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La lezione degli italiani alla politica

Ieri sono state raggiunte le 500mila firme richieste per convocare la prossima primavera il referendum di modifica sulla legge di cittadinanza. Il quesito propone di dimezzare la residenza legale (da 10 a 5 anni) necessaria per ottenere la cittadinanza italiana, fermi restando tutti gli altri obblighi di legge come la conoscenza della lingua italiana, il possesso negli ultimi anni di un consistente reddito, l’incensuratezza penale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica. Abbiamo trascorso l’estate a veder sbandierare il diritto alla cittadinanza dal leader di Forza Italia Antonio Tajani con gli altri della maggioranza. Un dibattito utile a “passa’ ‘a nuttata” e fingere progressismo in una maggioranza conservatrice.

Abbiamo trascorso gli ultimi anni ad ascoltare i partiti politici di destra ripetere che la questione della cittadinanza non interessa agli italiani (sono circa due milioni e mezzo le persone per cui sarebbe decisivo il referendum). Abbiamo ascoltato i partiti di centrosinistra promettere in campagna elettorale per poi timidamente ritirarsi quando ne avevano l’occasione. Quel mezzo milione di firme indica che il Paese è molto più avanti della politica che lo rappresenta. Non è il Paese descritto da Meloni e Salvini a braccetto con Musk e non è nemmeno il Paese timoroso sospettato dal centrosinistra. La società è molto meno doma di quanto appaia l’opposizione, è molto meno sparsa ed è molto più veloce nella mobilitazione.

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L’ombra dei giganti: così Amazon, Tesla, Meta & C. manipolano i processi democratici

In un’era in cui il potere economico sembra spesso eclissare quello politico emergono inquietanti verità sul ruolo delle grandi aziende nel plasmare – e talvolta minare – i fondamenti stessi della democrazia globale. Un recente rapporto dell’International Trade Union Confederation (Ituc) getta luce su pratiche di cui forse la politica dovrebbe occuparsi con più coraggio. 

Al centro di questa rete di influenza troviamo nomi che quotidianamente entrano nelle nostre vite: Amazon, Tesla, Meta, ExxonMobil, Blackstone, Vanguard e Glencore. Giganti dell’economia mondiale che, secondo l’ITUC, non si limitano a dominare i mercati ma estendono i loro tentacoli fino a toccare le corde più sensibili della politica e della società.

Multinazionali e regole democratiche

Amazon, il colosso dell’e-commerce guidato da Jeff Bezos, si distingue non solo per la sua posizione dominante nel mercato ma anche per le sue pratiche aggressive nei confronti dei sindacati. L’azienda, quinta maggiore datore di lavoro al mondo, è stata accusata di violare i diritti dei lavoratori su più continenti, di eludere le tasse e di esercitare una pressione lobbistica senza precedenti a livello nazionale e internazionale. La sua influenza si estende fino al punto di sfidare la costituzionalità del National Labor Relations Board negli Stati Uniti e di tentare di sovvertire le leggi sul lavoro in Canada.

Non meno controverso è il ruolo di Tesla e del suo eccentrico fondatore, Elon Musk. L’azienda automobilistica, simbolo dell’innovazione tecnologica, si trova al centro di accuse di violazioni dei diritti umani nella sua catena di approvvigionamento e di feroci opposizioni alle organizzazioni sindacali in Stati Uniti, Germania e Svezia. Musk stesso è finito sotto i riflettori per il suo sostegno a figure politiche controverse come Donald Trump, Javier Milei in Argentina e Narendra Modi in India, sollevando interrogativi sul ruolo dei magnati tech nella formazione dell’opinione pubblica e nelle dinamiche politiche globali.

Meta, l’impero dei social media di Mark Zuckerberg, si trova al centro di un ciclone di critiche per il suo ruolo nell’amplificare la propaganda dell’estrema destra e nel facilitare la crescita di movimenti antidemocratici. La piattaforma, che raggiunge miliardi di utenti in tutto il mondo, è accusata di essere un veicolo per la diffusione di disinformazione e odio, minando le basi stesse del dibattito democratico in numerosi paesi.

Multinazionali della finanza e dell’energia

Il rapporto dell’ITUC non risparmia nemmeno i giganti della finanza e dell’energia. Blackstone, guidata dal miliardario Stephen Schwarzman, noto sostenitore di Donald Trump, è accusata di finanziare movimenti politici di estrema destra e di investire in progetti fossili e di deforestazione nell’Amazzonia. ExxonMobil, dal canto suo, è citata per il suo ruolo nel finanziare ricerche anti-climatiche e per le sue aggressive attività di lobbying contro le regolamentazioni ambientali.

Le aziende, con le loro vaste risorse finanziarie e la loro influenza capillare, sembrano in grado di plasmare l’agenda politica globale a loro vantaggio, spesso a discapito dei diritti dei lavoratori, dell’ambiente e della stessa sovranità degli Stati nazionali.

La sfida che si presenta è titanica. Come sottolinea Todd Brogan, direttore delle campagne e dell’organizzazione dell’ITUC, “si tratta di potere, di chi ce l’ha e di chi stabilisce l’agenda”. In un mondo in cui le corporazioni multinazionali spesso superano il potere degli Stati, e in cui non esiste alcuna responsabilità democratica, è fondamentale che i lavoratori e i cittadini si organizzino per contrastare questa deriva.

Il 2024 si preannuncia come un anno cruciale, con 4 miliardi di persone chiamate alle urne in tutto il mondo. In questo contesto, l’ITUC sta spingendo per un trattato internazionale vincolante che possa finalmente rendere le corporazioni transnazionali responsabili ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani. Anche da noi Meloni aveva promesso di fare “la guerra alle multinazionali”. Per ora l’abbiamo solo ricevere un premio da Musk. 

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Ndrangheta, sei arresti in Piemonte. C’è anche D’Onofrio: tra le accuse al boss anche quella di aver infiltrato un sindacato edile

Questa mattina all’alba Moncalieri si è svegliata con l’arresto di Franco D’Onofrio, 60 anni, originario di Mileto (Vibo Valentia), ritenuto dagli investigatori il vertice della ‘Ndrangheta in Piemonte. 

L’operazione, condotta dal Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di Finanza di Torino, ha portato all’arresto di altre cinque persone. Gravi le accuse: associazione di stampo mafioso, estorsione aggravata dal metodo mafioso, traffico di armi. 

Ndrangheta in Piemonte: l’organizzazione

Secondo gli investigatori l’organizzazione criminale ha infiltrato profondamente il tessuto economico della provincia torinese, con particolare attenzione al carmagnolese. Il modus operandi dell’organizzazione si basa su intimidazione, assoggettamento e omertà, permettendo il controllo di attività economiche strategiche: edilizia, immobiliare, trasporti, ristorazione. 

Non solo: le cosche avrebbero esteso la loro influenza anche su una sigla sindacale degli edili. Un membro eletto nella locale segreteria di un sindacato del settore edilizio sarebbe stato fondamentale per l’operatività dell’associazione criminale. Questa infiltrazione, se confermata, rappresenterebbe un grave attacco alle istituzioni che dovrebbero tutelare i lavoratori e un salto di qualità della penetrazione della ‘Ndrangheta nell’ambito lavorativo. 

Il nome di Franco D’Onofrio era emerso anche nelle indagini sull’omicidio del procuratore Bruno Caccia, ucciso a Torino nel 1983: secondo le dichiarazioni di Domenico Agresta, giovane pentito di ‘Ndrangheta, suo padre lo avrebbe indicato come uno degli esecutori materiali del delitto. D’Onofrio era comunque uscito dal procedimento con un’archiviazione definitiva disposta dal Gup di Milano nel dicembre 2023. La decisione aveva suscitato perplessità nella famiglia Caccia, convinta che ci fossero ancora molti aspetti da chiarire su quell’omicidio.

La storia di D’Onofrio è complessa e intrecciata con vicende di criminalità organizzata e terrorismo. Prima di essere coinvolto con la ‘Ndrangheta, D’Onofrio militò nei Colp (Comunisti organizzati per la liberazione proletaria), un’organizzazione nata per far evadere i brigatisti dalle carceri. Il passato nel terrorismo aggiunge un nuovo tassello alla già complicata ricostruzione dell’omicidio Caccia.

Nel 1986 fu arrestato in Svizzera dopo un conflitto a fuoco e successivamente estradato in Italia. Nel 2011 il suo nome apparve nell’operazione Minotauro, un’indagine sulla presenza delle ‘ndrine in Piemonte. Il pentito Rocco Varacalli lo descrisse come appartenente alla ‘Ndrangheta, mentre i Pm lo indicarono come membro del “crimine di Torino” con la dote di “padrino”.

Ndrangheta in Piemonte: le carte del Gico

Dalle indagini del Gico di Torino sarebbe emerso che “la ‘Ndrangheta ha fornito sul territorio di Carmagnola protezione a imprenditori nel corso di dissidi con altri operatori economici. Tale servizio di protezione veniva remunerato con somme di denaro riscosse e successivamente destinate agli associati”. 

D’Onofrio sarebbe stato “il riferimento per appartenenti alla criminalità organizzata comune che intendevano ottenere avallo per la propria attività delittuosa. Egli risulta aver esercitato il proprio ruolo anche sovraintendendo alle attività dei partecipi del sodalizio carmagnolese nel settore dell’edilizia, e poi aver assicurato i sostentamenti finanziari per le spese legali degli associati e le loro famiglie”. 

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Con la favola del “mai visto prima” Fratelli d’Italia ribalta la realtà

Ogni giorno riescono a superarsi. Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia, ha recentemente offerto un esempio lampante di come l’entusiasmo politico possa facilmente trasformarsi in un boomerang quando è del tutto sconnesso dalla realtà storica dei fatti.

Il 17 settembre, intervistato da Radio Radicale, Donzelli ha commentato la nomina di Raffaele Fitto come vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Con toni trionfalistici, ha dichiarato: “Fitto avrà due importanti deleghe e sarà un vicepresidente esecutivo, risultato che l’Italia non aveva mai raggiunto”. Una frase che suona come un inno alla grandezza del governo Meloni, ma che in realtà si scontra con la storia recente dell’Italia in Europa.

La gaffe storica: quando l’entusiasmo supera la conoscenza

Come riportato da Pagella Politica, che ha fatto una verifica puntuale delle sue affermazioni, la dichiarazione di Donzelli è, per usare un eufemismo, esagerata. Sì, è vero che Fitto è il primo italiano a ricevere la nomina di vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Ma il motivo è semplice: questo ruolo è stato creato solo nel 2019. Un dettaglio non trascurabile che Donzelli sembra aver dimenticato o, peggio, ignorato.

Ma non è tutto. La sua affermazione lascia intendere che l’Italia non abbia mai avuto ruoli di primo piano nell’Unione Europea. La realtà è ben diversa: in 12 delle 17 precedenti Commissioni Ue, l’Italia ha avuto un vicepresidente. Un record tutt’altro che trascurabile, che smentisce clamorosamente la narrativa del “risultato mai raggiunto” proposta da Donzelli.

E se questo non bastasse, ci sono due nomi che brillano nella storia italiana in Europa: Franco Maria Malfatti e Romano Prodi. Entrambi sono stati presidenti della Commissione Ue. Malfatti dal 1970 al 1972 e Prodi dal 1999 al 2004. Presidenti, non vicepresidenti. Un dettaglio che sembra sfuggire alla memoria selettiva di certa politica.

Il peso dell’Italia in Europa: una storia dimenticata da Fratelli d’Italia

Anche la storia più recente smentisce le affermazioni di Donzelli. Paolo Gentiloni, nel 2019, ha ottenuto la delega agli Affari economici, una delle più importanti all’interno della Commissione Ue. Federica Mogherini è stata Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dal 2014 al 2019. Antonio Tajani è stato vicepresidente della Commissione Barroso dal 2008 al 2014. La lista potrebbe continuare, ma già questi esempi bastano a smontare la retorica trionfalistica di Donzelli.

Ma il vero nodo è la narrazione con cui la destra si ostina a dipingere ogni minima azione del governo Meloni come un trionfo senza precedenti. Questa tendenza a esaltare e presentare come straordinario ciò che è nella norma. L’entusiasmo è una bella cosa, non c’è dubbio. Ma quando si ricopre un ruolo pubblico, quando si è chiamati a rappresentare gli italiani, sarebbe auspicabile che questo entusiasmo fosse accompagnato da una conoscenza almeno basilare dei fatti oltre che dalla giusta misura.

La nomina di Fitto è certamente un risultato positivo per il governo ma presentarla come un trionfo senza precedenti non solo è esagerato, ma anche controproducente. Non serve studiare troppo. Ai parlamentari della maggioranza basterebbe fare un giro veloce e superficiale su Wikipedia o su Google. Potrebbero scoprire che l’Italia ha una lunga e importante tradizione di presenza nelle istituzioni europee. Ma in fondo, perché rovinare una bella storia con la fastidiosa intrusione dei fatti?

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Una facile profezia sul referendum di cittadinanza

Prendete questo articolo, ritagliatelo e tenetelo in tasca. Tornerà utile. La raccolta firme per il cosiddetto referendum sulla cittadinanza che si propone di dimezzare il termine di 10 anni di residenza per ottenere la cittadinanza italiana (com’era prima del 1992) nel momento in cui scrivo sta sfiorando la soglia delle 430 mila firme. L’obiettivo è di arrivare a 500 mila in pochi giorni per poter ottenere il referendum nella prossima primavera. Ci siamo, quasi. 

Il referendum è stato proposto da una rete di partiti (Più Europa, Possibile, Radicali Italiani, Partito Socialista Italiano, Rifondazione Comunista) e associazioni (Italiani senza Cittadinanza, CoNNGI, Idem Network, Libera, Gruppo Abele, Società della Ragione, A Buon Diritto, ARCI, ActionAid, Oxfam Italia, Cittadinanza Attiva, Open Arms, Forum Disuguaglianze Diversità, Recosol, MAEC, InMenteItaca, Le Contemporanee, InOltre Alternativa Progressista, ASGI) che stanno riuscendo a raggiungere un obiettivo che pareva impossibile fino a pochi giorni fa. 

È indicativo il fatto che i partiti più importanti di centro e del centrosinistra abbiano cominciato ad attivarsi quando hanno sentito profumo di possibilità (facile così, eh). 

Se, come sembra, si andrà a referendum sarà accaduto che un’iniziativa popolare abbia superato le moine della politica che su Ius scholae e Ius soli hanno banchettato durante la radura estiva. La politica istituzionale dovrà quindi riconoscere di essere stata superata dalla volontà popolare nel giro di pochi giorni, con lo strumento della firma digitale. A molti non piacerà (anche a qualche insospettabile) e lo strumento verrà messo in discussione. Voi potrete dire «l’avevo letto su Left». 

Buon martedì. 

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Altra retromarcia di Meloni, stavolta su Poste Italiane

Era il 2018. Giorgia Meloni, come di consueto, era arrabbiata, arrabbiatissima. “Per Fratelli d’Italia Poste italiane è un gioiello che deve rimanere in mano italiana e pubblica, è un presidio di legalità e di presenza dello Stato. Ci batteremo in tutti i modi possibili per evitarne la svendita”, scriveva. 

Ce l’aveva con Matteo Renzi, a capo del governo che stava prendendo in considerazione la privatizzazione di Poste. 

C’è anche un video d’epoca. Meloni si mette in posa di fronte a uno striscione “Poste bene pubblico: giù le mani!”. Tra i reggi striscione c’è un giovane Donzelli, ora uno dei big del partito, che ride fragorosamente. Meloni lo sgrida, lui si rimette buono. Si avvicinano i giornalisti e Meloni parla degli “oltre 141 mila dipendenti” e dei ”13 mila presidi aperti sul territorio” e “oltre 500 miliardi dei risparmi degli italiani” per dire che “Poste italiane è un gioiello che la sinistra tenta in tutti i modi di svendere”. 

Finita la dichiarazione alla stampa la giovane Meloni si avvicina a Pif, lì presente in veste di inviato,  e gli sussurra: “Con voi di sinistra siamo d’accordo contro questi del PD, che stanno con le banche. Perché vogliono dare via Poste? Perché CDP gli fa concorrenza. Capito?”.

Renzi privatizzò un pezzo di Poste. Il governo di Meloni sta facendo il resto. Dopo il disco verde della scorsa settimana al Dpcm che regolamenta l’alienazione di una quota della partecipazione detenuta dal Mef in Poste Italiane, il ministero dell’Economia e la società sarebbero già al lavoro per cedere la seconda tranche del capitale, pari ad una quota del 15%, entro un mese.

Il presidio di legalità e di presenza dello Stato al miglior offerente. 

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Elezioni regionali, Scholz si salva ma non esulta. I Socialdemocratici restano primo partito, ma Afd li tallona da vicino

Con un insperato colpo di scena il Partito Socialdemocratico (SPD) ha mantenuto la sua posizione di forza dominante nel Land del Brandeburgo, respingendo l’assalto dell’ultradestra Alternative für Deutschland (AfD). Le elezioni statali di domenica 22 settembre 2024 hanno visto una rimonta spettacolare della SPD guidata dal popolare governatore uscente Dietmar Woidke, che è riuscito a superare l’AfD sul filo di lana dopo mesi di sondaggi sfavorevoli.

Secondo i risultati ufficiali provvisori, la SPD ha ottenuto il 30,9% dei voti, in aumento rispetto al 26% del 2019. L’AfD, pur registrando una crescita significativa, si è fermata al 29,2%, mancando per poco quella che sarebbe stata una vittoria storica. La sorpresa della giornata è stata il debutto della Sahra Wagenknecht Alliance (BSW), un nuovo partito di sinistra conservatrice, che ha conquistato il 12% dei consensi.

La strategia vincente di Woidke: distanza da Berlino e focus sul territorio

La campagna elettorale è stata caratterizzata da una strategia insolita da parte di Woidke: prendere le distanze dal cancelliere federale Olaf Scholz e dal governo di coalizione “semaforo” a Berlino. La mossa, che inizialmente sembrava rischiosa, si è rivelata vincente. Woidke ha fatto leva sulla sua popolarità personale e sul suo record di governo, presentandosi come un leader locale attento alle esigenze del territorio più che come esponente del partito nazionale.

Il risultato rappresenta un sollievo per il cancelliere Scholz, la cui popolarità a livello nazionale è ai minimi storici. Tuttavia, la vittoria della SPD in Brandeburgo sembra essere più un successo personale di Woidke che un endorsement della leadership di Scholz. Il governatore aveva addirittura escluso il cancelliere dalla sua campagna elettorale, temendo che la sua presenza potesse avere un impatto negativo.

Per l’AfD, classificata come organizzazione estremista di destra nel Brandeburgo dalle agenzie di intelligence, il risultato rappresenta comunque un progresso significativo. Il partito ha consolidato la sua posizione come seconda forza politica nello stato, guadagnando circa 6 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2019.

La CDU, il partito conservatore che un tempo dominava la politica tedesca, ha subito una pesante sconfitta, ottenendo solo il 12% dei voti, il suo peggior risultato dalla riunificazione tedesca. Questo crollo potrebbe avere ripercussioni a livello nazionale, alimentando le richieste di elezioni anticipate da parte dell’opposizione.

I Verdi, partner della coalizione “semaforo” a livello federale, hanno registrato un risultato deludente, non riuscendo a superare la soglia del 5% necessaria per entrare nel parlamento statale.

Il successo della BSW, il nuovo partito fondato dall’ex leader della sinistra Sahra Wagenknecht, aggiunge un elemento di incertezza al panorama politico. Con la sua piattaforma che combina politiche di sinistra su questioni economiche con posizioni più conservatrici sull’immigrazione e critiche verso il sostegno militare all’Ucraina, la BSW potrebbe giocare un ruolo chiave nella formazione del nuovo governo statale.

Scenari post-voto: nuovi equilibri e possibili coalizioni

Woidke ha già annunciato l’intenzione di avviare colloqui per formare una nuova coalizione di governo, indicando la possibilità di un’alleanza a tre che includa la CDU e la BSW. Il risultato del voto propone diversi spunti. Da un lato, dimostra che i partiti tradizionali possono ancora resistere all’avanzata dell’estrema destra se si radicano fortemente nel territorio e si concentrano sulle questioni locali. Dall’altro, evidenzia la crescente frammentazione del paesaggio politico, con l’emergere di nuovi attori come la BSW che sfidano le dinamiche consolidate. Il “muro anti-sovranisti” ha retto in Brandeburgo ma la sfida dell’estrema destra rimane viva in Germania.

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Contratti scaduti e paghe da fame, la sanità privata scoppia

Oggi, 23 settembre 2024, la sanità privata italiana si ferma. Oltre 200mila lavoratori tra infermieri, fisioterapisti e operatori sanitari hanno incrociato le braccia, stanchi di attendere un rinnovo contrattuale che tarda ad arrivare. La mobilitazione, indetta da Cgil, Cisl e Uil, vede presidi in tutto il Paese, da Ancona a Catanzaro, passando per le grandi città come Roma, Milano e Napoli.

Sanità, la disparità che fa male: numeri e cifre di un’ingiustizia

Al centro della protesta, la disparità di trattamento tra i dipendenti del settore pubblico e quelli del privato. Nonostante – dicono le associazioni di categoria – svolgano le medesime mansioni, con pari responsabilità e fatica, questi ultimi percepiscono stipendi significativamente inferiori. Un infermiere del privato guadagna in media 170 euro in meno al mese rispetto a un collega del pubblico. La situazione è ancor più critica per chi opera nelle Rsa, con una differenza salariale che può superare i 350 euro mensili.

Ma non è solo una questione di denaro. I lavoratori del settore privato lamentano anche una carenza di diritti fondamentali come quelli legati alla malattia. Mentre nel pubblico le assenze per malattia sono pienamente retribuite, nel privato – soprattutto nelle Rsa – si assiste a un sistema a scalare che può portare alla totale mancanza di retribuzione.

Dal tavolo delle trattative alle piazze: cronaca di un dialogo fallito

La radice del problema affonda in un passato non troppo lontano. Nel 2012, Aiop e Aris siglarono due accordi che non sono mai stati rinnovati. Dopo un paziente lavoro sindacale tra ottobre 2023 e gennaio 2024 sembrava si fosse giunti a un punto di svolta con l’apertura di tavoli di trattativa per un contratto unico. Tuttavia, le condizioni poste da Aiop e Aris per sedersi al tavolo sono state giudicate inaccettabili dai sindacati.

“Ci è stato risposto che per rinnovare il contratto e scriverne uno unico, con anche la parte normativa adeguata, c’era bisogno che i soldi li mettesse il governo”, dichiara Barbara Francavilla, segretaria della Fp Cgil. Una richiesta che suona come un déjà-vu: la stessa situazione si era verificata la scorsa settimana con lo sciopero dei dipendenti Uneba.

La posta in gioco è alta. I sindacati chiedono a gran voce la revoca dell’accreditamento alle strutture che non rinnovano i contratti o che applicano contratti lesivi della dignità del lavoro. “Queste strutture, destinatarie di appositi finanziamenti pubblici da parte delle singole regioni, stanno continuando a svilire e sottopagare oltre 200mila lavoratrici e lavoratori che ogni giorno si prendono cura di chi ha bisogno di assistenza”, denunciano i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil.

Anche gli Ordini dei Medici hanno annunciato la loro partecipazione a una manifestazione prevista per il 25 settembre al teatro Brancaccio di Roma. “Dal nostro osservatorio registriamo un malessere crescente tra i colleghi”, afferma Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, sottolineando come il disagio sia trasversale alle diverse declinazioni della professione, sia nel pubblico che nel privato.

La situazione attuale mette in luce le profonde contraddizioni di un sistema sanitario sempre più frammentato. Da un lato, abbiamo una sanità pubblica allo sfacelo, con liste d’attesa interminabili e personale ridotto all’osso. Dall’altro, un settore privato che, pur beneficiando di finanziamenti pubblici sembra più interessato a massimizzare i profitti che a garantire condizioni di lavoro dignitose ai propri dipendenti.

È evidente che a guadagnare da questo sfacelo del Sistema Sanitario Nazionale non sono certo i lavoratori, ma i soliti noti: grandi gruppi e imprenditori che vedono nella sanità un’opportunità di business, più che un servizio essenziale per la comunità. Mentre i pazienti si trovano stretti tra l’incudine di un pubblico in affanno e il martello di un privato sempre più costoso sono i lavoratori a pagare il prezzo più alto di una crisi ormai sistemica.

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Dalla Chiesa, Andreotti e il passato che non passa

A forza di mitigare la memoria accadono fine settimana come quello appena trascorso in cui l’Italia si sveglia di soprassalto per le scontate parole di Rita Dalla Chiesa, conduttrice televisiva prestata alla politica nelle fila di Forza Italia nonché figlia del generale Carlo Alberto ucciso a Palermo nel 1982.

Dalla Chiesa ha detto ciò che chiunque si interessi minimamente alla storia di questo Paese sa: il generale dei carabinieri venne ucciso sì dalla mafia ma dietro al suo omicidio ci furono menti raffinatissime che erano esterne a Cosa nostra. La sentenza del 2002 scrive: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. 

L’8 marzo del 2017 Roberto Scarpinato, al tempo Procuratore Generale di Palermo (oggi senatore), rivelò in una seduta secretata alla commissione antimafia che Gioacchino Pennino (medico, uomo di Cosa nostra e massone, diventato collaboratore di giustizia) raccontò di aver saputo da altri massoni che “l’ordine di eliminare Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma, dal deputato Francesco Cosentino”, democristiano, fedelissimo di Giulio Andreotti, segretario generale della Camera e personaggio di rilievo della loggia massonica P2 di Licio Gelli.

Proprio a Andreotti ha fatto riferimento Rita Dalla Chiesa pur senza farne il nome per “rispetto alla famiglia” (qualsiasi cosa voglia dire). 

Intorno stupore e costernazione. C’è da capirli: avevano convenuto di non parlare più di mafia e ora qualcuno si mette a ripassare la storia. Poi magari un giorno la parlamentare di Forza Italia potrebbe anche dirci degli accordi tra la mafia e alcuni fondatori del partito in cui milita. 

Buon lunedì. 

Nella foto: il cartello apparso sul luogo dell’assassinio del generale e di sua moglie

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Patrimoniale sull’ignoranza

Che al governo risultino sgraditi coloro che da tempo cercano di accendere l’attenzione sui catastrofici effetti del cambiamento climatico non è un mistero. L’infantilizzazione dell’attivismo climatico è un progetto ampio che poggia su reti televisive private compiacenti, dirigenti compiacenti delle reti pubbliche e una larga schiera di giornali appartenenti all’aerea di destra e cosiddetta liberale. Per tacciare i contestatori hanno pensato addirittura ad una legge ad hoc. E fa niente se comprime la libertà di tutti: l’elettore di destra è contento che quelli vengano puniti e questo lo rende felice anche se ha il culo appoggiato su un pianeta in ebollizione che minaccia l’estinzione della sua specie.

“L’abbiamo fatto per proteggere le opere d’arte e i cittadini”, spiegano dalla maggioranza. Che per il cambiamento climatico siano a rischio l’arte e i cittadini a loro poco importa. Poi è accaduto che da qualche giorno il cuore dell’Europa sia sotto una tempesta che a parere di gran parte della comunità scientifica ha effetti devastanti a causa dell’innalzamento delle temperature. Dalle nostre parti qualcuno sorrideva sornione spiegando che “fa troppo freddo per esserci il cambiamento climatico”. E giù di risate soddisfatte e di applausi, gli stessi riservati alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni quando urla che il Green Deal europeo è da bloccare con forza, con più forza della crisi climatica.

Quindi è finita sott’acqua una parte d’Italia, la stessa già martoriata un anno fa. Sono iniziate le puerili rivendicazioni politiche e il ministro Nello Musumeci ha avuto una grande idea: a pagare i costi dei danni dell’emergenza climatica – che la sua maggioranza non perde occasione di minimizzare – potrebbero essere i cittadini con una bella assicurazione obbligatoria. Ma come, ma mica le alluvioni ci sono sempre state? Le assicurazioni dicono che il 2023 è stato l’anno peggiore di sempre. E quindi il cittadino pagherà i danni provocati da un fenomeno che nel centrodestra in molti negano. Una vera e propria patrimoniale. Sull’ignoranza.

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