Vai al contenuto

La bugia del riarmo utile, smontata in due righe. Dall’Ufficio parlamentare di bilancio

Accade spesso così. Mentre dalla cucina arriva il profumo delle armi, in salotto si avvicendano esperti veri e presunti che decantano il riarmo come portata principale della salute pubblica. A sentire le voci degli appassionati bellicisti, pare che le bombe siano un toccasana per chi le compra e per chi le produce. Peccato solo per quei fastidiosi effetti collaterali di chi le riceve sulla testa.

Da mesi, chi si permette di contestare che le armi siano le proteine del rilancio economico italiano viene immediatamente rinchiuso nell’armadio dei pacifinti, stirpe di traditori della Patria che anelano di essere invasi ancora.

Ieri, l’Ufficio parlamentare di bilancio – che di mestiere guarda dentro i numeri – ha spiegato che “un aumento delle spese per la difesa e relativo scostamento […] causerebbero un aumento del debito di 0,7 punti percentuali fino al 137,3% nel 2028 […] con un peggioramento della dinamica negli anni successivi e debito/Pil in salita dopo il 2031”. Non solo. “L’attivazione della clausola di salvaguardia concessa dall’Ue per il rafforzamento del settore della difesa potrebbe determinare un ritardo nell’uscita dell’Italia dalla procedura per deficit eccessivi”.

Insomma, la spesa militare è regressiva, giova solo alle tasche degli armaioli e alla libido dei prepotenti.

Anche il moltiplicatore delle spese per la difesa è basso. Per il ministro Crosetto i benefici si moltiplicherebbero per 3; per l’Ufficio parlamentare di bilancio non si raggiunge nemmeno l’1, ovvero si perde. Riarmarsi quindi non è solo il viatico dell’ammazzamento più comodo, ma è anche un pessimo affare. Con buona pace – pace – degli esperti da salotto, quelli che in guerra ci mandano sempre i figli degli altri.

Buon venerdì.

FotoGov

L’articolo proviene da Left.it qui

Dal Pd alla corsa a destra, via Renzi e Calenda

Le biografie politiche non mentono. A volte basta leggerle al contrario per capire dove si voleva arrivare fin dall’inizio. Giuseppe Luigi Cucca, oggi candidato sindaco del centrodestra a Nuoro, ha solo completato il giro. È stato Pd, poi Italia Viva, ora Azione. Infine, il posto che sembrava già scritto: la candidatura unitaria del centrodestra sardo, benedetta da Fratelli d’Italia, Forza Italia, Psd’Az e Riformatori. Il salto è rivelatore.

Cucca è l’esempio ambulante di una transumanza che ha cambiato pelle senza cambiare direzione. Quando da segretario regionale del Pd passò a Renzi, fu salutato come “riformista pragmatico”. Poi in Italia Viva, con il consueto trucco dell’“oltre la destra e la sinistra”, trovò parcheggio e visibilità. Infine approdò in Azione, dove è oggi segretario regionale, e dove l’equivoco è finito da tempo: Azione è ormai, nei territori come nei palazzi romani, l’ala educata della destra. Quella che si vergogna di dirlo, ma poi s’innamora ogni volta.

Azione e Calenda quando arrivano le elezioni, mostrano i loro amorevoli sensi al centrodestra con zelo e disciplina. Con Azione e Italia Viva il centrodestra ha una riserva naturale di candidati pronti, senza doverli neanche formare.

La parabola di Cucca dice molto più del suo destino personale: racconta l’identità (o l’assenza di identità) di chi è passato e passa ancora dal Pd. Non si diventa candidati della destra per caso, ci si arriva dopo una lunga coerenza. E ogni volta che qualcuno invoca un “campo largo” allargato anche a questi personaggi, farebbe bene a ricordare dove hanno scelto di stare quando le carte si scoprono. In fondo Cucca non è un’eccezione: è il paradigma.

L’articolo Dal Pd alla corsa a destra, via Renzi e Calenda sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Cronaca di un viaggio a vuoto

C’è una foto ufficiale dell’incontro tra Giorgia Meloni e Donald Trump in cui la presidente del Consiglio sembra appesa alla spalla del presidente Usa con uno sguardo sognante. Trump guarda dritto, pensoso.

Ripensando alle sue prime settimane di mandato, si potrebbe ipotizzare che stia valutando quale paese invadere alla prossima conferenza stampa. Quella foto è il lascito più concreto – il concetto più politico – del picnic a Washington di Meloni. Mentre qui in Italia la gita fuori porta della presidente del Consiglio è stata accompagnata dalla fanfara del governo, della maggioranza e dei giornalisti più amichevoli, nello Studio Ovale la colonna sonora dell’autorevole Giorgia è stata lo spiffero triste di un palloncino che si sgonfia. Ci ha provato, Giorgia, le va riconosciuto.

Sul tavolo ci sono armi, gas liquido e tutto l’eventuale shopping possibile per accendere un sorriso sul volto di Trump. Solo che Trump fa il Trump, sa fare solo quello, e quindi, appena sciolti gli indugi dei convenevoli, si è sbizzarrito nella sua sbilenca visione del mondo. L’amica Meloni – sottolinea il presidente Usa – è l’ennesimo leader che si presenta alla sua porta per trattare, e lui ne è contento. La premier lo annuncia come se fosse un capolavoro diplomatico: “Penso che con gli Usa si possa trattare, lo inviteremo da noi, lo inviteremo a parlare con l’Ue, troveremo una soluzione”.

Lui, sornione, ride. Ovvio che tratta: i dazi li ha messi solo per quello, per vedere sfilare contriti i leader europei pronti a baciargli la pantofola (siamo buoni, usiamo una metafora). Non serviva attraversare l’oceano per scoprirlo. Tant’è che Trump alla fine lo ripete chiaro e tondo: “I dazi ci rendono ricchi, ci stiamo guadagnando”. La leader di Fratelli d’Italia si fa piccola piccola, seduta sulla poltrona.

Forse è in quel momento che si è accorta di essere stata l’ennesima utile comparsa allo show di Trump. Anche la “pace giusta” in Ucraina di Meloni, per Trump, è solo l’accordo sulle terre rare. Un aspetto positivo c’è: parlando di uova americane, il presidente Usa non ha fatto battute sul suo abbigliamento. Come con quell’altro.

L’articolo Cronaca di un viaggio a vuoto sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

I giovani chiedono di agire per il clima ma il governo tace

Nel silenzio sempre più compatto della politica di governo sul cambiamento climatico, i giovani italiani continuano a considerarlo una priorità assoluta. Lo conferma il nuovo report di Openpolis: il 46% delle persone tra i 16 e i 30 anni nel nostro Paese ritiene che il contrasto alla crisi climatica debba essere una delle tre principali priorità dell’Unione europea nei prossimi cinque anni. Una percentuale che stacca di 13 punti la media europea e che posiziona l’Italia, insieme alla Danimarca, in cima alla classifica continentale.

A livello europeo, il cambiamento climatico è indicato come priorità dal 33% dei giovani. Seguono la creazione di posti di lavoro (31%) e l’aumento dei prezzi (40%). In Italia, il dato è invertito: l’ambiente è la prima urgenza (46%), poi il lavoro (38%) e solo dopo il costo della vita (34%). Nessun altro Paese mostra un simile sbilanciamento verso la questione ecologica.

Questo nonostante il tema sia progressivamente scomparso dal discorso pubblico. Travolto da un’agenda costruita sulla sicurezza, sulle urgenze geopolitiche e sulle parole d’ordine del conservatorismo reazionario che, come nel caso Trump, ha fatto del negazionismo climatico uno strumento elettorale. In Italia, la transizione ecologica è stata ridotta a formula tecnica. Il cambiamento climatico non è più nemmeno citato.

Le scuole come barometro ambientale

Il report di Openpolis analizza l’ambiente scolastico come indicatore chiave. Le scuole sono i luoghi dove si forma la percezione del presente. In Italia, il 2,4% degli edifici scolastici statali si trova vicino a fonti di inquinamento atmosferico. Le criticità più forti si concentrano nelle grandi città: Roma, Napoli, Milano, Bari, Reggio Calabria, Livorno, Rimini, Forlì. Nei capoluoghi di provincia la probabilità di frequentare scuole esposte a inquinamento o difficili da raggiungere con mezzi pubblici è sette volte superiore rispetto ai piccoli comuni.

Degli oltre seimila comuni con almeno un edificio scolastico attivo, 65 presentano entrambe le criticità: inquinamento atmosferico e scarsa accessibilità con mezzi alternativi all’auto. In questi territori si concentra il paradosso: si parla di mobilità sostenibile, ma le scuole sono irraggiungibili senza auto; si dichiara attenzione alla salute, ma si lasciano le scuole vicino alle fonti più inquinanti.

La percezione ambientale nasce qui. Non nei convegni istituzionali, ma nel tragitto casa-scuola. La qualità dell’aria, l’affollamento dei mezzi, l’assenza di alternative: è in questi dettagli che la generazione più giovane riconosce le priorità. E in questo contesto matura una consapevolezza che il governo continua a non ascoltare.

Una frattura che cresce

Openpolis collega questa distanza tra giovani e politica a un’esposizione diretta al degrado ambientale. I dati dicono che dove l’ambiente è più compromesso, la sensibilità climatica cresce. E cresce anche l’idea che la risposta debba arrivare dalle istituzioni. Il dato del 46% non è un’impressione: è una costante che attraversa regioni, città, territori periferici. È l’effetto di una generazione che ha interiorizzato l’insicurezza climatica come dato strutturale.

Nel frattempo il clima sparisce dai programmi di governo, dai titoli di bilancio, dalle dichiarazioni ufficiali. La crisi ambientale viene declassata a costo collaterale, mentre si moltiplicano i richiami a modelli produttivi fossili, retoriche del progresso, crescita svincolata da ogni vincolo ecologico.

Lo scollamento è misurabile. Da una parte, una generazione che ha collocato il cambiamento climatico in cima alla lista delle emergenze. Dall’altra, una classe dirigente che ne ha smesso perfino di pronunciare il nome.

L’articolo I giovani chiedono di agire per il clima ma il governo tace sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Lollobrigida lo decanta, ma l’alcol è un’epidemia

Anche l’acqua, dice il ministro Francesco Lollobrigida, può uccidere. Lo ha detto per difendere il vino, per respingere le etichette sanitarie, per smontare la narrazione di chi insiste che l’alcol – sì, anche quello nei calici “di qualità” – sia una sostanza tossica. Una sostanza cancerogena. Il ministro ha scelto di fare della retorica contadina una politica pubblica: “Il vino fa bene se non si esagera”. Peccato che i dati dicano altro. E che i morti non siano opinione.

Secondo il rapporto dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità, presentato in occasione dell’Alcohol Prevention Day 2025, in Italia ci sono 8 milioni e 600mila consumatori a rischio. Il 22,2% degli uomini e il 9,3% delle donne. In termini assoluti: più di una persona su sei. Tra questi, oltre 780mila hanno già sviluppato danni sanitari gravi – epatopatie, sindromi neurodegenerative, dipendenza – ma solo il 7% è assistito dai servizi. Il resto è silenzio. Il resto è stigma, solitudine, diagnosi mancate.

Giovani, donne, anziani: chi paga il conto

Crescono i consumatori fuori pasto, quelli che bevono per abitudine o per compensazione. Il 36,6% degli uomini. Il 23,9% delle donne. Una tendenza che si accompagna all’aumento del binge drinking: la pratica di bere grandi quantità in poco tempo, per ubriacarsi. Lo fanno 3 milioni e 900mila italiani, soprattutto nella fascia tra i 18 e i 24 anni, dove si contano 645mila consumatori a rischio. Ma l’allarme riguarda anche i minori: sono 615mila i ragazzi tra i 14 e i 17 anni che consumano alcol nonostante i divieti. Non lo fanno “per errore”, lo fanno perché nessuno li informa. Perché l’alcol è normalizzato, pubblicizzato, servito in ogni contesto, sdoganato da adulti che parlano di “identità” e di “tradizione”.

Intanto, nella stessa Italia che si vanta della sua cultura enologica, si contano ogni anno 10mila morti attribuibili all’alcol. Uno ogni 52 minuti. Tra le donne, nel solo 2023, l’Iss ha stimato 3.200 nuovi casi di tumore al seno causati dall’alcol. Il 45% di questi avviene con consumi inferiori ai due bicchieri al giorno. Non è abuso. È la soglia che molti definirebbero “moderata”. Non lo è. Non più.

E poi ci sono gli anziani. Invisibili. Silenziosi. Inascoltati. Due milioni di consumatori a rischio. Per loro l’alcol diventa spesso automedicazione. Tranquillante. Rifugio. Eppure nessuno parla mai di loro. Nessuna strategia. Nessun programma. Nessuna politica.

L’Italia senza un piano

L’Organizzazione mondiale della sanità chiede da anni di ridurre il consumo dannoso almeno del 10% entro il 2025. L’Italia ha fallito. Non ha un Piano nazionale aggiornato. Non ha una strategia per i giovani. Non ha una rete di presa in carico omogenea. Ha, però, un ministro che si esercita nel paradosso retorico: “Anche l’acqua può fare male”.

I dati dell’Istituto superiore di sanità, come quelli dell’Organizzazione mondiale della sanità, sono chiari: non esiste un livello sicuro di consumo. L’alcol è un cancerogeno di classe 1, come l’amianto e il benzene. Anche a dosi basse aumenta il rischio oncologico. Anche se è biologico. Anche se è prodotto in Italia. Anche se è pagato “il giusto”.

Nel 2022 ci sono stati 27mila incidenti stradali correlati all’alcol. 256 morti. 39mila feriti. Eppure il messaggio che arriva dal governo è quello del bicchiere “che fa bene al cuore”. Della bottiglia “che racconta un territorio”. Del vino che non va disturbato. Né etichettato. Né responsabilizzato. Si può ignorare la scienza, ma non le conseguenze.

Ogni parola pubblica che minimizza i rischi è un ostacolo alla prevenzione. Ogni slogan folkloristico è una coltellata a chi lavora sul campo. Ogni bicchiere celebrato come rito culturale è un segnale pericoloso per chi cresce, per chi si cura, per chi cerca di uscirne. Ogni dato rimosso è un invito alla malattia.

Il vino non è acqua. Ma non è nemmeno una favola. È alcol. E l’alcol uccide, anche se italiano, anche se invecchiato, anche se premiato.

L’articolo Lollobrigida lo decanta, ma l’alcol è un’epidemia sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Chi comanda davvero, se nessuno risponde?

È strano come, in Italia, lo spionaggio politico sembri fare meno scandalo delle intercettazioni su un trafficante. Eppure in mezzo ci sono preti, attivisti, armatori e un direttore di testata. Le vittime non sono comparse ma coscienze scomode. E chi dovrebbe chiedere chiarezza, balbetta.

Il governo italiano, secondo Citizen Lab, ha gli strumenti per sapere chi ha spiato chi. E allora perché tace? Perché quando si pronuncia la parola Paragon – che è la nuova Echelon, ma con meno pudore – da Palazzo Chigi si distolgono gli occhi? L’Aise ha spiato Mediterranea, questo è certo. Cancellato no, almeno ufficialmente. Ma allora chi?

Intanto a Bruxelles, dove il Parlamento europeo avrebbe dovuto ascoltare Casarini e don Ferrari, le destre hanno fatto saltare tutto. “Troppo italiano”, hanno detto. Come se la democrazia avesse bisogno di passaporto. Il 23 aprile gli attivisti saranno comunque lì, fuori, in piazza. Dentro, invece, le istituzioni giocano a rimpiattino. Non per difendere la sicurezza nazionale ma per proteggere la propria opacità.

Se l’abuso non scandalizza più, è perché l’abuso è diventato regola. Chi governa deve dire se ha ordinato lo spionaggio. O se ha permesso che altri lo facessero. Il resto è omertà. E un Paese che accetta lo spionaggio politico come normalità ha già smesso di essere democratico.

A meno che il vero scandalo non sia proprio questo: considerare un sacerdote e un giornalista liberi come una minaccia. E non chi li ha messi sotto sorveglianza.

Buon giovedì.

L’articolo proviene da Left.it qui

Ora il Rating piace a destra, contrordine sulle agenzie

Per anni, le agenzie di rating erano “inutili”, “anonimi asserragliati nei grattacieli”, speculatori da contrastare con interrogazioni parlamentari. Per anni, Meloni le ha descritte come pericolose, capaci di mettere a rischio la sicurezza economica del Paese, strumenti opachi in mano a interessi privati. Nel 2018 giudicava i loro pronostici “attendibili come quelli di una cartomante”. Nel 2012 chiedeva addirittura che ne venissero resi noti i veri proprietari.

Poi Standard & Poor’s alza il rating dell’Italia da BBB a BBB+ e tutto cambia. I “pagliacci” diventano autorevoli. I loro giudizi – ieri considerati minacce alla patria – oggi diventano certificati di buona condotta economica. È bastata una lettera in più per riscrivere tredici anni di accuse, complotti, invettive. Ora i post ufficiali di Fratelli d’Italia celebrano la “stabilità del governo Meloni”, accusano la sinistra di “propaganda anti italiana” e parlano di un’economia “in ottima salute”.

È la consueta parabola della propaganda: quando i numeri vanno storti, si denuncia il complotto; quando sorridono, diventano verità di Stato. L’arte di sopravvivere alla realtà senza mai ammettere d’aver sbagliato. La coerenza, come la responsabilità, è un fastidio da riservare agli avversari.

Non è un cambio di rotta: è una mutazione genetica. L’ennesima. Nel 2017, quando Fitch abbassò il rating, Meloni accusò le agenzie di aver scelto i governi italiani. Nel 2018 si indignò perché il presidente Mattarella aveva tenuto conto del giudizio delle agenzie. Oggi, quelle stesse agenzie diventano totem da sventolare.

Ma in questa abiura continua, c’è un messaggio pericoloso: a essere declassata è la coerenza. Da tempo.

L’articolo Ora il Rating piace a destra, contrordine sulle agenzie sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Sulle carceri Nordio latita

Ogni quattro giorni una persona si suicida in un carcere italiano. I numeri sono inchiostro freddo, ma raccontano l’urlo strozzato di un sistema che implode: 62.165 detenuti stipati in spazi pensati per meno di 47mila. Il sovraffollamento ha superato il 132%. In alcune celle si dorme in tre per terra, con un solo bagno e senza assistenza. E il ministro Carlo Nordio, che pure aveva promesso una riforma epocale, ha deciso che la colpa non è sua. È dei giudici. Dei magistrati. Delle leggi che non riesce a cambiare, o che scrive con l’intento di peggiorare.

Mentre i tribunali internazionali condannano l’Italia, Nordio si assenta. L’ultima bacchettata è arrivata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il caso di Simone Niort: 27 anni, 9 dei quali passati in carcere nonostante una grave patologia psichiatrica. Venti tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, nessuna struttura adeguata. La Cedu ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 della Convenzione: trattamenti inumani e degradanti. Eppure, nulla. Nessuna risposta strutturale, nessuna assunzione di responsabilità.

Il decreto che punisce la povertà

I numeri parlano anche di 89 suicidi nel 2024. Di celle pensate per quattro persone che ne ospitano otto. Di rivolte, come quella nel carcere di Cassino, o fughe, come quella dal Malaspina di Palermo, che non sono solo cronaca nera, ma sintomi di una malattia istituzionale. Di una giustizia penale che si è trasformata in discarica sociale.

Il decreto Sicurezza, tanto sbandierato dal governo Meloni, non solo non affronta il problema, ma lo aggrava. Introduce reati che criminalizzano la marginalità: resistenza passiva nei Cpr e nelle carceri, occupazioni abusive punite come omicidi colposi. La Giunta esecutiva centrale dell’Anm ha segnalato evidenti profili di incostituzionalità, sottolineando che “si introducono nuovi reati per sanzionare in modo sproporzionato condotte che sono spesso frutto di marginalità sociale e non di scelte di vita”. “Basti pensare – ha aggiunto l’Anm – che la pena per l’occupazione abusiva di immobili coincide con quella prevista per l’omicidio colposo con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Inoltre, incriminare la resistenza passiva nelle carceri e nei Cpr, e dunque la resistenza non violenta e la semplice manifestazione del dissenso, produce effetti criminogeni”. È un diritto penale costruito per punire l’esclusione, non per prevenire il crimine.

Di fronte a questa emergenza, il ministro propone moduli prefabbricati antisismici. Celle in lamiera come soluzione al disagio. Affidarsi alle baracche per nascondere l’assenza di una visione. La riduzione della carcerazione preventiva è rimasta un annuncio. Il trasferimento dei detenuti stranieri nei Paesi d’origine è un miraggio. L’edilizia penitenziaria è ferma a promesse e slide.

Mattarella parla. Nordio scompare.

Il 25 marzo 2025, nel messaggio per il 208° anniversario della fondazione del Corpo di polizia penitenziaria, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito “assai critiche” le condizioni del sistema carcerario e ha denunciato il “grave fenomeno di sovraffollamento in atto”. Un richiamo netto all’articolo 27 della Costituzione, che impone alla pena una funzione rieducativa. Ma Nordio, ancora una volta, ha fatto finta di nulla. Non ha nemmeno partecipato alla seduta straordinaria della Camera dedicata al tema. Il ministro della Giustizia assente quando si parla di giustizia.

Eppure, qualcosa si muove. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha finalmente emanato linee guida per garantire il diritto alla sessualità e agli affetti in carcere. Un segnale. Ma isolato. Non basta garantire un colloquio privato se nel frattempo si nega una terapia, se si muore nel silenzio, se si aggrava una malattia dietro le sbarre.

Il carcere, oggi, è luogo di abbandono, di espiazione cieca, di violenza burocratica. Non serve un piano emergenziale, serve una riforma etica. Nel frattempo, chi può, scappa. Chi non può, si toglie la vita. E lo Stato, invece di rispondere, volta lo sguardo.

L’articolo Sulle carceri Nordio latita sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Ricerca, libertà, dissenso: vietati fino a nuovo ordine

Negli Usa Harvard ha detto no. Un no che pesa più di tutti i sì silenziosi raccolti negli ultimi mesi nei campus statunitensi. Un no che suona come un avvertimento: il pensiero critico non si baratta per un assegno, nemmeno da 2,2 miliardi di dollari.

Il rifiuto di piegarsi ai diktat di un’amministrazione che, nel nome di una presunta “lotta all’antisemitismo”, chiede l’eliminazione di politiche per l’equità e l’espulsione di studenti dissenzienti, non è solo un atto accademico. È un gesto politico. Un gesto che arriva dopo mesi di purghe nelle università, con centinaia di visti revocati e studenti stranieri arrestati come nemici interni, colpevoli di avere opinioni. L’università di Columbia ha chinato la testa, cancellando corsi e carriere. Harvard no.

Non si tratta solo di difendere i campus. La battaglia in corso tocca le fondamenta stesse della democrazia americana. Il piano MAGA non nasconde più nulla: decostruire l’università, spogliarla di ogni capacità critica, trasformarla in un’agenzia governativa del pensiero unico. Usare la leva dei fondi per installare il terrore tra presidi e rettori. Altro che “woke”: è vendetta, razzismo, repressione.

Il silenzio di molti rende il coraggio dei pochi ancora più evidente. Come ricorda Obama, “l’indagine intellettuale, il mutuo rispetto e il dibattito rigoroso” non sono un lusso, ma il minimo sindacale in un paese che voglia ancora definirsi libero.

Harvard non ha salvato l’America ma ha rispettato se stessa. Chissà se nel loro piccolo qui da noi vi saranno scuole che faranno argine.

Buona mercoledì. 

 

Foto AS

L’articolo proviene da Left.it qui

TeleMeloni unisce le opposizioni: “Ora la riforma di Viale Mazzini”

Per un giorno le opposizioni si sono sedute dalla stessa parte del tavolo, non per un accordo elettorale ma per denunciare una deriva democratica. Il servizio pubblico è diventato espressione diretta del governo. L’informazione televisiva si restringe sotto il peso delle nomine, delle epurazioni, delle intimidazioni. E la riforma della Rai diventa l’occasione per reagire.

Nel corso di un incontro alla Stampa Estera dedicato al Media Freedom Act, Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Riccardo Magi e Angelo Bonelli hanno chiamato il governo alle sue responsabilità, invocato una riforma condivisa e rivendicato l’urgenza di difendere la libertà di stampa. Non si tratta di un fronte unitario, ma qualcosa si muove. E la posta in gioco, stavolta, riguarda le regole del gioco.

Il Media Freedom Act è legge, e l’Italia è già in ritardo. L’8 agosto scade il termine per il recepimento. “Bisogna che Meloni capisca che la festa è finita”, ha detto la segretaria del Partito democratico. “Questa maggioranza è ubriaca di occupazione militare e scientifica della Rai. Non si era mai arrivati a questi livelli”. E mentre il Parlamento tace, la Commissione di Vigilanza è paralizzata: “Un vero scandalo”, ha denunciato Conte, ricordando che i presidenti di Camera e Senato non hanno neppure risposto alla richiesta della presidente Floridia di sbloccare i lavori.

Non è solo una riforma

L’unità non è nelle formule, ma nel metodo: costruire un percorso che coinvolga le forze politiche e la società civile per liberare la Rai dall’occupazione sistematica. “Dobbiamo entrare nel vivo della riforma, fare sintesi, coinvolgere la maggioranza”, ha insistito Conte. Fratoianni ha parlato della necessità di “una lunga marcia” per affermare l’informazione come bene comune. Bonelli ha aggiunto che la riforma del premierato è “strettamente collegata al tentativo di assoggettare l’informazione ai voleri del governo”.

La trasformazione della Rai in un’emittente governativa è una delle tante facce del disegno politico di chi comanda. Si chiama Telemeloni, ed è il contrario di un servizio pubblico. La denuncia arriva anche dall’esterno: secondo il rapporto 2024 di Reporters sans frontières, l’Italia scivola al 46º posto mondiale per libertà di stampa. Una situazione definita “problematica”, con un netto peggioramento rispetto al passato. In calo la pluralità, in aumento la pressione politica, le querele temerarie, la censura strisciante. Le leggi approvate negli ultimi mesi — dal cosiddetto “ddl bavaglio” al pacchetto sicurezza che mette in discussione la tutela delle fonti — hanno segnato una deriva visibile.

Sigfrido Ranucci, presente all’incontro, ha parlato di “desertificazione dell’informazione pubblica”. In Rai da 35 anni, dice di non aver mai vissuto un clima così difficile. “Sono arrivato a 196 querele, ma non è vero che paga la Rai. L’azienda anticipa la tutela legale, ma si rivale sui giornalisti. Siamo obbligati a vincere sempre”. È un sistema pensato per isolare chi fa inchieste e per premiare il silenzio.

Le parole non bastano più

Tutti, più o meno esplicitamente, hanno riconosciuto di aver accumulato ritardi. “Si poteva fare prima, ma questo non deve essere un alibi per non farla ora”, ha ammesso Schlein. L’obiettivo è approvare una nuova governance Rai che garantisca indipendenza e pluralismo, fuori dalla lottizzazione parlamentare e dal controllo del governo.

Non sarà semplice, ma non è neppure più rinviabile. Perché senza un’informazione libera non esiste controllo del potere. E senza controllo, la democrazia è solo un rituale. L’8 agosto non è solo una scadenza burocratica. È il bivio tra lo stato di diritto e lo stato d’eccezione.

L’articolo TeleMeloni unisce le opposizioni: “Ora la riforma di Viale Mazzini” sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui