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Giulio Cavalli

Prima Milano Ovest sullo spettacolo ‘A casa loro’

Sala piena giovedì 27 marzo nella Corte Valenti di Garbagnate Milanese per il monologo di Giulio Cavalli dal titolo “A casa loro”.

Una serata per parlare di giustizia sociale

Il tema della “Pace e giustizia” scelto per l’edizione 2025 di “Dialoghi in Piazza” ha spiegato tutti i suoi effetti con vigore e con impatto scenico grazie al talento di Giulio Cavalli, attore, giornalista e drammaturgo che ha messo in scena una performance che è stata un incrocio tra recitazione, racconto e commento politico.

Pubblico impressionato dai racconti

Giulio Cavalli ha spiegato tutto quello che succede prima, durante e dopo gli sbarchi dei migranti dalla Libia alle coste Italiane, ha letto diari e testimonianze dei ragazzi di colore e chi li assiste. Ha estrapolato verbali redatti da testimonianze di chi ha soccorso in mare i migranti. “Sapete come sono le celle per i detenuti in Libia? Senza finestra, ammassati tutti come bestie per ore”. Il pubblico di Corte Valenti è rimasto impressionato anche dalla narrazione di quello che è accaduto al campo di Zuara: “Uomini picchiati con il telefono acceso perché la loro famiglia sentisse bene il rumore delle percosse, donne violentate che non vogliono più vivere per la vergogna. Adolescenti che vogliono andare in nord Europa ma sono costretti a rimanere detenuti a Roma in un centro di accoglienza. Molti di loro hanno finto di essere maggiorenni per arrivare in nord Europa”. Sono anche state raccontate le vicende legate ai 700 morti trovati nella stiva di un barcone. “I nostri figli ci chiederanno perché accadevano queste cose come oggi noi ci chiediamo come è stata possibile la persecuzione degli ebrei negli anni ’40 del 900.

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Il termostato dell’alternanza, si è fermato pure quello

Secondo il modello termostatico di Wlezien e Soroka, raccontato da Lorenzo Ruffino, l’opinione pubblica funziona come un regolatore automatico: ogni spinta eccessiva da parte del governo genera una reazione in senso opposto. Se un esecutivo accelera troppo su welfare, ambiente o immigrazione, l’elettorato tende a raffreddare il sistema votando l’opposizione. Se invece la politica è troppo fredda o prudente, cerca di scaldarla. Il ciclo si autoregola: il potere agisce, l’elettorato percepisce, valuta, corregge.

Funziona, ma solo in un contesto dove il termostato è accessibile e l’impianto reagisce davvero. Negli Stati Uniti, dove si vota spesso e l’alternanza è fisiologica, la teoria regge. In Italia, no. Il termostato è scollegato. Si gira la manopola, ma la temperatura non cambia. Il voto diventa sfogo, non correzione. La democrazia resta formalmente accesa, ma la stanza è fuori controllo. E intanto i governi si succedono senza mai pagare davvero il conto delle loro scelte.

Ruffino osserva che a reagire sono solo i moderati. Ma sono pochi e isolati. Il resto dell’elettorato è inchiodato: polarizzato, disilluso o semplicemente stanco. La stanza brucia, ma ci si litiga sulle finestre. Intanto chi è ai margini sopporta in silenzio. E chi dovrebbe ascoltare, preferisce misurare l’umore con sondaggi usa e getta.

Il punto non è se il termostato funziona. È: chi può ancora usarlo? Chi ha voce, strumenti, attenzione? Chi è fuori dalla stanza, più che regolare il clima, si abitua. O si spegne. E la politica, intanto, continua a occuparsi della percezione. Il rischio non è solo il caldo o il freddo. È che nessuno si alzi più per cambiare l’aria.

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Volenterosi ma anche tanto confusi

In mancanza di una qualsiasi possibilità di trovare un accordo a Bruxelles, ieri a Parigi abbiamo avuto un antipasto dell’immane fatica di fare la guerra chiamandola pace. I cosiddetti volenterosi si sono ritrovati alla corte di Macron per mostrare che l’Europa è unita nell’indossare l’elmetto.

“L’Europa si mobilita come non si vedeva da decenni”, ha detto fiero Keir Starmer, leader britannico di un Paese che è uscito dall’Unione europea. Macron, invece, ha annunciato l’invio di soldati in Ucraina quando sarà finita la guerra. Si pensa a una “coalition of the willing” che ricalca la definizione di George W. Bush nel 2003, quando in nome di “armi di distruzione di massa” mai ritrovate si partì per l’Iraq di Saddam Hussein. Non è un precedente di cui andare fieri.

Peccato che l’idea non piaccia affatto all’Italia di Giorgia Meloni, che per l’ennesima volta ha negato la sua disponibilità. Quindi nemmeno i volenterosi sono d’accordo.

Nel frattempo Macron s’è affrettato a dichiarare Trump un “alleato affidabile”, ritenendo Putin non interessato alla pace. Ma Trump ha dichiarato inaffidabile, addirittura ostile, l’Ue e sta costruendo una pace apparente proprio sulle rassicurazioni di Putin.

Il giudizio più sensato è forse quello del presidente ucraino Zelensky: “A Parigi molte domande e poche risposte”. E questi sono i volenterosi: immaginate come andrà a finire quando ci saranno anche gli indolenti.

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L’Unione europea abbraccia Vučić. Alla faccia della democrazia

Nel cuore dell’Europa che predica diritti e principi, c’è posto anche per Aleksandar Vučić. Un presidente autoritario, al potere da dodici anni, che reprime le proteste studentesche e ammicca a Mosca e Pechino, trova ancora una sedia calda a Bruxelles. Ursula von der Leyen e Antonio Costa, rappresentanti di quell’Unione che si proclama custode dello stato di diritto, gli hanno offerto una cena “cordiale, concreta, aperta e responsabile”, mentre fuori dai palazzi la Serbia brucia sotto la rabbia di chi chiede democrazia.

La diplomazia, si sa, ha il gusto del compromesso. Ma qui si va oltre. L’Ue non solo non prende le distanze da Vučić, ma sceglie di ignorare ciò che accade da mesi a Belgrado: proteste di piazza, accuse di uso di armi sonore contro i manifestanti, violazioni sistematiche dei diritti civili. Il tutto in nome di una strategia che guarda più al litio della valle di Jadar che alla libertà dei cittadini serbi.

Diritti sacrificati sull’altare del litio

La presidente della Commissione, in un post su X, ha ricordato che la Serbia deve fare progressi su libertà dei media, lotta alla corruzione e riforma elettorale. Una formula di rito. Nel frattempo, però, l’abbraccio politico resta. E non è solo simbolico. L’Unione ha bisogno della Serbia, o meglio: delle sue risorse minerarie. Non a caso, Bruxelles ha inserito proprio in questi giorni 47 progetti strategici per l’approvvigionamento di materie prime critiche. Tra questi potrebbe finire anche il maxi-sito per l’estrazione di litio a Jadar. E quando c’è da scavare per alimentare la transizione ecologica europea, i diritti umani possono attendere.

Vučić, dal canto suo, ha fatto il solito gioco: si è detto pronto a “verificare” che nessun cannone sonoro sia stato usato contro i manifestanti. Poi però ha aggiunto che “il suo utilizzo non è vietato da nessuna parte in Europa” e che “negli Stati Uniti lo usano quasi ogni giorno”. Non esattamente il linguaggio di un candidato credibile all’ingresso nell’Unione europea. Ma a Bruxelles nessuno ha fatto una piega.

Secondo Srđan Cvijić, analista del Belgrade Centre for Security Policy, la percezione pubblica in Serbia è chiarissima: l’Europa sta sostenendo un regime autoritario. Anche se, va detto, qualcosa è cambiato nel tono. Niente conferenze stampa congiunte, niente “caro Aleksandar”, solo una dichiarazione scritta. Segnali minimi, insufficienti. Perché se l’Unione avesse davvero voluto lanciare un messaggio politico netto, non avrebbe scelto la via del dialogo formale nel bel mezzo delle proteste. L’avrebbe detto chiaro: così, con questi metodi, l’adesione è sospesa.

L’adesione a ogni costo, anche senza democrazia

E invece no. Vučić continua a promettere l’apertura di nuovi capitoli negoziali entro l’anno, come se l’adesione fosse una formalità. E continua a governare, benché il premier Miloš Vučević si sia dimesso il 28 gennaio e il termine per la formazione di un nuovo governo sia ampiamente scaduto. In Serbia, le regole valgono solo quando servono.

L’Europa tace. Anzi, rilancia. Von der Leyen e Costa parlano di investimenti, di futuro comune, di vantaggi reciproci. Ma la domanda è un’altra: che fine ha fatto l’Unione europea che si diceva comunità di valori? Cosa resta della Carta dei diritti fondamentali, quando Bruxelles chiude gli occhi di fronte a un regime che reprime le piazze e gioca a rimpiattino con i diritti civili?

La risposta è nella geoeconomia, nell’ossessione strategica per le terre rare, nel bisogno disperato di risorse per la transizione verde. Ma se questa è la nuova bussola dell’Unione, allora è il momento di dire le cose come stanno: la democrazia è opzionale, se il tuo suolo è ricco. E la libertà di stampa può aspettare, se prometti di riformare — prima o poi.

Nel silenzio della diplomazia, la Serbia resta sospesa: né dentro né fuori, utile ma ingombrante, tollerata perché preziosa. Un partner tossico, come lo definisce lo stesso Cvijić, che pesa sempre più sul bilancio etico dell’Ue. E che intanto, da Belgrado, continua a reprimere e governare. Con il benestare europeo.

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Voto di scambio, arrestato Franco Alfieri: dieci misure cautelari eseguite dalla Dia di Salerno

È di stamattina l’arresto bis di Franco Alfieri. Ancora lui. Ex sindaco di Capaccio Paestum, già presidente della Provincia di Salerno, per anni uomo di fiducia del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Stavolta l’accusa è di quelle che fanno tremare i polsi: scambio elettorale politico-mafioso. Insieme a lui sono dieci gli indagati, destinatari di misure cautelari eseguite dalla Direzione investigativa antimafia di Salerno tra Campania e Abruzzo. L’ordinanza, firmata dal gip su richiesta della Dda, ricostruisce un sistema articolato e persistente. E restituisce la fotografia di una politica che, per garantirsi la vittoria, si affida ai voti di chi controlla il territorio come fosse un’azienda.

Secondo l’accusa, Alfieri avrebbe stretto un accordo con Roberto Squecco, imprenditore locale già condannato per 416 bis e ritenuto organico al clan Marandino. In cambio dell’appoggio elettorale ricevuto nel 2019 per l’elezione a sindaco, Alfieri avrebbe garantito la permanenza nella disponibilità di Squecco di una struttura balneare già colpita da provvedimenti ablatori. La promessa avrebbe resistito finché la struttura non è stata in parte abbattuta, per ragioni di pubblica sicurezza. Da lì, secondo la ricostruzione degli inquirenti, sarebbero iniziate le minacce, recapitate ad Alfieri tramite figure interne al Comune: un agente della polizia municipale, un dipendente dell’ufficio cimiteriale e un’assessora che oggi risulta tra gli arrestati ai domiciliari per aver detto il falso all’autorità giudiziaria. Le pressioni non sarebbero bastate. Così Squecco avrebbe contattato tre soggetti provenienti da Baronissi per commissionare un attentato esplosivo contro Alfieri. Il progetto, documentato con mappe e sopralluoghi, non fu portato a termine per un mancato accordo economico..

Dove il voto è merce, e il potere non si vergogna

L’inchiesta è durata due anni, dal 2022 al 2024. E arriva dopo un primo arresto, quello del 3 ottobre scorso, in cui Alfieri era stato coinvolto in un’indagine su appalti truccati. Si era dimesso da ogni incarico politico.

Secondo gli atti, l’accordo elettorale sarebbe stato garantito anche dalla ex moglie di Squecco, consigliera comunale all’epoca dei fatti. Le accuse contestate a vario titolo agli indagati spaziano dal voto di scambio al tentato omicidio, dall’estorsione aggravata al traffico d’armi. Nel quadro spunta anche il possesso di mitragliette Uzi e Kalashnikov. Tutto questo per mantenere una concessione balneare e l’egemonia sul voto locale. Tutto questo sotto la regia di una politica che preferisce i risultati ai metodi.

Una legalità episodica, un sistema che regge

Oggi il Comune di Capaccio Paestum è commissariato. Il senatore Iannone ha già annunciato la richiesta di atti in Commissione antimafia. Ma il problema non è nella reazione. Il problema è nell’assuefazione. È nella leggerezza con cui un’intera architettura politica ha fatto finta di non vedere, ha protetto, promosso e usato. Alfieri è stato per anni raccontato come amministratore modello. Ora il suo nome è citato in un’ordinanza per voto di scambio mafioso. Nessuno chiede scusa, nessuno fa un passo indietro. In certi territori, la legalità è un’ipotesi. Il potere, invece, resta sempre una certezza.

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Nel Paese dell’inquisizione al rovescio: chi denuncia è colpevole

Nel Paese in cui delle persone organizzate per salvare vite in mare vengono spiate dal governo, il ministro della Giustizia parla di «clima di inquisizione» perché le opposizioni gli chiedono conto della liberazione, con tutti gli onori, di uno stupratore violento amico dei trafficanti.

L’inversione della realtà accade nel giro di poche ore. Prima il sottosegretario Mantovano ammette che l’Onu e Mediterranea sono state intercettate con il software Paragon dai nostri servizi segreti. «Indagine preventiva», la chiamano. In effetti, ci vorrebbe coraggio per ammettere che si tratta di intercettazioni non autorizzate dalla magistratura da parte di un governo che straccia per legge le intercettazioni degli altri.

Poi, ieri, il ministro Nordio in Parlamento è stato salvato dalla mozione di sfiducia che gli chiedeva conto di aver liberato il torturatore libico Almasri, generale ricercato dalla Corte penale internazionale, serenamente liberato in Italia e riportato in patria.

Il favoreggiamento politico al traffico di esseri umani compiuto da un governo che avrebbe dovuto stanare i trafficanti «in tutto l’orbe terraqueo» è l’impronta di un sopruso sistematico che ha diviso questo Paese in amici e nemici.

Adottare pratiche e opinioni contrarie ai desiderata del governo implica l’intercettazione, la querela intimidatoria, l’esposizione via social, il deliberato attacco in pubblico, perfino la derisione. Non manca nessun ingrediente per poter definire tutto questo l’opera di un’autocrazia dalla parvenza democratica.

Buon giovedì.

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Residenze per anziani, la Cassazione azzera le rette per l’Alzheimer

Dopo anni di decreti ingiuntivi, appelli e sentenze, la Corte di Cassazione ha stabilito che per le persone affette da Alzheimer le rette delle Rsa devono essere interamente a carico del Servizio sanitario nazionale. La pronuncia, accolta come una liberazione da oltre un milione di famiglie, apre però una faglia che rischia di far sprofondare il sistema sociosanitario in una guerra fra poveri e fra territori. Perché quando non è lo Stato a decidere, lo fa la giurisprudenza. Ma la giustizia non sempre è giusta, se si limita a fotografare chi può permettersi di far valere i propri diritti in tribunale.

Il punto, come chiarisce Eleonora Trentini in un’analisi chirurgica su lavoce.info, è che l’attuale sistema si regge su un equilibrio ipocrita: le regioni garantiscono il 50 per cento della spesa per le Rsa, il resto è sulle spalle delle famiglie. Un compromesso che diventa ricatto quando la non autosufficienza non è una scelta, ma una condizione permanente.

Dove finisce il diritto e inizia la sentenza

Il problema è che le Rsa non sono tutte uguali. E nemmeno i malati. Le sentenze favorevoli a chi è affetto da Alzheimer si fondano sull’idea che la malattia richieda cure sanitarie continue e prevalenti, dunque totalmente a carico dello Stato. Ma le stesse Rsa, nella loro composizione del personale, raccontano un’altra storia: meno del 25 per cento degli operatori ha un profilo sanitario, il grosso del lavoro grava su Oss e figure assistenziali malpagate e spesso insufficienti. Le stime più aggiornate parlano di un rapporto personale/ospiti pari a quello delle carceri italiane, con punte anche peggiori.

Nel frattempo, la politica non decide. La riforma prevista dal Pnrr è rimasta senza risorse. E i Lea – i livelli essenziali di assistenza – fissano regole che ignorano completamente l’evoluzione epidemiologica e demografica del Paese. Il Fondo per la non autosufficienza esclude la residenzialità. I Lep, i livelli essenziali delle prestazioni sociali, nemmeno la nominano. E i comuni, lasciati soli, alzano le soglie Isee per limitare i pochi contributi disponibili, alimentando così una selezione al contrario: accede solo chi è già scivolato nella miseria, mentre chi non può permettersi una Rsa e non è abbastanza povero da ottenere aiuti resta a casa, a carico della famiglia.

Ma il paradosso più feroce è un altro: mentre si prova a costruire un modello che faccia della casa il primo luogo di cura, le sentenze creano l’incentivo opposto. Se finisci in Rsa hai diritto alla copertura completa, se resti a casa ti arrangi. Così si favorisce l’istituzionalizzazione, invece che supportare le cure domiciliari.

Eppure i dati parlano chiaro. Secondo Antonio Guaita, , medico geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci, oltre il 39 per cento degli ospiti in Rsa soffre di demenza, ma in meno del 20 per cento delle strutture esistono nuclei specializzati. La disabilità non è immobile: si muove, spesso in modo imprevedibile, e chiede sorveglianza continua. I bisogni sanitari crescono, ma il personale non basta. Il rapporto medio in Italia è di 0,2 infermieri ogni 100 anziani: in Olanda sono 1,5, in Svizzera 3.

La disuguaglianza è una scelta istituzionale

Così il sistema si spacca in due: chi ha avuto la forza e le risorse per andare in tribunale – spesso eredi di persone decedute – ottiene il rimborso delle rette; chi è vivo e non può pagare resta fuori. In un Paese in cui la sanità pubblica è a geometria variabile e la disuguaglianza è diventata criterio di selezione, anche invecchiare è un privilegio.

Serve una legge. Serve una riforma vera. Serve il coraggio di dire chi deve pagare il conto. Ma soprattutto serve un’idea: che la cura non può essere una fortuna, né una sentenza favorevole. Deve essere un diritto. E i diritti si garantiscono con risorse, regole chiare e responsabilità pubblica. Non con l’arbitrarietà dei tribunali.

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Strumentalizzare Falcone, una bestemmia civile

C’è un confine tra la propaganda e la bestemmia civile. Forza Italia lo ha superato il 23 marzo 2025, al Politeama Garibaldi di Palermo, usando la voce di Giovanni Falcone come sottofondo al proprio convegno sulla giustizia. Un partito fondato da un pregiudicato, costruito da un condannato per concorso esterno, che si prende il lusso di evocare Falcone nel salotto dove si riabilita D’Alì e si cita Mangano come “eroe”.

Falcone parlava di codice penale, di riforme, di impegno. Parlava da magistrato che conosceva il peso delle parole. Ma chi lo cita oggi lo fa per spingere una riforma – la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri – che lo stesso Falcone temeva. In Cose di Cosa Nostra, nel 1991, spiegava che una tale separazione avrebbe indebolito la lotta alla mafia, spezzando l’unità della magistratura e rendendo più vulnerabile il lavoro delle procure alle pressioni esterne.

E mentre Forza Italia si commuove davanti alle sue frasi, ignora il proprio archivio giudiziario: Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa; Antonio D’Alì, 6 anni, stessa imputazione; Amedeo Matacena, 3 anni per contiguità con la ’ndrangheta; Nicola Cosentino, 10 anni per concorso esterno con il clan dei Casalesi; Giancarlo Pittelli, 11 anni in primo grado per aver operato a favore della ’ndrangheta; Salvatore Ferrigno, 10 anni in primo grado per voto di scambio politico-mafioso.

Falcone non appartiene a un partito. Non può essere brandizzato. Non può essere usato come copertura da chi ha contribuito, anche solo per affinità, a rendere questo Paese meno giusto. Bisogna ricordarsi di ricordare, anche quando non conviene. 

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Meglio disarmati che indebitati, i dubbi di Francia, Italia e Spagna

Italia, Francia e Spagna hanno appena scoperto l’acqua calda: le armi costano. E se te le compri a debito, il conto arriva con gli interessi — e con il giudizio dei mercati. Dopo mesi di retorica sulla necessità di “difendere l’Europa”, ora le capitali del Sud mettono il freno. Non per una questione etica, ma per pura contabilità.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha messo sul tavolo un piano da 150 miliardi in prestiti per rilanciare la difesa dell’Unione. Obiettivo: liberarsi dalla dipendenza dagli Stati Uniti e armarsi fino ai denti. Il meccanismo è semplice: si allenta temporaneamente il Patto di stabilità, gli Stati membri si indebitano, la Commissione li accompagna con denaro a basso interesse, e l’industria bellica brinda.

Un piano da falchi, in una stagione da colombe

Peccato che per Italia, Francia e Spagna, già alle prese con debiti pubblici gonfi come palloni, il piano sia un cappio. Perché quei prestiti — per quanto agevolati — finiscono comunque nel conto nazionale. E Bruxelles è chiara: se aumenti la spesa militare, dovrai tagliare da qualche altra parte. Magari dagli ospedali, dalla scuola, dai trasporti. Auguri a trovare una maggioranza che voti questo.

Meloni è stata esplicita: “Il piano di von der Leyen si basa quasi esclusivamente sul debito degli Stati”. E ha chiesto tempo. Non perché sia contraria al riarmo, ma perché non può permetterselo. Né lei né Sánchez, né tantomeno Macron, che con un debito/PIL sopra il 110% teme di far scappare gli investitori e di peggiorare il suo rating.

Il paradosso è che proprio i Paesi che più dovrebbero aumentare la spesa per raggiungere il 2% del PIL in difesa (l’obiettivo Nato) sono quelli che meno possono permetterselo. E mentre Berlino si prepara a sforare in grande stile per finanziare un pacchetto da 500 miliardi, nel Sud si gioca la partita dell’ambiguità: chiedono che nella “difesa” vengano incluse anche le spese per i confini, la cybersecurity, la resilienza infrastrutturale. Tutto pur di far quadrare i conti senza dirlo apertamente.

A Bruxelles si gioca a poker. Il Nord — Germania, Paesi Bassi, Danimarca — vuole che chi chiede solidarietà dimostri per primo di crederci, indebitandosi. “Se dicono che la difesa è una sfida esistenziale, allora che prendano i prestiti”, dicono i falchi del rigore. Ma i governi mediterranei preferiscono una partita diversa: i “defense bonds”, titoli emessi dall’Ue e garantiti da tutti, come fu per il Next Generation EU. Ovvero: mutualizzare il rischio, socializzare il costo. Ma il “no” di Amsterdam è già scolpito nella pietra: “Niente Eurobond”, ha ribadito il premier Schoof.

Il riarmo europeo si ferma davanti allo spread

Von der Leyen è in mezzo. Incalzata da Trump che minaccia di abbandonare Kiev, e frenata dai governi più fragili. Ha corso troppo, forse. Ha creduto che la retorica bellica potesse fare da leva per superare il tabù del debito. Ma le contabilità nazionali non si piegano agli slogan. E quando la guerra diventa un business, il conto lo paga sempre chi ha meno margine.

Per ora il piano è impantanato. Italia e Spagna prendono tempo, Macron guarda i mercati. Il rischio è duplice: non solo il riarmo europeo rallenta, ma l’idea stessa di una difesa comune si arena. Perché senza un’unione fiscale, ogni euro in più speso in armi può diventare un boomerang elettorale.

Nella Ue a 27, dove la difesa è ancora materia da sovranità, il vero campo di battaglia è il bilancio. E la guerra, anche quando è lontana, pesa sul debito. Ma su quello, nessuno è disposto a morire.

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Come una gita alcolica fuori porta

Come un gruppo di amici che pianificano una gita alcolica fuori porta, il capo del Pentagono Hegseth, il consigliere per la sicurezza nazionale Waltz, la direttrice dell’intelligence nazionale Gabbard e il vicepresidente Usa J. D. Vance hanno allegramente pianificato un attacco di guerra in una chat privata, in cui è stato invitato per errore anche il direttore di The Atlantic, Jeffrey Goldberg.

Il giornalista ha fatto il giornalista e ha raccontato al mondo come la classe dirigente del governo Trump abbia deciso i raid Usa contro gli Houthi, bombardando lo Yemen.
In quella stessa chat il vicepresidente J. D. Vance e il segretario alla Difesa Pete Hegseth hanno parlato di “odio” e “disgusto” verso l’Europa. Donald Trump ieri ha rincarato la dose: “Penso che gli europei siano dei parassiti”.

“Odio soltanto – aveva scritto Vance – dover salvare di nuovo l’Europa”. “Condivido il tuo disgusto per l’Europa che se ne approfitta gratis – aveva risposto Hegseth – è patetico. Ma Mike ha ragione, siamo gli unici al mondo che possono farlo. La questione è il tempismo”.
Essere “anti” qualcosa è la cifra stilistica della politica quando si riduce a spettacolo e narrazione. Come da noi l’anti-antifascismo è il verbo per la maggioranza, nel trumpismo l’antieuropeismo è la caratteristica fondante della messa in scena.

In Parlamento qualcuno aveva chiesto a Giorgia Meloni dove stesse tra l’Europa e gli Usa. Furbescamente la presidente del Consiglio rispose che stava “con l’Italia”. Le si potrebbe riproporre la domanda: dove sta l’Italia tra questi Usa che ci vedono come parassiti e l’Ue?

Buon mercoledì.

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