma non per chi crede nella giustizia e nella legalità. La riforma Cartabia più entra in funzione e più fa danni, sembra un percorso ad ostacoli per non rendere giustizia ma una serie di uscite di emergenza per garantire al sistema e ai suoi accoliti di poter agire sempre più indisturbati. Per non parlare di quello che vuole fare Nordio e la maggioranza per scardinare definitivamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura: stop intercettazioni proprio sui reati in materia di appalti e corruzioni, più ostacoli per i pm scomodi, via obbligatorietà dell’azione penale. La magistratura conformista quella voluta dalle riforme Mastella e Cartabia. Il sistema è allergico ai controlli del potere diffuso”.

Cosa servirebbe a questo Paese per avere una seria riforma del codice degli appalti?
“In primo luogo una politica onesta, libera, autonoma, competente e coraggiosa. Meno regole, non il ginepraio incomprensibile che nasconde corruzioni, ma che siano chiare ed efficaci, comprensibili a tutti. Semplificazione delle procedure, controlli sostanziali e non solo formali, assumere giovani bravi nella pubblica amministrazione, commissioni di aggiudicazione non condizionabili scelte se del caso anche con sorteggio tra persone qualificate, promuovere le imprese che denunciano pizzo e mafie e che rispettano i diritti dei lavoratori e che applicano anche clausole sociali. Si deve rompere il rapporto opaco pubblico-privato che attraverso il denaro pubblico cementifica il legame con le mafie e alimenta i cosiddetti prenditori, quelli che prendono i soldi dei contribuenti e non fanno nulla per l’interesse pubblico. E l’autonomia differenziata darà ancora più potere ai vertici regionali dove transita una quantità enorme di denaro pubblico e si addensano spesso le relazioni più opache”.

Come valuta, più in generale, la postura di questo governo nei confronti delle organizzazioni criminali?
“Un governo con la spada di ferro verso i più deboli, gli oppressi e i dissenzienti e con la spada di latta nei confronti delle organizzazioni criminali. Un indizio è un indizio, due indizi fanno due indizi, tre indizi una prova. Gli indizi ad oggi sono gravi, precisi e concordanti. E anche la sicurezza nelle grandi città è peggiorata addirittura con questo governo, più crimini, meno prevenzione e controllo del territorio, più paura tra i cittadini. Avremo sempre di più poi il manganello per le piazze ed i regali per le mafie”.

È pensabile che di fronte a un colpo di mano del genere in Italia si strutturi una reale protesta in Parlamento e in piazza
“In Parlamento le opposizioni più che protestare devono fare la loro parte istituzionale mostrandosi possibilmente coese, ma hanno anche molto perso in credibilità complessiva nel paese per avere profondamente deluso quando hanno governato ed agito male anche su questi temi. Nelle piazze il popolo dovrebbe invece protestare, ritrovare la coscienza collettiva di che vuol dire avere la forza del popolo, vediamo quello che accade in Francia, lottare e conquistare i propri diritti, rompere il sistema e costruire dal basso l’alternativa di governo. Questo anche significa che la sovranità appartiene al popolo”.

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Marcucci sogna Calenda: ma che aspetta a seguirlo?

Volendo essere precisi sarebbe da capire anche quando hanno scippato la definizione di “riformisti”. Che al riformismo si siano sovrapposte bande di potere che si sono sparse dentro e fuori dal Pd rivendicando l’unico comune denominatore di sparare contro il loro partito o ex partito è già un elemento da antropologia.

L’ex capogruppo del Pd Marcucci in un’intervista martella la neo segretaria Schlein con la stizza di un bimbo escluso dalla partitella in cortile

Fatto sta che i riformisti (che nel Pd si sono radunati nella corrente di Base riformista che fu di Lotti, poi capeggiata da Guerini e poi sdraiata sulla mozione di Bonaccini) utilizzano una strategia talmente prevedibile che se ne potrebbe ogni mattina ancor prima che comincino a parlare: indebolire Elly Schlein, consequenzialmente indebolire il Pd e leccare il cosiddetto Terzo polo. Il tutto, badate bene, solo per custodire i propri cabotaggi e le sempre più piccole posizioni di rendita.

Ieri è stata la volta dell’ex capogruppo dem Andrea Marcucci (nella foto) che in un’intervista martella la neo segretaria con la stizza di un bimbo escluso dalla partitella in cortile. “Una minoranza esclusa di fatto dalla presidenza dei gruppi, – dice Marcucci intervistato da QN – e presto lo capiremo, anche con incarichi di segreteria, definiamoli così, abbastanza leggeri. Non era mai successo prima, per dire sia Renzi che Zingaretti confermarono capigruppo più in equilibrio con le anime del Partito, pur in presenza di percentuali di vittoria alle primarie ben più eclatanti’’.

Dopo la critica apocalittica sul metodo Marcucci si lascia andare al solito parallelismo Schlein/Melenchon (che da quella parti viene visto come un’onta) spiegandoci che “Elly Schlein vuole costruire un partito più marcatamente di sinistra, mentre il Pd è nato di centrosinistra. Per dirla con una battuta, io ricordo l’entusiasmo di Valerio Zanone quando vi aderì, oggi il modello che si vuole assumere è quello di Jean-Luc Mélenchon. C’è una certa differenza’’.

La critica è legittima, per carità, ma risulta terribilmente identica alle trollate biliose degli esagitati del Terzo polo che vedono il pericolo comunismo nascosto nelle pupille di Schlein. Solo loro, Salvini, Berlusconi, Libero e Il Giornale insistono con questa puttanata. E che la compagnia di giro sia quella non stupisce: chi si somigli si piglia, recita un antico adagio. L’unità del partito e la collaborazione annunciate da Stefano Bonaccini quando signorilmente perse le primarie per la segreteria del Pd sono una promessa che si è sciolta nel giro di pochi giorni.

Marcucci dice pubblicamente ciò che privatamente si dicono in molti. La differente cautela non cambia la sostanza delle cose: Schlein dopo poche settimane si ritrova già a fare i conti con una minoranza che è in tutto e per tutto opposizione. Gli appelli dei “riformisti” non sono altro che messaggi in codice perché suocera intenda di renziana memoria. Marcucci ci fa sapere anche di essere molto interessato a quello che accade al Terzo polo. Anche questa una scena già vista, l’”altrimenti me ne vado”.

E perché non se ne vanno? Perché un altro partito che gli garantisce i posti e la tolleranza del Pd non lo trovano. E forse perché i riformisti alla resa dei voti sono sempre molto meno “credibili” di quello che pensano di essere mentre si fanno i complimenti a vicenda davanti ai loro caminetti sempre più vuoti.

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Graviano ritira in ballo Berlusconi

Sembra che se ne siano accorti davvero in pochi delle dichiarazioni del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, condannato all’ergastolo con Rocco Santo Filippone nel processo “Ndrangheta stragista” che ha riscritto il periodo delle stragi mafiose in Italia.

Il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, torna a parlare dei rapporti con Berlusconi. “Con l’imprenditore del Nord contatti solo per i soldi”

Anche la Corte d’Assise d’Appello ha confermato che gli imputati sono i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada all’altezza dello svincolo di Scilla in provincia di Reggio Calabria ma soprattutto ha confermato il disegno di una “strategia stragista” che ha insanguinato il Paese nella prima metà degli anni novanta e che era stata messa in atto da Cosa nostra e ’Ndrangheta in una sorta di guerra contro lo Stato con l’aiuto di pezzi dello Stato.

In quel processo Graviano ha reso dichiarazioni spontanee in cui negava di conoscere Marcello Dell’Utri (fondatore di Forza Italia, braccio destro di Silvio Berlusconi e ritenuto in via definitiva l’anello di congiunzione tra il leader di Forza Italia e Cosa nostra). Ma in quello stesso processo Graviano ha ripetutamente tirato in ballo Berlusconi (pur non facendone il nome) chiarendo che la sua famiglia aveva rapporti economici con l’imprenditore e ha dichiarato di avere incontrato più volte l’ex Cavaliere perfino durante la sua latitanza.

“Riguardo all’imprenditore del Nord – dice Graviano – ho sempre riferito che i miei contatti erano solamente per i soldi che aveva consegnato mio nonno. E ho dato tutte le date. E questo è stato riscontrato. Pochi giorni fa tutti abbiamo appreso quello che dicono i mezzi di informazione, la Procura di Firenze ha riscontrato quello che ho detto io”. Sembra che se ne siano accorti in pochi che Graviano ha riferito di alcuni “imprenditori di Milano” che non volevano “fermare le stragi”.

Sembra che la politica (e pure certa antimafia) si ostinino a non accorgersi che l’ex presidente del Consiglio, assieme a Dell’Utri, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, sia anche indagato dalla Procura di Firenze con l’accusa di essere tra i possibili mandanti occulti delle stragi del ‘93. Un’accusa che gli è già stata rivolta due volte sia dalle toghe toscane che da quelle di Caltanissetta. Un’accusa che magicamente è sparita dai pensosi editoriali dell’antimafia liquida che ogni tanto si sparge su pensosi editoriali e in compite celebrazioni.

Ma Graviano ha detto anche altro nelle sue dichiarazioni spontanee rese durante il processo d’appello: “Non distruggete i dischetti con le intercettazioni” in quanto “potrebbero servire in qualche prossimo grado”, ha detto il boss in Aula. Si riferisce alle trentadue conversazioni, registrate durante le ore di socialità nel carcere marchigiano tra il marzo 2016 e l’aprile del 2017 che adesso sono finite agli atti del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Graviano intercettato disse: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, riferendosi alle stragi.

E poi: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. E ancora: “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”. Il boss di Brancaccio, si sa, è un personaggio scivoloso. Ma oggi più del tritolo funziona la minaccia di alludere a una certa verità. Cosa potrebbe volere Graviano? La risposta è semplice: l’abolizione (per sé e per i suoi compari) del 41 bis. E questa è un’informazione utilissima per leggere il futuro, più del passato.

Leggi anche: Stragi mafiose, mandanti politici. I clan trovarono referenti dentro FI. La sentenza sulle bombe della ‘ndrangheta. I giudici: fare luce sulle accuse di Graviano a Berlusconi

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Appalti, mafie e amici degli amici già si sfregano le mani

Non c’è bisogno di essere esperti di appalti né di mafie per comprendere quanto il codice degli appalti pensato dal Governo Meloni possa essere un enorme regalo alle mafie. “Sotto i 150mila euro si dà mano libera, si dice non consultate il mercato, scegliete l’impresa che volete, il che vuol dire che si prenderà l’impresa più vicina, quella che conosco, non quella che si comporta meglio”, spiega il presidente dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, Giuseppe Busia.

Con il nuovo Codice degli appalti, gli affidamenti sotto i 150mila euro spalancano le porte ai clan

Non proprio uno qualsiasi. “Sotto i 150.000 euro – spiega Busia – va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema, soprattutto nei piccoli centri: è come permettere di guidare in città senza patente dove c’è il limite dei 50 km”, aveva avvertito Busia. Nessuno l’ha ascoltato. Decidere di mettere in secondo piano la trasparenza, la controllabilità e la concorrenza significa concimare il terreno perfetto perché “gli amici” diventino privilegiati nella scelta.

Le “amicizie” che influiscono sugli appalti – soprattutto in quelli che si riescono a spezzettare per farsi notare meno – sono da sempre le organizzazioni criminali, con la ‘Ndrangheta in testa come testimoniano decine di processi celebrati e in corso nel nostro Paese. Anche per questo i costruttori avevano lanciato l’allarme. La presidente dell’Ance Federica Brancaccio (nella foto) spiega che il nuovo Codice “sta optando per rendere stabili le procedure emergenziali introdotte con il decreto Semplificazione” e “consentirà ad un’ampia quota di appalti di non essere più sottoposti alle regole di piena pubblicità e concorrenza”.

La burocrazia “negativa che frena la dobbiamo eliminare, siamo tutti d’accordo, ma non possiamo eliminare la burocrazia che fa controlli per far bene, che fa controlli per rispettare i diritti, che fa controlli perché i soldi vanno spesi bene, per garantire tutti coloro che lavorano nei cantieri e perché si usino materiali corretti. Si spendono meglio i soldi, non si violano i diritti, le opere durano di più e si rispetta la concorrenza”, spiega Busia di Anac. Bisogna avere il coraggio di scriverlo. Il nuovo Codice sugli appalti è esattamente ciò che le mafie desiderano da tempo. Prima avevano bisogno di un’emergenza per infilarsi, ora lo possono fare nei termini di legge.

Leggi anche: Dalla Meloni disastri a catena. Così porta il Paese nel Far west. Parla Marcon, portavoce della Campagna Sbilanciamoci: “La destra si conferma alleata degli evasori fiscali”

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Ucraini ridotti alla fame. Ma continuiamo a ingozzarli di bombe

La narrazione della “guerra che è bella anche se fa male” li dipinge come eroi al fronte che hanno bisogno solo di una cosa: armi. Gli ucraini, come tutte le vittime delle guerre che avvengono sulle loro teste, devono affrontare la ferocia disumana di Putin che vorrebbe strappargli le loro terre e la cupidigia dei signori delle armi che si fregano le mani. Ma come stanno gli ucraini? Due famiglie su cinque in Ucraina hanno estremo bisogno di mezzi di sostentamento e di beni di prima necessità e il Paese, un anno dopo l’intensificarsi del conflitto, sta affrontando tassi di sfollamento, inflazione e disoccupazione senza precedenti.

Due famiglie su cinque in Ucraina hanno estremo bisogno di mezzi di sostentamento e di beni di prima necessità

Secondo l’ultimo Rapporto sui bisogni multisettoriali dell’Ucraina dell’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari comunitari, più del 40% delle famiglie ha dichiarato di avere difficoltà a soddisfare le esigenze quotidiane di cibo, acqua e beni di prima necessità, nelle aree più colpite dai combattimenti, nell’Est e nel Sud del Paese, il numero sale al 60%. La Banca Nazionale Ucraina il mese scorso ha stimato un tasso di inflazione del 25%, con il costo dei prodotti che è cresciuto della metà nelle regioni orientali.

A settembre, un consumatore su cinque in Ucraina ha dichiarato di non potersi permettere l’acquisto dei prodotti disponibili nei negozi. 5,3 milioni di persone si trovano ancora lontano da casa e per le famiglie sfollate la necessità di assistenza finanziaria cresce di giorno in giorno.

Una persona su quattro è attualmente disoccupata perché molti faticano a trovare un lavoro stabile nel loro luogo di residenza temporaneo. Alcuni di loro scelgono di tornare nelle città d’origine devastate dalla guerra lavorare. Save the Children racconta il caso della famiglia di Anton, 12 anni: lo scorso marzo, con i suoi genitori ha lasciato Kharkiv per spostarsi nell’Ucraina occidentale, a causa dei continui bombardamenti.

Qualche mese dopo, il padre di Anton è stato costretto a tornare. “Mio marito è stato richiamato al lavoro” racconta Olha, madre di Anton. “I miei figli sono preoccupati, chiedono continuamente quando papà tornerà a vivere con noi e quando saremo di nuovo tutti insieme. Non passa giorno che non ci pensino”. Sono molte le Ong che da più di un anno provano a portare ristoro. Tra i bambini che riescono a sopravvivere, alcuni non hanno conosciuto altro che violenze o campi profughi. Queste bambine e questi bambini hanno bisogno di essere protetti dalle ferite fisiche ed emotive che inevitabilmente riportano. Questi bambini avrebbero bisogno di essere raccontati. Questi bambini non possono mangiare munizioni.

Nonostante i buoni propositi di chi augura sforzi diplomatici per risolvere il conflitto la questione umanitaria in Ucraina scompare perché inevitabilmente non fa il gioco di chi chiede sempre più guerra, ancora guerra. Nel corso del primo anno di guerra, Solo Save the Children ha distribuito aiuti essenziali come cibo, acqua, denaro, vestiti invernali e spazi sicuri a più di 800mila persone, di cui la metà sono bambini, e fornito sostegno economico a più di 100mila famiglie, per un totale di oltre 29 milioni di dollari. Una cifra irrisoria rispetto a quella per le armi.

I bambini non causano le guerre, ma sono le vittime più vulnerabili. Tra quelli che riescono a sopravvivere, alcuni non hanno conosciuto altro che violenze o campi profughi. Come stanno gli ucraini è scomparso dal dibattito pubblico. A leggerla da qui sembra una guerra solo di soldati. Diceva Gino Strada: “Nella macchina della guerra, c’è posto anche per il mondo umanitario. Anzi, un posto importante, una specie di nuovo reparto Cosmesi della guerra. Far vedere quanti aiuti arrivano con la guerra, quante belle cose si possono fare per questa povera gente. Per i sopravvissuti, naturalmente”. Ora siamo arrivati a ritenere un vezzo anche quello. Anche gli affamati rovinano la narrazione.

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Schlein incassa i capigruppo. Ma la fronda interna al Pd si rafforza

Il diavolo sta nei dettagli e i dettagli della giornata di ieri mentre i parlamentari del Pd eleggevano i capigruppo proposti dalla segretaria Elly Schlein che tutti si aspettavano (Chiara Braga alla Camera e Francesco Boccia al Senato) parlano chiaro.

La segretaria del Pd Elly Schlein ora punta ad allineare la rotta politica a quella parlamentare

La giornata inizia con la segretaria Schlein in riunione con i senatori dem. Schlein ringrazia la capogruppo uscente Simona Malpezzi per aver guidato “un gruppo che è stato reattivo sui temi importanti anche in questi mesi, dopo la sconfitta elettorale, in cui la destra ci ha impegnato a opporci con responsabilità e determinazione alle sue scelte sbagliate”, spiega. La sottolineatura alla sconfitta elettorale è il diavolo.

Viene eletto Francesco Boccia (proposto dalla segretaria “per la sua solidità, capacità politica ed esperienza”) ma quello che c’è da sapere è tutto nelle dichiarazioni della ex Malpezzi, termometro ideale per tastare il polso dei bonacciniani: “Dico con franchezza e nella trasparenza che comprendo la necessità della segretaria di fare delle scelte ma avrei preferito che la discussione avvenisse prima tra di noi che sui giornali. È fondamentale garantire autonomia e libero spazio di discussione all’interno del gruppo”, dice Malpezzi ai cronisti sottolineando la necessità di “tutelare gli spazi di autonomia dei gruppi”.

“Autonomia dei gruppi”, per chi legge il politichese significa solo una cosa: la minoranza del partito farà pesare i suoi voti, eccome, se ci sarà da far ballare la segretaria. Come se non bastasse Malpezzi manda un messaggio alla sua leader: “La segretaria Schlein – dice – ci ha chiesto la fiducia necessaria per lavorare tutti insieme: condivido e aggiungo che questa fiducia deve essere reciproca perché non ci conosciamo ancora e dobbiamo darci il tempo. Serve la volontà di conoscersi e riconoscersi nelle differenze che sono la nostra ricchezza”.

Ovvero: non pensi Schlein di poter fare il bello e il cattivo tempo forte del gradimento popolare perché i voti dei cacicchi interni hanno affossato leader ben più strutturati di lei. Boccia viene eletto per acclamazione. “Non si è voluto andare al voto, chissà perché”, bofonchia un senatore di Base riformista, “e per acclamazione da sempre tutti battono le mani”.

Passa poco tempo e il rito si ripete alla Camera. Schlein ringrazia la capogruppo Serracchiani (anche lei sostenitrice di Bonaccini) “per dedizione e spirito di servizio alla comunità democratica. Ha retto, – dice Schlein – insieme a Malpezzi e Letta, un peso enorme dopo la sconfitta elettorale e lo ha fatto nel migliore dei modi presiedendo ottimamente il gruppo alla Camera dei deputati”. Anche qui la sconfitta elettorale evocata dalla segretaria non passa inosservata. Serracchiani ringrazia e saluta, non prima di ricordare che “l’autonomia dei gruppi va tutelata e salvaguardata sempre anche perché rende più forte il partito”.

Il copione si ripete anche per la proclamazione della nuova capogruppo Chiara Braga: acclamazione. Vera o presunta che sia l’importante è che venga rappresentata così. “Il nuovo che avanza è Chiara Braga, amica di Michela De Biase a sua volta moglie dell’ex ministro della Cultura Dario Franceschini”, bisbiglia un deputato che pure qualche minuto prima ha “acclamato”.

L’aria per ora è questa: una malriuscita recitazione di unità di intenti che frana apnea si porge l’orecchio alle voci interne. Lei, la segretaria Schlein, non vede l’ora di sistemare gli assetti di partito (si parla degli esteri ceduti a Base riformista in segreteria) e “cominciare a fare politica”. Il punto è sempre se glielo permetteranno.

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Povertà, il 13% degli italiani è sul lastrico

Chissà quando si troveranno le parole giuste per uscire dalla bolla dei dibattiti televisivi o dal poco senso di realtà delle dichiarazioni politiche. A quel punto potremmo discutere di un Paese in cui l’aumento dei costi in questo ultimo anno per l’impennata dei prezzi di prodotti e servizi – complice la coda della pandemia, la guerra, il cambiamento climatico e la crisi energetica – sta mettendo a dura prova gli italiani.

Impietoso studio di Nomisma sulla povertà nel Paese. In 43 casi su cento si arriva a stento a fine mese

Potremmo sapere che il 13% delle famiglie considera il proprio reddito insufficiente per far fronte alle necessità primarie, ovvero il cibo e la casa (mutuo, affitto e bollette). A questo gruppo di famiglie, che potremmo definire ‘compromesse’, si aggiunge un altro contingente numeroso (il 43% delle famiglie intervistate) che valuta la propria condizione reddituale appena sufficiente a far fronte a tali spese, in una sorta di equilibrio precario che potrebbe essere messo a rischio da un evento imprevisto anche di modesta portata.

Sono i risultati della ricerca condotta dall’Osservatorio Sguardi Famigliari di Nomisma. Negli ultimi mesi, evidenzia lo studio, il principale motivo di percezione dell’inadeguatezza delle risorse economiche a disposizione delle famiglie è rappresentato dall’elevato costo della vita: il 78% delle famiglie si dichiara insoddisfatto della propria condizione reddituale, molto più delle difficoltà lavorative (10%).

Secondo Nomisma, un’eventuale spesa imprevista, anche di piccola entità, potrebbe quindi diventare un serio problema da affrontare per il 22% delle famiglie totali, percentuale che sale al 30% tra le persone sole non anziane, al 31% per i genitori soli con figli, e al 41% per le famiglie in affitto. Più nel dettaglio dello studio, l’impennata dell’inflazione e l’aumento dei prezzi hanno depresso fortemente il potere di acquisto delle famiglie: più della metà degli intervistati ha visto crescere le bollette energetiche di oltre il 50% rispetto ai livelli di un anno fa, con il 16% che dichiara di aver avuto molte difficoltà nel pagare le utenze: di questi il 4% ha accumulato ritardi nei pagamenti.

Per far fronte ai rincari energetici le famiglie hanno dovuto innanzitutto comprimere le spese ritenute ‘’superflue’’, vale a dire quelle per il tempo libero, per le attività culturali e per quelle sportive. Il 39% delle famiglie che si è dichiarata in difficoltà nel pagare le bollette ha dovuto ridurre anche spese basilari come quelle sanitarie, il 31% ha tagliato le spese in istruzione mentre il 27% ha manifestato difficoltà nel pagare il mutuo o l’affitto della propria abitazione.

Volgendo lo sguardo ai prossimi mesi, il numero di famiglie che teme di poter incontrare forti difficoltà nel pagare le utenze sale al 24%, un campanello di allarme che non deve rimanere inascoltato. Vi sono molti gradi di vulnerabilità, indica quindi Nomisma, e alcune condizioni che determinano delle difficoltà oggettive per le famiglie: la presenza di una sola fonte di reddito è certamente una di queste, considerando che se nel complesso del campione la percentuale di famiglie che reputa il proprio reddito non completamente adeguato o insufficiente a far fronte alle necessità primarie è pari al 57%, tra le persone giovani che vivono da sole questa percentuale sale al 69%, mentre tra i genitori soli con figli arriva addirittura al 78%. Chissà che ne pensano questi di un governo che finora si è occupato di farina di grilli, di affondare i disperati in mare, dei figli delle famiglie omogenitoriali e di rave party come emergenze nazionali.

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Abolizione del reato di tortura. “La destra paladina dell’impunità”

La folle proposta, manco a dirlo, è arrivata da Fratelli d’Italia, il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni: abolire il reato di tortura introdotto con molta fatica nell’ordinamento italiano nel 2017, approvato sul sangue sparso durante il G8 di Genova nel 2001 e sulla sanzione all’Italia comminata nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la mancanza di adeguate ed efficaci misure di prevenzione e repressione delle condotte di tortura, contrarie all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

FdI vuole abolire il reato di tortura introdotto con molta fatica nell’ordinamento italiano nel 2017

Già nel 2018 Meloni – a quel tempo arrembante oppositrice prodiga di facili promesse – spiegava che il reato di tortura “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. Meloni dava per scontato evidentemente che la violenza fosse parte integrante degli strumenti delle nostre forze dell’ordine. Una concezione piuttosto sudamericana dell’ordine pubblico, indubbiamente. Tant’è che nel 2018 Giorgia Meloni cancellò il tweet della sua strampalata idea. Poi sono passati 5 anni, Meloni è diventata capa del governo e quella follia s’è fatta proposta di legge.

Esultano, manco a dirlo, le forze dell’ordine: “L’abrogazione del reato di tortura è un modo per tutelare tutte quelle Forze di polizia che operano senza tutele giuridiche e regole d’ingaggio, esposte quotidianamente a denunce e processi strumentali”, spiega Unarma, associazione sindacale a difesa del personale dell’Arma dei carabinieri. Sulla stessa linea alcuni sindacati di Polizia. Amnesty International, per bocca del portavoce italiano Riccardo Noury, lancia l’allarme: “Ci sono voluti 28 anni (1989-2017) per introdurre nel codice penale il reato di tortura. Negli ultimi sei anni ci sono stati processi e condanne, sono in corso molte indagini. L’intento di chi vuole abolirlo è quello di rendere di nuovo impunito un crimine gravissimo”.

Opposizioni e Ong contro la proposta di FdI. Amnesty: così si cancellano 28 anni di battaglie

Di “proposta che rasenta i limiti dell’oscenità” parla Ivan Scalfarotto, senatore di Azione-Italia Viva, che spiega come “il rispetto del principio dell’habeas corpus è garantito ed è parte integrante della costituzione e quindi della democrazia. Il vero problema non è allora il reato stesso ma il fatto che una parte delle forze di maggioranza non è a suo agio con questa idea: questo sì che è il vero problema”, conclude Scalfarotto.

Nei giorni scorsi la senatrice M5S Anna Bilotti, componente della commissione Giustizia di Palazzo Madama, aveva già ricordato “ai sovranisti dell’impunità” che “il reato di tortura in Italia è stato introdotto osservando la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione Onu del 1984 ratificata dall’Italia nel 1988, la quale prevede l’obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia contemplato come reato”.

“È agghiacciante la proposta di FdI di cancellare il reato di tortura. Meloni dica qualcosa: il suo governo e la sua forza politica – ha scritto su Twitter la presidente dei senatori del Pd, Simona Malpezzi – vogliono attaccare una norma in difesa dei diritti umani?”. Intanto, appena due giorni fa a Biella sono stati sospesi dal servizio 23 agenti di polizia penitenziaria in esecuzione di un’ordinanza del giudice per le indagini preliminari per il reato di tortura commesso all’interno del carcere nei confronti di tre detenuti. Di decisione di “stampo fascista” ha parlato ieri la senatrice di AVS Ilaria Cucchi: “Pensate oggi alle vittime di quei terribili fatti accaduti a Santa Maria Capua Vetere, quel processo non potrebbe svolgersi, per la felicità dei picchiatori”.

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Pd, Schlein non molla sui capigruppo

Assicurano tutti che entro la fine della settimana sarà tutto risolto, capigruppo e segreteria, ma l’organizzazione della macchina del Partito democratico guidato dalla neo segretaria Elly Schlein è ben lungi dal trovare una quadratura. “È la segretaria che ha il vento in poppa, è lei a dover decidere”, spiega un pezzo pregiato della mozione Bonaccini. Schlein ha deciso. Ieri ha spiegato a tutti che il partito avrà bisogno di essere nelle piazze a riconquistare elettori ma dovrà essere conseguente nelle azioni politiche in Parlamento. Per questo Schlein ritiene indispensabile alla Camera e al Senato avere due persone a cui affidarsi mentre lei proverà a riconnettere il partito con la presenza anche fisica nei luoghi caldi del Paese.

Ieri la leader del Partito democratica Schlein ha incontrato deputati e senatori. Oggi nuovo vertice per blindare i nomi dei capigruppo

Su Francesco Boccia capogruppo al Senato e Chiara Braga capogruppo alla Camera non si tratta. Saranno loro a essere eletti dai gruppi parlamentari nei prossimi giorni nonostante i mal di pancia di Base riformista la corrente che fa riferimento all’ex ministro Lorenzo Guerini e al senatore Alessandro Alfieri e che più di tutti ha sostenuto Stefano Bonaccini. Lo scontro però rischia di essere solo rimandato. “La segretaria continua a parlare di unità di partito ma bisognerà vedere se vuole davvero cedere i ruoli”, dicono da Base riformista. Tradotto: non basterà qualche posto in segreteria per fingere unità.

Anche ieri nella trattativa tra le due parti (gestita da Boccia per Schlein e da Davide Baruffi per Bonaccini) si è chiarito che l’accordo sui capigruppo è “condizionato” dalle mosse successive. “Elly non è espressione di un pacchetto di mischia”, riflette un senatore del Pd che i meccanismi interni del partito li conosce molto bene. “Renzi era espressione di un pacchetto mentre Schlein nonostante usi sempre il plurale ha intorno pochissime persone che toccano palla. Ci sono Alivernini (il portavoce) e Righi (lo storico “braccio operativo” di Schelin) ma se si va in un cerchio più esterno gli altri sono solo supporter”. Lo sondo politico del Pd che verrà sta tutto qui.

Schlein è approdata al Partito democratico con una rete “leggera” che in tempi brevissimi dovrà strutturarsi

Al di là delle polemiche strumentali Schlein è approdata al Partito democratico con una rete “leggera” che deve strutturarsi in tempi brevissimi e che deve inevitabilmente essere allargate anche alle altre anime del partito. Anche perché, come osserva qualcuno, già intorno a Schlein stanno Franceschini, Zingaretti, Orlando e Letta, ovvero il gotha del Nazareno degli ultimi cinque anni, seppur con nomi più masticabili (non hai Franceschini ma Braga, D’Elia per Zingaretti, Misiani per Orlando). “Ma quanto sono davvero dentro le decisioni di Elly?”, si chiede qualcuno. Ieri la segretaria nel suo incontro con i parlamentari dem ha rinviato la trattativa sui nomi.

“Ritenevo utile un primo momento di confronto sulla nuova fase e sulle priorità dell’attività politica e parlamentare. Domani, invece, affronteremo la questione degli assetti”, ha detto ai suoi colleghi, rivendicando la crescita del partito nei sondaggi e “una fase positiva testimoniata dalle 16mila tessere che sono arrivate in pochissimo tempo”. Ha ringraziato i capigruppo uscenti Debora Serracchiani e Simona Malpezzi oltre all’ex segretario Enrico Letta. I lettiani intanto hanno ufficializzato la costruzione di una nuova corrente “neo ulivista” guidata da Marco Meloni. “E voglio sperare per loro che abbiano messo in piedi tutto questo almeno per trattare qualche posto in segreteria, almeno per questo”, riflette un sostenitore di Bonaccini. Sembra una battuta cattiva e invece è il vero nodo di sempre del Partito democratico.

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Dalla Francia a Israele alla Germania. Lezioni per la democrazia italiana

In Francia e Israele la crisi politica è divampata diventando una crisi sociale. In Germania la richiesta di aumento dei salari ha dato vita a uno degli scioperi più impattante degli ultimi decenni. In Italia qualcuno, pur di non farsi carico della lezione che arriva dall’estero, ha il coraggio di storpiare il significato della democrazia.

In Italia qualcuno, pur di non farsi carico della lezione che arriva dall’estero, ha il coraggio di storpiare il significato della democrazia

In Israele il capo del governo Benyamin Netanyahu sta facendo i conti con il milione di persone che da giorni manifesta contro una finta riforma della giustizia che gli servirebbe per mettersi al riparo da un processo per corruzione. Il licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant che si era opposto alla legge ad personam ha scatenato una protesta che ha bloccato aeroporti e ospedali. L’Histadrut, il più grande gruppo sindacale israeliano, ha annunciato uno sciopero generale ‘storico’ per protestare contro la riforma giudiziaria del governo di Netanyahu.

Una delle più grandi catene di centri commerciali del Paese, Big, ha annunciato che si unirà allo sciopero generale. Le rivolte, oltre alle “preoccupazioni” degli Stati Uniti e alle dimissioni del console a New York, hanno spinto diversi membri di governo e sostenitori della maggioranza a chiedere una riflessione sulla legge che il primo ministro israeliano vuole approvare a tutti i costi. Ieri in serata.

In Francia da giorni continuano le proteste e i disagi in tutto il Paese per la contestata riforma delle pensioni voluta da Macron che non dispone della maggioranza parlamentare. Invece di prenderne atto, il governo realizza un golpe bianco ricorrendo al famigerato 49.3, che consente al Presidente di varare una legge senza passare per il voto del Parlamento. Dominique Rousseau, professore alla Sorbonne, ha scritto su le Monde: “Siamo di fronte a una crisi di regime, perché è il principio stesso della rappresentanza del popolo attraverso gli eletti, quello ereditato dal 1789, e sul quale poggiano le nostre istituzioni, che è messo in causa”.

In Italia la schiera (sempre quella) dei competenti esulta. “Viva i capi di governo che se ne fregano del popolo!”, ci spiegano, elogiando chi ignora il consenso popolare perché “i governanti sono illuminati” e invece il popolo è bue. La curiosa tesi sarebbe che un capo del governo (badate bene, basta il capo perché qui si parla di decisioni che le maggioranze di governo non condividono in toto) sia legittimato dalle elezioni e debba tirare dritto. Qualcuno teorizza addirittura che solidarizzare con gli scioperanti francesi e israeliani sia un attacco alla stabilità democratica italiana (quella che si allarma per un po’ di vernice lavabile su un muro).

Siamo oltre la post-democrazia. Siamo alla corruzione del pensiero democratico: si prova ad alimentare l’idea che ignorare le scelte della maggioranza sia il dovere di un bravo cittadino, buttando l’azione sostanziale di un governo che deve attenersi ai limiti costituzionali. Mentre qualcuno si straccia le vesti pur di difendere Macron (per difendere il dogma neoliberale, perché a loro non interessa nulla di Macron) ci si dimentica che il punto non è il “chi” ma il “come”.

Ci si dimentica il ruolo in una democrazia dei corpi intermedi, come i sindacati, che agiscono ben oltre il periodo elettorale. O forse si vuole dimenticare che i socialisti europei, quelli che dovrebbero appoggiare le proteste francesi, hanno approvato spesso leggi peggiori di quelle di Macron e hanno concesso leggi ad personam come vorrebbe Netanyahu. Poi, mi raccomando, tutti a piangere perché la gente non vota.

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