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  • Emergenza carceri, i ritardi del piano del governo sotto la lente della Corte dei Conti

    È passato un decennio dalla chiusura dell’esperienza commissariale per l’edilizia penitenziaria, ma le celle restano piene, le strutture cadenti, i progetti sulla carta. Lo dice la Corte dei conti, senza mezzi termini: il piano carceri è in grave ritardo. Nella relazione approvata con delibera n. 42/2025/G, i magistrati contabili fotografano una realtà che sfiora il paradosso: mentre il sovraffollamento raggiunge livelli d’emergenza in sei Regioni – Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia – molti interventi sono ancora in fase embrionale o cancellati del tutto.

    La Corte ha passato al setaccio il periodo 2021-2024, indagando sullo stato di attuazione del piano previsto dal decreto interministeriale del 10 ottobre 2014. Gli obiettivi disegnati nel Piano – ampliamenti, nuove strutture, manutenzioni straordinarie, digitalizzazione – risultano in larga parte disattesi. Mentre la popolazione detenuta cresce, lo Stato si dimostra incapace di garantire condizioni minime di dignità, come previsto dalla Costituzione e dagli standard internazionali.

    Il ritorno dell’emergenza permanente

    Le ragioni? Inadempienze contrattuali delle imprese, fabbisogni degli istituti che mutano più in fretta dei cantieri, mancanza di risorse per finanziare le varianti progettuali. È un film già visto: promesse di riforma inghiottite da un sistema che si muove per inerzia. La Corte dei conti, per l’ennesima volta, è costretta a suonare l’allarme. Ma l’eco sembra disperdersi in un vuoto di responsabilità.

    Il quadro tratteggiato è tanto più grave se si considera la recidiva del sistema. Dopo la condanna dell’Italia nella sentenza “Torreggiani” del 2013, la Corte europea dei diritti umani aveva imposto misure urgenti per superare il sovraffollamento cronico e migliorare le condizioni detentive. Oggi, a distanza di dodici anni, quegli obblighi restano disattesi. Il numero di suicidi nelle carceri italiane lo testimonia ogni anno: 83 solo nel 2024.

    Le promesse di Nordio e il vuoto di governo

    Il ministro Carlo Nordio aveva promesso 8.000 nuovi posti entro il 2026, un piano di interventi urgenti, nuove strutture, meno carcere per i reati minori, più espulsioni e più affidamenti ai servizi. Ma mentre le promesse si moltiplicavano in conferenza stampa, il ministero tagliava del 50% i fondi destinati al lavoro penitenziario. E quando il sovraffollamento è esploso, Nordio ha indicato la magistratura come responsabile, accusandola di “mettere troppa gente dentro”. È il rovesciamento perfetto: al disastro strutturale si risponde con lo scaricabarile.

    La Corte non si limita alla denuncia. Chiede che si parta almeno da una stima realistica dei costi e da una pianificazione efficace delle risorse. Propone la definizione di linee guida per gli edifici penitenziari, in linea con gli standard europei e internazionali. Raccomanda un monitoraggio costante al nuovo Commissario straordinario, incaricato di vigilare sulla realizzazione degli interventi nel rispetto dei cronoprogrammi procedurali e finanziari.

    In alcune regioni si superano ormai i 130 detenuti ogni 100 posti disponibili. E nonostante i fondi stanziati nel PNRR per digitalizzazione e edilizia, la Corte rileva che «le risorse non sempre sono state allocate secondo criteri di priorità effettiva», con cantieri mai avviati o sospesi a metà.

    Ma è proprio questo il nodo: si continua a parlare di “nuovi commissari”, “nuove fasi”, “nuove programmazioni”, mentre gli istituti restano gli stessi. Lo stato di emergenza è ormai fisiologia. La pena che dovrebbe rieducare si trasforma in abbandono. I detenuti non scontano solo la condanna inflitta da un tribunale, ma anche quella dell’inadempienza dello Stato. E nel frattempo, lo stillicidio di vite che si spengono dietro le sbarre continua a scorrere, inosservato.

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  • Trump, l’uomo da 24 ore

    Doveva bastare un giorno. Bastavano 24 ore, aveva detto, per far cessare la guerra in Ucraina. Ma oggi, Donald Trump parla di “odio troppo profondo”, “pace forse impossibile”, “frustrazione” e persino di uscita dal negoziato. Il messia del compromesso lampo è diventato il profeta del ritiro strategico. È il fallimento annunciato di un’impostura diplomatica.

    Secondo Charles Kupchan, ex consigliere di Obama, Trump sta solo preparando l’opinione pubblica al flop. Aveva promesso la pace come si promette una svendita, ma ha scoperto che i tavoli della diplomazia non funzionano come i reality. Pensava di telefonare a Putin, blandire Zelensky, firmare e andare in conferenza stampa. Ha trovato invece una guerra vera, con morti veri, e un Cremlino che non ha nessuna intenzione di arretrare.

    Nel frattempo, a Mosca i missili sfilano per la parata del 9 maggio e Putin rifiuta anche un cessate il fuoco simbolico. Kiev è sotto attacco, mentre Washington tenta di rattoppare l’illusione con un nuovo sistema Patriot riciclato da Israele. Il quadro è chiaro: la guerra non si ferma con gli slogan elettorali.

    Trump ha sbagliato approccio, tempi e alleanze. Ha concesso troppo prima ancora di cominciare: Crimea, Nato, riconoscimenti a buon mercato. E ora cerca un’uscita di scena che non puzzi di disfatta. Ma il sipario è già calato. Di quelle 24 ore resta solo il silenzio imbarazzato di chi si era illuso. O peggio, aveva creduto.

    Buon lunedì. 

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  • Olimpiadi da incubo: per il tubo di Zaia si affittano anche le promesse

    Per salvarsi dal rosso della pista da bob, il Comune di Cortina farà da B&B. È scritto nero su bianco nel piano economico redatto da KPMG e citato da Il Fatto Quotidiano il 4 maggio: 638mila euro di perdite ogni anno, 12,7 milioni in vent’anni. L’impianto “iconico” voluto da Zaia sarà pronto dopo l’inizio dei Giochi e resterà sulle spalle dei cittadini molto più a lungo. Per coprire il disastro, il Comune pensa di affittare appartamenti pubblici ai turisti: fino a 400 euro a notte. Gli stessi alloggi che da anni si promettono ai residenti. Si chiama valorizzazione immobiliare. Ma è una svendita.

    Nel 2023 la società Simico parlava di pareggio al quinto anno. Oggi la parola più usata è “deficit”. La voce principale? L’energia: 455mila euro solo per mantenere il ghiaccio. Più del doppio di quanto si incassa da tutte le attività agonistiche e turistiche messe insieme. La pista si userà per due mesi l’anno, se va bene. Il resto del tempo resterà lì, ferma, come una ferita aperta. Uno di quei monumenti all’insipienza che in Italia si costruiscono per sentirsi grandi. Salvo poi trovarsi piccoli davanti al conto.

    Il sindaco aveva detto di non dormire per l’ansia dei debiti. Ora sappiamo perché. Ma non sarà solo lui a pagare. A pagare saranno i cortinesi, con il patrimonio pubblico trasformato in rendita privata. Saranno le famiglie a cui si era promessa una casa. Saranno i contribuenti che finanziano un tubo inutile. Loro negheranno, negheranno ancora, negheranno come hanno fatto fin qui. 

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  • Stérin, il Musk di Francia che usa l’estrema destra di Marine Le Pen – Lettera43

    Il miliardario sta costruendo un ecosistema per portare alla vittoria il Rassemblement National. Con il suo Progetto Périclès ha stanziato 150 milioni di euro per comprare giornali, formare candidati, finanziare think tank e fondazioni. Una guerra culturale, prima che politica, per cambiare il volto del Paese.

    Stérin, il Musk di Francia che usa l’estrema destra di Marine Le Pen

    Pierre-Édouard Stérin non ama le mezze misure. È il Musk dOltralpe, ma senza astronavi. Usa i suoi miliardi per costruire non razzi, ma egemonia. Il suo progetto Périclès è un investimento decennale, 150 milioni di euro per portare Marine Le Pen allEliseo e per cambiare la Francia, la sua cultura, i suoi valori, il suo spazio pubblico. Non si limita a finanziare il Rassemblement National: costruisce un ecosistema. Forma candidati, compra media, commissiona sondaggi, intraprende battaglie legali contro tutto ciò che minaccia la sua idea di civiltà. Il tutto da Bruxelles, dove risiede per evitare le tasse francesi, mentre finanzia progetti che promettono di «ridare grandezza alla Francia».

    Il Musk di Versailles

    Stérin ha una storia da manuale del self-made man: 20 fallimenti imprenditoriali, unidea vincente – i cofanetti regalo – e una fortuna che oggi sfiora il miliardo e mezzo di euro. La sua azienda Smartbox è un impero, ma non gli basta. Libertario in economia, cattolico tradizionalista in politica, si muove lungo la stessa traiettoria di Elon Musk negli Stati Uniti o dei fratelli Koch. Creano ecosistemi, non movimenti: fondazioni, scuole, think tank, media. I miliardi come leva per plasmare società, non solo mercati. Stérin finanzia siti anti-aborto, associazioni contro il matrimonio egualitario, promuove la “Charte RH du Bien Commun“, un modello di gestione aziendale basato sui valori cristiani e sul divieto della scrittura inclusiva. Quando parla di civiltà, intende la sua: bianca, cattolica, gerarchica.

    Stérin, il Musk di Francia che usa l'estrema destra di Marine Le Pen
    Pierre-Edouard Stérin visto da Politico.

    Il progetto Périclès: la macchina dell’estrema destra

    Il Progetto Périclès ha un nome antico e unanima nuova. È il cuore delloperazione Stérin. L’acronimo che lo definisce – Patrioti, Enracinés (radicati), Resistenti, Identitari, Cristiani, Liberali, Europei, Sovranisti – è la sintesi della sua visione. La strategia è chiara: 150 milioni di euro in 10 anni per vincere le Presidenziali del 2027 con una maggioranza assoluta per il Rn. Ma Périclès non è solo un piano elettorale. È una guerra culturale. Le sue armi sono scuole di formazione per sindaci e quadri politici, think tank, istituti di sondaggi, media amici. Siti come Le Crayon, Neo e Factuel ricevono fondi, mentre le acquisizioni di testate tradizionali – come il tentativo fallito su Marianne – sono parte del piano. Lidea è chiara: creare una bolla informativa dove la destra radicale è normalizzata, e tutto il resto diventa decostruzione”.

    Stérin, il Musk di Francia che usa l'estrema destra di Marine Le Pen
    La spiegazione dell’acronimo Périclès (dai documenti riservati pubblicati da L’Humanité).

    Lalleanza tattica con Marine Le Pen

    Stérin non ha scelto Le Pen per simpatia. Ha valutato ogni opzione, incontrando Marion Maréchal, Éric Zemmour, Bruno Retailleau. Li ha “valutati”, ma nessuno era allaltezza delle sue aspettative. Il Rn resta il veicolo più potente per raggiungere il suo obiettivo: il potere. François Durvye, il direttore di Otium Capital, è il punto di collegamento. È il consigliere economico di Marine Le Pen, colui che ha mediato lacquisto della storica villa di famiglia Le Pen a Montretout, 2,5 milioni di euro pagati da Stérin e Durvye insieme. Unoperazione immobiliare che sa di alleanza strategica. Stérin non apprezza la linea economica del Rn, troppo interventista per il suo gusto libertario. Ma sa che nessun altro partito ha la forza di portare avanti il suo progetto. La convergenza è più tattica che ideologica, ma è solida.

    Stérin, il Musk di Francia che usa l'estrema destra di Marine Le Pen
    Marine Le Pen (Ansa).

    Un modello globale: dai fratelli Koch al pioniere Berlusconi 

    Il caso Stérin non è isolato. Musk negli Usa ha usato X (ex Twitter) come trampolino per Donald Trump e lestrema destra globale, dai Repubblicani agli AfD tedeschi. I fratelli Koch hanno costruito una rete di think tank per plasmare il conservatorismo americano. Robert Mercer ha finanziato Cambridge Analytica, manipolando gli elettori con i dati. In Brasile, Luciano Hang è stato il finanziatore di Bolsonaro; in India, Gautam Adani è il magnate che cresce allombra di Modi. In Italia, Berlusconi è stato il pioniere del miliardario che prende direttamente il potere. Cambiano i contesti, ma resta il filo conduttore: élite economiche che investono nella politica di destra, spesso populista o radicale, per proteggere i propri interessi economici, promuovere agende conservatrici, contrastare tutto ciò che minaccia la loro visione del mondo.

    Stérin, il Musk di Francia che usa l'estrema destra di Marine Le Pen
    Elon Musk e Donald Trump alla Casa Bianca (Ansa).

    Il pluralismo sotto scacco

    Il caso Périclès ha sollevato polemiche in Francia. Il Parlamento ha aperto uninchiesta per verificare se la struttura rispetti le regole sul finanziamento della politica. Stérin ha rifiutato di presentarsi davanti alla commissione, dichiarando di avere «impegni di famiglia». Una scelta che ha acceso le critiche. Il problema non è solo legale. È politico. Périclès opera nelle zone grigie, finanziando un intero ecosistema senza i vincoli di trasparenza dei partiti. È una macchina parallela, con più soldi e meno controlli. La democrazia rischia di essere spiazzata da queste nuove forme di potere: chi ha più denaro può costruire idee, manipolare opinioni, formare classi dirigenti. Il pluralismo diventa una battaglia impari. Marine Le Pen ha trovato il suo Musk. E la Francia diventa un laboratorio per capire fin dove può spingersi lombra dei miliardi sulla politica.

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  • Libertà di stampa, Italia declassata al 49esimo posto: è la peggiore in Europa occidentale

    Il 49esimo posto non è solo un numero. È un campanello d’allarme, una diagnosi clinica sulla salute democratica dell’Italia. Reporter senza frontiere (Rsf) lo ha messo nero su bianco nel suo indice 2025: la libertà di stampa nel nostro Paese peggiora ancora, tre posizioni in meno rispetto al 2024, con il risultato peggiore di tutta l’Europa occidentale. E non è una discesa accidentale, ma la conseguenza diretta di pressioni economiche, ingerenze politiche, minacce e un clima di intimidazione sistematica.

    Libertà di stampa, la morsa economica e la concentrazione editoriale

    Dietro il declino c’è un dato strutturale: il giornalismo non è economicamente sostenibile. Secondo Rsf, i media italiani sono sempre più dipendenti da pubblicità e fondi statali distribuiti con logiche opache. La vicenda dell’agenzia AGI e la possibile acquisizione da parte del gruppo del deputato di maggioranza Antonio Angelucci – già editore di testate nazionali e imprenditore sanitario – è la fotografia plastica di un conflitto d’interessi che mina la pluralità e consegna l’informazione nelle mani del potere.

    L’assenza di una vera normativa antitrust in ambito mediatico lascia campo libero alla concentrazione editoriale, che a sua volta alimenta l’autocensura. Giornalisti costretti a piegarsi alla linea dei propri editori o a tacere per evitare denunce per diffamazione. È un clima in cui la libertà si misura col bilancino del rischio personale, e non con il rigore dell’indipendenza professionale.

    Il peso delle mafie e la minaccia delle querele

    Nel sud Italia la morsa delle organizzazioni mafiose continua a strangolare la stampa locale. Ventuno giornalisti vivono sotto scorta permanente. Sono i corrispondenti che raccontano il crimine organizzato, la corruzione, i rapporti opachi tra politica e affari. Non eroi, ma cronisti con la sola colpa di voler fare il proprio mestiere.

    A tutto questo si aggiunge la pioggia di querele/citazioni temerarie: strumenti legali abusati per intimidire, logorare, zittire. E ora, come se non bastasse, c’è anche la legge bavaglio: un provvedimento voluto dal governo Meloni che vieta la pubblicazione (letterale) di ordinanze di custodia e altre misure cautelari fino all’udienza preliminare. Un colpo alla giustizia trasparente, ma soprattutto un silenziatore puntato dritto sulla cronaca giudiziaria.

    Il silenzio del governo e il richiamo dell’Europa

    Di fronte a questa china, il governo tace. Ma il silenzio non è mai neutrale. Lo ha detto chiaramente il presidente della Fnsi, Vittorio Di Trapani: il controllo sulla Rai, il progetto di vendita dell’AGI, le leggi bavaglio, le pressioni sulla stampa indipendente sono tasselli di una strategia più ampia. Una deriva che – se non fermata – rischia di farci scivolare verso modelli come quello ungherese.

    In Europa è già suonato il primo allarme. L’Italia rischia l’infrazione per il mancato rispetto dell’European Media Freedom Act, la normativa approvata per garantire pluralismo e indipendenza nei media dei Paesi membri. Ma il governo italiano sembra ignorarla, preferendo i silenzi alla trasparenza.

    La libertà di stampa come spesa da tagliare

    Nel rapporto Rsf, l’indicatore economico globale ha toccato il livello più basso mai registrato. L’Italia non fa eccezione. Quando l’informazione diventa un’attività in perdita, quando i giornalisti non guadagnano abbastanza per vivere, la democrazia si sfilaccia. Il risultato? Una stampa che rincorre l’audience anziché i fatti, redazioni che chiudono, notizie che scompaiono. E dove scompaiono le notizie, prosperano la propaganda, la manipolazione, il rumore senza contenuto.

    Il modello norvegese – primo nella classifica Rsf – dimostra che un’altra strada è possibile. Ma serve una scelta politica netta: difendere l’informazione come bene comune, e non come fastidio da gestire. In fondo, è semplice: senza una stampa libera, l’Italia non è una democrazia piena. E ogni classifica che ci relega più in basso non è un attacco, ma un promemoria. Prima che sia troppo tardi.

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  • Il mantra del “ve l’avevo promesso”

    C’è una cifra costante nella narrazione di Giorgia Meloni: l’autolegittimazione. Ogni risultato – vero, presunto o inventato – è l’effetto naturale di una missione compiuta, ogni critica è un fastidioso sottofondo da ridurre a rumore di opposizione. Nell’intervista all’Adnkronos la presidente del Consiglio elenca come medaglie i traguardi del suo governo, ma a uno sguardo meno accondiscendente il racconto mostra più crepe che cemento.

    Sulla natalità, Meloni ammette che “i risultati sono insufficienti”, ma parla come se la colpa fosse del clima culturale e non delle scelte politiche. Eppure è il suo governo a tagliare fondi agli asili nido nel Sud, a rendere il congedo parentale ancora marginale, a sostenere una visione della maternità come dovere patriottico più che come diritto tutelato. L’occupazione cresce, sì, ma con salari che restano tra i più bassi d’Europa, precarietà persistente e nessun salario minimo all’orizzonte. E il milione di posti di lavoro sbandierato ha la stessa consistenza di un claim elettorale: dentro ci stanno i contratti a chiamata, gli stagionali, i voucher.

    L’orgoglio per il “capovolgimento della narrazione sull’Italia” all’estero stride con i dati di Reporters sans frontières che ci retrocedono al 49° posto per libertà di stampa, il peggiore tra le democrazie occidentali. Mentre lei parla di pluralismo, l’informazione pubblica viene occupata scientificamente, con epurazioni silenziose e promozioni per fedeltà politica. E nel frattempo si moltiplicano gli attacchi ai giornalisti indipendenti, ai programmi scomodi, alla satira.

    Poi il mantra: “ve lo avevamo promesso”. Come se bastasse mantenere una promessa per legittimare qualunque riforma, anche se spacca il Paese (autonomia differenziata), concentra il potere (premierato) o smonta le garanzie (giustizia). Il programma non è una santificazione, ma una responsabilità. E chi governa non è un venditore di contratti chiusi, ma un servitore temporaneo della cosa pubblica. Ricordarglielo, a quanto pare, è ancora necessario.

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  • Dieci anni di Jobs Act e la dignità (persa) del lavoro

    Avevano promesso più diritti, hanno prodotto più dimissioni. Dieci anni dopo, il Jobs Act resta il monumento più alto alla precarietà di Stato: un’impalcatura legislativa costruita per fare cassa sulle vite altrui. Altro che crescita: l’Italia è ferma, anzi retrocede. I contratti stabili arrancano, i salari reali crollano, i giovani laureati fuggono. Il mercato del lavoro si è riempito di part time imposti, subappalti opachi, licenziamenti facili. La sicurezza Peggiorata. Dal 2015 in poi, gli infortuni sul lavoro sono tornati a salire. Più flessibilità ha significato meno dignità.

    Il rapporto della Fondazione Di Vittorio è impietoso. I contratti a termine sono il nuovo standard, soprattutto per chi ha studiato. Le donne pagano due volte: più precarie e più part time, spesso controvoglia. I giovani non aspettano nemmeno più il posto fisso: prendono l’aereo. E il Mezzogiorno affonda, mentre la produttività resta inchiodata ai livelli del 2000. Il capolavoro neoliberista ha ridotto il lavoro a merce deperibile, mentre la politica si congratulava con se stessa.

    Il risultato è un Paese svuotato, con oltre mezzo milione di under 35 andati via nell’ultimo decennio. Il 43% di loro è laureato. Il Jobs Act ha spacciato come riforma moderna ciò che è, nei fatti, un ritorno all’Ottocento: niente reintegro, poche tutele, un’intera generazione usata come manodopera a perdere.

    Ora, qualcuno prova a rimediare. I referendum del prossimo giugno possono essere il primo colpo al cuore di questa precarietà legalizzata. Non cambieranno tutto, ma interrompere l’emorragia è già rivoluzionario. E forse servirebbe un presa di coscienza compatta nel Pd che del Jobs Act ne fu fautore. 

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  • Un altro flop annunciato, il Cpr in Albania colleziona disastri

    A fine aprile 2025, il Cpr di Gjader in Albania è vuoto a metà, ma saturo di contraddizioni. Doveva essere l’avamposto della fermezza italiana in materia migratoria, il simbolo dell’esternalizzazione efficiente, dell’Europa che “protegge i suoi confini”. Invece, è diventato il manifesto della confusione giuridica, dell’inadeguatezza operativa e di una narrazione governativa sempre più scollata dalla realtà.

    L’accordo Italia-Albania, ratificato dal Parlamento con la legge 14/2024, prevedeva due centri: uno per lo sbarco e la fotosegnalazione a Shengjin, l’altro per l’esame delle domande d’asilo e i rimpatri a Gjader. Ma il disegno originario si è arenato sulle sabbie mobili del diritto. Così, con un colpo di mano, il governo ha forzato la cornice normativa con il decreto 37/2025, trasformando Gjader in un Cpr per migranti già presenti in Italia e destinati al rimpatrio.

    Una toppa, che non ha retto al primo urto giurisdizionale: il 19 aprile, la Corte d’Appello di Roma ha bocciato il trattenimento di richiedenti asilo nel centro albanese. Ha ribadito un principio elementare: se una persona trasferita a Gjader chiede protezione internazionale, deve essere riportata in Italia. Fine. Senza appelli. È scritto nel protocollo stesso, all’articolo 4, comma 3.

    Il risultato è che molti dei 40 migranti trasferiti tra l’11 e il 12 aprile dal Cpr di Restinco, a Brindisi, hanno già fatto ritorno in Italia. Al 28 aprile, ne restavano solo 25. Quelli che restano, probabilmente, conoscono già la via per tornare. Basta una richiesta d’asilo per smontare l’intero impianto. L’effetto domino è iniziato.

    Costi, fallimenti e violazioni: la realtà dietro la propaganda

    Il 19 aprile, Matteo Piantedosi ha annunciato il primo rimpatrio diretto da Gjader – uno solo, a oggi – mentre le notizie si susseguono su proteste, vetri rotti, atti di autolesionismo. La sezione detentiva più rigida del centro – 20 posti blindati – non è ancora attiva. Ma basterà?

    Le organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione (da Amnesty a Emergency, da Asgi al CIR) sono state chiare: condizioni inadeguate, violazioni dei diritti, ostacoli all’accesso alla difesa, opacità operativa, carenze sanitarie. Un giovane bengalese è già stato riportato a Bari perché considerato vulnerabile. E intanto il centro si svuota.

    La pronuncia della Corte d’Appello non è un’anomalia, ma la punta di un iceberg giuridico. Sotto la superficie galleggiano le questioni ancora pendenti davanti alla Corte di giustizia europea, che dovrà decidere se le procedure accelerate di frontiera previste dal Protocollo siano compatibili con il diritto dell’Unione. Ma le conclusioni dell’Avvocato Generale Jean Richard de la Tour hanno già indicato la necessità di garanzie effettive, trasparenza e valutazioni individuali.

    Un modello politico, non giuridico

    Il Cpr di Gjader è un centro nato sotto giurisdizione italiana, ma fuori dal controllo democratico italiano. Dove l’avvocato incontra il cliente con difficoltà, dove il monitoraggio indipendente fatica a entrare, dove il diritto si inceppa al primo ricorso. Un “laboratorio”, l’ha definito qualcuno. Ma più che un laboratorio, somiglia a un relitto.

    Il governo, tuttavia, continua a presentarlo come un successo. Una narrazione che ignora i costi (oltre 670 milioni in cinque anni), i rientri forzati, l’assenza di risultati concreti. Una narrazione che ignora anche l’intervento della Commissione europea, che il 29 aprile ha ribadito che il protocollo non può violare il diritto dell’Unione né ostacolare i diritti garantiti ai migranti. In altre parole: o si sta dentro la legalità, o si cambia strada.

    Il Cpr in Albania è diventato l’esempio di cosa succede quando la politica dei simboli travolge il diritto. L’obiettivo era espellere i migranti dalla vista e dalla giurisdizione. Ma è bastata una domanda d’asilo a farli tornare. Legalmente. Inesorabilmente.

    Gjader non è una soluzione. È un ritorno coatto alla realtà. E la realtà, a volte, ha più forza di qualunque decreto.

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  • Ormai la solidarietà è un crimine, chi aiuta i migranti in Europa rischia

    Nel 2024 almeno 142 persone sono state perseguite penalmente in Europa per aver compiuto atti di solidarietà verso le persone migranti. Lo evidenzia l’ultimo rapporto di Picum, che parla di una tendenza in crescita, con una progressione costante: erano 102 nel 2022, 117 nel 2023, 142 lo scorso anno. «Le accuse riguardano attività con una chiara finalità umanitaria, come il salvataggio in mare, la distribuzione di cibo, acqua, indumenti o l’offerta di riparo», si legge nel documento.

    A prevalere sono i casi di criminalizzazione delle operazioni di soccorso in mare: 88 persone su 142 sono state incriminate per attività legate al search and rescue. Ma la repressione colpisce anche chi fornisce aiuto a terra (21 persone), chi partecipa a proteste (17 casi) e chi offre un alloggio temporaneo (3 casi). L’accusa più frequente è quella di “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare”, un’imputazione costruita su una distorsione sistematica del concetto di solidarietà.

    Il rapporto segnala che «nonostante la gravità delle accuse, le condanne definitive restano basse». Tra i procedimenti conclusi nel 2024, su 43 persone incriminate, ben 41 sono state assolte o hanno visto le accuse decadere. Solo due sono state condannate, una con una pena sospesa.

    Tuttavia, il costo umano di questi procedimenti è altissimo. L’83% delle persone perseguite nel 2024 affrontava procedimenti iniziati negli anni precedenti, con una durata media di tre anni. In alcuni casi, come quello di una donna accusata di aver acquistato biglietti del treno a un gruppo di rifugiati siriani, il calvario giudiziario è durato quasi dieci anni.

    Criminalizzare chi attraversa le frontiere

    La criminalizzazione non colpisce soltanto chi aiuta, ma direttamente le persone migranti. Nel 2024 almeno 91 migranti sono stati incriminati, con un aumento del 20% rispetto al 2023. Spesso le accuse si basano su presunte attività di “smuggling”, ma le motivazioni reali sono altre: tentativi di ricongiungimento familiare, necessità di sostenere i costi del viaggio, semplice solidarietà fra migranti.

    «Le accuse falliscono nel cogliere le motivazioni sottostanti», sottolinea Picum, che documenta casi in cui il semplice uso di una mappa, la distribuzione di acqua o l’aiuto a un compagno di viaggio in difficoltà sono stati ritenuti sufficienti per un’incriminazione.

    In Grecia, il numero di persone arrestate come presunti “trafficanti” è aumentato del 50% nel 2024 rispetto all’anno precedente. Solo nelle isole Canarie (Spagna), più di 100 migranti vengono arrestati ogni anno per accuse di guida delle imbarcazioni.

    La sproporzione emerge anche nelle pene: in Italia, due sopravvissuti al naufragio di Cutro sono stati condannati a venti anni di carcere in un processo rapido, «con pene paragonabili a quelle previste per l’omicidio volontario».

    Migranti, il paradosso delle politiche europee

    Il fenomeno della criminalizzazione è aggravato dall’uso distorto della normativa anti-smuggling. Secondo il rapporto, l’81% dei casi di criminalizzazione della solidarietà e l’86% di quelli relativi ai migranti attraversano l’applicazione di leggi contro il traffico di esseri umani, pensate per colpire i trafficanti ma usate contro persone comuni, attivisti e migranti stessi.

    La revisione della direttiva europea sulla facilitazione proposta nel 2024 rischia di peggiorare la situazione. Nonostante le critiche sollevate anche dallo studio d’impatto commissionato dal Parlamento europeo, la nuova proposta non prevede esenzioni vincolanti per chi agisce per ragioni umanitarie.

    Come ammonisce il rapporto: «La criminalizzazione della solidarietà e la criminalizzazione della migrazione sono parte di un unico continuum di politiche restrittive che rendono pericoloso attraversare le frontiere e ostile l’ambiente per chi è considerato irregolare».

    Uno spazio civile sotto attacco

    La repressione non passa solo attraverso i tribunali. Nel 2024, il monitoraggio di Picum ha registrato numerosi casi di perquisizioni arbitrarie, sorveglianza, controlli di polizia sistematici. In Francia, l’associazione Utopia 56 ha subito 98 controlli e 59 perquisizioni di veicoli in meno di un anno. In Italia, gli attivisti di Mediterranea Saving Humans sono stati spiati con software militari israeliani su ordine dei servizi segreti.

    In un’Europa che si proclama baluardo dei diritti, soccorrere, nutrire, offrire acqua e ospitalità rischia di essere trattato come un crimine. Con una lucidità spietata, il rapporto Picum fotografa un continente che sta sistematicamente sgretolando il diritto alla solidarietà.

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  • Conoscere la storia e scegliere di dimenticarla

    Il 18 marzo è una data che resterà impressa nella coscienza di chi ha ancora il coraggio di guardare. Più di 400 persone palestinesi uccise in poche ore, molte delle quali erano bambini, in uno degli attacchi più feroci dell’ultima offensiva israeliana su Gaza. Una madre, Nesreen Abdu, e i suoi figli e nipoti, carbonizzati. È successo. Di nuovo. E succede ancora. Daniel Blatman, tra i massimi studiosi della Shoah, ha scritto su Haaretz parole che dovrebbero pesare come una sentenza: “Non avrei mai immaginato di leggere testimonianze su massacri compiuti dallo Stato ebraico che ricordano quelle raccolte al Memoriale dell’olocausto”.

    Blatman non è un attivista. È un archivista della memoria. E proprio per questo, la sua denuncia è più potente di qualsiasi slogan. “I miei peggiori incubi non avevano previsto tutto questo”, scrive. E poi osserva come i veri eroi di oggi siano i familiari delle persone liberate da Hamas che, nonostante il dolore, si aggrappano ancora all’umanità. Un’umanità che molti, in alto, hanno perduto. L’articolo ricorda Marek Edelman, comandante del ghetto di Varsavia, che disse: “Essere ebrei significa stare sempre dalla parte degli oppressi, mai degli oppressori.” Se chi ha conosciuto il genocidio diventa carnefice, la memoria si trasforma in propaganda. E allora quel “Mai più”, svuotato e tradito, diventa solo una scusa per altri massacri.

    Nel mondo che guarda in silenzio e nelle cancellerie che misurano i morti con la bilancia della convenienza, restano solo i fatti: bambini affamati, tende sventrate, cimiteri improvvisati. E la vergogna di chi conosce la storia, ma ha scelto di dimenticarne il senso.

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