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Arte

Lucialibri intervista sul romanzo “I mangiafemmine”

(La mia intervista a LuciaLibri)

Nel suo più recente romanzo, “I Mangiafemmine”, Giulio Cavalli immagina una società in cui i femminicidi siano legalizzati. «È una questione – chiarisce in questa videointervista – che mette in discussione il maschio che sono stato, in qualche modo mi autoprocesso. Quello dei femminicidi è un tema che non va rimandato, ma guardato negli occhi e affrontato, altrimenti travolgerà tutti. Siamo in un periodo storico in cui il romanzo politico è scomparso…»

A DF, luogo di carta in cui Giulio Cavalli torna per la terza volta, dopo i romanzi Carnaio e Nuovissimo Testamento, lo fa anche ne I Mangiafemmine (204 pagine, 18 euro), il suo più recente romanzo, edito ancora da Fandango – per legge viene legalizzato il femminicidio. «Di questi tre romanzi è quello che ho sedimentato di più – ammette Giulio Cavalli, intervistato a Palermo, dopo la sua presentazione alla libreria Europa – perché impatto quasi quotidianamente con la questione dei femminicidi, per via del mio lavoro di giornalista, i numeri sono spaventosi. E poi è una questione che mette in discussione molto di me, del maschio che sono e di quello che sono stato, in qualche modo, scrivendo questo romanzo, ho anche processato me stesso. Quando scrivo letteratura mi consento di esondare, di non stare dentro dentro le regole di qualsiasi tipo, sia stilistiche che emotive…».

Con I Mangiafemmine siamo dinnanzi a un’opera eminentemente politica. «Purtroppo – osserva Giulio Cavalli – siamo in un momento storico in cui è scomparso il romanzo politico. Chi prova a mettere il piede nel contemporaneo viene arso sul rogo, come è accaduto a Michela Murgia. Siamo in un momento in cui, secondo me, la consapevolezza politica della letteratura, e ancor prima dell’editoria, è piuttosto carente…».

Nel mirino de I Malafemmine c’è un retaggio culturale, quello che del patriarcato senza fine e inciso nel Dna di molto maschi. «Il problema di fondo – fa notare Giulio Cavalli – è della cultura conservatrice che vorrebbe che i nostri atavici vizi venissero considerati come tradizioni ed è un rischio pericolosissimo perché è una colonizzazione del pensiero che consente di spostare l’etica ogni giorno di qualche metro più in là.. Ci sono secoli da percorrere in fretta prima che continuino a rimanere troppe vittime per terra. Quello dei femminicidi è un tema che non riusciremo a rimandare ancora lungo, da affrontare guardandolo dritto negli occhi, oppure, come spesso è accaduto nella storia, ci travolgerà…».

Intervista a Giulio Cavalli su “Falcone, Borsellino e le teste di minchia”

(La mia intervista per Occhi Magazine, a cura di Anna Zaccaria)

Giulio Cavalli è giornalista scrittore, attore. Classe 1977 da anni è attivo politicamente. I suoi articoli, le sue storie sono legate all’attualità, alla lotta contro le mafie e proprio per questa sua attività ha vissuto per anni sotto scorta. Dalle sue inchieste tra l’altro partirono le indagini contro le infiltrazioni mafiose di Expo 2015.

Cresciuto a Lodi, ha con Valstagna, piccolo comune della Valbrenta, un legame stretto e speciale visto che i suoi genitori sono originari della valle e le vacanze estive le passava proprio dai nonni.

Sabato 3 agosto ci torna, invitato dalla Pro Loco, per mettere in scena una delle sue opere teatrali più conosciute: “Falcone, Borsellino e le teste di minchia”. In anteprima lo abbiamo intervistato per conoscerlo un po’ di più.

Un lombardo a Valstagna… che ricordi hai del paesino?

In realtà io mi sento poco lombardo, crescendo con due genitori veneti, come tu ben sai, non puoi che sentirti veneto: i veneti sono veneti in qualsiasi angolo del mondo. A casa si parlava veneto e fra i miei ricordi più belli vi sono quelli legati alle estati quando ci si trovava a Valstagna e Carpanè con tutti i cugini, anche quelli che venivano da Roma. Una parte molto importante di me si sente veneta piuttosto che lombarda.

Come ti è nata la passione per il giornalismo e quando hai deciso che poteva essere il tuo mestiere?

In realtà io nasco teatrante. Ho cominciato a fare questo mestiere molto giovane e ho avuto la fortuna di lavorare con grandi attori come Paolo Rossi, Renato Sarti, Dario Fo. Innegabilmente questo ha dato la svolta alla mia carriera e penso di essere stato una persona molto fortunata. Sono convinto che la vita venga modificata soprattutto dagli incontri che il caso, la fortuna o la determinazione ti portano ad avere: io ho avuto il privilegio di avere dei preziosissimi incontri. Quando in seguito a minacce mafiose per questioni di sicurezza ho dovuto limitare molto i miei spostamenti e non potevo più mostrarmi in teatro, ho cercato e trovato un nuovo modo di comunicare ed ho cominciato così a scrivere articoli. Da teatrante e scrittore a giornalista, il passaggio è stato naturale, legato alla mia necessità di comunicare, perché sono consapevole che la parola funziona in tutte le sue forme. Fondamentalmente penso di fare sempre lo stesso lavoro, ossia raccontare storie in modalità diverse, dal palco al giornalismo. Posso dire di aver fatto il giornalista per legittima difesa.
Sono finito sotto scorta per minacce mafiose in una regione in cui la mafia “non esisteva”, così si pensava e si diceva; era un’anomalia o addirittura un caso di mitomania. E quindi il giornalismo inizialmente l’ho utilizzato per raccontare che ciò che stava accadendo a me, era semplicemente un rivolo di una situazione molto più più ampia. Sai, nel momento in cui la tua vita viene così profondamente modificata e stravolta hai due possibili strade da percorrere: quella di abbandonare quel filone e aspettare che si posi la polvere aspirando a tornare alla normalità, oppure riuscire a ribaltare le minacce ricevute e usarle in modo etico, facendole diventare la molla per raccontare la diffusione del fenomeno.

Quindi adesso ti senti più giornalista, scrittore o attore?

Mi sono sentito giornalista fino a un anno e mezzo fa e oggi è comunque l’attività che mi occupa più tempo nella quotidianità. Per dieci anni avevo smesso di fare teatro, il ritorno in scena è stato quasi per gioco: in poco tempo è stata ricostituita la compagnia e ora ci troviamo in tournée. È un ritorno alle origini che mi fa molto piacere. Quindi non mi definirei né giornalista né attore. Diciamo che continuo a raccontare storie.

Perchè Giulio Cavalli è “scomodo”?

In questo Paese chiunque usi la sua voce o la sua penna per raccontare la complessità è scomodo ed è sempre stato scomodo. Chi ha provato a far uscire ad esempio le mafie dall’alveo della criminalità spiccia, che viene buona per farci certi libri e certi film, diventa scomodo. Sostanzialmente io penso che quello che non mi viene perdonato da parte della criminalità organizzata, al di là degli appalti per Expo che era una questione prettamente economica, è che insisto per creare una chiave di lettura collettiva. Quello che vorrei è che chi viene a vedere i miei spettacoli cominciasse a guardare il proprio paese o la propria città con occhi diversi e cominciasse ad avere voglia di “scassare la minchia” come diceva la persona che voleva farmi fuori riferendosi a quello che facevo io.

Quali sono oggi i temi cui prestare attenzione?

Per quanto riguarda le mafie c’è un lavoro difficilissimo da fare: bisogna inserirle in un dibattito pubblico da cui sono completamente sparite, nel senso che quando si parla di mafia oggi in Italia si parla solo di memoria. Commemorare le vittime di un fenomeno che invece continua ad esistere, anzi è in ottima salute, mi sembra una cosa abbastanza ridicola.
I nostri spettacoli risultano comici al primo impatto e servono proprio a rinfrescare il tema e a far si che se ne parli ancora. Nel 2010-2011 si riempivano le piazze per manifestazioni antimafia. Oggi il movimento antimafia ha perso il suo dovere principale, quello di comunicare che essere antimafiosi è un prerequisito, non è un requisito, è un prerequisito che riguarda gli attori teatrali, i politici, i panettieri, i farmacisti, le badanti, gli autisti di pullman, tutti.

Parliamo dello spettacolo che presenterai il 3 agosto, nel 1993 avevi solo 16 anni come ti è nata l’idea di fare uno spettacolo dedicato a Falcone e Borsellino?

Perché se c’è una cosa che non sopporto è questa sorta di favoreggiamento culturale alla mafia che in Italia ritroviamo in certe produzioni cinematografiche, in certe produzioni letterarie e che ci presentano i cattivi quali Riina, Provenzano, Matteo Messina Denaro come menti sopraffine, quando basterebbe leggere gli atti giudiziari per comprendere che invece siamo di fronte a personaggi che non avrebbero nessuna credibilità, che sarebbero presi in giro al bar di Valstagna da tutti durante l’aperitivo. Siccome io vengo dalla Commedia dell’arte, faccio mio il mestiere del giullare e uso la risata per smontare la prepotenza.
Andiamo in giro per piazze, teatri e scuole e raccontiamo chi erano i boss e lo facciamo partendo dagli stessi atti giudiziari. Mostriamo il loro essere “nulla”, ne sbricioliamo l’onore e mostriamo che è assurdo che dal 1992 ad oggi siano state solo queste persone a tenere sotto scacco la politica, l’economia e la socialità di questo Paese

A me sembra però che una sorta di genialità del male ci sia…

Tutta la genialità sull’utilizzo delle falle di legge o dal punto di vista economico di gestione economica viene dai professionisti.
Paolo Borsellino diceva di temere più di tutto la normalizzazione della mafia e che ciò sarebbe stato il vero crinale pericoloso. E io penso che se oggi quando c’è un’operazione antimafia, leggendo i giornali, non riusciamo a capire quali siano i professionisti come commercialisti o direttori di banche e quali siano i boss, significa che la normalizzazione è perfettamente riuscita … Questo fa molta paura.

Secondo te adesso cosa si può fare?

Dobbiamo far tornare di moda l’antimafia al posto della mafia.
E poi dobbiamo prestare attenzione al fatto che oggi la criminalità organizzata, a differenza di una volta, non usa più professionisti ma se li crea in casa: figli, nipoti degli uomini di mafia sono avvocati internazionali, sono commercialisti con studi di prestigio e questo fa sì che nel lavoro ci troveremo, come concorrenti nei nostri settori, persone che vinceranno sempre non perché avranno più talento, non perché avranno usato più impegno, ma semplicemente perché non rispettano le regole. Questa è una grande emergenza.

Che consiglio vorresti dare ai ragazzi di 18/20 anni?

Pulitzer, il giornalista diceva che “la curiosità è il lubrificante necessario al buon funzionamento dei meccanismi della democrazia”. Peppino Impastato era un po più volgare di Pulitzer, però aveva la stessa intelligenza affilata e quando gli chiedevano che cosa bisognasse fare per sconfiggere in quel caso il boss Gaetano Badalamenti, lui diceva “scassare la minchia”… E se ci pensiamo è esattamente la frase di Pulitzer.

https://www.occhi.it/magazine/attualita/giulio-cavalli-quello-che-scassa-la-46223961

Il Quotidiano di Puglia intervista Giulio Cavalli su “I mangiafemmine”

Un anziano che uccide la moglie? Niente di eclatante. E allora: se anche i femminicidi come i profughi annegati davanti alle coste del Sud, con migliaia di storie di vita e di sogni affogati, vengono percepiti come fatti “normali”, perché non immaginare un mondo in cui uccidere le donne diventa legale? Giulio Cavalli, scrittore, giornalista e drammaturgo, nel suo libro che presenta oggi a Taranto e martedì a Sannicandro, racconta questo mondo al contrario.

Cavalli, cos’è “I Mangiafemmine”?

«Rientra nella trilogia pensata con Fandango che si chiude dopo “Carnaio” e “Nuovissimo Testamento” e racconta un mondo immaginario. L’iperrealismo mi aiuta a dimostrare quanto sia pericolosa una comunità che sposta ogni giorno la propria etica qualche centimetro più in là. Nei tre romanzi c’è sempre una riflessione sull’orrore, ossessivamente ripetuto, che rischia di diventare normalità. I Mangiafemmine è un libro che racconta anche di femminicidi, perché credo che sappiano meglio parlarne le donne, non solo in quanto vittime, ma perché associazioni e collettivi femminili sono molto più preparati a farlo. Io volevo fare invece un libro sui maschi e sulla mancata reazione, anzi direi normalizzazione del femminicidio che segue quei pelosi meccanismi antropologici che normalizzano tragedie: i bambini affogati nel Mediterraneo, i suicidi in carcere, i migranti congelati nelle rotte balcaniche. Penso sia la stessa dinamica bestiale».

Ma l’idea di raccontare un mondo in cui il femminicidio è legalizzato, com’è nata?

«Durante una riunione di redazione si parlava di un femminicidio tra anziani: un 80enne aveva sparato alla moglie in Puglia. Mi venne detto che era un caso troppo “normale” e mi si è accesa una lampadina: se in un posto in cui si lavora con le parole si pensa una cosa del genere perché non immaginare un paese in cui si arriva alla legalizzazione del femminicidio? Volevo parlarne perché a mia generazione è l’ultima, spero, nutrita di atteggiamenti patriarcali, e poi con il mio lavoro tra editoria, spettacolo e giornalismo, frequento ambienti in cui sono molto diffuse le molestie…».

Il dibattito pubblico aggressivo e una politica a trazione “muscolare”, sono riconducibili alla diffusione dei femminicidi? C’è un machismo diffuso, non solo tra uomini.

«Sì, il maschilismo che era passato di moda è tornato in auge, perché la prepotenza è considerata forza, il comandare è sinonimo di governare, il femminile è considerato sinonimo di femminista. A capo del governo c’è una donna col piglio del maschio».

La legge non protegge le donne che denunciano, quindi da dove si deve cominciare?

«I grandi progressi e le evoluzioni passano sempre da far diventare fuori moda certi atteggiamenti, penso che letteratura e giornalismo, e tutti coloro che vengono ascoltati, hanno un’enorme responsabilità. Mi capita ora che nelle discussioni tra maschi si facciano notare frasi indelicate o irresponsabili. Ma il tema della parità di genere che viene prima della violenza ha dei costi enormi, in termini economici anche. Parità nel lavoro significa che parecchi maschi dovrebbero rinunciare a presiedere i consigli di amministrazione: l’ambiente maschile è terrorizzato».

La violenza spesso è rivolta anche ai poveri con disinvoltura e un disprezzo nuovo rispetto alla nostra storia.

«L’aporofobia di solito emerge in momenti storici in cui il dibattito pubblico e politico è scarso. Gli intellettuali sono pochi o poco popolari, il vocabolario delle persone si restringe e alla fine, quando non si sanno esprimere le cose, subentra la paura, ed essa genera disprezzo come attività di allontanamento. I fragili vengono odiati perché sono lo specchio di ciò che siamo noi. L’uomo che arriva senza niente sulla battigia misura la temperatura democratica di chi lo accoglie, racconta più degli altri che di se stesso. E la politica travestita da pro loco nasconde le cose sotto il tappeto».

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Casa lettori recensisce “I mangiafemmine”

(Casa lettori recensisce “I mangiafemmine”)

«È riduttivo definire “I mangiafemmine”, pubblicato da Fandango Libri, un romanzo distopico.

Il testo assume più forme letterarie riuscendo a fare luce sulla contemporaneità.

Uno sguardo che va oltre il presente, lucido, asciutto, crudo e bellissimo.

Ambientato nel paese di DF riesce a cogliere le ambiguità di una classe politica che sottovaluta le problematiche sociali.

La figura di Valerio Corti è tragica icona di un modo di pensare distorto e malato.

A fare da controcanto le storie delle vittime di femminicidio.

Beatrice, Frida, Sonia danno dignità a coloro che non ci sono più.

Giulio Cavalli scrive un testo politico di forte impatto emotivo.

Si fa voce collettiva e rompe il silenzio complice di tutti noi.

La scrittura curata nel linguaggio ha risonanze teatrali, suggestioni immaginifiche, fluidità stilistica.

Ricca di sperimentazioni visive è specchio dove dovremo avere il coraggio di guardarci.

Appariranno maschere o false parvenze di umanità?

Complimenti all’autore per la creatività e l’originalità di un’opera che scuote le coscienze.»

https://casadeilettori.blogspot.com/2024/04/i-mangiafemmine-giulio-cavalli-fandango.html

Le contemporanee recensisce I mangiafemmine

Che succederebbe se domattina vi svegliaste e scopriste che la Presidenza del Consiglio, onde arginare il problema sociale da esso rappresentato, avesse deciso di legalizzare nientepopodimeno che il femminicidio? 
Lo ha immaginato Giulio Cavalli nel suo ultimo romanzo uscito l’anno scorso e intitolato “I Mangiafemmine”.

La storia, una distopia ambientata in un Paese senza nome ma dagli inconfodibili cliché socio-culturali, è attuale a livelli inquietanti.

Si svolge in piena campagna elettorale dove un Ministro ambisce a vincere, nel frattempo i femminicidi si susseguono, le femministe urlano furenti e le domande della gente (in primis dei giornalisti) si fanno sempre più pressanti: che intenderà fare il nuovo governo? Perché non affronta di petto la questione dei femminicidi? Perché sembra eludere il problema tramite benaltrismo e svicolamenti vari?

Il Ministro se ne infischia delle donne, vive o uccise che siano, vuole solo vincere le elezioni. Ripiega quindi sulla retorica populista, su recriminazioni maschiliste e risposte sarcastiche e sessiste.
Poi, inaspettatamente per l’elettorato, viene eletta una donna, una donna di destra, palesemente manipolabile, ignorante e inadatta al ruolo che ricopre. La Presidente annuncia di voler legalizzare il femminicidio equiparandolo ad attività venatoria e pulizia di genere: una donna vuole lasciare il marito? Va eliminata in quanto storta. Una donna è vecchia e pesa sui figli? Va eliminata in quanto scarto. Un’amante rischia di rappresentare un pericolo per l’uomo sposato con cui ha una relazione? La si elimina per salvare il sacro vincolo del matrimonio di lui.

La legge è lacunosa al punto giusto, caratteristica analoga anche nel nostro, di Paese. Si stabilisce un metodo di eliminazione-esecuzione: quello usato per abbattere gli ovini. Inoltre si stila un elenco approssimativo per appianare un tragico gap: visto che nel Paese le donne sono in numero maggiore (e noi non siamo sessisti) eliminiamo il surplus tramite pratiche venatorie! Come si andasse a caccia, così i femminicidi si ridurranno di conseguenza. Sì sa, dopotutto, che gli uomini sono geneticamente più propensi alla caccia, no? Bisogna pur conviverci! Una volta finito di leggerlo, il libro lascia un gran senso di inquietudine e molte questioni. Probabilmente il femminicidio non verrà mai legalizzato e infiocchettato come soluzione al sessismo sistemico – la Storia comunque insegna che le possibilità lunari possono realizzarsi se affiancate dalle opportune condizioni – ma è anche vero che possedere zero tutele, o peggio, delle leggi non applicate, oltre ad approssimazioni giudiziarie, non è tanto distante nei risultati finali. 

Forse leggerlo in anticipo potrebbe smuovere la coscienza collettiva. Anche riguardo chi ci governa e sostiene di lavorare nei nostri interessi che, ribadiamolo, dovrebbero innanzitutto voler prevenire la violenza maschile contro le donne.

(fonte)

Ansa su “I mangiafemmine”

Un decreto per regolamentare “l’attività venatoria del femminicidio”, firmato, appena vinte le lezioni, da Marzia Rizzo dei Conservatori assieme al leader del partito Valerio Corti, è l’estrema provocazione che segna il ritorno di Giulio Cavalli alla narrativa con la sua satira nutrita da uno humour grottesco e noir che scardina e mette a nudo la paradossale ferocia quotidiana della nostra realtà, da cui erano nate nel 2019 le visioni macabre sui flussi migratori di ‘Carnaio’ (finalista al Premio Campiello).

    Il libro alterna cronache di una sempre più affannata campagna elettorale dei Conservatori con racconti di donne uccise dai propri uomini, in carica o ex, a cominciare da quella di Frida Novelli, moglie di Tullio Ravasi, che in ufficio ricatta in modo vile per sesso una povera stagista e a casa è violento e insofferente, sino a esplodere e ammazzare non sopportando che lei sia sempre più ansiosa e impaurita. Un racconto in cui si succedono il modo di vivere il rapporto di Lui e di Lei. 
    È questo solo il primo fatto a coinvolgere direttamente, durante una incontro stampa tv, il povero Corti con la sua bieca, elementare cultura maschilista, che replica insinuando che forse era colpa di lei, visto che il marito la manteneva da signora permettendole di non lavorare. E dopo, a Marco Fumagalli, responsabile della comunicazione dei Conservatori, chiede di sapere, per il futuro, quanti uomini siano stati ammazzati recentemente da una donna, per poter “riequilibrare la narrazione” relativamente ai vari uxoricidi, come – dice – si sono sempre chiamati questi omicidi. 
    Il problema è che Corti, dato per vincitore scontato, avendo 13 punti percentuale in più del suo avversario Luigi Posso dei Democratici, non è amato dai moderati, di cui invece dovrebbe assolutamente conquistare i voti, e, con i suoi interventi fuori luogo mentre gli ammazzamenti di donne si susseguono a ritmo incalzante e la gente chiede chiarezza, peggiora sempre più la sua situazione, finché si decide che se il problema che mette in forse la sua vittoria sono le donne, allora si faccia da parte e si candidi alla presidenza una donna, la Rizzo appunto. 
    Ecco poi il decreto del governo che autorizza il femminicidio come se fosse caccia e la battaglia che contro tutto ciò ingaggia la giornalista Clementina Merlin, ritrovandosi però praticamente sola, coi suoi capi e i democratici che ritengono di lasciar perdere, non accettare la provocazione e affrontano la questione solo contestando le incongruenze giuridiche del decreto. Eppure si annuncia che nel primo giorno di caccia “le femmine abbattute sono ottocentocinquantaquattro. La soppressione è avvenuta regolarmente, rispettando le norme igieniche” previste dal decreto. 
    Il paese DF, in cui tutto è ambientato, assomiglia sempre più alla nostra realtà e, in questo gioco, le varie giustificazioni, le spiegazioni patriarcali, i riferimenti alla natura dell’uomo cacciatore e della donna che si fa preda, “perché non ci sono notizie di donne stuprate mentre stanno a casa” prese dai lavori domestici, diventano automaticamente non meno paradossali del resto e di citazioni che hanno creato nel tempo gli schemi sul ruolo o carattere della donna, che vanno da Aristotele a San Paolo, da Ambrose Bierce a Flaubert, e sono il vero senso del libro, la sua denuncia dark e impietosa. 
    Cavalli, giornalista che vive sotto scorta dal 2007 per il suo impegno contro le mafie, sappiamo che sa essere realista e preciso, come qui dimostra con la bella resa narrativa delle pagine sui vari racconti di femminicidi di Clara, Sonia, Frida, Alissa e i loro uomini, ma sa che la letteratura è visionaria, è metafora, e che la verità della sua denuncia, se è questo che vuol fare, nasce proprio dal presentarsi nella sua alterità e utilizzare libertà e stravolgimenti esemplari, che alla fine hanno una natura iperrealista come Kafka insegna e dimostra un maestro quale Swift, in particolare, col discorso sul come affrontare la fame nel mondo.    

https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/unlibroalgiorno/2024/04/02/giulio-cavalli-e-i-mangiafemmine_177aa244-f4a3-439c-ad3f-1d674c0779e2.html

L’isola di Calipso recensisce I mangiafemmine

(L’isola di Calipso recensisce “I mangiafemmine”)

“I Mangiafemmine di Giulio Cavalli è un libro da leggere, un libro da riprendere in mano a giorni alterni e su cui riflettere, perché quello che racconta con più di una punta di sarcasmo non è poi così lontano dalla realtà.

Tutte le storie che Cavalli inserisce nella trama del suo romanzo per descrivere vari femminicidi, quasi tutti avvenuti all’interno della famiglia, sono totalmente plausibili. Sono quelli che leggiamo distrattamente sui giornali, quelli che ormai albergano a giorni alterni sui nostri quotidiani. Sono fedeli estratti delle cronache giudiziarie.

Frida uccisa e decapitata dal marito frustrato perché sospeso dal lavoro a causa delle molestie fatte ad una tirocinante in cambio di un assunzione.

Sonia decisa a vivere dopo anni di botte, che lascia il marito quando i figli ormai grandi vanno vai di casa, freddata da due colpi di fucile per la strada perché lui non lo accetta.

Clara che dopo aver tentato di spiegare al compagno che non lo ama più e non intende rimanere ancora in quella relazione, viene pugnalata dall’uomo nella sua stanza da letto dove lui si era introdotto perché possedeva ancora le chiavi di casa.

Donne che hanno pagato con la vita la scelta dell’uomo sbagliato, che sono state lo sfogo dell’insoddisfazione, della frustrazione, della piega che aveva preso la loro vita, incapaci di accettare la fine di una relazione o l’autonomia della propria compagna. Perché la costante è sempre il senso di possesso. La donna vista non come persona, come soggetto autonomo, capace di scelte, di sogni, di desideri propri, ma solo come oggetto del desiderio maschile, emanazione della sua volontà, prolungamento del proprio ego.

E in questo contesto Cavalli immagina una nazione, DF, alle porte di un’elezione politica, alle prese con un incremento di femminicidi. Il candidato premier a cui la cosa non importa, ma anche anzi disturba non poco – infondo le donne non sono sempre state uccise? Cosa è mai ora questa necessità di descriverla come un’emergenza da risolvere al più presto? – commette una gaffe dietro l’altra e viene sostituito in corsa da una donna. E’ il modo più veloce ed indolore per mettere a tacere le polemiche e chiudere la questione.

Ed è la presidente del Consiglio donna a firmare un decreto che inserisce la piena legittimità e legalità all’uccisione delle donne, assimilate ad animali su cui è consentita la caccia, rispettando, ovviamente, le quote stabilite, le regole imposte dai regolamenti d’attuazione (non donne incinte, non in presenza di minori, non in modo cruento, senza utilizzare termini dispregiativi e ingiuriosi mentre si commette l’uccisione e così via). Un’operazione pulita e indolore che tutto sommato non suscita grandi reazioni nell’opinione pubblica, solo un gruppo delle “solite e facinorose” femministe cerca di protestare e attirare l’attenzione sull’orrore della legge.

Decreto Legge n. 55/4231 Misure straordinarie per la regolamentazione temporanea dell’attività venatoria speciale/straordinaria del femminicidioIL PRESIDENTEVisti gli articoli 77 e 87 della Costituzione, […] Decreta:Articolo 1 – FinalitàIl presente Decreto Legge stabilisce misure straordinarie per la regolamentazione della caccia al fine di preservare l’ordine pubblico e i principi etico-sociali, nel rispetto delle nome igienico-sanitarie.Articolo 2 – autorizzazione all’attività venatoria specialeè consentita la pratica venatoria volta all’equilibrio dei generi, secondo i protocolli e le modalità stabilite nel presente Decreto Legge. L’autorizzazione alla caccia è subordinata al possesso di una licenza rilasciata dalle autorità competenti, previo superamento di un esame attestante la conoscenza delle norme igienico-sanitarie e delle regole di sicurezza.

Leggendo il nuovo romanzo di Giulio Cavalli, ci si rende tremendamente conto di quanto la realtà distopica che lui costruisce sia l’immaginate fedele di quello che viviamo. Esagerata? Sì. Portata all’eccesso? Anche. Ma purtroppo non falsa.

I politici che descrive sono inventati ma non è difficile vedervi riflessi atteggiamenti, posizioni, dichiarazioni di cui leggiamo o assistiamo in televisione. Dibattiti imbarazzanti, ipocrisie, scontri verbali che gettano spesso fumo negli occhi, distolgono l’attenzione dai veri problemi, creano polemica sterile ed inutile pur di alzare un polverone teso a coprire altro.

E l’imperante maschilismo, il patriarcato non sono ipotesi fantasiose di povere femministe (e mi viene in mente quanto dice Chimamanda Ngozi Adichie nel suo brevissimo Dovremmo essere tutti femministi, di quanto la parola “femminista” si porti dietro un notevole bagaglio negativo).

I Mangiafemmine è una potente critica alla nostra società e a tutti quei retaggi culturali che la permeano. Cavalli con uno stile scevro da qualsivoglia orpello stilistico, in modo a volte persino freddo, ribalta la posizione di partenza, dando per assodato e addirittura legalizzato il femminicidio, portando a galla l’atteggiamento sotto traccia che infondo le donne se la cercano, che sono i loro atteggiamenti a farle diventare terreno di caccia, che gli uomini “poverini” sono stati “costretti” a difendersi dalle pazze, aggressive, incontrollate femmine che li circondano.

Quello che mi piace dei libri di Giulio Cavalli è che la distopia che racconta non è mai così lontana dalla nostra realtà. Come già in Carnaio, in cui rifletteva sui morti che arrivano sulle coste di un immaginario paese e le reazioni inconsulte e disumane che le continue stragi in mare provocano, anche qui l’orrore quotidiano si stempra in un atto di accusa lucido e reale su come i femminicidi vengono raccontati, giustificati e alla fine banalizzati dal sistema politico e dalla società”

Snaporaz su i Mangiafemmine

Nell’immaginario paese di DF, l’onda dei femminicidi si sta alzando a livelli di guardia. Le polemiche rischiano di travolgere il candidato al governo Valerio Corti, politico di estrema destra indifferente alla questione, mascherato da padre di famiglia centrista e guidato dal “buon senso. Di comune accordo col suo spin doctor Marco Fumagalli decide di ritirare la candidatura: al suo posto, una donna-parafulmine, Marzia Rizzo. Dopo aver vinto le elezioni sarà lei, manovrata dal partito di Corti, ad affrontare il problema con una modesta proposta di legge “per la regolamentazione temporanea dell’attività venatoria speciale/straordinaria del femminicidio”: in base al decreto, l’uccisione delle donne viene regolata secondo precise norme igienico-sanitarie e con obiettivi di riequilibrio numerico e sostenibilità. Fra qualche mugugno di un’opposizione spompata e la protesta di un paio di voci della stampa, la caccia, nel rispetto di tutti, può avere inizio.

I mangiafemmine di Giulio Cavalli (uscito per Fandango nel 2023) appartiene a una tradizione premoderna e quasi completamente perduta: la satira letteraria 

I mangiafemmine di Giulio Cavalli (uscito per Fandango nel 2023) appartiene a una tradizione premoderna e quasi completamente perduta: la satira letteraria. A quel genere riporta anzitutto un principio di trasparenza, che non maschera nomi, luoghi e fatti per renderli universali, ma insegue l’attacco frontale: Valerio Corti, con eleganza, buon senso e un dichiarato sorriso, occhieggia platealmente a Matteo Salvini (si provi a leggere con la sua voce questo stralcio di messaggio di Corti alle associazioni femministe: «A quelle donne non dico niente perché non ho niente da dire. Gli posso solo inviare il mio augurio, con il sorriso, di trovare cose più interessanti in cui affaccendarsi. Altri motivi per cui sudare»); lo spin doctor Marco Fumagalli, sessualmente irrisolto, ostaggio di una madre iperprotettiva e ricattatoria e quindi, per reazione, artefice di una campagna d’immagine ultra-aggressiva, corrisponde all’ormai eclissato Luca Morisi; e basta fare mente locale per capire a chi Cavalli alluda raccontando l’ascesa eterodiretta di una donna “moderata” al governo, per spazzare via sospetti di maschilismo con una mano e con l’altra offrire una politica ancora più repressiva e indifferente alle questioni di genere.