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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Residenze per anziani, la Cassazione azzera le rette per l’Alzheimer

Dopo anni di decreti ingiuntivi, appelli e sentenze, la Corte di Cassazione ha stabilito che per le persone affette da Alzheimer le rette delle Rsa devono essere interamente a carico del Servizio sanitario nazionale. La pronuncia, accolta come una liberazione da oltre un milione di famiglie, apre però una faglia che rischia di far sprofondare il sistema sociosanitario in una guerra fra poveri e fra territori. Perché quando non è lo Stato a decidere, lo fa la giurisprudenza. Ma la giustizia non sempre è giusta, se si limita a fotografare chi può permettersi di far valere i propri diritti in tribunale.

Il punto, come chiarisce Eleonora Trentini in un’analisi chirurgica su lavoce.info, è che l’attuale sistema si regge su un equilibrio ipocrita: le regioni garantiscono il 50 per cento della spesa per le Rsa, il resto è sulle spalle delle famiglie. Un compromesso che diventa ricatto quando la non autosufficienza non è una scelta, ma una condizione permanente.

Dove finisce il diritto e inizia la sentenza

Il problema è che le Rsa non sono tutte uguali. E nemmeno i malati. Le sentenze favorevoli a chi è affetto da Alzheimer si fondano sull’idea che la malattia richieda cure sanitarie continue e prevalenti, dunque totalmente a carico dello Stato. Ma le stesse Rsa, nella loro composizione del personale, raccontano un’altra storia: meno del 25 per cento degli operatori ha un profilo sanitario, il grosso del lavoro grava su Oss e figure assistenziali malpagate e spesso insufficienti. Le stime più aggiornate parlano di un rapporto personale/ospiti pari a quello delle carceri italiane, con punte anche peggiori.

Nel frattempo, la politica non decide. La riforma prevista dal Pnrr è rimasta senza risorse. E i Lea – i livelli essenziali di assistenza – fissano regole che ignorano completamente l’evoluzione epidemiologica e demografica del Paese. Il Fondo per la non autosufficienza esclude la residenzialità. I Lep, i livelli essenziali delle prestazioni sociali, nemmeno la nominano. E i comuni, lasciati soli, alzano le soglie Isee per limitare i pochi contributi disponibili, alimentando così una selezione al contrario: accede solo chi è già scivolato nella miseria, mentre chi non può permettersi una Rsa e non è abbastanza povero da ottenere aiuti resta a casa, a carico della famiglia.

Ma il paradosso più feroce è un altro: mentre si prova a costruire un modello che faccia della casa il primo luogo di cura, le sentenze creano l’incentivo opposto. Se finisci in Rsa hai diritto alla copertura completa, se resti a casa ti arrangi. Così si favorisce l’istituzionalizzazione, invece che supportare le cure domiciliari.

Eppure i dati parlano chiaro. Secondo Antonio Guaita, , medico geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci, oltre il 39 per cento degli ospiti in Rsa soffre di demenza, ma in meno del 20 per cento delle strutture esistono nuclei specializzati. La disabilità non è immobile: si muove, spesso in modo imprevedibile, e chiede sorveglianza continua. I bisogni sanitari crescono, ma il personale non basta. Il rapporto medio in Italia è di 0,2 infermieri ogni 100 anziani: in Olanda sono 1,5, in Svizzera 3.

La disuguaglianza è una scelta istituzionale

Così il sistema si spacca in due: chi ha avuto la forza e le risorse per andare in tribunale – spesso eredi di persone decedute – ottiene il rimborso delle rette; chi è vivo e non può pagare resta fuori. In un Paese in cui la sanità pubblica è a geometria variabile e la disuguaglianza è diventata criterio di selezione, anche invecchiare è un privilegio.

Serve una legge. Serve una riforma vera. Serve il coraggio di dire chi deve pagare il conto. Ma soprattutto serve un’idea: che la cura non può essere una fortuna, né una sentenza favorevole. Deve essere un diritto. E i diritti si garantiscono con risorse, regole chiare e responsabilità pubblica. Non con l’arbitrarietà dei tribunali.

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Strumentalizzare Falcone, una bestemmia civile

C’è un confine tra la propaganda e la bestemmia civile. Forza Italia lo ha superato il 23 marzo 2025, al Politeama Garibaldi di Palermo, usando la voce di Giovanni Falcone come sottofondo al proprio convegno sulla giustizia. Un partito fondato da un pregiudicato, costruito da un condannato per concorso esterno, che si prende il lusso di evocare Falcone nel salotto dove si riabilita D’Alì e si cita Mangano come “eroe”.

Falcone parlava di codice penale, di riforme, di impegno. Parlava da magistrato che conosceva il peso delle parole. Ma chi lo cita oggi lo fa per spingere una riforma – la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri – che lo stesso Falcone temeva. In Cose di Cosa Nostra, nel 1991, spiegava che una tale separazione avrebbe indebolito la lotta alla mafia, spezzando l’unità della magistratura e rendendo più vulnerabile il lavoro delle procure alle pressioni esterne.

E mentre Forza Italia si commuove davanti alle sue frasi, ignora il proprio archivio giudiziario: Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa; Antonio D’Alì, 6 anni, stessa imputazione; Amedeo Matacena, 3 anni per contiguità con la ’ndrangheta; Nicola Cosentino, 10 anni per concorso esterno con il clan dei Casalesi; Giancarlo Pittelli, 11 anni in primo grado per aver operato a favore della ’ndrangheta; Salvatore Ferrigno, 10 anni in primo grado per voto di scambio politico-mafioso.

Falcone non appartiene a un partito. Non può essere brandizzato. Non può essere usato come copertura da chi ha contribuito, anche solo per affinità, a rendere questo Paese meno giusto. Bisogna ricordarsi di ricordare, anche quando non conviene. 

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Meglio disarmati che indebitati, i dubbi di Francia, Italia e Spagna

Italia, Francia e Spagna hanno appena scoperto l’acqua calda: le armi costano. E se te le compri a debito, il conto arriva con gli interessi — e con il giudizio dei mercati. Dopo mesi di retorica sulla necessità di “difendere l’Europa”, ora le capitali del Sud mettono il freno. Non per una questione etica, ma per pura contabilità.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha messo sul tavolo un piano da 150 miliardi in prestiti per rilanciare la difesa dell’Unione. Obiettivo: liberarsi dalla dipendenza dagli Stati Uniti e armarsi fino ai denti. Il meccanismo è semplice: si allenta temporaneamente il Patto di stabilità, gli Stati membri si indebitano, la Commissione li accompagna con denaro a basso interesse, e l’industria bellica brinda.

Un piano da falchi, in una stagione da colombe

Peccato che per Italia, Francia e Spagna, già alle prese con debiti pubblici gonfi come palloni, il piano sia un cappio. Perché quei prestiti — per quanto agevolati — finiscono comunque nel conto nazionale. E Bruxelles è chiara: se aumenti la spesa militare, dovrai tagliare da qualche altra parte. Magari dagli ospedali, dalla scuola, dai trasporti. Auguri a trovare una maggioranza che voti questo.

Meloni è stata esplicita: “Il piano di von der Leyen si basa quasi esclusivamente sul debito degli Stati”. E ha chiesto tempo. Non perché sia contraria al riarmo, ma perché non può permetterselo. Né lei né Sánchez, né tantomeno Macron, che con un debito/PIL sopra il 110% teme di far scappare gli investitori e di peggiorare il suo rating.

Il paradosso è che proprio i Paesi che più dovrebbero aumentare la spesa per raggiungere il 2% del PIL in difesa (l’obiettivo Nato) sono quelli che meno possono permetterselo. E mentre Berlino si prepara a sforare in grande stile per finanziare un pacchetto da 500 miliardi, nel Sud si gioca la partita dell’ambiguità: chiedono che nella “difesa” vengano incluse anche le spese per i confini, la cybersecurity, la resilienza infrastrutturale. Tutto pur di far quadrare i conti senza dirlo apertamente.

A Bruxelles si gioca a poker. Il Nord — Germania, Paesi Bassi, Danimarca — vuole che chi chiede solidarietà dimostri per primo di crederci, indebitandosi. “Se dicono che la difesa è una sfida esistenziale, allora che prendano i prestiti”, dicono i falchi del rigore. Ma i governi mediterranei preferiscono una partita diversa: i “defense bonds”, titoli emessi dall’Ue e garantiti da tutti, come fu per il Next Generation EU. Ovvero: mutualizzare il rischio, socializzare il costo. Ma il “no” di Amsterdam è già scolpito nella pietra: “Niente Eurobond”, ha ribadito il premier Schoof.

Il riarmo europeo si ferma davanti allo spread

Von der Leyen è in mezzo. Incalzata da Trump che minaccia di abbandonare Kiev, e frenata dai governi più fragili. Ha corso troppo, forse. Ha creduto che la retorica bellica potesse fare da leva per superare il tabù del debito. Ma le contabilità nazionali non si piegano agli slogan. E quando la guerra diventa un business, il conto lo paga sempre chi ha meno margine.

Per ora il piano è impantanato. Italia e Spagna prendono tempo, Macron guarda i mercati. Il rischio è duplice: non solo il riarmo europeo rallenta, ma l’idea stessa di una difesa comune si arena. Perché senza un’unione fiscale, ogni euro in più speso in armi può diventare un boomerang elettorale.

Nella Ue a 27, dove la difesa è ancora materia da sovranità, il vero campo di battaglia è il bilancio. E la guerra, anche quando è lontana, pesa sul debito. Ma su quello, nessuno è disposto a morire.

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Come una gita alcolica fuori porta

Come un gruppo di amici che pianificano una gita alcolica fuori porta, il capo del Pentagono Hegseth, il consigliere per la sicurezza nazionale Waltz, la direttrice dell’intelligence nazionale Gabbard e il vicepresidente Usa J. D. Vance hanno allegramente pianificato un attacco di guerra in una chat privata, in cui è stato invitato per errore anche il direttore di The Atlantic, Jeffrey Goldberg.

Il giornalista ha fatto il giornalista e ha raccontato al mondo come la classe dirigente del governo Trump abbia deciso i raid Usa contro gli Houthi, bombardando lo Yemen.
In quella stessa chat il vicepresidente J. D. Vance e il segretario alla Difesa Pete Hegseth hanno parlato di “odio” e “disgusto” verso l’Europa. Donald Trump ieri ha rincarato la dose: “Penso che gli europei siano dei parassiti”.

“Odio soltanto – aveva scritto Vance – dover salvare di nuovo l’Europa”. “Condivido il tuo disgusto per l’Europa che se ne approfitta gratis – aveva risposto Hegseth – è patetico. Ma Mike ha ragione, siamo gli unici al mondo che possono farlo. La questione è il tempismo”.
Essere “anti” qualcosa è la cifra stilistica della politica quando si riduce a spettacolo e narrazione. Come da noi l’anti-antifascismo è il verbo per la maggioranza, nel trumpismo l’antieuropeismo è la caratteristica fondante della messa in scena.

In Parlamento qualcuno aveva chiesto a Giorgia Meloni dove stesse tra l’Europa e gli Usa. Furbescamente la presidente del Consiglio rispose che stava “con l’Italia”. Le si potrebbe riproporre la domanda: dove sta l’Italia tra questi Usa che ci vedono come parassiti e l’Ue?

Buon mercoledì.

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Meloni e la geopolitica delle favole

Giorgia Meloni ha una capacità sorprendente: con una frase riesce a condensare tutta la sua visione del mondo. «Se andassimo a verificare, ci accorgeremmo che le competenze della Commissione europea sono maggiori di quelle del presidente degli Stati Uniti», ha dichiarato in Senato. Non era una provocazione, non un tentativo di ironia. Era proprio la sua idea.

Pagella Politica ha smontato l’affermazione con un’analisi dettagliata: gli Stati Uniti sono uno Stato federale, l’Unione europea una confederazione. Il presidente Usa ha poteri esecutivi che vanno dalla politica estera alla difesa, dalle nomine ai trattati. La Commissione europea, invece, ha competenze delegate dai governi nazionali, limitate dai trattati e condivise con Parlamento e Consiglio. Paragonare i due ruoli non ha senso.

Eppure, per Meloni, funziona. Perché nel suo mondo la realtà non è un dato oggettivo ma una costruzione ideologica. Il fine non è comprendere il funzionamento dell’Ue o degli Usa, ma demolire la prima per alimentare l’illusione di una sovranità nazionale che non esiste più. Così la Commissione europea diventa un mostro centralista e il presidente Usa un innocuo burocrate. Un capolavoro di propaganda.

Il problema è che questa narrazione ha conseguenze reali. Se chi governa un Paese ha un’idea distorta delle istituzioni internazionali, finirà per prendere decisioni altrettanto distorte. Ed è esattamente quello che sta accadendo: un’Italia isolata, incapace di incidere nelle dinamiche globali, mentre Meloni racconta agli elettori una fiaba in cui l’Ue è il male e gli Stati nazionali sono la soluzione.

Governano con l’ignoranza, ecco perché non sopportano cultura e scuola. 

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Salari da fame e stress, infermieri in fuga dalla Sanità pubblica

C’è un vuoto che si allarga nel Servizio Sanitario Nazionale, ed è quello lasciato dagli infermieri. Ogni anno l’Italia ne perde oltre diecimila, un’emorragia silenziosa che erode le fondamenta della sanità pubblica. Lo certifica il nuovo report della Fondazione GIMBE, che fotografa una crisi strutturale aggravata da salari inadeguati, carichi di lavoro insostenibili e una programmazione miope.

Nel 2022, il nostro paese contava 5,13 infermieri ogni 1.000 abitanti, con un divario allarmante tra Nord e Sud: dai 7,01 della Liguria ai 3,83 della Campania. Il confronto internazionale è impietoso: la media OCSE è di 9,8 infermieri per 1.000 abitanti, quella dell’Unione europea di 9. Noi ci fermiamo a 6,5, meglio solo di Spagna, Polonia, Ungheria, Lettonia e Grecia. Il rapporto infermieri/medici è altrettanto sbilanciato: 1,5 contro la media OCSE di 2,7. Il risultato? Turni massacranti, reparti con organici ridotti all’osso e un sistema sempre più vicino al punto di rottura.

Un mestiere sempre meno attrattivo

La professione infermieristica sta diventando sempre meno appetibile. Dal 2019 a oggi, oltre 42.000 infermieri si sono cancellati dall’albo, di cui più di 10.000 nel solo 2024. Il trend è chiaro: chi può, lascia. Si va all’estero, si abbandona la professione o si cerca una via d’uscita nel privato. Il problema non è solo numerico, ma generazionale: nel SSN, uno su quattro ha più di 55 anni e andrà in pensione nei prossimi anni, mentre il numero di laureati è drammaticamente insufficiente per garantire il ricambio. Nel 2022, l’Italia ha formato solo 16,4 infermieri ogni 100.000 abitanti, contro una media OCSE di 44,9. Un disastro annunciato.

Salari da fame e condizioni di lavoro insostenibili

Gli infermieri italiani sono tra i meno pagati d’Europa: nel 2022, il loro stipendio annuo medio era di 48.931 dollari a parità di potere d’acquisto, ben 9.463 dollari in meno della media OCSE. Il problema non è solo il confronto internazionale, ma il declino progressivo: tra il 2001 e il 2019, i salari degli infermieri italiani sono diminuiti dell’1,52%, mentre le responsabilità e i carichi di lavoro sono aumentati.

Chi resta in corsia si trova a gestire situazioni sempre più critiche, tra turni estenuanti e reparti in cronica carenza di personale. E il PNRR, che prometteva una rivoluzione nella sanità territoriale, rischia di essere vanificato proprio dalla mancanza di infermieri: servirebbero almeno 20.000-27.000 professionisti per attuare la riforma dell’assistenza territoriale, ma senza interventi immediati questi numeri resteranno sulla carta.

La sanità pubblica sotto scacco

Non è solo una questione di stipendi. La professione infermieristica in Italia è penalizzata da una scarsa valorizzazione, da limitate prospettive di carriera e da un’organizzazione del lavoro che lascia poco spazio alla crescita professionale. A questo si aggiunge il rischio di aggressioni, fisiche e verbali, ormai un fenomeno strutturale nei pronto soccorso e nei reparti ospedalieri.

Serve un piano straordinario per evitare il tracollo. La Fondazione GIMBE propone una strategia articolata: aumenti salariali, incentivi per chi sceglie di restare nel SSN, misure di welfare per ridurre i costi della vita nelle città più care, investimenti sulla sicurezza e sulla digitalizzazione, per rendere più efficiente l’organizzazione del lavoro. Senza un intervento deciso, la sanità pubblica rischia di sgretolarsi, lasciando il paese senza un pilastro fondamentale dell’assistenza sanitaria.

Ogni infermiere che lascia il SSN porta via con sé competenze, esperienza e capacità di cura. Senza di loro, non c’è sanità pubblica che possa reggere.

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Sfasciare per comandare, le picconate di Salvini per preparare il Congresso

Matteo Salvini si muove come sempre: una strategia fatta di picconate quotidiane, messaggi in codice ai suoi e avvertimenti agli alleati. Questa volta, nel mirino c’è il governo stesso. Non per farlo cadere, ma per logorarlo abbastanza da restare il padrone della scena. Non è una novità: il leader della Lega ha costruito la sua carriera sulla demolizione sistematica di tutto ciò che lo circonda, M5S compreso ai tempi del Papeete. Ora tocca a Giorgia Meloni e, in seconda battuta, a Forza Italia di Antonio Tajani. L’obiettivo? Restituire alla Lega quel ruolo da protagonista che il successo di Fratelli d’Italia le ha strappato.

Occupy Bruxelles, ma anche Roma

La parola d’ordine di Salvini è “Occupy Bruxelles”, lo slogan scelto per galvanizzare la base leghista in vista delle elezioni europee. Ma la vera occupazione è interna: quella del governo e del partito. Con il congresso della Lega alle porte e una rielezione scontata, il leader leghista punta a blindare la sua posizione. Per farlo, si affida ai fedelissimi: Claudio Durigon, Armando Siri, Alberto Bagnai e Claudio Borghi. Sono loro a dettare la nuova linea: rilancio dei temi storici della Lega, attacco alla Commissione europea, protezione delle pensioni e rottamazione delle cartelle fiscali. Un’agenda che suona più da campagna elettorale che da governo.

L’ultima provocazione viene da Durigon, che ha pubblicamente dichiarato che Tajani si trova in una posizione “difficile” per la sua vicinanza alla Commissione europea e che dovrebbe “farsi aiutare” dalla Lega. Tajani ha risposto con un’alzata di spalle e un attacco ai “populisti quaquaraquà”. Ma il segnale è chiaro: Salvini sta cercando di erodere Forza Italia dall’interno.

L’ombra del trumpismo e la sfida a Meloni

Salvini sente che è il suo momento. Il vento trumpiano, i successi della destra radicale in Europa – dal Rassemblement National in Francia ad AfD in Germania – lo convincono che è ora di battere cassa. Non a caso, ha intensificato i rapporti con gli Usa, elogiando il vice di Trump, J.D. Vance, e cercando di accreditarsi come il vero interlocutore americano in Italia. Giorgia Meloni, che ha sempre cercato di mantenere un profilo istituzionale, non può ignorarlo. Dopo essersi sfogata con Giancarlo Giorgetti, ha scelto il silenzio. Ma non per molto.

Intanto, Salvini continua la sua battaglia di logoramento. Si riappropria dei temi identitari della Lega, attacca il piano di riarmo europeo, difende Israele a spada tratta e torna a martellare sulla sicurezza e sull’immigrazione. La mossa successiva potrebbe essere il ritorno al Viminale, una possibilità che aleggia in caso di candidatura di Matteo Piantedosi alle elezioni regionali in Campania. Un passo che rimetterebbe Salvini al centro dell’azione di governo e darebbe alla Lega un ruolo strategico.

La resa dei conti nel partito

Se Meloni osserva e aspetta, dentro la Lega c’è chi ha già perso la partita. I governatori del Nord – Luca Zaia, Attilio Fontana e Massimiliano Fedriga – non hanno osato sfidare Salvini al congresso. Lo stesso vale per i capigruppo Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari. Troppe parole e pochi fatti. Salvini, dal canto suo, li ha sfidati apertamente: “Se non siete d’accordo, candidatevi”. Nessuno lo ha fatto. Un fallimento che li renderà irrilevanti a lungo.

Per suggellare la vittoria, Salvini potrebbe giocare un’ultima carta: nominare vice segretario Roberto Vannacci, il generale divenuto simbolo dell’ultradestra sovranista. Non è ancora iscritto alla Lega, ma potrebbe diventarlo in tempo per il congresso. Una mossa che manderebbe un messaggio chiaro: la Lega è sempre più radicale, sempre più salviniana.

Salvini contro tutti, ancora una volta

La storia si ripete. Salvini ha sempre giocato così: destabilizzare per restare in sella. Ma questa volta la partita è più rischiosa. Meloni non è Giuseppe Conte, non ha intenzione di farsi logorare senza reagire. Tajani, pur debole, ha ancora un partito e un ruolo chiave nel governo. E il vento che soffia dalla Casa Bianca potrebbe cambiare direzione. Salvini ha scelto la strategia del piccone. Resta da vedere se finirà per colpire gli altri o se stesso.

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Hollywood applaude, Israele arresta: la replica di No Other Land è dal vivo

Nel giro di tre settimane, dal palco dorato degli Academy Awards a Los Angeles al perdere sangue fuori dalla porta di casa.

Uno dei quattro registi premiati con l’Oscar per il documentario No Other Land, il palestinese Hamdan Ballal, 33 anni, è stato linciato dai coloni israeliani a Susyia, uno dei 19 villaggi che compongono il circondario di Masafer Yatta, nei territori occupati della Cisgiordania, dove da vent’anni Israele strappa pezzi di terra con la violenza.

L’abitazione di Ballal, secondo le testimonianze, è stata attaccata da una ventina di coloni con il volto coperto e armati, che hanno iniziato a lanciare sassi e poi hanno pestato gli abitanti. Erano presenti anche i militari dell’Idf, l’esercito israeliano, che hanno aiutato i violenti sparando in aria e illuminando gli obiettivi. Dopo essere stato massacrato di botte, Ballal è stato arrestato. Nessuno dei suoi familiari sa dove sia detenuto. Con lui è stato arrestato Yuval Abraham, co-regista israeliano del documentario, e un minorenne, già rilasciato.

Il documentario No Other Land racconta la quotidianità dei 2.800 abitanti di questa zona, che da anni subiscono attacchi, incendi, violenze e devastazioni. Il pubblico degli Oscar si è inumidito gli occhi applaudendo la rappresentazione dell’oppressione. «Almeno il mondo non potrà dire che non sapeva quello che succede qui», dicevano gli abitanti dopo la premiazione.

E invece il mondo ha applaudito il film e poi ieri ha osservato la replica, dal vivo, con gli stessi protagonisti. Ma gli oppressi della commozione da sala buia non sanno che farsene, là fuori.

Buon martedì.

In foto, un frame del video di sorveglianza dell’abitazione di Ballal pubblicato su X dal giornalista israeliano Yuval Abraham che ha co-diretto e co-sceneggiato No Other Land

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Trump ribalta l’ordine mondiale, riparte la corsa alle armi nucleari

C’era un tempo in cui la proliferazione nucleare era considerata una minaccia da arginare con ogni mezzo. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, nemici giurati nella Guerra Fredda, almeno su questo erano d’accordo. Poi, la storia ha ripreso a girare al contrario. Oggi, il Financial Times lancia l’allarme: il riarmo nucleare non è più un tabù, ma una tendenza concreta.

L’articolo firmato da Charles Clover e colleghi mette a nudo la nuova corsa alle armi atomiche, alimentata dall’incertezza politica globale e dalle scelte di Washington. Il fenomeno ha un nome e un volto: Donald Trump. Il suo ritorno al centro della scena ha ridisegnato le paure degli alleati americani. Berlino, Varsavia, Seul e Tokyo scrutano il futuro con inquietudine: possono davvero fidarsi ancora della protezione statunitense?

Il Trattato di Non Proliferazione, baluardo della stabilità internazionale, è sempre più fragile. Ankit Panda del Carnegie Endowment parla chiaro: il consenso sul disarmo è a pezzi e gli alleati di Washington ora vedono l’arma atomica come una soluzione alla crescente imprevedibilità americana. Non è un’esagerazione: il rischio che il numero di stati dotati di arsenali nucleari passi dagli attuali nove ai quindici o venticinque, come temeva Kennedy negli anni Sessanta, non è più fantapolitica.

Dall’Europa all’Asia: la tentazione nucleare

In Germania, la questione è già entrata nel dibattito politico. Friedrich Merz, leader della CDU, ha ventilato l’ipotesi che Berlino possa condividere armi nucleari con Francia e Regno Unito. A dire il vero, la Germania ospita già venti bombe atomiche americane nella base di Büchel. Ma la paura di un ritiro dello scudo nucleare Usa sta portando alcuni analisti a proporre una strategia ancora più audace: mantenere una “latenza nucleare”, ovvero dotarsi della capacità di costruire un’arma atomica in tempi brevi, senza violare i trattati internazionali. Un’idea che per alcuni ricorda i fantasmi del passato.

Polonia e Corea del Sud stanno facendo un passo oltre. Donald Tusk, primo ministro polacco, ha apertamente evocato la possibilità di dotare il paese di armi atomiche. Il presidente Duda ha perfino suggerito di ospitare testate nucleari americane sul suolo polacco. Uno scenario che Mosca vedrebbe come un atto di guerra.

In Corea del Sud, il dibattito è ancora più serrato. Il programma nucleare di Pyongyang, rafforzato dalla crescente cooperazione con la Russia, sta spingendo Seul verso scelte impensabili fino a pochi anni fa. Il ministro degli Esteri Cho Tae-yul ha affermato che la Corea del Sud deve valutare ogni opzione, inclusa l’acquisizione di armi nucleari. Alcuni esperti sostengono che il paese potrebbe costruire un’arma atomica in meno di due anni.

E poi c’è il Giappone, il solo paese ad aver subito il bombardamento nucleare. Per decenni, Tokyo ha tenuto lontana ogni ipotesi di dotarsi di un arsenale atomico. Ma la realtà sta cambiando: il Giappone possiede già 8,6 tonnellate di plutonio, una quantità sufficiente a produrre migliaia di testate. E se il tabù nucleare crollasse?

Un futuro carico di incognite

Il risultato è semplice e devastante: più testate nucleari in giro per il mondo significano più probabilità che vengano usate. La corsa al riarmo è un gioco pericoloso che nessuno può davvero controllare. L’illusione della deterrenza si scontra con la realtà della storia: un incidente, un calcolo sbagliato, una provocazione possono accendere la miccia.

L’Occidente si sta rassegnando all’idea che la guerra atomica sia di nuovo una variabile del possibile. Un tempo si parlava di disarmo, oggi si discute di chi potrà permettersi la bomba e chi no. L’ultima illusione della sicurezza si sta sgretolando sotto il peso di una paura che si pensava superata.

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Dissenso vietato in Turchia con lo zampino di Musk

Elon Musk, il paladino autoproclamato della libertà di parola, ha deciso che il dissenso in Turchia merita di essere silenziato. X, la piattaforma che aveva promesso di essere un faro di libertà espressiva, ha sospeso diversi account di oppositori del regime di Recep Tayyip Erdoğan proprio nel momento in cui la repressione si intensifica.

Il pretesto? La solita narrazione della sicurezza nazionale. Dopo l’arresto di Ekrem İmamoğlu, principale rivale politico di Erdoğan, le proteste hanno invaso le piazze e le università turche. Gli account sospesi non erano altro che voci di attivisti che condividevano informazioni sui luoghi delle manifestazioni. Nessun contenuto violento, nessuna incitazione all’odio. Solo il diritto di informare e organizzarsi, quello che Musk diceva di voler difendere. Ma a quanto pare, la libertà di parola è un valore flessibile quando si tratta di proteggere il proprio business da un governo autoritario.

Già nel 2023, alla vigilia delle elezioni turche, X aveva accettato di limitare l’accesso a determinati contenuti per evitare di essere bloccato nel paese. La storia si ripete: meglio censurare che rischiare il blackout totale. E Musk, con la sua consueta spavalderia, giustifica il tutto come una scelta obbligata. Nel frattempo, il governo turco rafforza il controllo: arresti di massa, blocco dei social, accuse di incitamento all’odio per chiunque osi sfidare il potere. Musk, da buon libertario di convenienza, esegue senza battere ciglio. La sua piattaforma si piega alle richieste di Ankara. Non è libertà di espressione, è commercio. E in questo mercato, la verità è la prima merce sacrificabile.

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