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Giulio Cavalli

Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili: la violenza che resiste nell’ombra

Oggi, 6 febbraio, si celebra la Giornata internazionale della tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili (MGF). Una pratica brutale che colpisce ancora 230 milioni di donne e bambine in oltre 90 Paesi, nonostante le dichiarazioni di condanna e le leggi proibitive. Non è un retaggio di un passato lontano, ma una realtà attuale, diffusa in molte regioni del mondo, dall’Africa all’Asia, fino a toccare l’Europa e l’Italia, dove oltre 87.000 donne convivono con le conseguenze di questa violenza, di cui 7.600 sono minorenni.

Le mutilazioni genitali femminili sono spesso presentate come un rito di passaggio all’età adulta, una prova di appartenenza alla comunità. In molte culture, la “circoncisione femminile” è considerata un requisito per il matrimonio, una garanzia di verginità e onore familiare. Dietro queste giustificazioni si nasconde, invece, il controllo patriarcale sui corpi delle donne, un meccanismo di oppressione che priva le vittime della loro integrità fisica e psicologica.

La violenza dietro la tradizione

La testimonianza di Fatoumata Diallo, riportata dal blog ‘Le persone e la dignità’ del Corriere della Sera, attivista senegalese e sopravvissuta alle MGF, risuona ancora con forza: “Eravamo un gruppo di ragazze, ci hanno portato in un bosco per ‘tagliarci’. Una delle ragazze è morta, hanno agito in modo selvaggio e non riuscivano a fermare l’emorragia”. L’infibulazione, la forma più estrema, prevede l’asportazione del clitoride e la cucitura dei genitali esterni, lasciando solo una piccola apertura per l’urina e il sangue mestruale. Le complicanze mediche sono devastanti: infezioni, emorragie, dolori cronici, difficoltà nei rapporti sessuali e nel parto, con un alto rischio di mortalità materna e neonatale.

Non si tratta solo di un problema sanitario, ma di una questione di diritti umani. L’Onu ha stabilito l’obiettivo di eliminare questa pratica entro il 2030, ma la strada è ancora lunga. In Europa, si stima che oltre 600.000 donne siano portatrici di MGF e 190.000 siano a rischio. La disinformazione, l’assenza di interventi strutturati e lo stigma sociale rendono difficile il contrasto efficace del fenomeno.

L’Italia e la lotta ancora insufficiente

In Italia la legge 7/2006 vieta le mutilazioni genitali femminili e prevede misure di prevenzione e assistenza. Tuttavia, mancano dati aggiornati sull’efficacia degli interventi. L’ultimo monitoraggio ufficiale risale al 2019, mentre l’esito del bando per una nuova mappatura del fenomeno, indetto nel 2023 dal Dipartimento Pari Opportunità, non è ancora stato reso noto.

ActionAid chiede un’applicazione più incisiva della legge, un’integrazione delle MGF nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e una presenza costante di mediatrici culturali nei servizi sanitari e sociali. Un altro problema è la difficoltà di accesso ai servizi sanitari per le donne che hanno subito mutilazioni: molte evitano di rivolgersi ai consultori per paura di essere giudicate, altre non sanno che esistono cure per alleviare le conseguenze della pratica.

Il dialogo come strumento di cambiamento

Per spezzare il ciclo della violenza, serve un lavoro di sensibilizzazione profondo. Le community trainer, figure chiave nel contrasto alle MGF, lavorano nelle comunità a rischio per far emergere una consapevolezza diversa. “Non bisogna dire ‘siete cattive madri’, bisogna far comprendere che la violenza non è tradizione” spiega Edna Moallin Abdirahman, attivista e mediatore culturale. La lotta contro le MGF non si vince con la stigmatizzazione, ma con l’educazione e l’empowerment delle donne, perché quando una generazione decide di interrompere questa pratica, le generazioni future ne saranno libere.

Le storie di chi è riuscito a dire “basta” dimostrano che cambiare è possibile. Ma servono azioni concrete, strumenti efficaci e soprattutto volontà politica. Perché le mutilazioni genitali femminili non sono un problema di culture lontane, ma una ferita che attraversa il mondo intero.

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Manco li cani

Niente segreto di Stato. In compenso ieri è andata in scena la menzogna di Stato, con il ministro Nordio nella parte del primo attore che è riuscito a infilare di fronte al Parlamento una serie di sfondoni giuridici e politici degni di un’interrogazione di diritto andata male alle scuole superiori.

Nordio spiega che Almasri è stato rilasciato perché ha ritenuto troppo vaghi i capi di accusa della Corte penale internazionale nei confronti del torturatore Almasri. Quindi, poiché il macellaio libico è stato ritenuto non pericoloso, è stato rilasciato. Ma è stato accompagnato a casa con un volo di Stato – che era pronto tre ore prima della decisione ufficiale del ministro – perché ritenuto troppo pericoloso. Anzi, si è deciso di accompagnarlo proprio tra le braccia festanti dei suoi colleghi, mezzi poliziotti e mezzi trafficanti, per umiliare completamente l’Italia agli occhi del mondo.

L’attrice protagonista di questa brutta storia, Giorgia Meloni, è rimasta fuori scena. Oscena come si direbbe letteralmente. Tra le quinte a spiare e sperare che tutto passi in fretta, confidando nella credibilità delle sue comparse. Missione fallita.

Era in scena invece la deputata meloniana Augusta Montaruli, che ospite nello studio di Tagadà su La7, ha pensato di silenziare il Dem Marco Furfaro abbaiando. Quello faceva notare che Fratelli d’Italia mandasse in televisione a discutere di giustizia una pregiudicata e la pregiudicata rispondeva ripetendo ossessivamente “bau bau”, con la faccia anche piuttosto divertita. La conduttrice è dovuta intervenire per ricordare che la situazione era seria. Invece è tragica, ma non seria.

Buon giovedì.

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Un torturatore liberato e chi salva vite spiato

Tra le persone informate da Meta di essere state spiate su WhatsApp c’è anche Luca Casarini, capo missione e tra i fondatori di Mediterranea, la ONG che si occupa di salvare vite in mezzo al mare.

Nel suo messaggio Meta consigliava di cambiare subito il cellulare e di rivolgersi ai propri consulenti, un team di ricerca basato all’Università di Toronto, “The Citizen Lab”. Quasi contestualmente testate e agenzie giornalistiche internazionali davano la notizia della violazione dei sistemi di sicurezza di WhatsApp che coinvolgeva 90 ‘target’ in tutto il mondo, in particolare attivisti della società civile e giornalisti.

Il software utilizzato per effettuare l’infiltrazione spyware – precisa la ONG – è chiamato ‘Paragon’ ed è messo a punto dalla società israeliana Paragon Solutions, che ha dichiarato di averlo fornito ‘al governo degli Usa e ad altre agenzie governative di intelligence di paesi alleati’. Non è la prima volta che giornalisti e attivisti che si occupano di migrazione finiscono in una torbida vicenda di intercettazioni abusive. Non è una novità nemmeno che le ONG siano da tempo nel mirino del governo e dei Servizi come già è accaduto negli anni passati con processi farseschi che si sono chiusi con un buco nell’acqua.

Intimidire spiare e delegittimare chi si occupa di persone migranti è un’abitudine da tempo. Resta una domanda sostanziale: il governo sapeva di questo spionaggio? C’entra qualcosa Perché sarebbe davvero grave riportare in Libia i torturatori su un volo di Stato e intercettare illegalmente chi salva le sue vittime. O no?

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Epidemie e fame, ecco gli effetti dello stop di Usaid voluto da Musk e Trump

Il 4 febbraio 2025 non verrà ricordato solo come il giorno della chiusura dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), ma come l’inizio di una crisi umanitaria globale di proporzioni inedite. La decisione, orchestrata da Elon Musk su incarico dell’amministrazione Trump, ha avuto effetti immediati e devastanti: scorte di cibo e medicinali essenziali abbandonate nei magazzini, programmi vitali interrotti, migliaia di operatori umanitari licenziati.

Dalla fame alle malattie: le prime vittime della chiusura di Usaid

Il quadro è drammatico. In Sudan, paese già martoriato da violenze e carestie, i farmaci salvavita sono rimasti bloccati nei depositi, mentre in Congo l’instabilità è aumentata con la chiusura dei progetti sanitari. Centinaia di migliaia di bambini in Africa, che dipendevano dai pasti scolastici forniti grazie ai fondi Usaid, ora affrontano la malnutrizione. A Dhaka, in Bangladesh, il Centro Internazionale per la Ricerca sulle Malattie Diarroiche ha dovuto licenziare i propri scienziati, interrompendo ricerche cruciali su malaria e altre malattie infantili.

Le conseguenze non si fermano qui. In Malawi, i programmi di supporto all’agricoltura sostenibile sono stati interrotti, mettendo a rischio la sicurezza alimentare di un paese già provato da eventi climatici estremi. In Uganda, le iniziative di controllo della malaria sono state ridotte drasticamente, e in Sudafrica le cliniche per la cura dell’HIV/Aids, come la “Out” di Johannesburg che assisteva 6.000 pazienti, hanno sospeso i trattamenti.

Una crisi globale senza confini: dall’Africa all’America Latina

Oltre l’Africa, anche in Colombia la chiusura di Usaid ha avuto effetti catastrofici. I programmi che aiutavano le famiglie a fuggire dai conflitti armati e incentivavano la coltivazione di prodotti legali al posto della coca sono stati bloccati. L’ex presidente colombiano e premio Nobel per la pace, Juan Manuel Santos, ha dichiarato: «Tagliare questi programmi improvvisamente avrà un effetto umanitario terribile».

Secondo il Guttmacher Institute, il blocco degli aiuti per 90 giorni priverà 11,7 milioni di donne e ragazze dell’accesso alla contraccezione, causando la morte di 8.340 persone per complicazioni durante la gravidanza e il parto. Il presidente di Refugees International, Jeremy Konyndyk, ha definito la chiusura di Usaid un «evento di estinzione» per il settore umanitario globale, sottolineando come questa decisione destabilizzerà anche i bilanci di molte grandi organizzazioni e delle Nazioni Unite.

In risposta a questa catastrofe, l’ex presidente keniota Uhuru Kenyatta ha invitato i paesi africani a vedere il blocco degli aiuti come un «campanello d’allarme» per investire maggiormente nelle proprie risorse. Ma per molte delle persone colpite, la prospettiva di un supporto interno è un lusso irraggiungibile.

Le dichiarazioni di Musk, che ha definito Usaid una “organizzazione criminale” e ha espresso il desiderio che “muoia”, riflettono una visione cinica che ignora la dipendenza di milioni di persone da questi programmi. La chiusura di Usaid non è solo un attacco alle organizzazioni umanitarie, ma un colpo mortale a chi non ha altra rete di sicurezza.

La situazione è aggravata dalla confusione creata dai tentativi del governo Usa di mitigare l’impatto del blocco con esenzioni per progetti “salvavita”, senza definire chiaramente quali programmi rientrino in questa categoria. La domanda resta sospesa: cosa è davvero salvavita Un vaccino? Un pasto per un bambino malnutrito?

La chiusura di Usaid ha dimostrato quanto fragile sia il sistema degli aiuti internazionali quando dipende da decisioni politiche arbitrarie. E mentre i magazzini si riempiono di scorte inutilizzate e le cliniche chiudono le porte, il prezzo di questa scelta lo pagano i più vulnerabili: donne, bambini e comunità intere lasciate senza speranza. Forse sono loro i veri nemici del duo Trump-Musk. 

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Separare le carriere dei magistrati, così il governo può dettare legge

Separare le carriere dei magistrati: un mantra ricorrente nella politica italiana, oggi ripreso con vigore dal governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Il disegno di legge, approvato alla Camera il 16 gennaio e in rapida ascesa verso il Senato, si propone di distinguere in modo netto le funzioni giudicanti da quelle requirenti. Ma cosa comporta davvero questa riforma E soprattutto, cosa accade nei Paesi che già adottano questo sistema

Dove la separazione c’è, il controllo politico è una costante

Secondo un’analisi di Pagella Politica, in quasi tutti i Paesi dove esiste la separazione delle carriere, il controllo politico sulla magistratura è una costante. In Francia, per esempio, i pubblici ministeri dipendono gerarchicamente dal ministro della Giustizia, che può trasferirli a sua discrezione. La magistratura giudicante gode invece dell’inamovibilità. Il Conseil supérieur de la magistrature è diviso in due formazioni distinte per giudici e Pm, ma la supervisione politica rimane forte.

In Germania, la separazione è ancora più marcata. I pubblici ministeri sono funzionari del governo, soggetti alle direttive del Procuratore generale e del ministro della Giustizia. La nomina dei giudici, in molti Länder, coinvolge rappresentanti politici e in alcuni casi è affidata esclusivamente al ministro della Giustizia. Anche qui, l’influenza politica è evidente.

La Spagna segue un modello simile: il Procuratore generale dello Stato, che dirige i pubblici ministeri, è nominato dal Re su proposta del governo. In Inghilterra e Galles, il Crown prosecutor dipende dal Director of public prosecutions, a sua volta nominato dal governo e sotto la supervisione dell’Attorney general, responsabile dinanzi al Parlamento.

Negli Stati Uniti, il controllo politico è ancora più diretto. I district attorney possono essere eletti dai cittadini o nominati da autorità politiche, come il governatore dello Stato. A livello federale, gli United States Attorney sono nominati dal Presidente e dipendono dal Dipartimento di Giustizia.

Il caso italiano: tra autonomia e nuovi rischi

L’Italia, con il suo sistema attuale, mantiene un unico Consiglio superiore della magistratura (Csm), che garantisce l’autonomia dei magistrati. La riforma proposta, tuttavia, prevede la creazione di due Csm separati e un’Alta Corte disciplinare. I critici temono che queste modifiche possano aprire la strada a un’influenza politica più forte, riducendo l’indipendenza della magistratura.

Giuseppe Santalucia, presidente uscente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), ha espresso chiaramente questa preoccupazione: «Questa riforma è la strada verso un’azione penale influenzata dal potere politico». Le proteste della magistratura non si sono fatte attendere: il 25 gennaio molti magistrati hanno abbandonato le aule delle Corti di Appello in segno di protesta, e un primo sciopero nazionale è stato indetto per il 27 febbraio.

Nonostante il referendum del 2022, che vide il 70% dei votanti favorevoli alla separazione delle carriere, l’affluenza insufficiente ha reso nullo il risultato. Oggi il governo ripropone la riforma con rinnovato vigore, ma il rischio di un controllo politico sulla magistratura, come dimostrano gli esempi internazionali, resta un nodo cruciale.

L’analisi di Pagella Politica offre uno spunto chiaro: la separazione delle carriere, lungi dal garantire una maggiore terzietà, può facilmente diventare un grimaldello per l’ingerenza politica. E in un Paese con la storia dell’Italia, dove la magistratura ha già dovuto difendere la propria indipendenza in momenti cruciali come quello che stiamo attraversando, è più che lecito chiedersi se questa sia davvero la strada giusta. 

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Trump vuole cancellare Gaza e i palestinesi, ma nemmeno lui ci riuscirà

Donald Trump ha annunciato l’intenzione di prendere il controllo della Striscia di Gaza, espellere l’intera popolazione palestinese e trasformare l’area in una “Riviera del Medio Oriente”. Non serve una grande analisi per capire di cosa si stia parlando: pulizia etnica su vasta scala, in purezza. 

Trump, mai timido nel suo revisionismo imperiale, porta questa volta l’arroganza a livelli inediti. L’espulsione forzata di circa due milioni di palestinesi è vietata dal diritto internazionale, in particolare dalla quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce i trasferimenti coatti di popolazioni civili. Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di un crimine di guerra, il cui solo annuncio dovrebbe risuonare come un allarme globale.

Un crimine di guerra travestito da progetto economico

Dal punto di vista operativo, il piano è una distopia logistica. Sarebbe necessaria una presenza militare statunitense massiccia e permanente, in contraddizione con le stesse promesse elettorali di disimpegno dal Medio Oriente. Il costo economico? Superiore a ogni precedente impegno, ben oltre i 40 miliardi di dollari annui che gli Stati Uniti destinano oggi alla cooperazione internazionale, una spesa che Trump stesso ha definito eccessiva.

La reazione dei paesi limitrofi non si è fatta attendere. Egitto e Giordania, già sotto pressione per la gestione di milioni di rifugiati palestinesi, hanno rigettato con fermezza l’idea di accogliere nuovi sfollati. Un rifiuto che, nella visione di Trump, sembra più un dettaglio negoziabile che un vincolo insormontabile. Le critiche internazionali non sono state meno severe: Halie Soifer del Jewish Democratic Council of America ha definito la proposta “completamente staccata dalla realtà”, mentre Andrew Miller, ex consigliere per il Medio Oriente, l’ha qualificata come “la più incomprensibile mai sentita da un presidente americano”.

Una distopia logistica destinata al fallimento

Al di là della legalità e della fattibilità, il piano rappresenta un’aggressione diretta alla memoria collettiva del popolo palestinese. Ripeterebbe il trauma della Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti all’esilio. L’occupazione americana di Gaza non sarebbe solo una violazione del diritto all’autodeterminazione, ma un atto di cancellazione identitaria.

Questa non è una proposta per la pace o la prosperità. È un progetto coloniale travestito da opportunità economica. La trasformazione di Gaza in “Gaz-a-Lago”, come ironizzato da David M. Friedman, ex ambasciatore di Trump in Israele, è la quintessenza dell’arroganza imperiale che pretende di rimpiazzare la storia di un popolo con il cemento dei resort.

Il piano di Trump si inserisce in una lunga tradizione di politiche che ignorano il diritto dei popoli all’autodeterminazione. La rimozione forzata di una popolazione non può essere giustificata da ambizioni economiche, per quanto lucrose possano sembrare. L’assenza di un piano concreto per la gestione del territorio post-espulsione è la prova definitiva dell’approssimazione e della superficialità con cui è stato concepito.

La proposta rivela anche una contraddizione insanabile nella politica estera statunitense. Dopo decenni di tentativi, spesso fallimentari, di mediazione e diplomazia, l’idea di una presa di controllo unilaterale rappresenta un ritorno a logiche coloniali che si speravano superate. Per questo la comunità internazionale non può permettere che simili azioni vengano considerate senza conseguenze.

Insomma, il piano di Trump per Gaza è una miscela tossica di ignoranza giuridica, insensatezza strategica e disprezzo per i diritti umani. Non solo è irrealizzabile, ma costituisce una minaccia diretta alla stabilità del Medio Oriente e ai principi fondamentali del diritto internazionale. Qualsiasi tentativo di attuarlo non farebbe che esacerbare una crisi già devastante, alimentando ulteriori conflitti e sofferenze umane. O forse è proprio questo che piace così tanto a Trump. 

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È Minniti a essere un caso di sicurezza nazionale

Pronunci la parola Libia, la scrivi nel più minimo articolo laterale, l’ascolti nel più laterale dibattito politico e sei sicuro che da lì a breve arriverà un’intervista solenne a Marco Minniti. L’ex ministro dell’Interno. L’ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni dal 2016 al 2018, sostenuto dal Partito democratico, da Alternativa popolare di Angelino Alfano sulle macerie del governo Renzi, è considerato un maestro del genere.

Così, sul mancato arresto del torturatore libico Almasri, ecco che Minniti si schiarisce la voce e spiega a Il Foglio che le opposizioni sbagliano ad attaccare il governo: «la questione è più generale. La Libia è strategica», spiega Minniti al Corriere della Sera con un’amichevole pacca alla retorica meloniana. «La sicurezza nazionale si gioca fuori dai confini nazionali», «la Libia è la base più avanzata dei trafficanti di esseri umani» ma soprattutto è energicamente «essenziale» e «l’Africa è il principale incubatore di terrorismo nazionale», detta Minniti. Meloni prende appunti, ha l’arringa già pronta.

Del resto fu proprio Minniti a firmare lo sciagurato memorandum Italia-Libia che da otto anni gocciola sangue di persone diventate prede dei sanguinari libici che ne fanno carne da macello, lautamente pagati dal governo italiano. Fu Minniti a trasformare le persone migranti in armi non convenzionali sacrificabili sull’altare di qualche bonifico internazionale.

«Lo Stato non è una ong. Dobbiamo abituarci alla guerra del bene contro il bene», spiega Minniti. Forse la vera questione di sicurezza nazionale è Minniti e noi ce lo siamo dimenticati troppo in fretta.

Buon mercoledì.

 

Al centro della foto Marco Minniti alla Leopolda scatto di Di Francesco Pierantoni – https://www.flickr.com/photos/tukulti/15009260743/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=83259655

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Lo smog soffoca le città italiane: oltre 70 sforano i parametri di legge

Il nuovo report di Legambiente, “Mal’Aria di città 2025“, è un bilancio impietoso della qualità dell’aria nelle nostre città, che si confermano ben lontane dagli standard europei che entreranno in vigore nel 2030. Nonostante l’obiettivo sia chiaro e il tempo limitato, l’inquinamento atmosferico continua a essere una piaga strutturale che minaccia la salute pubblica e l’ambiente.

L’Italia fuorilegge: lo smog soffoca le città e le speranze

Nel 2024, su 98 capoluoghi di provincia analizzati, ben 25 hanno superato i limiti di legge per il PM10, che consentono un massimo di 35 giorni all’anno con valori superiori a 50 µg/mc. In cima alla lista nera troviamo Frosinone e Milano, entrambe con 68 giorni di sforamento. Verona segue da vicino con 66 giorni, mentre Vicenza, Padova e Venezia non sono da meno, con valori che oscillano tra i 61 e i 64 sforamenti annui.

Se questi dati sono già allarmanti, il futuro si preannuncia ancora più critico. Dal 2030, il nuovo limite europeo per il PM10 sarà fissato a 20 µg/mc, una soglia che, allo stato attuale, solo 28 città su 98 riuscirebbero a rispettare. Questo significa che 70 città italiane sarebbero fuorilegge, con riduzioni necessarie delle concentrazioni che vanno dal 28% al 39% in centri urbani come Verona, Cremona, Padova, Catania, Milano, Vicenza, Rovigo e Palermo.

Anche per il biossido di azoto (NO2) la situazione non è migliore. Attualmente, il 45% dei capoluoghi italiani non rispetta i nuovi limiti di 20 µg/mc previsti per il 2030. Le città più critiche includono Napoli, Palermo, Milano e Como, dove sarebbe necessaria una riduzione delle concentrazioni tra il 40% e il 50%.

Secondo Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, la riduzione dell’inquinamento atmosferico procede a rilento, con troppe città ancora lontane dagli obiettivi. Le conseguenze non si limitano all’ambiente, ma coinvolgono anche la salute pubblica e l’economia. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono impietosi: il 97% delle città italiane supera i limiti raccomandati per il PM10 e il 95% quelli per l’NO2, con circa 50.000 morti premature all’anno solo in Italia.

Politiche ferme, aria avvelenata: la corsa contro il tempo

Legambiente sottolinea l’urgenza di politiche strutturali che incidano su tutti i settori responsabili dell’inquinamento. Occorre ripensare la mobilità urbana potenziando il trasporto pubblico locale con mezzi elettrici, creando reti di aree pedonali e percorsi ciclopedonali, introducendo Low Emission Zones e politiche come Città30, già sperimentata con successo a Bologna, Olbia e Treviso. Allo stesso tempo, è necessario accelerare la riconversione degli impianti di riscaldamento, mappando e abbandonando progressivamente le caldaie a gasolio, carbone e metano in favore di pompe di calore con gas refrigeranti naturali. Nel settore agrozootecnico, è fondamentale ridurre gli allevamenti intensivi nel bacino padano e implementare pratiche come la copertura delle vasche e il controllo degli spandimenti per ridurre le emissioni di metano e ammoniaca. Inoltre, è cruciale integrare le politiche su clima, energia e qualità dell’aria, considerando il ruolo del metano nella formazione dell’ozono troposferico e adottando misure per ridurne l’impatto.

Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente, avverte che con soli cinque anni davanti a noi per adeguarci ai nuovi limiti europei, dobbiamo accelerare drasticamente il passo. È una corsa contro il tempo che deve partire dalle città ma richiede il coinvolgimento di regioni e governo. Le misure da adottare sono chiare e le tecnologie pronte, quello che manca è il coraggio di fare scelte incisive per la salute dei cittadini e la vivibilità delle nostre città.

La campagna itinerante Città2030, lanciata a Milano il 4 febbraio, sarà un banco di prova per misurare il grado di preparazione delle città italiane e promuovere una mobilità più sostenibile ed efficiente. Il percorso della campagna si concluderà il 18 marzo, ma la vera sfida è appena iniziata.

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Trump e Netanyahu. Due facce, stessa medaglia

Dunque Trump ci spiega che l’Unrwa, l’agenzia ONU che supporta i profughi palestinesi in Medio Oriente, “ha perso il suo status di organizzazione umanitaria indipendente ed è diventata un’organizzazione terroristica controllata da Hamas”. Ci fa sapere anche di essere d’accordo con chi crede che il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani promuoverebbe l’antisemitismo.

Sono le stesse idee che il carnefice Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, propaga da mesi per tentare di giustificare il disastro umanitario a Gaza. Opinioni personali che vengono smentite ogni giorno a livello internazionale ma che hanno molta fortuna tra i tifosi della macellazione del popolo palestinese.

Lo pensava Netanyahu e lo pensa anche Trump. In fondo se ci pensate bene è un ricongiungimento che ci aiuta a chiarire molte cose. Netanyahu e Trump sono gemelli su molti aspetti: se ne fottono entrambi della comunità internazionale, hanno entrambi una visione imperialista del proprio ruolo, vivono entrambi sulla retorica dei nemici veri e immaginari. Entrambi credono che la realtà si possa nascondere sotto il tappeto di una presunta supremazia religiosa, di razza e di identità.

Non è un caso che gli elettori dell’uno e dell’altro si assomiglino per suprematismo e per mire espansionistiche: schiacciare gli avversari è l’unico metodo di governo che gli viene facile. Immagino però l’imbarazzo dei cosiddetti progressisti che supportano il governo israeliano e il suo capo: da ieri sanno di essere a braccetto con gli elettori di Trump che hanno schifato fino a qualche ora prima. Non deve essere una bella sensazione per loro. Però è la giusta conclusione della parabola.

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Toh, Trump piace a Putin

Ieri è successo. «Trump, con il suo carattere e la sua determinazione, riporterà l’ordine molto rapidamente. Presto tutti si inchineranno e lo seguiranno senza esitazione», ha detto ieri Vladimir Putin al giornalista Pavel Zarubin. E in un secondo gli autocrati si allineano sulla mappa del mondo.

Il presidente Usa piace parecchio al presidente russo. Hanno del resto le stesse radici culturali: la violenza di comando come metodo, la natura predatoria, il fastidio per le minoranze, l’imperialismo come aspirazione. Putin invade per esistere e Trump promette invasioni per piacere ai suoi elettori. Putin mostrifica gli avversari per farne dei nemici, Trump pure. Per ora la differenza sta nel modo di fare la guerra: uno con le bombe l’altro con le deportazioni, i dazi, l’esclusione sociale.

Sarà interessante – ma tragico – l’imbarazzo intorno. Il ministro delle Finanze Giorgetti che in Europa siede con i Patrioti che vorrebbero distruggerla e in Italia chiede all’Europa di difendere l’Italia dai dazi Usa è un tilt esemplare. Se ti piacciono gli antidemocratici e poi rivendichi la democrazia rimani incastrato nella propaganda.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni spiega che «Trump è un negoziatore» e quindi «non bisogna attaccare». Avrebbe voluto essere la mediatrice e ora si arrabatta per salvare il prosecco ai danni dello champagne. I dazi del suo amico Trump costerebbero all’Italia tra i 4 e i 10 miliardi.

La “pace in Ucraina” sta diventando un ricatto con cui The Donald vuole arraffarsi le terre rare. Un capolavoro insomma.

Buon martedì.

In foto Trump e Putin al G20 2017 foto di Kremlin.ru, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=60731524

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