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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La famiglia tradizionale in Rai e l’ossessione della destra per la cultura dominante – Lettera43

Il giornalista de L’Espresso Simone Alliva con mastodontica pazienza ha spulciato gli oltre 400 emendamenti piovuti sul nuovo contratto di servizio della Rai depositato in Vigilanza e ne ha trovato uno – pericolosamente curioso – firmato dai parlamentari di Forza Italia Roberto Rosso, Maurizio Gasparri, Rita Dalla Chiesa, Andrea Orsini. Si legge che la Rai dovrebbe impegnarsi, tra le altre cose, a dare «una rappresentazione positiva dei legami familiari secondo il modello di famiglia indicato dall’articolo 29 della Costituzione». Il modello di famiglia evocato tra le righe non è nient’altro che la cosiddetta “famiglia naturale” che Giorgia Meloni ormai da anni ci propina in ogni uscita pubblica immaginando un’istituzione messa in pericolo dal libertinaggio moderno, dagli omosessuali e dall’ideologia “gender” che nessuno della maggioranza è mai riuscito a spiegare cosa sia, ma che viene ossessivamente ripetuta come un mantra.

La famiglia tradizionale in Rai e l'ossessione della destra per la cultura dominante
Maurizio Gasparri (Imagoeconomica).

Definire il perimetro dei diritti per poterne escludere di nuovi

La “famiglia naturale e fondata sul matrimonio” sventolata dai prodi parlamentari è ovviamente usata nella sua natura escludente. Alla maggioranza non interessa dire concetti che già sappiamo e che sono incardinati nella storia del nostro Paese; a loro interessa rifiutare la modernità e definire il perimetro dei diritti per poterne escludere di nuovi, come hanno già ampiamente fatto con i figli della gestazione assistita che si sono ritrovati orfani per decreto o con le cosiddette “famiglie arcobaleno” ghettizzate nel cassetto dei respingenti contro natura che devono essere additati.

La televisione vista come mezzo principale della concimazione

L’emendamento però dice anche molto di più. Ci dice, per esempio, che come insegnò Silvio Berlusconi la televisione (soprattutto quella pubblica) viene vista come mezzo principale della concimazione di un comune sentire. Se “lo dice la televisione” che le famiglie buone sono quelle “naturali”, allora sarà vero. La pensano così al governo, ancorati alla credibilità della tivù come se non fossero passati questi ultimi 15 anni che hanno (con la collaborazione di partiti di tutti gli schieramenti) fracassato l’autorevolezza dei media. L’emendamento ci dice anche che la prima preoccupazione di questi che governano è quella di riuscire a instillare una cultura dominante, che è la loro vera ossessione, forse per un mai sopito complesso di inferiorità oppure perché la considerano una garanzia per preservare le proprie posizioni.

La famiglia tradizionale in Rai e l'ossessione della destra per la cultura dominante
Bruno Vespa durante una puntata dedicata a Silvio Berlusconi dopo la sua morte (Imagoeconomica).

Propaganda, guarda caso, come quella di Putin nel 2013

Come giustamente sottolinea Alliva, la proposta ha un’orribile consonanza con la legge che Vladimir Putin volle in Russia nel 2013, quando lo zar era ancora un mito per la presidente del Consiglio e per i suoi ministri. In quel caso Putin vietò la propaganda di qualsiasi forma di famiglia “non tradizionale”, non solo in televisione ma anche nelle produzioni cinematografiche e letterarie. In questo caso i parlamentari di Forza Italia devono avere pensato che i libri e i film siano arti troppo spicce per essere toccate. In effetti cominciare dalla televisione di Stato garantisce minori polemiche. L’importante è iniziare piano piano.

La famiglia tradizionale in Rai e l'ossessione della destra per la cultura dominante
La propaganda putiniana in tivù (Getty).

La vicinanza con i più retrogradi capi di governo in Europa

Si arriva così all’ultimo e più preoccupante lato della medaglia, cioè la vicinanza di Giorgia Meloni con i peggiori e più retrogradi capi di governo in Europa (e non solo). L’asse con Viktor Orban o con il premier polacco non è una gustosa scenetta da rilanciare sui social o, per gli avversari, da attaccare con il sorriso sulle labbra. Giorgia Meloni ha sempre ripetuto di ammirare quel tipo di politici per le loro politiche, per le loro scelte, per la durezza con cui circoscrivono i diritti. Non è una barzelletta. Meloni sa benissimo che non potrebbe da un giorno con l’altro imporre decisioni che solleverebbero una protesta popolare che finirebbe per travolgerla, ma sa benissimo anche che occorre un logorio lento e paziente che possa rendere potabile ciò che oggi apparirebbe scandaloso. Imporre alla Rai di suggerirlo è un granello di un progetto molto più ampio, che passa dall’indignazione per il libro del generale Vannacci alla sostituzione etnica del cognato ministro e alla lunga sequela di improvvide uscite dei suoi compagni di partito e di governo. Non sarà facile, non sarà breve, ma sono convinti di poterci riuscire. Anche con un emendamento sul contratto Rai che di fatto mette fuori dal perimetro la stessa Meloni, che incidentalmente non è sposata. Quindi non “naturale”.

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Altro che invasione, i minori accolti in Italia sono appena 21mila. I numeri in un report del Garante. Smontata un’altra balla del governo

Tra i “terribili invasori” che spaventano il governo Meloni e attivano i suoi ministri ci sono più di 21 mila minori non accompagnati, bambini e bambine, ragazzini e ragazzine che per l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, guidata da Carla Garlatti, non sono “solo numeri, ma persone che hanno bisogni, speranze e paure” e che hanno bisogno di “un sistema di accoglienza strutturato e non emergenziale”.

La garante ha incontrato negli scorsi mesi i ragazzi ospitati nelle strutture del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) gestite dai comuni di Amelia (Terni), Aradeo (Lecce), Bologna, Cremona, Pescara e Rieti. Le visite sono state realizzate in collaborazione con l’Associazione nazionale Comuni italiani (Anci), il Servizio centrale, struttura di coordinamento del Sai, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef).

Il rapporto

Dal ciclo di incontri è scaturita la pubblicazione “Ascolto e partecipazione dei minori stranieri non accompagnati come metodologia di intervento”, che riporta il punto di vista dei ragazzi e formula nelle conclusioni una serie di raccomandazioni.

“Non c’è più tempo da attendere per completare l’attuazione della legge 47/2017 – dice Garlatti – il sistema di prima accoglienza deve essere realizzato in maniera strutturale e non più come risposta alle emergenze che di volta in volta si presentano. È inoltre urgente adottare il decreto che disciplina il primo colloquio del minorenne che fa ingresso sul suolo italiano: è un passaggio che si attende dal 2017 e che è fondamentale per assicurare i diritti del minore e per aiutarlo a raggiungere in maniera celere e sicura la sua destinazione”.

“A ogni ragazzo devono essere assicurati tre diritti: la presunzione di minore età, la collocazione in una struttura riservata esclusivamente ai minori e un tutore volontario”. Secondo il report è indispensabile velocizzare le procedure amministrative per ottenere il permesso di soggiorno e rendere uniformi le prassi su tutto il territorio nazionale.

I ragazzi oggi devono aspettare anche sei mesi prima di avviare un percorso di inserimento e questo genera ansie, timori, frustrazioni, oltre che una più generale incomprensione dei meccanismi burocratici. Occorre garantire la presenza, in ogni fase del percorso, di un mediatore culturale che possa colmare le difficoltà di comprendere le procedure e la loro “paura di tornare indietro”.

Tutore volontario

Per le stesse ragioni va assicurata la tempestiva nomina del tutore volontario. Quello della nomina del tutore resta un aspetto critico.

Dall’ascolto dei minori è emerso infatti che ci sono ancora casi nei quali, per la scarsità dei volontari, i tribunali per i minorenni attribuiscono la tutela a sindaci o ad avvocati. Si tratta di figure che, occupandosi di un numero elevato di minori, non possono costituire un reale punto di riferimento nel percorso di integrazione.

Per promuovere “un effettivo processo inclusivo è inoltre fondamentale creare occasioni di socializzazione e aggregazione con la comunità” e agevolare l’apertura di un conto corrente bancario intestato al minore straniero, nel rispetto dei limiti previsti dalle norme vigenti.

Solo due giorni fa è rimbalzata la notizia del sindaco di Muggia, in provincia di Trieste, che si è ritrovato due minorenni afghani non accompagnati che ha lasciato dormire in un ex studio medico abbandonato “Dove non c’è nemmeno l’acqua”, come ha raccontato il sindaco leghista Paolo Polidori, rimasto in auto tutta la notte per sorvegliarli. I sindaci da mesi lamentano la completa disorganizzazione e lo stato di abbandono in cui si ritrovano a gestire la delicata situazione dei minori non accompagnati.

“Il modo in cui un Paese decide di organizzarsi per proteggere i minori non accompagnati dice molto sul livello complessivo di attenzione alle fragilità e ai minori”, dice il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, delegato Anci all’immigrazione e politiche per l’integrazione.

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Muro sull’accoglienza, si allarga la fronda a destra. Dopo il Veneto, pure Piemonte e Calabria in trincea. E Musumeci frena su nuove strutture al Sud

Hai voglia a dire che “la vicenda migranti non può essere sostenuta soltanto dalla Sicilia, dalla Calabria e dalle regioni meridionali”. Perché “tutti dobbiamo farci carico di questa responsabilità che deve diventare solidarietà”.

Il ministro del Mare, Nello Musumeci, ha provato ad indorare la pillola dei Centri per i rimpatri scaricati dal governo sulle Regioni, ma con scarso successo. E nonostante la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si affanni nel dipingere i Cpr e il “blocco delle partenze” come unica soluzione possibile per governare l’immigrazione in Italia e in Europa, i partiti di maggioranza non sono “compatti” sulle misure, come raccontano le fonti di Palazzo Chigi.

Il modello

Perfino il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto, in un’intervista ad Avvenire, ha riconosciuto che “serve un modello strutturato all’insegna dell’integrazione… per un Paese di 60 milioni di abitanti come l’Italia, 150-180mila arrivi in un anno non possono rappresentare sempre un problema”, smontando nel giro di poche righe la narrazione dell’invasione così cara a Meloni e al suo compagno di governo Matteo Salvini.

Occhiuto si aggiunge al lungo elenco di governatori che vedono la costruzione di nuovi Centri di permanenza e di rimpatrio come problema politico per le regioni che governano.

Un altro presidente vicinissimo al governo, Alberto Cirio (Piemonte), si è augurato un “confronto con il governo” perché i nuovi centri vengano costruiti lontano dai centri abitati. Schiaffi al governo Meloni arrivano anche dall’ex ministro Giulio Tremonti ora in Fratelli d’Italia che deride le bellicose ipotesi di un complotto: “nessuna regia” e “nessun attacco politico”, dice a Repubblica ribadendo come l’immigrazione sia un tema “strutturale” e non un’emergenza. Finita qui? Nemmeno per sogno.

“ll Cpr non risolve il problema degli arrivi, questo lo dobbiamo dire per essere corretti nei confronti dei cittadini, visto e considerato che quest’anno avremo più o meno 140-150mila persone che dovranno essere rimpatriate, e si consideri che mediamente ogni anno l’Italia riesce a far rimpatriare dalle 3.500 alle 4.000 persone, quando va bene”, ha detto il leghista presidente del Veneto Luca Zaia, che in questi giorni guida l’offensiva dei presidenti di Regione di destra. Così è fin troppo facile per l’opposizione smontare la linea del governo.

Le reazioni

Dal Pd Laura Boldrini sottolinea come l’unica vera urgente strategia sia quella suggerita dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: rivedere il Regolamento di Dublino in sede europea. “Da tempo, ormai, sosteniamo – dice Boldrini – che quel Regolamento, che attribuisce al paese europeo di primo approdo dei migranti la responsabilità di valutare le domande di asilo, va superato perché penalizza paesi come l’Italia e la Grecia”.

Angelo Bonelli (Avs) accusa Meloni “di avere isolato l’Italia” e Riccardo Magi (+Europa) parla di “fallimentare strategia di Meloni, che baratta i diritti e le vite dei migranti con l’illusione delle frontiere chiuse”. Mariolina Castellone (M5S), sottolinea come “dalla destra” arrivino solo “ricette obsolete”. Nell’opposizione l’unica voce fuori dal coro è quella di Carlo Calenda (Azione), che si dice “totalmente d’accordo” con il “pagare i regimi per bloccare i migranti”.

A stretto giro, per uno scherzo del destino, arrivano le lamentele di Egitto e Tunisia che reclamano più soldi per continuare a fare il lavoro sporco. Forse c’è davvero una regia politica, come dice Meloni: i mandanti sono i tiranni lautamente pagati che non riescono a trattenere la loro ingordigia ricattatoria.

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Nemica giurata dell’autonomia. Le Pen finta amica di Salvini

L’ex ministro alla Giustizia Roberto Castelli fa sul serio: il suo addio alla Lega è stato lungamente argomentato in una conferenza stampa tenuta ieri a Milano e no, non è uno scherzo. “Vogliamo dare la voce alla questione settentrionale, oggi più che mai c’è bisogno di un sindacato del nord”, ha detto l’ormai ex leghista, presidente di Autonomia e Libertà. Per Castelli “ci sono in giro più di 50 sigle federaliste e secessioniste in tutta l’Europa che fanno fatica a parlarsi. Lancio un appello a queste forze: se ci uniamo possiamo far sentire la nostra voce altrimenti il detto latino divide et impera sarà sempre più di attualità”.

Matteo Salvini ha fatto di Marine Le Pen la stella polare della Lega. Tra i due però le distanze restano siderali

Un impegno elettorale solo rimandato: “Se l’associazione cresce – ha detto Castelli – sarà ineludibile un impegno elettorale a ogni livello”. Dipende “se si riesce a costruire una forza autonomista” ampia, allora “il mio impegno ci sarebbe, poi fare campagna elettorale è divertente”. Ma “se uno vuole andare nell’agone elettorale deve avere un sacco di forza, oggi non incidiamo e noi abbiamo l’ambizione di incidere”. La “deriva centralista” di Salvini è un’accusa che pesa sulla leadership della Lega. Anche all’ultima festa leghista di Pontida sono diverse le voci che si sono levate per contestare l’accoglienza trionfale riservata a Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra francese Rassemblement National, definita “un’alleata e un’amica” dal segretario del Carroccio.

Dal 2015 Lega e Rassemblement National fanno parte dello stesso gruppo al Parlamento europeo, dapprima tra le file del gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà e dal 2019 nel gruppo Identità e democrazia. I due partiti hanno portato avanti insieme battaglie contro una maggiore integrazione europea, contro l’immigrazione e per la tutela della tradizione e della sovranità delle nazioni. Sull’autonomia però i due partiti hanno pensieri molto diversi.

Come spiega il sito Pagella politica la rivendicazione iniziale del partito di Salvini, fondato nel 1991 da Umberto Bossi, era quella di una riforma costituzionale in senso federale per diminuire i poteri dello Stato centrale a vantaggio della macroregione del Nord. Nel 1995 la Lega è passata a una politica apertamente secessionista chiedendo l’indipendenza per la “Padania”, indipendenza autoproclamata da Bossi l’anno successivo. Nei primi anni 2000 l’idea della secessione è stata abbandonata in favore di un progetto costituzionale di trasferimento di competenze dallo Stato centrale alle regioni, poi bocciato da un referendum costituzionale nel 2006.

Oggi questa battaglia è portata avanti, in modo meno drastico rispetto al passato, attraverso la riforma dell’Autonomia differenziata per concedere maggiori poteri alle Regioni. Diversamente dagli alleati della Lega, il Rassemblement National non si è mai distinto per una particolare attenzione alle autonomie locali. Questa caratteristica del partito di Le Pen è stata sottolineata dall’ex europarlamentare leghista Mario Borghezio, che durante il raduno di Pontida ha definito la presenza della politica francese “una grave contraddizione”. Secondo Borghezio, infatti, Le Pen è una “nemica delle autonomie”, a cominciare da quelle di Corsica, Catalogna e Paesi Baschi.

Mentre i leghisti inseguono il sogno federalista la leader francese è la paladina del centralismo totale

Marine Le Pen si è candidata tre volte alle elezioni presidenziali francesi: nel 2012, nel 2017 e nel 2022. In nessuno dei programmi elettorali presentati in queste occasioni le autonomie locali occupavano un posto di primo piano. Anzi: Le Pen ha spesso proposto riforme per limitarle. Per esempio, a gennaio 2012, in un discorso programmatico Le Pen sosteneva che “lo Stato deve recuperare la sua piena legittimità nella gestione della politica nazionale, in particolare arrestando la deriva del decentramento”.

Per raggiungere questo obiettivo Le Pen proponeva di limitare per legge le competenze degli enti locali (che in Francia sono i comuni, i dipartimenti e le regioni) e rafforzare i poteri dei prefetti, ossia i funzionari del governo centrale che garantiscono l’ordine pubblico nei vari dipartimenti. Nel programma elettorale del 2017 Le Pen chiedeva una revisione complessiva della struttura degli enti locali. La proposta era di “mantenere tre livelli di amministrazione: comuni, dipartimenti e Stato”, eliminando dunque le regioni. Alle elezioni presidenziali del 2022 il tema delle autonomie locali non era menzionato nel programma di Le Pen. Amicizia per convenienza, senza nessuna convergenza politica. L’ipocrisia politica prima o poi emerge. Non è questione che riguarda solo Castelli.

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Nient’altro che rappresaglie

Nient’altro che una rappresaglia. L’attacco al direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco ha la forma e l’odore di una rappresaglia senza nemmeno bisogno di manganelli e di olio di ricino. 

Parte tutto dall’assessore regionale al Welfare della Regione Piemonte Maurizio Marrone il cui nome da quelle parti ricordano quasi tutti a proposito di un assalto dodici anni fa ai  Murazzi a Torino quando comparvero scritte come “Viva il Duce”, “Boia chi molla” e “Partigiani infami”. Siamo nel tempo in cui uno così – proprio perché è così – diventa classe dirigente del Paese. Che intenda l’esercizio del potere come la possibilità di rivalersi in ogni dove è una caratteristica naturale di quella categoria. Marrone aveva ancora in gola il can can che si era sollevato intorno al direttore Greco quando decise di praticare sconti all’ingresso per le coppie arabe. A quel tempo anche Giorgia Meloni decise di umiliarsi di fronte al Paese accusando Greco di “discriminazione al contrario”, una cretinata senza nessun fondamento poichè gli sconti si applicavano (e si applicano) ciclicamente a tutte le categorie. In quell’occasione il direttore con invidiabile calma aveva spiegato che nessun “non studente” aveva mai urlato contro gli sconti per studenti. Meloni rimediò una magra figura, ora arriva quella che sembra una rappresaglia di vendetta.

Così mentre 92 egittologi esprimono la loro costernazione per un attacco politico in un tema che richiederebbe un minimo di competenza tecnica (e un minimo di dignità nell’attività politica) noi da fuori assistiamo all’ennesima puntata di una purga nazionale che non sembra si comprenda ancora del tutto.

Buon venerdì.

Nella foto: frame del video (La7) del confronto Christian Greco-Giorgia Meloni, 15 febbraio 2018

 

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Mente sapendo di mentire. Tutte le balle di Meloni all’Onu

Dicono che Giorgia Meloni non abbia trovato il tempo per partecipare ai passaggi ufficiali dell’assemblea dell’Onu per “limare il discorso”. Se così fosse, il lavoro, c’è da dire, non è riuscito benissimo. La presidente del Consiglio si è presentata alle Nazioni Unite con la solita propaganda, già smentita dagli allarmi italiani e dai fatti. Già nel momento in cui chiede che finiscano “le ipocrisie” che hanno “fatto arricchire a dismisura i trafficanti” sbaglia completamente il focus.

L’ultimo slogan del premier Meloni all’Onu è quello dell’Italia campo profughi dell’Unione. Ma Berlino e Parigi accolgono di più

Ad arricchirsi con i migranti – lo dicono i numeri incontestabili – sono proprio la Libia che continua a ricevere soldi dai tempi dell’ex ministro all’Interno Marco Minniti (e che confonde i miliziani della cosiddetta Guardia costiera libica che di notte diventano scafisti) e la mafia tunisina nei pressi del presidente tunisino Kais Saied che Meloni vorrebbe riempire di soldi con l’aiuto dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale. Gli “scafisti da stanare in tutto l’orbe terracqueo” di cui parlava Meloni nella sua penultima conferenza stampa sul tema (dopo il cosiddetto “decreto Cutro” che è già miseramente fallito) sono i suoi referenti del cosiddetto “piano Mattei” che è stato l’ennesimo buco dell’acqua sulla questione. Meloni parla poi della battaglia contro “le cause alla base della migrazione, con l’obiettivo di garantire il primo dei diritti, che è il diritto a non dover emigrare”.

Anche qui usa un artifizio retorico facile da smontare. Il primo diritto per ogni essere umano sulla terra non è quello di “non emigrare” ma è quello di poter sopravvivere. Gran parte delle migrazioni in Europa arrivano da Paesi in cui la fame e il piombo (ovvero la povertà e le guerre) sono insostenibili per poter immaginare un futuro. Pensare di salvare paesi strozzati da decenni di colonizzazione e dai cambiamenti climatici e dalle guerre in breve tempo è propaganda.

Meloni ha un enorme principale problema nelle sue richieste all’Europa e al resto del mondo: non ha il coraggio di confessare il suo sogno di bloccare tutte le partenze (missione impossibile per questioni geografiche e per le leggi internazionali) e così risulta confusa e vigliacca nelle richieste. Ha scoperto che il “blocco navale” è una barzelletta che funziona in campagna elettorale ma che non è possibile per il diritto internazionale così vorrebbe trovare qualche Stato disposto a farlo per lei. L’altra enorme bugia ossessivamente ripetuta è quella dell’Italia come “campo profughi dell’Europa”.

L’Italia è il quarto paese tra gli stati dell’Ue per numero di richieste di asilo

L’Italia, lo dicono i numeri, è il quarto paese tra gli stati dell’Ue per numero di richieste di asilo ed è addirittura il nono se consideriamo le richieste in base al numero di abitanti. Nonostante il nostro Paese sia il primo approdo è storicamente risaputo che i migranti non abbiano nessuna intenzione di fermarsi qui. Voler rappresentare l’Italia con la situazione – seppure critica – della minuscola isola di Lampedusa è una bugia che funziona solo con gli elettori più ignoranti sul tema.

Anche per questo Francia, Germania e Spagna (che accolgono molto di più dell’Italia) sono molto infastidite dall’ipocrita propaganda di Meloni e dei suoi ministri. Non esiste nessuna “invasione” in un Paese che ha accolto tranquillamente molti più ucraini degli stranieri arrivati sulle nostre coste. La differenza principale è che quelli sono bianchi e molto simili a noi mentre questi sono neri e apparentemente diversi. Ma questo di Meloni è un problema che ha a che vedere con il razzismo e nemmeno l’Onu può aiutarla a un percorso di riabilitazione.

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Porte girevoli à gogo. Ormai è Forza Italia Viva

Un mese fa il suo salto a destra più che scalpore aveva provocato un mezzo terremoto in città, innescando lo scioglimento del Consiglio di quartiere 1 a Firenze (del quale era da anni presidente) e diversi malumori in Regione per un cambio di schieramento che complicava la vita alla maggioranza di centrosinistra. Adesso, però, con l’estate ormai alle spalle ci ha ripensato.

Il consigliere regionale della Toscana Maurizio Sguanci dopo appena un mese e mezzo lascia Forza Italia, dove era stato accolto da un messaggio pubblico di benvenuto del leader del partito, Antonio Tajani, per riapprodare in Italia viva e, quindi, a tutti gli effetti nella maggioranza di centrosinistra a Palazzo del Pegaso. Dice Sguanci di essersi convinto a ritornare nel partito di Matteo Renzi per “la convocazione della fase congressuale”. Il congresso, appunto.

Il partito tenuto in mano dal senatore fiorentino e saudita ex premier ha promesso di celebrare un congresso il prossimo 15 ottobre

Il partito tenuto in mano dal senatore fiorentino e saudita ex presidente del Consiglio ha promesso di celebrare solennemente un congresso il prossimo 15 ottobre che, se ci pensate, è veramente tra pochissimo. Per ora il candidato unico è il padrone: nessuno osa contestare la linea del senatore di Rignano. Sarebbe però interessante capire su cosa convergano Sguanci e tutti gli altri visto che della mozione congressuale di Renzi non c’è traccia da nessuna parte.

Sul sito del partito non c’è alcuna sezione e nemmeno su Il Riformista, ciclostilato dei renziani, se ne vede l’ombra. Probabilmente ancora una volta la “convergenza di ideali” si risolve nell’appartenenza al padrone, com’è costume da quelle parti. Poco male: ognuno faccia come preferisce. Almeno però evitateci, per favore, le lezioni di democrazia. Saluti vivi.

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Bocciato il concordato. Per Santanchè va di male in peggio

Di fronte al Parlamento, con invidiabile coraggio, la ministra Daniela Santanchè aveva ribadito la bontà del suo ruolo di imprenditrice, anche con un certo vanto. Non la pensano così i pubblici ministeri di Milano, Luigi Luzzi e Giuseppina Gravina, che ieri hanno bocciato la richiesta di concordato della Ki Group, società del settore biologico gestita negli anni scorsi dalla ministra e dall’ex marito Canio Mazzaro.

Il caso della ministra Santanchè e dei pagamenti mancati ai dipendenti era stato archiviato frettolosamente dalle destre

Secondo la documentazione della Procura anticipata dal quotidiano Domani i magistrati “concludono rilevando la manifesta inattitudine del piano proposto dalla ricorrente e la non fattibilità dello stesso con riguardo alle garanzie offerte per assicurare la liquidazione”, con un riferimento ai profili penali visto che sarebbe stato fatto “in palese danno e in frode ai creditori con conseguente pregiudizio, aggravato, inoltre, dalla mancata comunicazione agli organi della procedura di importanti informazioni, come sopra evidenziato, sia con riguardo alle integrazioni richieste dal Tribunale sia con riguardo alle reali condizioni attinenti lo stato di salute economico-finanziario della società Bioera Spa”.

Nel tentato concordato Mazzaro proponeva di salvare Ki Group attraverso una serie di operazione tra gruppi, ma i magistrati hanno ritenuto “non credibili” le garanzie proposte proprio a causa delle difficoltà di Bioera, che non può indebitarsi ulteriormente stante la sua disastrata situazione finanziaria. Secondo la Procura la società che avrebbe dovuto essere una garanzia, Bioera, sarebbe afflitta da una crisi d’insolvenza mai dichiarata e per di più “non reversibile”.

No dei pm al salvataggio della Ki Group. Chiesta la liquidazione giudiziale

Per questo i pm chiedono la liquidazione giudiziale (il vecchio fallimento) di Ki Group, di altre due società del gruppo e della stessa Bioera. Già la trasmissione Report aveva raccontato in una sua puntata che mentre alcuni dipendenti non hanno ancora ricevuto il Trattamento di fine rapporto e mentre alcuni fornitori sono stati costretti al fallimento per fatture non pagate “sia Santanchè sia Mazzaro hanno ricevuto emolumenti per milioni di euro in qualità di componenti dei cda del gruppo che fa capo a Bioera”.

“I lavoratori dipendenti della Ki Group Srl verranno integralmente soddisfatti con riguardo a tutti i loro diritti di credito. Questo lo potete verificare perché è scritto nell’accordo di concordato”, aveva promesso la ministra durante il suo intervento in Senato. Non sta andando esattamente così.

Tra le carte depositate dai magistrati spunta intanto anche il fondo Geca (Golden Eagle Capital Advisors), collegato al misterioso fondo Negma con sede a Dubai e nelle Isole Vergini Britanniche che ha finanziato per 3 milioni di euro Visibilia. La ministra Santanchè nella sua difesa di fronte al Parlamento aveva negato di avere qualsiasi ruolo di gestione all’interno della società, ma erano stati gli stessi ex dipendenti a smentirla in una conferenza stampa convocata pochi giorni dopo: “Ho sentito il ministro durante il suo intervento che con Ki Group non c’entrava niente. Non entro nel merito ma so che, per quanto mi riguarda, avevo contatti non dico quotidiani ma quasi con la dottoressa e che buona parte delle cose che andavo a fare erano sotto sue direttive”, spiegò un’ex dipendente. Un ex agente disse che “nelle ultime riunioni, soprattutto, la dottoressa Santanchè era presente, noi dovevamo riferire a lei”.

Il “caso Santanchè” è stato dichiarato frettolosamente chiuso dalla maggioranza con la promessa di “fare lavorare la magistratura”. Le bugie dette dalla ministra sono state chiare fin da subito, ora sta arrivando anche “la magistratura”. Ed è un bel problema per Giorgia Meloni.

Conte: “La premier Meloni non può non pretendere le dimissioni, siamo di fronte a un vulnus istituzionale”

“La premier Meloni non può non pretendere le dimissioni di Santanchè, siamo di fronte a un vulnus istituzionale” ha detto il presidente del M5s, Giuseppe Conte, in una conferenza stampa alla Camera.

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Governo per decreto

Nel Consiglio dei Ministri di inizio settembre il governo Meloni ha approvato ben 3 decreti. Di questi uno è anche stato successivamente modificato per aggiungere nuove norme di contrasto all’immigrazione, seguendo la crescente onda della cronaca nazionale. La decretazione da parte del governo non è una novità della politica italiana ma con Giorgia Meloni sta raggiungendo vette significativa.

Di contro ogni decreto ingolfa inevitabilmente i lavori del Parlamento dovendo essere convertito in legge entro 60 giorni. Così il Parlamento ne esce non solo svilito ma anche bloccato. Confrontando il numero dei decreti dei governi per eventi si scopre che solo questo è riuscito a raggiungere la vetta di 3,55 Dl pubblicati in media ogni mese. Seguono i governi Draghi (3,2), Conte II (3,18) e Letta (2,78), secondo la rilevazione di Openpolis. 

Delle 52 leggi approvate definitivamente dal Parlamento il 55,8% sono conversioni di decreti. C’è un’ulteriore criticità: i decreti legge emanati affrontano congiuntamente temi anche molto diversi tra loro, nonostante la Corte costituzionale nella sentenza 22 del “012 rimarcasse come il loro contenuto dovrebbe essere pacifico, omogeneo e corrispondente al titolo. Openpolis cita come esempio il decreto legge 105/2023 riconducibile a ben 10 distinte finalità, tra cui interventi volti a velocizzare i processi, contrastare gli incendi boschivi, per il recupero dalle tossicodipendenze, la riorganizzazione del ministero della cultura e la revisione di alcune norme in tema di Covid-19. Anche l’urgenza è più che discutibile, a meno che non si voglia considerare “urgente” il Ponte sullo Stretto. 

Buon giovedì. 

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Giorgia scopre l’America. E la lotta alla cancel culture

A raccontarlo non ci si crede. Nonostante si dica oberata di impegni e in prima linea nella guerra immaginaria che il suo ministro Matteo Salvini sventola ai quattro venti, la premier Giorgia Meloni in viaggio a New York per partecipare alla sua prima Assemblea generale delle Nazioni Unite ha trovato il tempo per un irrinunciabile gesto politicamente simbolico: depositare una corona di fiori ai piedi della statua di Cristoforo Colombo.

La premier Meloni in viaggio a New York ha trovato il tempo per deporre una corona ai piedi della statua di Cristoforo Colombo

Si potrebbe pensare che abbia voluto omaggiare un italiano famoso nel mondo ma non è così. Meloni è entrata in guerra – un’altra, l’ennesima – questa volta contro la “cancel culture”. La statua di Colombo infatti è finita in mezzo a un dibattito tutto americano che la stampa di destra nostrana ha usato come leva per aizzare il solito complottismo da due soldi dei “poteri forti” e dei “nuovi oppressori”. D’altra parte, sulla “caccia” alle statue, la leader di Fratelli d’Italia si è sempre scaldata. “L’odio cieco della sinistra è forgiato dall’ignoranza, la stessa che abbatte e decapita l’immagine di Colombo. Prepotenze degne dell’Isis che vogliono piegare la storia alla loro follia”, scriveva su Twitter qualche hanno fa.

Chissà cosa avranno pensato i leader politici del mondo nel vedere la fotografia della premier italiana impegnata in difesa di una statua mentre il Paese è al centro della discussione migratoria che coinvolge l’Europa, mentre la povertà sta cominciando a diventare protesta di piazza e mentre un guerra (vera) stravolge l’occidente. Ci vuole fegato per trovare il tempo, anche in trasferta, di infilare la propaganda in mezzo a ben più serie priorità. Meloni ci mette la faccia, come ama ripetere.

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