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Allarme da Bruxelles, l’Ue scivola verso la xenofobia

L’Europa si sta allontanando dai suoi valori fondanti, scivolando pericolosamente verso una concezione etnica e xenofoba dell’identità europea. È questo l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto del Consiglio europeo per le relazioni estere (ECFR) e della Fondazione europea per la cultura (ECF), che mette in luce tre principali “punti ciechi” dell’Unione Europea.

I tre punti ciechi dell’Unione europea

Il primo è la palese “bianchezza” della politica europea. Nonostante il 10% della popolazione UE appartenga a minoranze etniche, solo il 3% dei parlamentari europei non è bianco. Una sottorappresentazione evidente, che stride con la diversità mostrata in altri ambiti come lo sport o l’Eurovision. Alle ultime elezioni europee, in molti paesi le liste dei candidati non riflettevano affatto il carattere multiculturale delle società europee.

Il secondo punto critico è il tiepido europeismo dell’Europa centro-orientale. In sette paesi su undici della regione l’affluenza alle elezioni europee è stata sotto il 40%, sintomo di un entusiasmo ormai raffreddato verso il progetto comunitario. In Polonia, considerata per anni una delle società più europeiste, il 47% della popolazione ritiene ora che il paese potrebbe affrontare meglio il futuro fuori dall’UE – la percentuale più alta tra tutti gli Stati membri.

Infine, il disimpegno dei giovani. Paradossalmente, pur essendo in media più favorevoli all’UE e tolleranti sulle questioni sociali rispetto alle generazioni precedenti, molti under 35 hanno disertato le urne europee. In Polonia, solo il 26,5% dei giovani ha votato alle elezioni europee, ben al di sotto della media nazionale del 40%. In Francia, il tasso di astensione è stato più alto (53%) proprio tra gli elettori più giovani.

L’intersezione di questi tre fenomeni rischia di plasmare un sentimento europeo in contrasto con i valori originari dell’Unione. Il pericolo, avverte il rapporto, è di scivolare verso una concezione “etnica” anziché “civica” dell’europeità. I segnali sono già evidenti. Alle ultime elezioni europee, partiti di estrema destra sono arrivati primi in Francia, Italia, Belgio, Austria e Ungheria. In Germania, l’AfD è arrivata seconda tra i giovani elettori. In Polonia, il 30% dei giovani ha votato per la destra radicale della Confederazione. In Francia, un terzo dei giovani ha scelto il Rassemblement National.

La deriva xenofoba: segnali e conseguenze

La retorica anti-immigrazione dilaga, sdoganata anche da partiti mainstream. In Germania si discute apertamente di piani per deportare richiedenti asilo e cittadini di origine straniera. In Italia, la Lega ha usato slogan come “Cambiamo l’Europa prima che cambi noi”, con l’immagine di una donna velata.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha ulteriormente esacerbato le tensioni, esponendo molti europei di colore e musulmani a una vera e propria ondata di xenofobia. Secondo l’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali, si è registrato un forte aumento di atti di odio e violenza sia antisemiti che anti-musulmani. Un sondaggio tra i musulmani francesi ha rivelato che due terzi ritengono che i media favoriscano Israele nella copertura del conflitto.

Il rapporto evidenzia come questa deriva xenofoba sia particolarmente pronunciata nell’Europa centro-orientale. In molti paesi della regione, il discorso xenofobo incontra scarsa resistenza da parte di politici, media ed élite intellettuali. Secondo uno studio del 2019 di Pew Research, esiste una notevole differenza negli atteggiamenti verso i musulmani tra i paesi dell’Europa occidentale (Francia, Paesi Bassi, Germania e Svezia), dove prevalgono opinioni favorevoli, e l’Europa centro-orientale (Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Lituania), dove la maggioranza ha un’opinione sfavorevole.

Di fronte a questo scenario, il rapporto lancia un appello urgente ai politici pro-europei: diversificare la propria base elettorale, abbassare l’età del voto come fatto in Austria, Belgio e Germania, intensificare il dialogo con i giovani. Soprattutto, è necessario rompere il silenzio su temi come migrazione e diversità. Chiamare le cose con il loro nome, denunciando apertamente la xenofobia. Spiegare ai cittadini che certi atteggiamenti minano la pace sociale in società ormai inevitabilmente multietniche. L’identità civica dell’UE va rafforzata, presentando l’Unione come una forza di cambiamento positivo su economia, sicurezza, clima. Ma anche affrontando le preoccupazioni legate all’immigrazione, senza lasciare questo terreno all’estrema destra.

Il rapporto sottolinea anche alcune eccezioni positive alla tendenza generale. In Italia, i giovani sono stati l’unico gruppo d’età in cui Fratelli d’Italia non è arrivato primo, piazzandosi quarto dietro centro-sinistra, Movimento 5 Stelle e Avs. In Svezia, i giovani elettori sembrano essere stati molto meno favorevoli ai nazionalisti dei Democratici Svedesi rispetto alle generazioni più anziane. In Croazia, una lista indipendente “Gen Z” guidata da Nina Skocak, composta da 12 candidati di età compresa tra 19 e 30 anni, ha ottenuto oltre il 4% del voto popolare.

Il rapporto conclude sottolineando l’urgenza di affrontare questi “punti ciechi”. Se non si interverrà, avverte, c’è il rischio che il sentimento europeo possa collassare del tutto, o prosperare in una forma chiusa e xenofoba. L’Europa si trova dunque a un bivio, e la strada intrapresa nei prossimi anni determinerà il futuro stesso del progetto europeo.

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La scuola cade a pezzi: nell’ultimo anno registrati ben 69 crolli

Mai così tanti crolli nelle scuole italiane nell’ultimo anno. Un record di cui non andare fieri. Tra settembre 2023 e settembre 2024 ben 69 episodi di crolli hanno interessato le scuole del Belpaese, numero mai raggiunto negli ultimi 7 anni. Un triste primato equamente distribuito tra Nord e Sud (28 casi ciascuno, 40,5% del totale), con il Centro che si “accontenta” di 13 crolli (19%). 

La sicurezza è un optional: radiografia di un’emergenza

La fotografia scattata da Cittadinanzattiva nel suo XXII Rapporto sulla sicurezza scolastica è impietosa. Mostra un’edilizia scolastica in ginocchio, fatta di strutture fatiscenti che si sgretolano come biscotti inzuppati nel latte. Con buona pace della sicurezza di studenti e personale scolastico.

Ma non c’è da stupirsi più di tanto. Il 59,16% degli edifici scolastici non possiede il certificato di agibilità. Come dire: “Entrate pure, ma a vostro rischio e pericolo”. Il 57,68% è sprovvisto del certificato di prevenzione incendi. Perché in fondo, cosa mai potrebbe andare storto? E il 41,50% non ha nemmeno il collaudo statico. D’altronde, a che serve accertarsi che un edificio stia effettivamente in piedi? Su 40.133 edifici scolastici censiti, 2.876 sono collocati in zona sismica 1 (la più pericolosa) e 14.467 in zona 2.

Quasi la metà delle scuole italiane, insomma, sorge su un territorio ad alto rischio sismico. Qualche timido passo avanti c’è stato, per carità. Il 3% degli edifici ha avuto interventi di adeguamento o miglioramento sismico. E l’11,4% è stato progettato secondo la normativa antisismica. Numeri da prefisso telefonico, ma almeno un segnale. Peccato che a questi ritmi, per mettere in sicurezza tutte le scuole ci vorrà solo qualche secolo. Sempre che nel frattempo non crollino prima.

Del resto, lo stato di salute degli edifici scolastici è sotto gli occhi di tutti. Il 64% dei 361 docenti intervistati da Cittadinanzattiva rileva la presenza di fenomeni dovuti alla manutenzione inadeguata o inesistente. Il 40,1% segnala infiltrazioni d’acqua, il 38,7% distacchi di intonaco, il 38,2% tracce di umidità. Un quadro desolante, fatto di muri che piangono e soffitti che si sbriciolano.

La metà degli insegnanti ha segnalato situazioni di inadeguatezza rispetto alla sicurezza. E in questi casi, sorprendentemente, c’è stato un intervento. Forse qualcuno si è ricordato che nelle scuole ci sono esseri umani, non topi da laboratorio.

Quanto alle prove di emergenza, il 92% dei docenti dichiara di avervi partecipato. L’8% sostiene che non siano state effettuate. Evidentemente in alcune scuole si confida nella protezione divina. Le simulazioni hanno riguardato soprattutto incendi (79%) e terremoti (70%). Alluvioni e rischio vulcanico restano fanalini di coda (5% e 1%), nonostante i disastri sempre più frequenti. Ma si sa, prevenire è meglio che evacuare.

PNRR: la grande illusione dell’edilizia scolastica

In questo scenario già poco edificante, si inserisce il pasticcio del PNRR. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza doveva essere la panacea di tutti i mali, e invece… Tagli su tagli, rimodulazioni, revisioni al ribasso. Per gli asili nido si passa da 4,6 miliardi per 264.480 nuovi posti a 3,245 miliardi per 150.480 posti. Le nuove scuole da costruire scendono da 195 a 166. Motivo? L’aumento dei costi di costruzione. Come se non lo si sapesse già quando sono stati fatti i conti la prima volta.

Stesso copione per gli interventi di ristrutturazione, messa in sicurezza e adeguamento sismico. Il budget sale da 3,9 a 4,399 miliardi, ma servirà per sistemare meno edifici. Insomma, si spende di più per fare meno. Un’equazione degna dei migliori economisti. Palestre e mense sono previste, certo. Ma molto al di sotto del fabbisogno effettivo. D’altronde, cosa sarà mai un po’ di movimento e un pasto decente per i nostri ragazzi? L’importante è che stiano seduti e zitti per ore in classi pollaio.

Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale scuola di Cittadinanzattiva, non nasconde la preoccupazione: “Siamo molto preoccupati per la riduzione degli interventi, soprattutto sui nidi, che non riusciranno a colmare i gap esistenti nei territori che più ne necessitano né a raggiungere gli obiettivi europei, ancora più lontani”. 

Bizzarri guarda già oltre: “È evidente che sin d’ora bisogna guardare al post Pnrr, con l’utilizzo di fondi ordinari nazionali ed europei, per garantire il funzionamento delle nuove strutture, per investimenti mirati e per assicurare continuità dei fondi all’edilizia scolastica”.

Nell’attesa, non resta che sperare nella buona sorte. E magari partecipare a “Scatti di sicurezza”, il contest fotografico promosso da Cittadinanzattiva. Almeno avremo un bel reportage su come crollano le nostre scuole.

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Combustibili fossili, 900 incontri in 4 anni a Bruxelles tra lobbisti e decisori Ue

Potrebbe essere l’inizio di una barzelletta: “Sapete quante volte si sono incontrati la Commissione europea e i lobbisti dei combustibili fossili durante l’ultimo mandato?”. Peccato che la risposta non faccia ridere per niente: quasi 900 volte in poco più di 4 anni. Praticamente ogni santo giorno lavorativo.

A rivelarlo sono due rapporti pubblicati da Transparency International e Fossil Free Politics, che hanno setacciato con pazienza certosina gli incontri ad alto livello tra i commissari Ue e i rappresentanti dell’industria fossile dal 2019 al 2024. Il risultato è un valzer frenetico fatto di strette di mano, porte girevoli e sussurri nei corridoi di Bruxelles.

Il valzer dei petrolieri: un ballo quasi quotidiano

La Shell, colosso anglo-olandese del petrolio, si è aggiudicata la palma d’oro con ben 46 incontri. Un’assiduità che farebbe invidia a molti matrimoni. Subito dietro troviamo le altre “Sette Sorelle” del settore: Eni, Total, Equinor, ExxonMobil, BP e Chevron. Una vera e propria parata di giganti.

Ma non finisce qui. Perché oltre agli incontri diretti, l’industria fossile può contare su una rete di oltre 50 organizzazioni affiliate, con un budget di lobbying complessivo di 64 milioni di euro all’anno. Una potenza di fuoco impressionante, che ha permesso di moltiplicare gli “agganci” con i decisori europei.

I rapporti rivelano inoltre che l’influenza dell’industria fossile si è intensificata dopo l’invasione russa dell’Ucraina. La Commissaria Simson ha aumentato del 50% la frequenza degli incontri con le compagnie fossili in questo periodo, passando da una media di 0,4 incontri a settimana prima dell’invasione a 0,6 dopo. Anche la presidente von der Leyen, che prima dell’invasione aveva avuto un solo incontro con l’industria fossile, ne ha poi avuti altri sette in rapida successione, di cui tre con Shell e due con Equinor, tutti incentrati sulla crisi energetica.

I rapporti mettono in luce anche il ruolo delle associazioni di categoria e dei gruppi di pressione nel moltiplicare l’influenza dell’industria fossile. Organizzazioni come BusinessEurope, l’Associazione Internazionale dei Produttori di Petrolio e Gas (IOGP) e Hydrogen Europe hanno avuto decine di incontri con i vertici della Commissione, spesso promuovendo gli interessi dei loro membri appartenenti all’industria fossile.

Particolarmente preoccupante è la presenza di rappresentanti dell’industria fossile nei consigli di amministrazione di queste organizzazioni lobbistiche. Shell e Total, per esempio, hanno ciascuna nove dipendenti in posizioni chiave all’interno di queste reti, garantendo loro un’influenza sproporzionata sulle politiche energetiche e climatiche dell’Ue.

L’idrogeno grigio: il cavallo di Troia dell’industria dei combustibili fossili

Il tema più gettonato? L’idrogeno, nuovo mantra della transizione energetica. Peccato che, come ricordano i rapporti, il 99% dell’idrogeno prodotto oggi sia “grigio”, ovvero derivato da combustibili fossili. Un cavallo di Troia per perpetuare il business as usual mascherandolo da svolta green.

La Commissaria all’Energia Kadri Simson si è rivelata la più ricercata, con 116 incontri. Seguita a ruota dall’ex Commissario al Green Deal Frans Timmermans (105) e dall’attuale titolare Maroš Šefčovič (40). Un vero e proprio assedio ai vertici della politica energetica e climatica europea.

I rapporti sottolineano come l’industria abbia spinto per soluzioni false come la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs) e l’idrogeno “blu”. Nel frattempo, le parti più progressive del Green Deal, come le restrizioni sui pesticidi e le regole sulla protezione della natura, sono state silenziosamente accantonate.

Un altro dato allarmante riguarda la presenza dell’industria fossile alle conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP). I rapporti evidenziano che molte delle organizzazioni che fanno lobbying a Bruxelles sono anche presenti a questi eventi cruciali. In particolare, il numero di lobbisti dell’industria fossile è aumentato del 286% tra COP27 e COP28, dimostrando come l’influenza del settore si estenda ben oltre i confini dell’Unione Europea.

Combustibili fossili, influenza pervasiva e sistematica

Certo, qualcuno obietterà che è normale che l’industria venga consultata su temi così cruciali. Ma qui non parliamo di semplici consultazioni. Stiamo parlando di un’influenza pervasiva e sistematica, che rischia di minare alla base gli sforzi per contrastare la crisi climatica.

Come sottolineano i rapporti, l’industria fossile ha una lunga storia di negazione, ritardi e sabotaggio delle politiche climatiche eppure continua ad avere un accesso privilegiato ai tavoli che contano.

Non è un caso se Transparency International e Fossil Free Politics chiedono a gran voce l’introduzione di un “firewall” tra lobbisti fossili e decisori politici, sul modello di quanto fatto per l’industria del tabacco. Una misura drastica ma necessaria se si vuole davvero mettere al centro l’interesse collettivo e non i profitti di pochi.

La nuova Commissione dovrebbe avere il compito cruciale di raddrizzare la barra. Servirebbe coraggio per chiudere le porte alla sirena dei combustibili fossili e puntare con decisione su un’economia realmente sostenibile. Le gesta della prima Commissione von der Leyen non lasciano presagire nulla di buono.

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Von der Leyen paga 973 euro al giorno un medievalista per salvare l’agricoltura Ue

La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha assegnato uno stipendio del 64% superiore alla tariffa massima prevista per i consulenti al fine di retribuire un professore di storia medievale incaricato di supervisionare un importante rapporto sull’agricoltura. Secondo un documento consultato da Politico, Peter Strohschneider riceverà 973,79 euro al giorno per la consegna del rapporto intitolato “Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura dell’Ue”, superando notevolmente la tariffa massima di 594,22 euro normalmente destinata ai consulenti speciali della Commissione Europea.

Il budget totale stanziato per Strohschneider ammonta a 149.963,66 euro per un periodo di lavoro previsto di 154 giorni. La cifra ha sollevato critiche da parte di alcuni esperti. Il professor Christoph Demmke dell’Università di Vaasa in Finlandia, che ha redatto un rapporto per il Parlamento Europeo sui consulenti speciali, ha definito la somma “irrealisticamente alta” e “probabilmente non necessaria” considerandola “uno spreco di denaro pubblico”.

Lo stipendio controverso e le critiche degli esperti

È importante notare che, secondo il servizio carriere dell’Ue la tariffa giornaliera assegnata a Strohschneider corrisponde a quella di un direttore generale della Commissione. Tuttavia, grazie a un’eccezione alle linee guida salariali della Commissione europea, non è contro le regole pagare ai consulenti speciali la tariffa massima prevista per i funzionari Ue.

La scelta di von der Leyen di assumere un esperto di studi medievali avviene in un momento di intense proteste degli agricoltori contro le normative ecologiche in tutto il continente europeo. Secondo quanto dichiarato dal portavoce della Commissione europea Balazs Ujvari, Strohschneider è stato assunto “per guidare il dialogo che ha contribuito a rafforzare la comprensione delle sfide attuali e previste per l’alimentazione e l’agricoltura dell’Ue” nonché per “forgiare un nuovo approccio basato sul consenso per trovare soluzioni che coinvolgano gli agricoltori e altre parti interessate chiave dell’intera catena agroalimentare dell’Ue”.

Un medievalista per l’agricoltura moderna: la scelta di von der Leyen

Interrogata sulla scelta di un professore con competenze in storia medievale, la Commissione ha risposto che non si tratta della “conoscenza accademica specializzata del professor Peter Strohschneider, ma della personalità e della sua capacità di navigare come arbitro fidato in processi di negoziazione complessi”.

Il processo di selezione dei consulenti speciali è stato descritto come “piuttosto arbitrario” dal professor Demmke. Secondo le procedure della Commissione spetta a ciascun commissario identificare l’individuo che desidera assumere come consulente speciale con la successiva approvazione del Collegio dei Commissari su proposta del commissario responsabile dell’amministrazione, Johannes Hahn.

Strohschneider non è l’unico consulente speciale di von der Leyen ad essere retribuito. Il medico britannico-belga Sir Peter Piot è attualmente impiegato per consigliare la Presidente su questioni relative alla sicurezza sanitaria europea e globale, ricevendo lo stesso livello retributivo massimo di Strohschneider per un massimo di 58 giorni di lavoro tra aprile e novembre di quest’anno.

Secondo le regole della Commissione per i consulenti speciali, risalenti al 2007, la retribuzione dei consulenti è esente da tasse nazionali e soggetta a una cosiddetta “tassa comunitaria” molto più bassa. Gli altri consiglieri speciali di Von der Leyen sono Mario Draghi, che ha consegnato un rapporto di 400 pagine sulla competitività dell’Europa all’inizio di settembre, e l’ex presidente finlandese Sauli Niinistö, che sta scrivendo una relazione sulla preparazione della difesa dell’UE. Nessuno dei due è stato pagato per il proprio lavoro

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Selfie con la reietta di Orbán. Meloni rilancia Novák

Il 24 settembre 2024, Giorgia Meloni posta l’ennesimo selfie. Nella foto: la premier italiana, Elon Musk e Katalin Novák. La didascalia recita: “Solo i bambini possono salvare il mondo”.

Chi è Novák? Ex presidente della Repubblica ungherese, dimessa il 10 febbraio 2024. Il motivo? Uno scandalo di pedofilia. Aveva graziato il vicedirettore di un orfanotrofio, condannato per aver coperto abusi su minori.

Orbán, suo mentore politico, l’ha abbandonata. Meloni no. Anzi, fonti ungheresi rivelano: è stata la premier italiana a garantirle l’invito all’Atlantic Council, dove è stata scattata la foto.

Novák non è una figura qualunque. Ex ministra della Famiglia, paladina anti-LGBT, promotrice del World Congress of Families. Ora guida una “no profit contro il collasso demografico”.

Non è la prima volta che Meloni finisce nell’occhio del ciclone per un’immagine. 21 maggio 2023: l’Emilia-Romagna era sott’acqua e lei postava un selfie con Mel Gibson.

Ma mentre la premier colleziona selfie, l’Italia attende risposte. Il 20 settembre 2024, il sindaco di centrodestra di Brisighella (Ravenna) denuncia: nessun aiuto dal governo per l’alluvione del 2023. Dov’è finito il generale Figliuolo, nominato commissario straordinario il 10 luglio 2023?

Il contrasto è stridente: da un lato, selfie sorridenti con celebrità e politici caduti in disgrazia; dall’altro, comunità che ancora attendono aiuti concreti.

Ma questo selfie non è solo una foto. È un manifesto politico. Rivela priorità, alleanze, visioni del mondo. Mentre l’Italia affronta sfide concrete – dalla ricostruzione post-alluvione alla crisi economica – la sua premier sembra più interessata a coltivare un’immagine internazionale controversa. La politica pop è una bolla pronta a esplodere. 

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Dal canto dei bambini alle urla degli studenti: la giornata torinese di Valditara

Ieri il ministro dell’Istruzione si è recato a Torino per intervenire alla cerimonia del ventennale «Piazza dei Mestieri» in via Durandi. Il ministro era circondato da scorta e un cordone di forze dell’ordine. 

Poco prima era stato tutto più semplice. Alle 15 il ministro si era presentato in pompa magna all’Istituto comprensivo Turoldo alle Vallette dove i bambini l’hanno accolto ben ammaestrati con l’inno nazionale e tanta felicità di cortesia.

Torniamo in via Durandi. Qui niente bambini. C’erano studenti che contestano la riforma sugli istituti tecnici e professionali. «Una riforma che muove un’ulteriore passo verso la tendenza complessiva che da decenni piega ancora di più l’istruzione pubblica agli interessi delle aziende, iniziata dal governo Renzi con la riforma della Buona Scuola», ha spiegato la presidente della Consulta studentesca di Torino Caterina Mansueto.

Mentre il ministro svolge il suo intervento uno studente riesce a superare la barriera delle forze dell’ordine e compie un gesto pericoloso di questi tempi: dissente. «Valditara, lei si deve vergognare», urla il giovane al ministro prima di essere portato via con la forza. 

«Tu adesso lascia parlare, altrimenti sei un intollerante e antidemocratico, lascia parlare e abbi rispetto – ha risposto il ministro -. Io conosco meglio di te gli studenti, tu non sei uno studente, sei solo un provocatore».

Ha ragione Valditara: la democrazia secondo il governo di cui è parte consiste nell’obbligo e la buona educazione di essere sempre e solo d’accordo. Forse la democrazia secondo Valditara consiste nell’esercitare il diritto del potere di non avere contraddittorio. Tra poco arriveranno le leggi giuste per zittire il ragazzo. Il ministro intanto è uscito dal retro. 

Buon giovedì. 

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Boom di firme per la cittadinanza, destre alla carica sul referendum

Era fin troppo facile da prevedere. Il comitato promotore del referendum abrogativo che propone di cambiare la legge sulla concessione della cittadinanza italiana è riuscito a raccogliere le 500 mila firme richieste sulla piattaforma digitale del Ministero della Giustizia e nella maggioranza si comincia a mettere in discussione il sistema di raccolta.

In testa c’è il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli che lamenta la soglia “troppo bassa” delle 500 mila firme. “Forse andrebbero ripensate anche le soglie minime delle adesioni per avviare referendum o proposte di legge di iniziativa popolare”, disse già ad agosto in un’intervista a Il Sole 24 ore ancora frastornato dal referendum che promette di sgretolare la sua decantata autonomia differenziata. In queste ore nella maggioranza sono in molti a essere tentati dal colpo di mano per rendere più disagevole la raccolta firme. 

La storia si ripete: il dibattito sulle firme referendarie

La storia dei tentativi di modificare le regole referendarie è lunga quasi quanto la Repubblica stessa. Già nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente, si discusse animatamente sulla soglia delle firme. Costantino Mortati, padre costituente democristiano, propose inizialmente una soglia pari a un “ventesimo degli elettori”, che all’epoca equivaleva a circa 1,4 milioni di firme. La proposta fu oggetto di un acceso dibattito: alcuni la ritenevano troppo alta, altri troppo bassa. Alla fine, si giunse al compromesso delle 500 mila firme, inserito nell’articolo 75 della Costituzione.

Da allora, il tema è riemerso ciclicamente nel dibattito politico. Nel 2005, alcuni parlamentari sostenevano che il numero più giusto sarebbe stato 750 mila elettori. Nel 2003, si parlava di un milione o 700 mila firme. Durante la quindicesima legislatura (2006-2008), il senatore Cosimo Izzo di Forza Italia suggerì addirittura una soglia di 2 milioni di firme.

La digitalizzazione ha riacceso il dibattito. La possibilità di raccogliere firme online ha reso il processo più rapido ed efficiente, come dimostrato nel 2021 dalla campagna referendaria sulla cannabis, che raggiunse le 500 mila firme in una settimana. Questo successo ha allarmato parte della classe politica, che ha iniziato a invocare nuove regole.

La reazione del governo: eludere il merito, cambiare le regole

Di fronte al recente successo della raccolta firme per il referendum sulla cittadinanza, la reazione della maggioranza sembra seguire un copione già visto. Invece di confrontarsi sul merito della proposta, si mette in discussione il metodo. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, da New York, ha dichiarato: “Penso che il termine dei dieci anni sia congruo, penso che l’Italia abbia un’ottima legge sulla cittadinanza”. Una posizione che sembra ignorare la volontà espressa da mezzo milione di cittadini.

Meloni ha anche preso le distanze dall’iniziativa degli alleati di Forza Italia, che propongono di concedere la cittadinanza a chi ha studiato in Italia per almeno dieci anni. “Non conosco la proposta”, ha affermato la premier, mostrandosi fredda verso qualsiasi apertura sul tema.

L’atteggiamento della maggioranza, divisa tra chi vuole cambiare le regole e chi preferisce non affrontare l’argomento rivela la difficoltà nel gestire il dibattito sulla cittadinanza. Un tema che evidentemente mette in luce contraddizioni all’interno della coalizione di governo.

Il successo della raccolta firme ha colto di sorpresa una classe politica abituata a dettare l’agenda. Ora, di fronte a una chiara manifestazione di volontà popolare, la reazione sembra essere quella di alzare muri o spostare l’attenzione su questioni procedurali. L’importante, come sempre con questo governo, è svicolare dal merito delle questioni. 

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Duecento over 65 ogni 100 giovani: cronaca di un suicidio demografico

L’Italia invecchia, si sa, e lo fa a un ritmo che lascia poco spazio all’immaginazione. I dati di Openpolis raccontano di un Paese in rapida trasformazione demografica dove il rapporto tra anziani e giovani sta raggiungendo livelli senza precedenti. Le conseguenze non saranno facili da gestire. 

Oggi, per ogni 100 ragazzi sotto i 14 anni, ci sono quasi 200 over 65. Un dato che fa riflettere soprattutto se confrontato con la situazione di appena vent’anni fa, quando il rapporto era di 138 a 100. In termini assoluti, parliamo di 14,3 milioni di anziani contro 7,2 milioni di giovani. È come se intere città fossero popolate solo da nonni, con pochi nipoti a correre per le strade.

Ma non è solo una questione di numeri nazionali. L’invecchiamento della popolazione sta ridisegnando la geografia sociale dell’Italia. Tra il 2014 e il 2021, l’indice di vecchiaia è aumentato nel 92% dei comuni italiani. In alcune regioni, come la Puglia, questa percentuale raggiunge addirittura il 98,8%. Veneto e Toscana non sono da meno, con percentuali che superano il 97%.

Ci sono città che sembrano aver perso completamente il contatto con la gioventù. Carbonia, in Sardegna, detiene il triste primato con 330,8 anziani ogni 100 bambini. Cagliari la segue a ruota, superando quota 300. E non sono casi isolati: Oristano, Ascoli Piceno e Biella superano tutte i 275 anziani per 100 giovani.

Lo squilibrio demografico inevitabilmente sta creando paradossi sociali. Da un lato abbiamo il 14% dei minori che vive in povertà assoluta. Dall’altro “solo” il 6,2% degli over 65 si trova nella stessa condizione. Sembrerebbe che i nostri anziani stiano meglio dei giovani ma attenzione: il 9,2% di loro deve arrangiarsi con pensioni sotto i 500 euro al mese.

La geografia della povertà anziana è altrettanto variegata. Nella provincia di Crotone, la percentuale di pensionati con redditi bassi raggiunge il 16,8%. Agrigento, Barletta-Andria-Trani e l’area metropolitana di Napoli superano tutte il 15%. Sempre a proposito della disparità economica di un Paese già differenziato. 

L’invecchiamento della popolazione sta mettendo alla prova il sistema di welfare italiano. I nonni, tradizionalmente figure di supporto per molte famiglie, si trovano ora in una posizione ambivalente. Le famiglie con almeno un anziano presentano un tasso di povertà assoluta del 6,4%, nettamente inferiore al 12% delle famiglie con minori. Ma questo dato nasconde una realtà più complessa.

La crescente popolazione anziana richiede sempre più risorse e servizi. Chi si prenderà cura di loro quando non saranno più autosufficienti? E chi si occuperà dei pochi bambini quando i nonni non potranno più farlo? Sono domande che richiedono risposte urgenti.

La denatalità, unita all’allungamento della vita media, sta creando un cortocircuito demografico che richiede interventi strutturali. Non si tratta solo di garantire pensioni dignitose ma di ripensare l’intero sistema di welfare in funzione di una società che invecchia.

I dati di Openpolis fotografano uno spaccato impietoso ma necessario della realtà. L’Italia che invecchia è un’Italia che rischia di perdere la sua vitalità, la sua capacità di innovare e di crescere. Ma è anche un’Italia che ha l’opportunità di reinventarsi valorizzando l’esperienza degli anziani e investendo sui giovani.

Il futuro dell’Italia passa inevitabilmente per un nuovo equilibrio generazionale. Un equilibrio che non può essere trovato ignorando i numeri, e che non si risolve con un poi di propaganda bassa sui figli da sfornare per il bene della Patria. Le leggi che governavano gli equilibri demografici vent’anni fa non funzionano più. Quell’Italia non c’è più. 

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Dall’Assemblea Onu: “Siamo in un purgatorio di polarità”

Il discorso di Antonio Guterres all’Assemblea generale delle Nazioni Unite fotografa questo tempo.

«Nonostante tutti i suoi pericoli, la Guerra Fredda aveva delle regole», afferma Guterres, contrapponendo quel periodo al caos odierno. «Ci stiamo muovendo verso un mondo multipolare, ma non ci siamo ancora arrivati, siamo in un purgatorio di polarità».

Il Segretario generale denuncia un’impunità dilagante: «Possono calpestare il diritto internazionale, possono violare la Carta dell’Onu. Possono invadere un altro Paese, portando distruzione ad intere società o non rispettando interamente il benessere del proprio popolo. E non succede nulla».

Guterres non si limita a generalizzazioni, ma cita specifici teatri di crisi: l’Ucraina, Gaza, il Sudan. «La guerra in Ucraina si sta diffondendo senza segni di cedimento», osserva, mentre descrive Gaza come «un incubo permanente che minaccia di portare tutta la regione con sé».

Il suo j’accuse non risparmia nessuno: «Il livello di impunità nel mondo è politicamente indifendibile e moralmente intollerabile». Un’accusa che risuona in ogni angolo del globo, dal Medio Oriente al cuore dell’Europa, dal Corno d’Africa e oltre.

La diagnosi di Guterres è impietosa: «sfide mai viste prima» si scontrano con «divisioni geopolitiche [che] continuano ad approfondirsi». Il risultato? «Il pianeta continua a riscaldarsi. Le guerre infuriano senza sapere come finiranno. E le posizioni nucleari e le nuove armi gettano un’ombra oscura».

«Non possiamo continuare così», dice. Se l’avesse scritto in un editoriale qui in Italia per molti sarebbe un «pacifinto» se non addirittura un antisemita.

Buon mercoledì.

Nella foto: il Segretario generale dell’Onu, 20 settembre 2022

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Abbasso Soros, viva Musk. Questione di stati d’animo

C’era un tempo in cui Giorgia Meloni era a capo di un nugolo di politici, Salvini incluso, che tutti i giorni sparavano contro George Soros. La colpa di Soros sarebbe di essere ricco ma soprattutto di utilizzare i suoi soldi per condizionare le democrazie. I soldi che condizionano le democrazia sono un tema serissimo, in effetti. Non avevano torto. Non si capisce però perché Giorgia Meloni qualche mese dopo, a capo del governo italiano, abbia deciso di fare la valletta di un altro ricchissimo: Elon Musk. Musk come Soros è tra gli uomini più ricchi del pianeta. Musk a differenza di Soros si è intestato la missione di condizionare le elezioni Usa e di indirizzare la politica europea.

Par di capire quindi che per Meloni (e compagnia cantante) il problema non siano i condizionamenti della politica ma siano più banalmente i condizionamenti contrari alle politiche che vorrebbero. Sembrava una questione etica e invece è una malinconica zuffa tra tifosi. Peccato. Non è l’unica inversione. Meloni in gita a New York per ritirare il premio della sagra dei sovranisti ha inscenato con il capo di Tesla anche un simpatico siparietto su nazione e patriottismo che secondo la premier significherebbero “uno stato d’animo a cui si appartiene”. Sarà per questo che il sudafricano bianco Elon Musk non le suscita le stesse preoccupazioni di quelli più poveri e scuri. Questioni di stato d’animo, non di Stati con la maiuscola. Meloni ha anche parlato di un “esercito di troll stranieri e maligni che è impegnato a manipolare la realtà e sfruttare le nostre contraddizioni”. Musk si sarà sentito chiamato in causa, pensando che la presidente si riferisse al suo X ex Twitter. Invece era solo uno stato d’animo.

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