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  • Soldati israeliani in rivolta: “Non in mio nome”

    C’è chi diserta, ma non fugge. Chi rifiuta l’uniforme, ma non tradisce il Paese. Chi dice “no” in nome di una coscienza che pesa più delle stellette. L’ultima ondata di mobilitazione in Israele — come racconta Ruth Margalit su The New Yorker — non ha trovato tutti allineati e coperti. Migliaia di riservisti hanno deciso di non rispondere alla chiamata. Non per codardia. Per lucidità.

    Sono soldati israeliani che avevano giurato fedeltà a uno Stato, non a un governo. Alcuni sono tornati precipitosamente dall’estero dopo l’attacco di Hamas dell’ottobre 2023. Hanno combattuto, pianto, obbedito. Ma oggi si tirano indietro. Non per stanchezza, ma per vergogna. Perché, come scrive il soldato Eran Tamir, “questa guerra è il nostro punto più basso”. Perché la liberazione degli ostaggi è l’ultimo obiettivo sulla lista del governo, preceduto dal “controllo operativo” di Gaza e dallo spostamento forzato della popolazione civile. Perché, semplicemente, non si fidano più.

    È la crisi morale prima ancora che politica di uno Stato fondato sulla memoria dell’esilio, che ora blocca gli aiuti e affama i civili. È l’erosione di una coesione nazionale che si regge sempre più solo sull’obbligo e sull’abitudine. La retorica bellica resta, ma la carne si sfila. Persino nell’esercito più coeso del Medio Oriente. Intere compagnie si sciolgono, i comandanti reclutano su Facebook, si promettono turni “settimana per settimana” pur di tappare i buchi. Si combatte senza motivazione, si muore per inerzia.

    E quando i soldati cominciano a dire “basta”, il problema non è solo militare. È il sintomo terminale di una guerra che ha perso anche il suo racconto

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  • L’Antimafia è un dovere costituzionale

    La commissione Antimafia guidata da Chiara Colosimo è diventata un laboratorio di riscrittura della storia e un tribunale politico in cui l’accusa è riservata ai magistrati e l’immunità ai depistatori. È qui che Mori e De Donno, ex ufficiali del Ros, hanno potuto raccontare la loro verità monca sulle stragi, mentre ogni voce contraria veniva zittita. È qui che si è compiuto un colpo di mano parlamentare, un sequestro politico in piena regola, per impedire che Scarpinato e De Raho – colpevoli di avere memoria lunga e carte in mano – potessero parlare.

    La contro-relazione depositata dal Movimento 5 stelle elenca una per una le falsificazioni contenute nelle dichiarazioni dei due ufficiali. L’obiettivo? Ridurre la stagione delle stragi alla sola pista “mafia-appalti”, eliminando tutto il resto: i depistaggi dei servizi, l’agenda rossa, gli intrecci con la politica, il ruolo degli apparati. La strategia è chiara: occupare le istituzioni per cancellare il passato e neutralizzare ogni ostacolo giudiziario al potere. E quando la storia processuale non si piega, si riscrive.

    Per liberarsi di chi resiste, si inventa il conflitto d’interessi. Una norma ad personam per colpire due ex magistrati che in Commissione, con il mandato dei cittadini, provano a difendere la verità. E se i fatti non bastano, si usano intercettazioni irrilevanti, passate alla stampa senza autorizzazione, per linciare Scarpinato.

    Le stragi sono ancora tra noi, ha detto lui. E questa vergognosa messinscena ne è la conferma. Chi nega, chi insabbia, chi distorce, non lavora per la verità ma per garantire l’impunità di sempre. Con buona pace della memoria, e con la complicità delle istituzioni.

    E l’opposizione, in tutto questo, ha il dovere di essere unita. Non servono partiti che fanno calcoli di cortile. L’Antimafia non è una bandiera da sventolare nei congressi: è un dovere costituzionale. E oggi più che mai, è una linea del fronte. Chi si volta dall’altra parte, chi tace, chi baratta il rigore per convenienza, finisce complice. Anche il silenzio, quando è strategico, sa di viltà.

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  • Lega, Vannacci e Sardone vice segretari: inizia l’era del dualismo tra l’anima nordista di Zaia & C. e quella sovranista imposta da Salvini

    La Lega di Matteo Salvini ha fatto la sua scelta. E lo ha fatto con nomi che non concedono ambiguità: il generale Roberto Vannacci e l’eurodeputata Silvia Sardone sono stati nominati vicesegretari federali del partito. Due figure simboliche di un’identità precisa: sovranista, muscolare, ostentatamente anti-progressista. La conferma è arrivata il 15 maggio 2025, nel corso del Consiglio federale, segnando l’ennesima tappa di una trasformazione interna che da anni riscrive la storia del Carroccio.

    La scelta di Vannacci rappresenta la normalizzazione di una figura finora considerata borderline. Eurodeputato eletto con un numero record di preferenze, ex generale delle forze armate, autore di un libro-manifesto che ha diviso l’opinione pubblica e imbarazzato persino pezzi di centrodestra, Vannacci entra formalmente nella stanza dei bottoni. Salvini lo porta dentro per evitarne una corsa autonoma, per capitalizzarne il consenso, ma anche per blindare una linea politica sempre più identitaria e anti-europea. Con la nomina, si chiude il capitolo – solo ipotizzato – di una lista personale “Il Mondo al Contrario” e si apre quello di una Lega con accenti più simili a quelli dell’estrema destra europea.

    Accanto a lui, Sardone. Prima vicesegretaria donna della Lega, ex Forza Italia, è da anni volto riconoscibile del partito tra Bruxelles e Milano. Anche lei portatrice di un messaggio netto: contro l’immigrazione, contro il velo islamico, contro l’allargamento dell’Unione alla Turchia. “La Turchia non è Europa, né potrà mai esserlo” ha detto in aula a Strasburgo. E ancora: “Serve eliminare del tutto il Green Deal”. Sardone è il volto istituzionale del radicalismo leghista: disciplinata, efficace, già abituata alla macchina del partito.

    Lega, crepe e silenzi nel Nord

    Ma se per Salvini si tratta di una mossa utile a consolidare il partito e a rilanciare l’identità “vera” della Lega, le crepe sono evidenti. Da Nord arrivano segnali freddi, quando non apertamente contrari. Luca Zaia, presidente del Veneto, ha fatto sapere di non apprezzare l’indirizzo preso, difendendo una Lega “vicina al popolo” e dichiarandosi geneticamente incompatibile con il modello calato dall’alto. Massimiliano Fedriga tace. Altri, come Roberto Marcato, liquidano il nuovo vice con un silenzio eloquente: “Non spendo nemmeno una parola per lui”.

    La Lega veneta, quella originaria, quella dei territori e delle battaglie autonomiste, guarda con crescente sospetto all’accentramento di una segreteria tutta in chiave nazionalista. Il rischio è una frattura permanente tra la Lega “sovranista” e quella “nordista”. Un rischio che potrebbe trovare nelle prossime regionali il primo terreno di frizione, proprio in Veneto, dove Vannacci coltiva ambizioni e Stefani spera che i suoi voti possano valere il prezzo del compromesso.

    Un centrodestra sempre più sbilanciato

    Sul piano esterno, l’effetto è altrettanto destabilizzante. Le posizioni filorusse del generale, le sue dichiarazioni contro la Nato e la timida ambiguità sull’antifascismo rischiano di mettere in imbarazzo l’intera coalizione di governo. Fratelli d’Italia e Forza Italia restano ufficialmente allineati alla traiettoria atlantista, ma da oggi dovranno fare i conti con un vicesegretario di partito che a Bruxelles parla un’altra lingua. Letteralmente.

    L’ingresso di Sardone e Vannacci nella segreteria federale della Lega è più di un rimpasto. È una dichiarazione d’intenti. È il definitivo superamento di ogni nostalgia per l’autonomismo padano. È la scelta di chi vuole un partito urlato, disciplinato, aggressivo. In due parole: un partito di destra. E ora che la direzione è tracciata, restano da vedere le conseguenze. Sulla Lega, ma anche sul centrodestra tutto.

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  • Spese militari dal 2 al 5% del Pil, Tajani scopre le carte e conferma la corsa dell’Italia al riarmo. Ma gli cambia nome in “sicurezza”

    Alla fine, lo hanno detto chiaro: “Si apre una nuova fase”. Dopo aver raggiunto l’obiettivo del 2% – che è “solo il primo passo” – ora si punta al 5% del Pil in spese per la difesa. “Preferisco però parlare di sicurezza, perché la sicurezza non è solo armi: è la protezione di ogni cittadino europeo, di ogni cittadino italiano”, ha annunciato il ministro degli Esteri da Antalya, a margine del vertice Nato, infilando nella frase la consueta rassicurazione per il pubblico di casa: “Bisogna spiegarlo ai cittadini”. Ma cosa c’è da spiegare, esattamente? Che l’Italia si prepara a triplicare la spesa militare – fino a 110 miliardi di euro – nel silenzio del Parlamento e nell’assenza di un vero dibattito pubblico? Che questo avverrebbe su richiesta di Washington, e non per una scelta strategica autonoma

    Il ministro ha specificato: il 5% si dividerebbe tra un 3% per la “spesa militare classica” e un 2% per la “sicurezza”. È la nuova retorica: non si parla più di armi e carri armati, ma di una “sicurezza più ampia”, che comprende infrastrutture a uso duale, cybersecurity, perfino porti e strade. Un’operazione semantica studiata a tavolino per diluire il concetto di militarizzazione e renderlo più accettabile. Ma nella sostanza, si tratta di soldi pubblici da sottrarre ad altro.

    Il maquillage del 2% e l’illusione del 5%

    Secondo l’Osservatorio Mil€x, la spesa italiana per la difesa nel 2025 è già salita a 45 miliardi di euro, grazie anche ad operazioni contabili come l’inclusione dell’Arma dei Carabinieri e di fondi stanziati da altri ministeri. Il passaggio al 5% significherebbe stanziare fino a 70 miliardi in più, portando la spesa annuale oltre i 110 miliardi. Un’ipotesi che non ha alcun fondamento in una valutazione strategica, ma che risponde alle pressioni di Washington e agli interessi dell’industria bellica europea.

    L’Italia, con un debito al 137% del Pil e una crescita prevista dello 0,6%, non ha margini per un’operazione simile. Lo scenario è chiaro: o si taglia la spesa sociale – scuola, sanità, welfare – o si fa esplodere il debito. La prima ipotesi distruggerebbe la coesione sociale, la seconda ci esporrebbe al rischio di nuove crisi finanziarie. La terza opzione, quella del maquillage della riclassificazione delle spese, è già in corso. Ma anche i giochi contabili hanno un limite.

    Il ministro Crosetto lo aveva definito “un investimento per la libertà”, Giorgia Meloni lo ha presentato come “necessario”. Ma mai nessuno ha spiegato come si pagherà questo salto. Non lo ha fatto il Parlamento, a cui non è mai stata sottoposta una delibera formale, né lo hanno fatto i partiti di maggioranza. A oggi non esiste uno studio di impatto, né un piano dettagliato di copertura. Solo annunci, ripetuti nei consessi internazionali, e una retorica martellante sulla “sicurezza”.

    La retorica della minaccia, il silenzio del Parlamento

    Nel frattempo, le voci contrarie si moltiplicano. L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani avverte che già il 2% ha richiesto una forzatura dei conti. Il SIPRI osserva che i governi che danno priorità alla spesa militare lo fanno a scapito della spesa sociale. E studi come quelli citati da Mario Pianta mostrano che ogni miliardo investito in sanità o scuola genera fino a quattro volte più occupazione rispetto alla stessa cifra spesa in armamenti.

    Eppure, a parte alcune campagne della società civile – Sbilanciamoci!, la Rete Pace e Disarmo – la politica tace. Una parte dell’opposizione balbetta, forse perché paralizzata dal riflesso condizionato dell’atlantismo bipartisan. Così il governo può continuare indisturbato a gonfiare la spesa militare in modo incrementale, a ogni vertice, a ogni occasione. Prima il 2%, poi via via più su fino al 5%. Senza mai fermarsi a discutere sul perché.

    Si dirà che viviamo tempi difficili, che la guerra in Ucraina ha cambiato tutto. Ma la risposta non può essere cieca obbedienza alle pressioni degli alleati e assenza di visione strategica nazionale. Spiegatelo pure ai cittadini, se ne siete capaci. Ma non chiedete loro di applaudire mentre li spingete verso il baratro.

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  • Lo spot più stupido del governo Meloni

    Nel quasi silenzio generale, mentre la presidente del Consiglio sbraitava in Parlamento, un’altra persona trasferita nel Cpr di Gjader, in Albania, è tornata in Italia ed è formalmente libera.

    La giudice di pace di Roma, Emanuela Artone, ha sospeso la richiesta di riesame del trattenimento per la stessa pregiudiziale costituzionale già sollevata in merito ai Cpr italiani. C’è da stabilire se la detenzione di persone straniere per un tempo prorogabile fino a 18 mesi violi l’articolo 13 della Costituzione, considerando che modalità e procedimenti non sono ancora puntualmente disciplinati da una normativa di rango primario. C’è da verificare anche se venga leso il principio di eguaglianza (articolo 3 della Costituzione).

    L’ennesimo fallimento del progetto albanese del governo è avvenuto mentre la Camera approvava il cosiddetto “decreto migranti” con 192 voti a favore e 111 contrari. Tutto questo mentre nell’immaginario collettivo l’“operazione Albania” viene ancora raccontata come un successo.

    Finora il Cpr di Gjader ha rimpatriato 16 persone, riportate nei rispettivi Paesi dopo un viaggio di andata e ritorno con l’Italia. Molti di più, invece, sono stati liberati o ritrasferiti in altri Cpr sul territorio italiano. Tutto ciò attraverso continui viaggi sull’Adriatico, con l’impiego di mezzi e personale. Sedici persone rimpatriate, a fronte di costi enormi, per allestire lo spot pubblicitario più costoso, più inumano e più stupido che un governo possa immaginare.

    Milioni di euro spesi per apparire abbastanza cattivi da saziare la bile dei propri elettori. Anche qui, ci starebbe bene un bello scrollamento di testa del ministro Giorgetti.

    Buon giovedì.

    Foto governo.it

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  • Lacrime d’inchiostro su Gaza per paura di perdere lettori

    Ora che anche il Financial Times parla di “vergogna”, ora che The Guardian scrive la parola proibita – genocidio – all’improvviso il silenzio s’incrina. I comitati editoriali si svegliano. Le colonne si moltiplicano. Ma non è coscienza: è consenso. È il panico di perdere lettori, abbonamenti, credibilità. E allora via con le editoriali contrite, con le fotografie che finalmente mostrano ciò che tutti sapevano da mesi.

    Ben venga. Ma nessuna indulgenza.

    Per diciannove mesi una parte della stampa ha depotenziato, censurato, giustificato. Ha fatto da schermo. Ora si scopre umanitaria solo perché l’opinione pubblica cambia vento. Perché le università occupate fanno rumore, perché i lettori si stancano delle veline, perché persino i cronisti embedded non riescono più a oscurare i corpi bruciati e i bambini amputati.

    Il merito non è dei giornali. È di chi ha tenuto la barra dritta quando non conveniva: reporter sul campo, ong, studiosi, attivisti, redazioni che hanno pagato in termini di isolamento, licenziamenti, intimidazioni. È questa la vera resistenza. Tutto il resto è rincorsa tardiva, goffamente rivendicata.

    Ora tocca alla stampa un compito più difficile: raddrizzare la politica. Perché la politica, anche quella italiana, continua a balbettare, a distinguere, a voltarsi altrove. Servono editoriali che non si limitino al lutto ma pretendano sanzioni, rotture diplomatiche, conseguenze. Chi ha sbagliato – con il silenzio o con la complicità – non può farla franca solo perché oggi cambia verbo.

    Il tempo delle omissioni è finito. Ora si risponde alla Storia. E la Storia ha buona memoria.

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  • Meloni, Salvini, Tajani: tre leader e nessuna guida

    L’assenza di Giorgia Meloni al vertice dei “volenterosi” per Kiev ha fatto rumore. Non tanto per la sua partecipazione in video, quanto per la reazione stizzita di Antonio Tajani. “Chiedete a lei”, ha detto il ministro degli Esteri ai cronisti che domandavano conto della mancata presenza fisica della premier. In quel gelo diplomatico c’è tutta la fotografia di un governo che mostra la vetrina dell’unità ma continua a incrinarsi sotto la superficie.

    Tajani ha provato a tamponare il caso con frasi rassicuranti – “l’Italia c’era” – ma intanto ha scelto un’altra frase, più netta: “Non sto in un governo anti Ue”. Una dichiarazione che pesa, e che sembra più un messaggio a Meloni che ai partner europei. Perché in quella coalizione a tre, dove i leader si contendono lo stesso palcoscenico, le crepe non sono episodiche: sono sistemiche.

    L’alleanza delle distanze

    Dall’insediamento del governo, le differenze tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si sono espresse su quasi tutti i fronti: politica estera, riforme istituzionali, strategia economica, posizionamento europeo. Meloni cerca il profilo da statista, Salvini gioca di sponda populista, Tajani prova a tenere un perimetro moderato. I vertici settimanali, le foto di rito, le smentite ufficiali non bastano più a mascherare le tensioni, che esplodono puntualmente ogni volta che la premier cerca una linea autonoma.

    Sul fronte internazionale, Meloni tenta un difficile equilibrio tra la fedeltà atlantista e la volontà di distinguersi dagli esecutivi precedenti. Ma paga la necessità di mediare tra un Tajani che custodisce gelosamente il pedigree europeista del PPE e un Salvini che flirta con Trump e sogna dazi bilaterali. L’episodio di Kiev ha solo cristallizzato un malessere già in circolo: la premier non può permettersi passi falsi, ma non può nemmeno permettersi un Tajani che si smarca troppo.

    La doppia politica estera

    Il governo parla spesso con due voci. Una ufficiale, incarnata da Meloni e Tajani, che difende la coerenza europeista e il sostegno all’Ucraina. L’altra parallela, tutta affidata a Salvini, che colleziona telefonate a Washington e critiche a Bruxelles. Il risultato è una diplomazia schizofrenica che confonde alleati e osservatori. Tajani, esasperato, ha più volte ricordato che “la politica estera si fa con una voce sola, altrimenti si diventa lo zimbello delle cancellerie”. Meloni lo sa, e per questo avrebbe minacciato Salvini di svuotargli il partito. Se sia vero o no, poco importa: è il clima che conta.

    Una forza apparente, una fragilità reale

    La stabilità apparente del governo Meloni è anche figlia dell’inconsistenza dell’opposizione. I partiti che dovrebbero incalzare l’esecutivo sono divisi su tutto: su Gaza, sul lavoro, persino sul referendum contro l’autonomia differenziata. Mentre il centrodestra si azzuffa ma governa, il centrosinistra alterna appelli all’unità e lettere in dissenso. Le tensioni dentro l’esecutivo sarebbero un’occasione politica evidente, ma nessuno riesce ad approfittarne. Così Meloni può permettersi di tirare la corda, Salvini di giocare di sponda, Tajani di dissociarsi a mezza voce: l’alternativa non c’è.

    La polemica interna al Pd sull’astensione referendaria, il balbettio del M5S su ogni questione internazionale, le ambiguità sul MES e sul PNRR impediscono di trasformare le fragilità del governo in un’alternativa di governo. Questo squilibrio offre a Meloni un margine insperato: può gestire un’alleanza instabile con la certezza che fuori dal perimetro non c’è minaccia reale. Il problema è che nel vuoto dell’opposizione, il confronto politico si appiattisce sulle contraddizioni del potere, senza che nessuno ne tragga conseguenze elettorali.

    Riforme a ostacoli e riformulazioni continue

    Le riforme istituzionali sono il terreno dove l’equilibrismo della premier rischia di crollare. Il premierato voluto da Meloni è ostaggio dell’autonomia differenziata imposta da Salvini. Forza Italia, con Tajani, tiene il freno a mano, appellandosi ai rilievi della Corte Costituzionale. Si avanza per baratti incrociati: una riforma per l’altra, un comma per un appoggio. Il risultato è una paralisi lucida, in cui nessuno osa rompere, ma ognuno minaccia di farlo.

    Anche sulla giustizia e sui diritti civili la coalizione si muove come un corpo a tre teste: Tajani difende le toghe, Salvini tuona contro le intercettazioni, Meloni lascia fare a Nordio. La legge sull’utero in affitto come reato universale ha mostrato l’allineamento conservatore del governo, ma anche lì Forza Italia si è fatta vedere solo per il voto. Marina Berlusconi ha provato a spingere sul fine vita: silenzio, o peggio, sarcasmo.

    Un governo condizionato

    Il caso Kiev ha rivelato un aspetto cruciale: Meloni è forte finché gli altri glielo permettono. Forza Italia ha fatto capire che c’è un limite alle torsioni anti-Ue, Salvini usa ogni margine per riaffermare la propria identità. La premier tiene insieme la coalizione con una miscela di controllo e minaccia. Ma sa che ogni divergenza può diventare una leva. E che Tajani non è più disposto a coprirle tutte.

    Dietro ogni foto di gruppo ci sono tre agende elettorali, tre diplomazie parallele, tre idee diverse di cosa significhi governare. Più che una coalizione, una tregua permanente. Fino al prossimo vertice. Fino al prossimo “Chiedete a lei”.

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  • José Mujica, la politica come dovere e come disobbedienza

    José Mujica è morto il 13 maggio 2025. Aveva 89 anni, un cancro all’esofago e nessuna intenzione di smettere di parlare. Lo chiamavano “el Pepe”. Per i giornali era il presidente più povero del mondo. Per l’Uruguay è stato l’unico capo di Stato capace di abitare il potere come una zavorra necessaria, mai come un trono. Per il resto del mondo era una voce stonata nell’orchestra di leader compiaciuti, autoritari, impomatati. Il contrario esatto della politica che oggi avanza.

    Dal carcere all’assemblea: la coerenza come metodo

    Nato nel 1935 a Montevideo, Mujica cresce in una casa dove la povertà è condizione e la dignità un principio. Orfano di padre, si guadagna da vivere con il lavoro nei campi. La sua prima militanza è nel Partito Nazionale, ma negli anni ’60 si avvicina alla lotta armata. Entra nei Tupamaros, gruppo rivoluzionario ispirato alla Rivoluzione cubana. Partecipa a sequestri, assalti, azioni dimostrative. Viene colpito da sei proiettili in uno scontro a fuoco e arrestato più volte. Dopo il golpe del 1973, finisce in isolamento per oltre dieci anni. Passa due di questi anni nel fondo di un abbeveratoio per cavalli. Non vede quasi mai la luce. Viene torturato. Non cede.

    Quando nel 1985 l’Uruguay torna alla democrazia e viene liberato, Mujica cambia strada. Non rinuncia alla radicalità, ma la reinventa: “La lotta non si fa più con le armi, ma con le leggi”. Entra nel Frente Amplio, fonda il Movimento di Partecipazione Popolare, diventa deputato, poi senatore. Nel 2005 è ministro dell’Agricoltura, nel 2009 vince le presidenziali. Governa il Paese dal 2010 al 2015, portando con sé la zolla, la carcassa del Maggiolino, la casa con il tetto in lamiera, la pensione da contadino. Rifiuta il palazzo presidenziale e dona il 90% dello stipendio.

    Durante il suo mandato l’Uruguay diventa un laboratorio. Legalizza la marijuana, autorizza l’aborto, approva il matrimonio egualitario. Abbassa la povertà dal 45% all’11%, aumenta del 250% il salario minimo, porta le energie rinnovabili al 98% della produzione elettrica. “Non difendo le droghe – dirà – ma il narcotraffico è peggio”. Non è ideologia. È disobbedienza creativa: piegare le leggi esistenti alla giustizia sociale. Dimostrare che si può governare per redistribuire e non per occupare.

    Contro la società di mercato, il tempo come libertà

    Ma il lascito più profondo non sta nei numeri. Sta nel linguaggio che ha usato. Nell’etica della sobrietà come rottura, nell’umiltà come forma di resistenza. Mujica ha criticato la società del consumo chiamandola con il suo nome: “una nuova forma di schiavitù”. Ha parlato di felicità come orizzonte politico, non come vezzo spirituale. “Abbiamo inventato una montagna di consumi superflui – diceva – e sprechiamo la vita a lavorare per mantenerli”. È stato invitato all’Onu per pronunciare un discorso su questo. E ha parlato per tre minuti, con la voce bassa, le mani nelle tasche e lo sguardo da contadino.

    La sua coerenza non è stata estetica. È stata sostanza. Mujica ha criticato i regimi di sinistra autoritari come Nicaragua e Venezuela, ha difeso il pluralismo, ha sempre cercato il dialogo, anche con gli oppositori politici, spesso ospitati a casa sua. Ha costruito la sinistra più pragmatica del Sud America senza perdere la fedeltà ai suoi principi. Ha dimostrato che si può evolvere senza svendersi.

    Il suo pensiero resta l’antidoto alle due malattie politiche del presente: l’autarchia e il neofascismo. All’isolamento, ha risposto con la cooperazione. Alla paura, con il dialogo. Al culto dell’uomo forte, con la fragilità vissuta come forza. Alla retorica del nemico, con l’invito a “non trasformarci in ciò contro cui combattiamo”. Alla verticalità del potere, con l’orizzontalità delle relazioni umane.

    Ha insegnato che la politica non è spettacolo né risentimento. È servizio. È vocazione. È dovere. E chi la esercita deve somigliare a chi la subisce, non dominarlo. Per questo la sua morte pesa. Perché Mujica è stato l’esempio vivente che un altro modo di vivere il potere è possibile. E che, se lo ignoriamo, non sarà per mancanza di alternative. Sarà per codardia.

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  • Referendum sul lavoro: nel Pd c’è chi imita La Russa e lo fa perfino in peggio

    C’è chi almeno ha la coerenza del proprio ruolo istituzionale e chi, invece, la smarrisce dietro il calcolo elettorale. L’astensione è diventata la nuova lingua franca di una parte politica: l’ha lanciata Ignazio La Russa con la solita irruenza da tribuno, l’hanno fatta propria alcuni dirigenti del Partito democratico con la compostezza dei sabotatori silenziosi. E non è un caso che l’eco delle loro parole sia indistinguibile da quelle di Matteo Renzi, perfino nella retorica del “paleolitico”.

    La linea ufficiale del Pd, sotto la guida di Elly Schlein, è per il sì ai referendum del prossimo 8 e 9 giugno. È una scelta netta, magari anche divisiva, ma almeno chiara. Ma alcuni riformisti, tra cui Lorenzo Guerini, Giorgio Gori, Marianna Madia, Lia Quartapelle, Filippo Sensi e Pina Picierno, hanno firmato una lettera a Repubblica per comunicare che voteranno solo su due quesiti (cittadinanza e responsabilità delle imprese appaltanti) e si asterranno sugli altri tre. Perfino Renzi ha dato indicazione per il voto. Perfino Carlo Calenda. Loro? Astenersi. Neanche un no. Neanche la responsabilità di metterci la faccia con un’opinione diversa. Semplicemente: non votare. Proprio come Fratelli d’Italia, proprio come La Russa.

    La grammatica dell’ambiguità del Pd

    Il Jobs Act, scrivono, è stato l’ultimo “provvedimento organico sul lavoro”, ispirato alle “migliori esperienze giuslavoristiche delle socialdemocrazie europee”. Il Jobs Act, replicano con le stesse parole Renzi e Calenda, è un’eredità da difendere, e quindi non si tocca. Ma qui non si discute solo di merito: la questione è politica, anzi etica. Un gruppo dirigente che in pubblico si professa democratico e progressista, ma nei fatti rifiuta il confronto popolare su uno dei provvedimenti più contestati degli ultimi dieci anni, sceglie deliberatamente di depotenziare lo strumento referendario. E lo fa proprio quando la segretaria del partito cerca di usare il referendum per segnare un’identità.

    Non si tratta di ingenuità. I firmatari della lettera parlano di “simulacro fuori tempo”, definiscono il referendum uno strumento inadeguato e rivendicano che “la condizione del lavoro in Italia passa dal futuro, non da una sterile resa dei conti col passato”. È la stessa narrazione di Renzi, che a Bruxelles ha definito il quesito sul Jobs Act un “passo indietro al paleolitico”, sostenendo che il vero tema dovrebbe essere “stipendi e bollette”. Peccato che a disintegrare stipendi e bollette abbiano contribuito quelle politiche che ora si difendono come conquiste.

    Un dissenso organizzato

    Lo strappo non è un inciampo ma una frattura consapevole. E arriva dopo settimane di preparazione, come dimostrano le manovre interne al partito con l’organizzazione di un nuovo circolo e l’obiettivo dichiarato di logorare Schlein dall’interno. Perché l’astensione, oggi, è un’arma. E come ogni arma, ha un bersaglio. Il bersaglio è Schlein e la sua linea, colpevole di essersi allineata alla Cgil di Maurizio Landini e di voler riportare il Pd su una traiettoria più vicina alla sinistra sociale.

    È uno schema che si ripete. Anche nel 2003, nel referendum sull’articolo 18, una parte del centrosinistra si sfilò con la stessa scusa dell’inutilità del voto. Anche allora si scelse l’astensione come scorciatoia, con lo stesso effetto: smobilitare l’elettorato. L’unica vera conseguenza fu rendere più fragile il fronte del lavoro. E oggi, vent’anni dopo, si ripete lo stesso copione con gli stessi attori.

    Chi oggi si rifiuta di votare, chi invita all’astensione per calcoli interni, non sta sfidando Schlein: sta disarmando la democrazia. La differenza, rispetto a La Russa, è solo nei toni. Ma almeno La Russa non finge di essere altro da sé.

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  • L’Italia bollita nella pentola del melonismo

    Il melonismo si è ormai trasformato in corrente politica, corrente di pensiero e in un rullo compressore sui diritti. Ogni giorno accadono fatti gravissimi che si accumulano senza nemmeno lasciare lo spazio per essere smontati. Ieri, in Commissione antimafia, il generale Mori si è fatto portatore dell’ennesimo rovesciamento della realtà, con i magistrati antimafia finiti alla sbarra e con un nuovo tentativo di riscrivere gli anni delle stragi. Corre veloce il melonismo, sempre intento a riscrivere la storia.

    Le bugie si ingrossano, finché non sono abbastanza forti da sfilare come se fossero realtà. Le narrazioni vengono rivendute come fatti, i numeri sbrindellati alla bisogna, le leggi piegate, la Costituzione fantasiosamente interpretata. Ovvio che in questo gioco i giornalisti vadano puniti, intimiditi, silenziati, perfino spiati.

    L’autoritarismo non è più roba da Ungheria. L’autoritarismo sta qui, e confida nella sempre efficace sindrome della rana bollita di chi lo subisce.

    Di fronte a quest’onda nera servirebbe una cosa sola: l’autorevolezza dell’opposizione. Un’opposizione ferma, compatta, facilmente leggibile, con le spalle larghe, con lo sguardo lungo. E invece forse è arrivato il momento di riconoscere che – per ora – non c’è. Se c’è, non funziona. Del Partito democratico si notano gli spifferi che di giorno in giorno diventano crepe, in attesa che la segretaria Schlein batta un colpo. Il M5s si annacqua sul referendum di cittadinanza, come se fosse un vezzo da hobbisti dei diritti. Tra le macerie del Terzo polo si sbanda tra maggioranza e opposizione, sperando di raccattare un sorso di percolato.

    E dell’autorevolezza, chi si fa portatore?

    Buon mercoledì.

    Foto Gov
    Foto NASA/JPL-Caltech

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