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Le aziende italiane e la grande bugia dell’inclusione sul lavoro -Lettera43

Nelle imprese si parla tanto di empatia, merito, di strategie DE&I. Eppure secondo una ricerca di Tack TMI Italy, il 28 per cento dei lavoratori dichiara di aver subito discriminazioni. Per l’etnia, per l’orientamento sessuale, l’aspetto fisico, la disabilità. È il diversity washing. E non è solo ipocrisia, è un danno.

Le aziende italiane e la grande bugia dell’inclusione sul lavoro

L’Italia delle imprese si dichiara moderna, empatica, orientata alla diversità. Nei codici etici si parla di rispetto, nei convegni si celebra l’inclusione, nelle brochure si sorride in tutte le lingue e tutti i colori. Ma basta scorrere i dati per svelare la messa in scena. Una ricerca condotta da Tack TMI Italy su un campione di 1.500 lavoratori ha rivelato che il 90 per cento degli intervistati percepisce ancora discriminazioni nei luoghi di lavoro. Il 28 per cento dichiara di averle subite personalmente. E l’80 per cento non ha mai ricevuto una formazione sulla diversità.

I pregiudizi sul lavoro sono la regola, dall’etnia all’orientamento sessuale fino al genere e l’età

Le aziende italiane, insomma, sono molto brave a raccontarsi. Molto meno a fare i conti con ciò che sono. Il 64 per cento dei lavoratori afferma che «tante aziende parlano di programmi di diversità e inclusione, ma non fanno niente per i lavoratori come me». Solo il 37 per cento dichiara che esistano strumenti concreti per affrontare il problema, una quota che scende al 30 nelle piccole imprese. I pregiudizi non sono un inciampo, ma una regola. L’etnia è il primo fattore di discriminazione osservato (62 per cento), seguita da orientamento sessuale (49 per cento) e disabilità (48 per cento). Sul piano dell’esperienza diretta, i dati indicano che le principali discriminazioni subite sono legate al genere e all’età (entrambe al 14 per cento), seguite dall’aspetto fisico (10 per cento). Le donne e gli under 35 sono i più penalizzati. I lavoratori stranieri o nati all’estero riferiscono discriminazioni nel 75 per cento dei casi.

Le aziende italiane e la grande bugia dell'inclusione sul lavoro
Secondo la ricerca di Tack TMI Italy, l’etnia è il primo fattore di discriminazione osservato (62 per cento).

L’esclusione sistemica abbassa la produttività e spinge i talenti a scappare

Questa esclusione sistemica non è neutra. Produce un ambiente di lavoro diseguale, mina la fiducia, limita la produttività e spinge i talenti a guardare altrove. Il nodo si stringe al momento dell’assunzione. Il candidato ideale resta, nella percezione dei recruiter, “uomo, adulto, bianco”. I test proiettivi confermano: il top manager è immaginato come un maschio caucasico di mezza età, il magazziniere come un giovane straniero, la segretaria come una donna giovane. Una suddivisione gerarchica dell’identità, in cui l’inclusione resta fuori dalla porta. Il problema non è solo culturale: è metodologico. I bias inconsci guidano i processi di selezione. Il similarity bias spinge a scegliere chi ci somiglia. L’effetto alone fa sì che un tratto superficiale – l’università, l’accento, l’aspetto – determini il giudizio complessivo. Il bias di conferma cerca negli altri conferme delle proprie convinzioni. E il risultato è che si continua a premiare lo specchio.

Le aziende italiane e la grande bugia dell'inclusione sul lavoro
Immagine realizzata con l’Ia.

L’Italia è all’85esimo posti su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni

In questo contesto, la parola “merito” diventa un feticcio. Un alibi. Le imprese la usano per mascherare l’omologazione. Ma la meritocrazia vera richiede di rimuovere gli ostacoli strutturali. In Italia, invece, il “merito” serve spesso a legittimare privilegi, consolidare la gerarchia, mantenere le distanze. Non a premiare il talento. Secondo un’indagine del World Economic Forum ripresa da The Guardian, l’Italia si collocava all’85esimo posto su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni. Nella percezione comune, trovare lavoro senza “conoscenze” sembra impossibile. E chi appartiene a minoranze – donne, giovani, stranieri – resta ai margini di queste reti informali. La distanza tra retorica e pratica è certificata anche dalle cifre sulla formazione e sulle strategie. Il 77-80 per cento dei lavoratori non ha mai ricevuto formazione sulla diversità. Solo il 41 per cento delle aziende dichiara di avere una strategia specifica di DE&I (Diversity, Equity, and Inclusion) e appena il 22 per cento ha stanziato un budget dedicato. In un’azienda su tre, le iniziative DE&I sono percepite come fumo negli occhi dai lavoratori stessi che ne denunciano l’impatto negativo sul clima interno.

Le aziende italiane e la grande bugia dell'inclusione sul lavoro
Secondo un’indagine del World Economic Forum l’Italia si collocava 85esima su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni.

Il diversity washing va oltre all’ipocrisia: è un danno

È il diversity washing: raccontarsi inclusivi senza esserlo. E non è solo ipocrisia. È un danno. Perché chi si sente escluso lavora meno, crede meno, resta meno. E chi guarda da fuori sceglie di non entrare. Nel mercato del lavoro italiano, la diversità è ancora vista come un problema da gestire, non come una risorsa da coltivare. Le aziende che parlano di equità ma selezionano secondo stereotipi stanno costruendo muri, non ponti. E chi parla tanto di merito spesso si limita a premiare chi gli somiglia. La grande bugia dell’inclusione aziendale non è solo uno scarto tra parola e azione. È una questione di giustizia. E finché resterà impunita, continuerà a rendere il lavoro italiano un luogo meno libero, meno equo, meno umano. E continuerà a renderci sempre più imbarazzanti. Forse conviene concentrarsi un po’ meno sugli spot e di più nelle azioni. L’equità va usata, non lasciata esposta in vetrina.

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Da Hitler e Mussolini al salario sovietico: tutti gli scivoloni “storici” del ministro Tajani

Nel parlare di Antonio Tajani e del suo rapporto con la storia, più che un’analisi servirebbe un ripasso. Il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, già presidente del Parlamento europeo, ha negli anni inanellato una sequenza di scivoloni storici, a volte così grossolani da sembrare più operazioni propagandistiche che semplici distrazioni. L’ultimo, in ordine di tempo, è arrivato l’11 giugno 2025, quando per giustificare il suo no al terzo mandato per i presidenti di Regione, ha dichiarato: “Anche Hitler e Mussolini sono andati al potere vincendo le elezioni“. Una frase così sgangherata che ha costretto gli storici a fare gli straordinari.

Mussolini e Hitler: la verità oltre la propaganda

La realtà storica, confermata da numerosi studiosi e ricostruita da Pagella Politica e dalle principali testate storiche italiane, è opposta a quanto sostenuto da Tajani. Benito Mussolini non ha mai vinto elezioni. Nel 1921 fu eletto in Parlamento all’interno dei “Blocchi nazionali“, ma il suo partito ottenne solo 35 seggi, a fronte di una netta maggioranza socialista e popolare. Il potere lo conquistò con la Marcia su Roma del 1922, definita da storici come Paolo Pombeni e Marco Fioravanti un colpo di Stato vero e proprio. Le elezioni del 1924, vinte dopo l’introduzione della legge truffa Acerbo, furono segnate da violenze e intimidazioni, e quelle del 1929 furono un plebiscito sotto regime a partito unico.

Anche Adolf Hitler non salì al potere attraverso un mandato popolare. Le elezioni del 1932 non gli diedero la maggioranza, e fu solo nel gennaio 1933 che il presidente Hindenburg lo nominò cancelliere, in seguito a trattative di palazzo con la destra conservatrice. Le elezioni successive del marzo 1933 si svolsero sotto intimidazione, con i comunisti banditi e gli oppositori perseguitati, e già in novembre si votava con una lista unica in pieno regime nazista.

Insomma: né l’uno né l’altro ottennero il potere con un mandato elettorale limpido. La narrazione di Tajani distorce i fatti, offrendo una rappresentazione semplificata e falsa che banalizza l’avvento di due dittature. Peggio: li assolve implicitamente, rendendoli quasi dei legittimi esiti del voto democratico.

Revisionismo da salotto: “Le cose buone” di Mussolini

Non è la prima volta che Tajani inciampa nella storia. Nel 2019, intervistato da Radio 24, dichiarò che Mussolini “fece anche cose positive“, citando strade, ponti e impianti sportivi. Una retorica che appartiene al vocabolario del revisionismo soft, quello che cerca di separare la brutalità del fascismo dalle sue presunte opere pubbliche. Ma le date smentiscono questa narrazione. Giacomo Matteotti fu assassinato nel 1924, le libertà democratiche soppresse dal 1925, i crimini coloniali in Etiopia iniziarono già nel 1935. Le leggi razziali del 1938 arrivano dopo un regime già totalitario, e non prima della sua deriva, come vorrebbero i nostalgici in doppiopetto.

Quella dichiarazione costò a Tajani una figuraccia internazionale: cartelli con scritto “Mai più fascismo” sventolati al Parlamento europeo, indignazione bipartisan, e infine un goffo dietrofront in cui si definì “da sempre antifascista”.

Il salario minimo “sovietico” e l’anticomunismo d’accatto

Nel luglio 2023, Tajani aggiunge un altro capitolo al suo curriculum ideologico dichiarando che il salario minimo porterebbe “stipendi tutti uguali, come nell’Unione Sovietica“. Anche in questo caso, la realtà storica lo smentisce: in Urss non esisteva alcuno “salario unico”, ma un sistema fortemente gerarchizzato e segmentato. Equiparare il salario minimo legale – adottato in quasi tutta Europa – a un modello economico totalitario è una forzatura priva di fondamento. Come ha osservato Pagella Politica, si tratta di “una delle dichiarazioni più scorrette del 2023”.

Non è un lapsus, è un modello comunicativo. L’anticomunismo viscerale viene evocato per screditare ogni intervento sociale dello Stato, con lo scopo di compattare l’elettorato conservatore. La verità storica è solo un danno collaterale.

Il passato piegato, il futuro ignorato

Che Tajani usi la storia come clava politica è ormai evidente. Ma l’ultimo esempio dimostra che le sue difficoltà non si fermano al passato. Ieri commentando il rischio di un’escalation tra Israele e Iran, Tajani affermava: “La notizia di un attacco imminente è da ritenere infondata. Ci risulta che la situazione sia sotto controllo”. Poche ore dopo, l’attacco israeliano era una realtà. Una cantonata diplomatica grave, figlia dello stesso schema: parlare e dichiarare per posizionarsi, e piegare la realtà ai fini della propria narrazione.

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Propaganda continua: così si prepara il genocidio

“Il nostro mandato è finire ciò che abbiamo iniziato nel 1948“. Le parole pronunciate in Parlamento da Bezalel Smotrich, oggi ministro del governo Netanyahu, contro Ayman Odeh, palestinese eletto democraticamente alla Knesset, non sono uno scivolone. Sono una dichiarazione di intenti. È l’invocazione pubblica di una pulizia etnica, che si maschera da legittima difesa e si nutre di una strategia antica: la disumanizzazione del nemico.

Rula Jebreal, nella sua lezione all’Università per Stranieri di Siena, ha fatto ciò che l’Europa si rifiuta ostinatamente di fare: ha dato un nome alla realtà. Ha chiamato “plausibile genocidio” ciò che si consuma ogni giorno a Gaza, sulla base delle stesse definizioni usate dalla Corte Internazionale di Giustizia. Ha mostrato come la propaganda – quella che mescola la vittima e il carnefice, che cancella la storia pre-7 ottobre, che bolla il dissenso come antisemitismo – sia l’arma più efficace per rendere accettabile l’inenarrabile.

Jebreal ha ricordato che a morire sotto le bombe israeliane ci sono i nipoti dei profughi espulsi nel 1948. Che il potere, come scriveva Hannah Arendt, può imbavagliare la verità ma non sostituirla. Che è compito degli intellettuali, dei giornalisti e dell’università impedire che chi detiene la forza detenga anche il monopolio del racconto.

Chi oggi chiede un cessate il fuoco, chi denuncia l’apartheid, chi osa parlare di pace, viene accusato di tradimento. Eppure proprio l’arte di comprendere l’altro, come scriveva Virginia Woolf, è l’unico antidoto alla guerra. Sta a noi scegliere se stare dalla parte della complessità o della propaganda.

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Corsa al riarmo, 100 miliardi di dollari in un anno per gli arsenali nucleari: una deriva verso il baratro

Nel 2024, il mondo ha speso 100,2 miliardi di dollari per le armi nucleari. È la cifra più alta mai registrata, pari a 3.169 dollari al secondo. In un solo anno, i nove Stati dotati di arsenali atomici – Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord – hanno aumentato dell’11% le risorse destinate alla minaccia atomica. In cinque anni l’aumento complessivo ha superato il 32%.

Non si tratta solo di numeri. Questo significa che ogni minuto del 2024 sono stati spesi 190.151 dollari per rendere il mondo più vulnerabile. Mentre si discute di pace nelle conferenze internazionali, il bilancio reale delle priorità parla il linguaggio delle armi.

Il peso degli Stati Uniti

Più della metà di questa spesa globale proviene da un unico Paese: gli Stati Uniti, con 56,8 miliardi di dollari, hanno investito più di tutti gli altri messi insieme. La Cina ha speso 12,5 miliardi, il Regno Unito 10,4. Seguono Francia (6,9 miliardi), Russia (8,1), India (2,6), Pakistan e Israele (entrambi 1,1), Corea del Nord (630 milioni).

Il paradosso è che tutto questo avviene mentre — come ricordava Papa Francesco — il mondo vive una “terza guerra mondiale a pezzi”, con conflitti aperti in Ucraina, Gaza, nel Caucaso, in Asia meridionale. In questo scenario, il rischio di un impiego nucleare è considerato il più alto dai tempi della Guerra Fredda.

Segreti, lobbisti e profitti

Il rapporto “Hidden Costsdell’Ican mette in luce la totale assenza di controllo democratico. In diversi Paesi, compresi quelli che ospitano testate straniere come l’Italia, i cittadini e spesso anche i parlamentari ignorano dove siano le bombe, quante siano, e quanto costino. Un’omertà strategica.

Nel 2024, almeno 26 aziende attive nella costruzione e manutenzione di armamenti nucleari hanno incassato 43,5 miliardi di dollari. Le stesse hanno investito 128 milioni in attività di lobbying solo negli Stati Uniti e in Francia. Nel Regno Unito hanno ottenuto 196 incontri con rappresentanti di governo, 18 dei quali direttamente con l’ufficio del Primo Ministro. Le armi si fabbricano nei consigli di amministrazione, si promuovono nei ministeri, si occultano nei bilanci statali.

Alternative che non si scelgono

Che cosa si sarebbe potuto fare con quei 100 miliardi? L’Ican prova a rispondere: si sarebbero potuti nutrire per quasi due anni i 345 milioni di persone a rischio fame nel mondo. Oppure finanziare per 28 anni l’intero bilancio annuale delle Nazioni Unite. Oppure ancora investire in ospedali, scuole, case. In sicurezza reale, non immaginaria.

La Francia, ad esempio, avrebbe potuto pagare due volte l’intero budget Onu. Israele avrebbe potuto coprirne un terzo. L’India avrebbe potuto coprire tre quarti del bilancio delle Nazioni Unite. La Russia avrebbe potuto salvarne l’intera struttura due volte. Ma si è preferito destinare quelle risorse alla produzione di ordigni progettati per uccidere su vasta scala.

Il mondo che dice no

A questo scenario si oppone la parte più grande – e silenziosa – del mondo. Novantotto Paesi hanno ratificato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, impegnandosi a non produrle, non ospitarle, non utilizzarle. Insieme a loro oltre 700 organizzazioni della società civile.

È una scelta di rottura con la logica della deterrenza, che continua a poggiare su minacce implicite di distruzione totale. È una scommessa sulla sopravvivenza. A 80 anni dai primi bombardamenti atomici, Ican ripete che “basta”: eliminare le armi nucleari è l’unico modo per evitare che siano loro a eliminare noi. È un bivio. E continuare a spendere miliardi per prepararci all’annientamento non è strategia: è follia.

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Ma Pd e M5s non hanno niente da dire sul Copasir?

Da ieri sappiamo che nella redazione di Fanpage non c’era solo il direttore intercettato con lo spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon Solutions. Anche il giornalista Ciro Pellegrino ha avuto conferma che l’avviso arrivatogli da Apple non mentiva: il più importante laboratorio di analisi del mondo ha ritrovato tracce del software israeliano nel suo telefono. Due giornalisti della stessa testata (particolarmente indigesta al governo) sono stati spiati in ogni loro mossa.

A Bruxelles hanno strabuzzato gli occhi. Paragon, qualche giorno fa, ha confermato di poter scoprire in breve tempo chi ha puntato i giornalisti, ma racconta che al governo non interessava fare chiarezza. Il governo nega. Potrebbe chiedere chiarezza oggi, subito. Potrebbe dire una parola la presidente del Consiglio, potrebbe dire qualcosa anche il presidente della Repubblica. Aspettiamo fiduciosi.

Da ieri, però, sappiamo anche che il Copasir, il comitato parlamentare che si occupa dei rapporti con i servizi segreti, ha vergato una relazione che è carta straccia — per usare un eufemismo. Hanno messo in dubbio le analisi del più importante laboratorio al mondo sul telefono del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. Hanno ignorato il caso di Ciro Pellegrino. Hanno, di fatto, corroborato l’omertà del governo.

Il Copasir è guidato dal deputato del Pd Lorenzo Guerini. La relazione è stata votata all’unanimità, quindi anche da M5S, Italia Viva e Azione. Il giornalista meloniano Italo Bocchino dice di «non avere dubbi» su Guerini. Non avevamo dubbi. Ma che ne pensano Elly Schlein e Giuseppe Conte? Anche perché sullo sfondo c’è un altro giornalista (forse due) spiato, che consentirebbe di scoprire esecutore e mandanti dello spionaggio. E a quel punto la figuraccia diventerebbe un disastro.

Buon venerdì.

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Il caso del piccolo Adam e il peacewashing su Gaza

Il peacewashing italiano si è buttato a capofitto su Adam, chiamato senza il suo cognome come nelle favole per bambini, sopravvissuto al bombardamento israeliano che ha ucciso i suoi 9 fratelli e anche il padre, Hamdi, morto pochi giorni fa a causa delle ferite.

Lo sbarco in Italia insieme alla madre Alaa al-Najjar, pediatra nello sfacelo umanitario di Gaza, è stato una cerimonia con le fanfare che è rimbalzata su tutti i giornali. Il ragazzo sarà operato all’ospedale Niguarda di Milano. Le interviste si moltiplicano, i retroscena, i racconti straziati e strazianti di chi non ha trovato l’inchiostro per raccontare gli altri 16mila bambini uccisi nella Striscia e i 24mila feriti. “Guardate come siamo bravi che ne abbiamo pescato uno tra tanti e abbiamo deciso di salvarlo” è il sottotesto della narrazione. Hanno accolto il bambino coloro che addirittura avevano messo in dubbio la veridicità di quella strage familiare. Una delle molte e quotidiane di Gaza. Hanno accolto il bambino gli stessi che concordano con il governo israeliano che quelli come Adam li definisce “non umani” e, nella migliore delle ipotesi, “terroristi”.

“Guardate come siamo bravi”, sospirano dal governo gli stessi che continuano a spedire le armi che trucidano i bambini. “Guardate come siamo buoni”, dicono coloro che non alzano un dito per non disturbare Netanyahu. “Guardate come siamo bravi noi italiani”, che nei consessi internazionali ci distinguiamo per vigliaccheria con il nostro governo prono. I giornali che non trovavano lo spazio per scrivere due righe sulla strage continua oggi rovesciano litri di commozione finta, sparpagliata sulle pagine. Questo siamo.

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Terzo mandato ai governatori, la coerenza a targhe alterne di Salvini

Quando nel settembre 2016, sul palco di Pontida, Matteo Salvini tuonava contro le carriere eterne in politica, sembrava crederci davvero. “Dopo dieci anni penso che si possa lasciare spazio a qualcun altro”, dichiarava, rivendicando la proposta dei Giovani Padani per un limite di due mandati a qualsiasi carica elettiva all’interno della Lega. Parole nette, quelle del leader leghista, che all’epoca si presentava come rottamatore della vecchia politica, promotore di una rigenerazione generazionale, a partire dal proprio movimento. Ribadì la linea pochi mesi dopo, nel 2017, definendo “fondamentale” il vincolo dei due mandati per garantire ricambio e nuove energie.

Eppure, oggi, Salvini è il principale sponsor dell’abolizione del limite ai mandati per i presidenti di regione. Il 5 giugno, intervistato dal Corriere della Sera, ha rilanciato: “Noi da sempre riteniamo che debbano essere i cittadini a scegliere”. La Lega ha provato più volte in Parlamento a eliminare il vincolo, finora senza riuscirci. Ma ora, con Fratelli d’Italia più disponibile al dialogo, la partita potrebbe riaprirsi.

Il partito del vincolo (quando stava al governo)

L’incoerenza, però, non si limita alle dichiarazioni di Salvini. Come ricostruisce in dettaglio Pagella Politica in un’analisi dell’11 giugno 2025, anche la Lega – quando si chiamava ancora Lega Nord – votò nel 2004 a favore della legge che istituiva il limite dei due mandati consecutivi per i presidenti di regione. All’epoca, era al governo con Berlusconi e Bossi era ministro delle Riforme. Nessuna opposizione formale da parte del Carroccio fu registrata nei resoconti parlamentari. Il limite, introdotto per garantire alternanza e contenere la concentrazione del potere, fu dunque condiviso anche dalla Lega di allora.

Oggi, invece, il partito è pronto a stracciarlo per tutelare due dei suoi governatori più popolari: Luca Zaia in Veneto e Massimiliano Fedriga in Friuli-Venezia Giulia. Il cambio di rotta, spacciato per difesa della volontà popolare, si traduce nei fatti in un’operazione di autoconservazione. Salvini stesso è al suo quarto mandato parlamentare, e ha appena ottenuto la riconferma come segretario del partito fino al 2029. Difficile credergli quando parla di “ricambio”.

La vera battaglia: il controllo del Nord

La posta in gioco, però, va oltre la coerenza. È una guerra interna alla maggioranza per il controllo dei territori del Nord. In particolare del Veneto, storica roccaforte leghista che Fratelli d’Italia vorrebbe scalzare. Per questo, secondo diversi osservatori, Giorgia Meloni finora ha frenato sull’abolizione del vincolo: candidare un proprio nome al posto di Zaia significherebbe sancire il sorpasso definitivo sulla Lega, anche sul piano locale. Solo negli ultimi giorni, il responsabile organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli, ha aperto al dialogo: “Non c’è una preclusione ideologica al terzo mandato, ma serve una riflessione nazionale”.

Forza Italia, invece, si oppone apertamente. Raffaele Nevi, portavoce del partito, ha ribadito: “Siamo contrari al terzo mandato. Il limite ha garantito ricambio e qualità nella pubblica amministrazione”. Una posizione che si richiama alla “Seconda Repubblica” e alla logica dei sindaci, dove la rotazione è un principio consolidato.

Ipocrisie senza scadenza

Dietro la retorica della “libertà di scelta dei cittadini”, si nasconde un progetto di cristallizzazione del potere. Salvini non è il solo politico ad aver cambiato idea sull’utilità dei limiti, ma è uno dei pochi ad averlo fatto in modo così esplicito e documentato. Predicava il ricambio quando non aveva regioni da difendere, oggi predica la continuità quando la sopravvivenza della Lega passa da Zaia e Fedriga.

Pagella Politica conclude con un’annotazione lapidaria: “Con il tempo – e con il suo comportamento – il leader della Lega ha dimostrato di aver cambiato idea sulla necessità di ‘ricambiare’ i vertici del partito e delle istituzioni politiche”. Le parole del passato si dissolvono nella convenienza del presente. E la coerenza resta, come sempre, una parola da palco.

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Bloccata la Marcia Globale per Gaza, l’Egitto si inchina a Israele e l’Occidente sta a guardare

La Global March to Gaza, la più grande mobilitazione umanitaria internazionale organizzata negli ultimi anni, è stata di fatto soffocata sul nascere. Oggi, 12 giugno 2025, decine di attivisti provenienti da almeno 80 paesi sono stati arrestati nei loro hotel o respinti agli aeroporti egiziani. Il Ministero degli Esteri del Cairo ha giustificato il blocco con motivi di sicurezza e la mancanza di permessi per accedere al Sinai, ma la sequenza temporale degli eventi e le dichiarazioni ufficiali israeliane raccontano un’altra storia.

Poche ore prima, l’11 giugno, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz aveva dichiarato pubblicamente di aspettarsi che l’Egitto “impedisse ai manifestanti jihadisti di avvicinarsi a Rafah”, definendo la marcia una “provocazione” e “un pericolo per i soldati israeliani”. Il giorno dopo, l’Egitto ha risposto con una retata: fermi, passaporti sequestrati, espulsioni immediate. Tra i rimpatriati, anche l’attivista italiana Antonietta Chiodo: “Stanno rastrellando i nostri attivisti come delinquenti. Chi tace, è complice”.

Il convoglio Al-Samoud bloccato prima del confine

Nel frattempo, il convoglio terrestre “Al-Samoud” (resilienza), partito il 9 giugno dalla Tunisia con oltre mille attivisti del Maghreb, è rimasto intrappolato in Libia. Dopo l’accoglienza popolare a Tripoli, Misurata e Bengasi, i partecipanti speravano di attraversare il valico di Sallum per unirsi alla marcia al Cairo. Invece, si sono trovati davanti un muro: nessun permesso, nessuna apertura. Non è un caso: l’11 giugno, in parallelo alla richiesta di Katz, il Ministero degli Esteri egiziano ha diffuso una nota in cui accoglieva “simbolicamente” le delegazioni, imponendo però rigide regole di accesso al Nord Sinai, classificato come zona militare.

Il convoglio, pensato come un ponte umano tra l’Africa e Gaza, non ha mai avuto una reale possibilità di passare. Nessun contatto diretto, nessuna risposta ufficiale da parte del Cairo, solo ostacoli burocratici e retorica difensiva. Fonti interne parlano di una collaborazione silenziosa ma attiva tra i due governi: Israele ha dettato la linea, l’Egitto l’ha eseguita.

Freedom Flotilla: l’altro fronte respinto

In contemporanea, il mare ha conosciuto la stessa sorte. Il 9 giugno, la nave “Madleen” della Freedom Flotilla è stata intercettata in acque internazionali dalla marina israeliana. A bordo c’erano attivisti come Greta Thunberg e l’europarlamentare Rima Hassan. Tutti arrestati, interrogati, espulsi. A Thunberg è stato mostrato un video delle atrocità di Hamas, come punizione simbolica. Il messaggio è stato chiaro: chi prova a sfidare l’assedio, anche con una barca di aiuti, sarà trattato come un nemico dello Stato.

La risposta repressiva su tutti i fronti – terra, mare e cielo – rivela la portata della paura israeliana verso una mobilitazione popolare che rompe l’inerzia diplomatica. Il coordinamento tra Flotilla, marcia terrestre e convoglio africano avrebbe potuto creare un cortocircuito politico, soprattutto ora che Gaza è “il luogo più affamato della Terra”, come denuncia l’ONU.

Al Sisi esegue, l’Occidente tace

Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si è posto ancora una volta come garante della stabilità per conto terzi, sacrificando ogni apparenza di sovranità a favore della cooperazione con Israele. Dietro la maschera delle “preoccupazioni di sicurezza”, il Cairo ha risposto con durezza all’unica cosa che oggi ancora può disturbare l’equilibrio diplomatico: la solidarietà civile.

La protesta internazionale – che avrebbe dovuto culminare con un accampamento pacifico a Rafah tra il 15 e il 19 giugno – è stata bloccata senza che alcun governo europeo abbia alzato la voce. L’Italia si è limitata a una nota del M5S che chiede chiarimenti a Tajani sul rimpatrio forzato dei connazionali.

Una domanda aperta

I fatti sono chiari: migliaia di attivisti si erano mobilitati senza armi, con aiuti umanitari e un programma trasparente. Sono stati fermati, deportati, delegittimati. Se l’assedio di Gaza è definito “una punizione collettiva”, ora lo è anche la repressione di chi prova a portare soccorso.

Israele non ha solo chiuso le porte a Gaza. Ha ottenuto che anche l’Egitto diventasse custode del blocco. E l’Occidente ha chinato il capo. Chi resta in piedi, oggi, lo fa camminando verso un confine che non si vuole far vedere.

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Liste d’attesa, la promessa mancata: un anno di ritardi tra decreti attuativi mancanti, propaganda e cittadini esclusi

A un anno dall’entrata in vigore del Decreto Legge 73/2024 sulle liste d’attesa, il bilancio è impietoso: sei decreti attuativi previsti, tre ancora mancanti, uno scaduto da nove mesi, due senza scadenze definite e zero benefici percepiti dai cittadini. Secondo l’analisi indipendente della Fondazione Gimbe, il “Dl Liste di attesa” si è impantanato nel solito cortocircuito istituzionale: l’urgenza proclamata dal Governo si è scontrata con l’inadeguatezza dei mezzi e dei tempi, trasformandosi nell’ennesima promessa annunciata e mai realizzata.

“Abbiamo voluto mappare lo stato reale di attuazione del Dl – afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione – per separare la realtà dalla propaganda”. Una realtà che, come mostrano i dati Istat, nel 2024 ha visto quasi 6 milioni di persone rinunciare a visite o esami, di cui 4 milioni solo a causa dei tempi d’attesa. Un aumento del 51% rispetto all’anno precedente.

Il pantano dei decreti

Dei sei decreti attuativi previsti, solo tre sono stati pubblicati. Gli altri sono ancora al palo, ostaggio di contrasti istituzionali e tempi tecnici incompatibili con la natura urgente del provvedimento. Il più critico è quello sull’esercizio dei poteri sostitutivi da parte dell’Organismo di verifica, scaduto il 31 agosto 2024 e ancora bloccato dal conflitto tra Governo e Regioni. Dopo mesi di accuse reciproche, il confronto tra Giorgia Meloni e il Presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, sembrava aver sbloccato lo stallo, ma al 10 giugno l’intesa ancora non risulta formalizzata.

Anche i decreti senza scadenza sono scomparsi dai radar. Quello per superare il tetto di spesa del personale sanitario è fermo in attesa dell’approvazione della metodologia Agenas, mentre quello per ottimizzare il sistema di disdetta delle prenotazioni non risulta nemmeno calendarizzato. Un vuoto normativo che vanifica ogni velleità di riforma.

Una piattaforma che non c’è

Il cuore del decreto era la piattaforma nazionale delle liste di attesa, annunciata come strumento chiave per garantire trasparenza ed efficienza. Secondo il ministro Schillaci, sarebbe dovuta partire nel febbraio 2025, ma la sua approvazione è arrivata solo l’11 aprile, con mesi di ritardo. Le Regioni avevano 60 giorni per adeguarsi: la scadenza è appena passata, ma i dati non sono ancora disponibili.

Intanto, la presidente del Consiglio ha già celebrato l’efficacia della piattaforma in aula: “È operativa e fa calare i tempi d’attesa”. Ma i dati ufficiali che lo dimostrerebbero semplicemente non esistono. “Non c’è alcun dataset pubblico che attesti una riduzione delle liste d’attesa”, chiarisce Cartabellotta. “E ogni valutazione sull’efficacia del decreto è impossibile senza trasparenza”.

Un fenomeno in espansione

Nel frattempo, la rinuncia alle prestazioni sanitarie esplode in tutto il Paese: secondo Istat, il 9,9% della popolazione ha rinunciato almeno a una visita o a un esame nel 2024. Un dato in aumento dal 7% del 2022, con una crescita omogenea su tutto il territorio nazionale, Nord incluso. I motivi sono principalmente due: l’attesa insostenibile nel pubblico e l’impossibilità economica di accedere al privato.

Il 6,8% dei cittadini ha rinunciato per i lunghi tempi d’attesa (4 milioni di persone), il 5,3% per motivi economici (3,1 milioni). Dal 2022 al 2024, le rinunce per tempi d’attesa sono aumentate dell’88%, quelle per motivi economici del 65%. Un dato che sfida la narrativa dominante: non è solo povertà, è soprattutto l’inefficienza del sistema a generare esclusione.

Il tradimento dell’universalismo

”Il vero problema – osserva Cartabellotta – non è più solo il portafoglio, ma la capacità del SSN di rispondere ai bisogni”. Quando il pubblico non funziona, il privato diventa l’unica alternativa. Ma se non si hanno i mezzi per pagare, la cura diventa un lusso. È questo intreccio a rendere il fenomeno così drammatico: milioni di cittadini stanno subendo una concreta esclusione dal diritto alla salute.

Il Governo continua a parlare di monitoraggio e riforme in corso. Ma i dati dicono che la sanità pubblica affonda, e chi non può permettersi alternative è costretto a scegliere tra aspettare mesi o rinunciare del tutto. Non è solo una crisi organizzativa: è un fallimento politico e costituzionale.

Il DL Liste di attesa è oggi la metafora perfetta di un Paese che usa l’urgenza come copertura mediatica e abbandona i cittadini nelle corsie vuote. Senza personale, senza risorse e senza verità. Continuare a tamponare il sintomo – i tempi di attesa – senza curare la malattia – lo svuotamento del SSN – è accanimento terapeutico. Ed è una cura che, intanto, sta già uccidendo il diritto alla salute.

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Gli invisibili di cui Trump non può fare a meno

Trump vuole fare la guerra agli immigrati. Non a quelli ricchi, non a quelli armati, non a quelli che truccano bilanci o finanziano campagne: a quelli che raccolgono cipolle, puliscono case, costruiscono muri e si prendono cura dei figli degli americani. Il suo nuovo zar del confine, Tom Homan, promette “più retate nei luoghi di lavoro di quante se ne siano mai viste”. Gli obiettivi? I soliti: braccianti, manovali, badanti, camerieri. Gli invisibili.

Ma gli invisibili tengono in piedi l’America. Sono 8,3 milioni, quasi il 5% della forza lavoro. Metà del settore agricolo dipende da loro. Nel settore edile sono 1,4 milioni, quelli che rendono possibile un tetto a prezzi accessibili. Durante la pandemia nessuno li cercava, perché servivano. Ora diventano il nemico.

Trump sa bene che mancano i criminali da espellere: allora alza i numeri. Vuole 3.000 arresti al giorno. Stephen Miller lo sprona. Ma i repubblicani iniziano a frenare: la propaganda non può costare troppo.

E infatti Trump non tocca i padroni. Nel 2017 ha graziato un imprenditore condannato per aver assunto e pagato lavoratori senza documenti. Il problema non è chi sfrutta, ma chi fatica.

Il sistema è ipocrita. La domanda resta, ma si colpisce solo l’offerta. E intanto si chiudono le porte all’immigrazione regolare. Trump lo sa: serve mano d’opera. Ma preferisce seminare paura. Anche se poi, a raccoglierla, sarà proprio chi oggi applaude.
E quando mancheranno braccia nei campi, nei cantieri e nelle case, nessuno potrà dire che non era previsto. Solo che conveniva fare finta di non vedere.

Buon giovedì. 

Foto AS

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