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Carnaio

Nel “Carnaio” di Giulio Cavalli la paura nei confronti dell’altro diventa profitto

Lo scrittore racconta il dramma dell’emigrazione e di come viene percepita da una società incapace di fare fronte al fenomeno 

(Lilia Ambrosi 25 Agosto 2019, Il Piccolo, fonte)

l’intervista Il primo cadavere arriva nel porto di DF in marzo e si può ancora fare finta di niente, ma quando nel pomeriggio del 4 aprile arriva un’onda fatta di migliaia di corpi tutti uguali, pelle scura, differenze di pochi centimetri e qualche grammo, l’insicurezza cala sul paesino costiero come una cupa cappa sconosciuta. Giulio Cavalli, uomo di teatro e d’inchiesta, finalista al Campiello, ci racconta in “Carnaio” (Fandango,pagg. 218 pagine, Euro 17,00) cosa l’Onda fa esplodere tra gli abitanti di questo piccolo luogo. 

Con una scrittura molto bella, che confronta con l’ironia l’ipocrisia, dipinge le reazioni delle istituzioni e dei singoli e lo fa toccando argomenti di grande attualità. Diciamo solo che DF imparerà a nutrirsi della sua disgrazia affondando nel cinismo fino, a costruire un mare finto pur di chiudersi in una difesa alla paura dal sapore patetico e decisamente spaventoso. 

Questo libro è per lei un atto di ribellione? 

«Mah sì, diciamo che uno dei comandamenti che mi porto dietro in tutto quello che faccio è una frase di Mark Twain che dice che non bisogna avere paura di ciò che non si conosce, ma dobbiamo temere quello che crediamo vero e invece non lo è. “Carnaio” ha una parte iniziale che vuole sbriciolare certi pregiudizi o certe grette e strette visioni che abbiamo per provare ad offrire una visuale inaspettata. Che poi è fondamentalmente il lavoro del giullare sul palco. E che è il lavoro che può svolgere molto dignitosamente la letteratura». 

In questo libro la paura abbonda. 

«Stiamo vivendo una realtà percepita che non è poi legittimata dai fatti e dai numeri e abbiamo preso questa china per cui la nostra sensazione diventa un fatto e viene rivenduta come se fosse l’unica verità possibile. Il che ci espone ad un inquinamento intellettuale molto pericoloso. L’ancoraggio ai fatti che di solito veniva mantenuto dall’informazione o dagli intellettuali, quando questo paese aveva degli intellettuali, è venuto completamente a mancare. Oggi vale qualsiasi affermazione o considerazione non verificata, non verificabile, non poggiata su dati reali e allora improvvisamente tutto vale. È quindi normale che i più fanfaroni diventino dei profeti». 

In “Carnaio” si parla molto di informazione, del confezionare allarmi, mungere lacrime, profanare tutto con assoluta impudicizia. Vi compare però anche Patel, un giornalista inglese che esce dal coro e viene trattato quasi come un monatto, uno da evitare per non farsi intaccare. Lei prova questo isolamento? 

«Si, ma non è tanto una solitudine sociale: ho la fortuna di avere molti lettori, molti spettatori quando sono sul palco, quindi non mi sento non capito o non ascoltato. Ma ho la sensazione netta che in questo paese per entrare nelle stanze dei bottoni, che siano quelle del giornalismo, della cultura o della politica, non contino la qualità e lo spessore delle proprie azioni e dei propri pensieri, ma conti la ricattabilità come garanzia per poter essere accettato in un circolo ristretto.» 

A proposito di qualità e di spessore direi che nel libro l’ignoranza è centrale: un suo personaggio dice “Noi i libri li usiamo per tenere ferme le porte”. 

«Perché la cultura è vissuta come una burocrazia intellettuale, e non è una cosa recente. Il sapere viene trattato come il fardello che appesantisce l’azione delle persone e non quindi come valore, oppure viene trattato con irrisione. È in qualche modo un’inversione antropologica per il paese: un tempo le famiglie di contadini vedevano come massima realizzazione avere figli più “studiati”. Oggi non è più così. Inoltre la semplificazione non è più vista come capacità e talento nel declinare in modo popolare argomenti complessi, ma come banalizzazione consapevole e addirittura premiata. Negli ultimi anni mi sono dedicato molto più alla letteratura che al teatro perché il libro è qualcosa che “sta” e che si può rileggere. In un periodo in cui la volatilità invece è la garanzia di poter dire qualcosa e di poter il giorno dopo dire il contrario, il libro “c’è”». 

Lei crede dunque ancora che la parola funzioni? 

«Assolutamente sì. Credo che nessun mezzo tecnologico, nessun agitatore di popolo, nessun pensiero dominante possa mai sgretolare il potere della parola». 

#Carnaio La mia intervista per Il Giornale di Vicenza

(fonte)

«Questo libro è nato perchè mi impegno in lavori differenti giornalista, artista, autore teatrale e in tutti questi ambiti ho affrontato il tema dell’immigrazione. Ma ad impressionarmi è stato il racconto di un pescatore di Pozzallo durante uno dei miei viaggi lungo il Mediterraneo per narrare di vite spezzate, senza futuro. Di uomini e donne che pativano le pene dell’inferno prima di approdare, se ce la facevano, sulle nostre coste. Mi disse che trovare pezzi cadaveri all’interno delle reti accadeva spesso, ma fu la descrizione ad impressionarmi “erano lessi, dal sale e dal sole”. Il pescatore usò un termine prettamente culinario facendo riferimento ad una vita umana che aveva avuto un inizio ed una fine. Come giornalista è difficile lasciare spazio alle sensazioni. Per cui quel dialogo è stato il germoglio dal quale è nato il romanzo, una consapevole discesa verso gli inferi. Ma non vorrei venisse catalogato come un libro sull’immigrazione piuttosto parla del nostro io, delle nostre coscienze, di come ci si abitua, con estrema facilità, anche ai crimini più ferali». Giulio Cavalli, 42 anni, milanese, con “Carnaio” (Fandango, 218 pagine) è uno dei cinque finalisti del Premio Campiello, da anni vive sotto scorta per le sue prese di posizioni contro la mafia, dopo le rilevazioni di un pentito. Il suo è un romanzo distopico, inquietante, grottesco, attuale e, forse, necessario. Contro le onde che nascono dagli eventi, contro l’indifferenza. Un pugno che arriva diritto allo stomaco, una sorta di iperbole narrativa che guarda alla realtà e, soprattutto, all’attualità: i migranti. L’autore inizia da una cittadina sul mare: DF, dalla vita tranquilla, dove un giorno un anziano pescatore trova nella rete il cadavere di uomo di pelle nera, il fatto non fa molto rumore se non fosse che a quel cadavere ne seguono altri. Molti spiaggiati dietro una duna e, infine, mentre l’allarme si fa generale un’ondata gigantesca ne butta un’infinità per le strade e sopra le case di DF, facendo 14 morti tra gli abitanti. Ad una prima conta risultano 24.712 corpi, ma saranno di più. I cittadini s’ingegnano prima difendendosi, poi per trasformare il dramma in business. Dei corpi non si butta nulla: vengono lavorati e trasformati in combustibile per una centrale elettrica. E ancora in cibo, giocattoli e pelle da concia con la quale costruire divani e progettare borse. La città viene definita con un acronimo DF è il Distrito Federal raccontato da Roberto Bolaño? Sì l’ispirazione è quella, mi interessava non dare ai lettori un nome preciso, volevo che il romanzo fosse disinfettato da tutte le questioni che potevo sollevare. Doveva essere una provincia del Sud, che però ha uno spirito imprenditoriale di una provincia del Settentrione. Ma non possiamo pensare che non ci sia alcun riferimento alla politica del ministro dell’Interno. In realtà il libro è stato scritto molto prima che nascesse il Governo Di Maio-Salvini. Volevo solo uscire da alcune retoriche utilizzando una narrazione che non desse giudizi, ma offrisse altre forme di pensiero per quanto portate all’esasperazione. Nessuna retorica, quindi? Certo che no. Mi interessava mettere in evidenza dove può arrivare l’uomo quando lascia da parte, si dimentica che cosa sia l’etica e sposta l’asticella del sentimento e dell’indignazione sempre più in alto. Non volevo giudicare nessuno mentre accade sempre più spesso, dimenticando che non tutti hanno strumenti culturali e sociologici per potersi opporre a qualcosa o a qualcuno. Gli abitanti di DF stanno imboccando un declino etico impressionante, non solo il cadavere di un immigrato diventa indifferenza, ma anche cibo. Potevo scrivere un libro sulla retorica delle idee, invece ho provato a scrivere un bel romanzo, forse più accessibile. Perchè “Carnaio” come titolo? Siamo abituati ad ascoltare numeri singoli quando si parla di imbarcazioni di migranti che affondano nel Mediterraneo, ma le dimensioni sono completamente diverse. In uno spettacolo teatrale avevo detto che, con tutti i cadaveri si sarebbe potuta costruire una montagna altissima, e solamente con i morti degli ultimi 10 anni. Con questo titolo volevo fosse soffocata la parola emergenza e che si parlasse di una città, così cambiano anche le dimensioni che possiamo avere di quanto accade in quel braccio mare o lungo i confini di terra. Il messaggio che vuole lanciare? Diciamo che persone molto lontane da me politicamente e non solo hanno apprezzato il libro, ed è già una vittoria. Inoltre ritengo di essere riuscito a tenere un argomento, così abusato, nei confini della letteratura. C’è chi vi ha letto profezia, altri fantasia. Siamo alla quinta ristampa e, probabilmente, ai lettori piace. E poi bisogna smettere con la retorica dell’emergenza: l’Europa deve dimostrare una volta per tutte di non essere solamente un’unione finanziaria. Il trattato di Dublino credo debba essere rivisto e riscritto perchè dalla guerra e dalla fame si continuerà sempre a scappare. A DF qualcuno si ribella… Ma tutti alla fine senza scampo. Mancano leader come nel nostro Paese. I politici per guadagnare popolarità diventano solo populisti. •Chiara Roverotto

Libri a vapore recensisce Carnaio

(fonte)

La vita da pendolare comporta tanto sonno e poche gioie. Una di queste è la lettura: in treno, in autobus, alla fermata, in stazione. Ogni settimana Giulia, redattrice culturale di Atlas – il blog, racconta le letture che la accompagnano, dal lunedì al venerdì, su un treno qualunque della linea del Brennero, andata e ritorno. 

Quando ho intervistato Pippo Civati, a dicembre, gli ho chiesto quali, secondo lui, fossero i libri che meglio avevano raccontato gli italiani del 2018. Mi aveva consigliato Carnaio, e, con un mostruoso ritardo, ho deciso di verificare se Pippo avesse ragione e di procurarmi il romanzo di Giulio Cavalli, pubblicato da Fandango, e che, tra l’altro, è tra i cinque finalisti dell’edizione di quest’anno del Premio Campiello. Potrei dire di averlo affrontato un po’ “a scatola chiusa”, informandomi molto poco sulla trama e sottovalutando le implicazioni del titolo. Pensavo di accingermi ad affrontare un romanzo sui migranti, un racconto sulla disperazione galleggiante cui ogni giorno, da qualche anno a questa parte, rifiutiamo di riconoscere la dignità dell’umano esistere. Ma non è stato proprio così. Come la disperazione di cui sopra, i migranti galleggiano, aleggiano come una spada di Damocle su tutta la narrazione messa in scena da Cavalli. La tematica, tuttavia,  non entra mai prepotente e imperiosa nel racconto, ed è questo a renderlo ancora più efficace. Il luogo dei fatti è DF, paesino di pescatori che inizia a rinvenire dei cadaveri di giovani africani, tutti della stessa altezza e dello stesso peso. Inizialmente se ne trova uno, poi quattro, poi un centinaio e a un certo punto la marea di carne si abbatte su DF, come una Grande Onda di Kanagawa, ma composta di cadaveri. Continua così, ciclicamente. E allora gli abitanti di DF si ingegnano e riutilizzano tutto ciò che gli arriva come meglio possono, ma, nel farlo, diventano loro stessi putridume, e forse lo erano già prima. Oltre al metaforico marciume di DF, Cavalli ha astutamente e strategicamente inserito tutti i termini che, da 14 mesi a questa parte, rendono ancor più putrida la comunicazione politica italiana e la retorica sdoganata da chi dovrebbe occuparsi della nostra sicurezza. Sono cose che mi capita di sentire anche in treno, ogni mattina e ogni sera, quando vado e torno dal lavoro, e, nelle ultime settimane, ho faticato a distinguere la realtà dalla finzione letteraria. Mi sono sentita disarmata. E disarmante non è solo il contenuto, ma anche lo stile di Cavalli: la sua scrittura e il suo immaginario incontrano la prosa ininterrotta di Cecità di Josè Saramago (sempre sia lodato) e l’assurda iconografia de L’Angelo Sterminatore di Luis Buñuel. Ovviamente ho adorato Carnaio, e lo consiglio ai forti di stomaco, a chi vuole vedere fino a che punto può arrivare l’umanità incattivita e aizzata e a chi non si spaventa per ciò che non ha spiegazione. Perchè, nel nostro piccolo mondo antico abbruttito, ogni cosa nasce dal niente e nel niente muore, ma è nello spazio tra quei due nulla che accade il tutto.

Una mia intervista su #Carnaio e su questo mefitico vento per Il Libraio

(fonte)

Carnaio, edito da Fandango, è il terzo romanzo di Giulio Cavalli e segue Mio padre in una scatola di scarpe (Rizzoli, 2015) e Santamamma (Fandango, 2017). Un libro che racconta di alcune delle nostre ossessioni, dalla paura dell’immigrazione alla sicurezza a tutti i costi anche a quello di perdere spazi di libertà.

Di alcuni di questi temi abbiamo parlato con Giulio Cavalli nell’intervista che ci ha rilasciato in occasione della sua inclusione nella cinquina del Premio Campiello.

Qual è il personaggio cui è più legato nel libro e per quale ragione?

Ho cercato di rimanere equidistante da tutti i miei personaggi, mi interessava un libro disinfettato dall’inquinamento del dibattito politico e che fosse una pura narrazione a disposizione delle diverse temperature emotive dei miei lettori. Da lettore, e non da scrittore, se ne dovessi scegliere uno ex post propenderei per il pescatore Giovanni Ventimiglia perché è la rappresentazione di tutti quelli che non hanno gli strumenti sociali, culturali e economici per contrastare il pensiero comune e i benpensanti quando malpensano. Noi siamo pieni di Giovanni Ventimiglia che vengono con troppa facilità messi nei cassetti dei vili e invece sono semplicemente incagliati.

A pagina 113 scrive «un amico di quelli che vogliono difendere l’umanità con il culo degli altri dicevano stizziti i cittadini di DF che lo osservavano da lontano come si sta a distanza dalle persone che non ci assomigliano e da cui non vogliamo farci intaccare». Intaccare da cosa? E soprattutto: difendere l’umanità è ancora davvero possibile oggi?

Il primo trucco per non sentire il peso di dover difendere qualcuno è trasformarlo in altro rispetto a noi. Se le dannazioni altrui non sporcano il nostro tappeto e se i media ne diluiscono i dolori abbiamo imparato a osservare il tutto come se fosse una fiction del dolore che ci richiede solo un po’ di indignazione e di pietà, giusto per il tempo che dura. È un tempo in cui ci terrorizza avere paura e quindi alla fine delle paure siamo diventati schiavi. Così ci rinchiudiamo in spazi sempre più ristretti e ci occupiamo solo delle persone più vicine in nome di un federalismo delle responsabilità che non è nient’altro che un egoismo sdoganato completamente.

Difendere l’umanità però è possibile e continua ad accadere in tutte le parti del mondo. Certo, è terribilmente fuori moda ma basterà capire che nel gorgo potremmo finirci anche noi per segnare un’inversione di tendenza.

Premio Campiello 2019 – Intervista a Giulio Cavalli

Che bellezza Lilly Carboni quando dice di se stessa «abito a DF da sempre ma sono una donna di mondo, ho girato l’Italia, l’Europa, sono una viaggiatrice infaticabile, non ho mai ceduto alla tentazione di rinchiudermi nel mio minuscolo cortile, ho visitato i migliori ristoranti fotografati sui giornali, ho camminato sulle spiagge che usano nei film e in città tutti sanno che il mio gusto si è formato grazie a un’esperienza internazionale». L’apertura mentale grazie a esperienze senza una geografia limitata e la concretezza nel cortile di casa a volte vanno in conflitto. Come farle abbracciare nella contemporaneità?

Il viaggio è la soluzione. Il viaggio fisico (con la voglia di farsene contaminare) e il sapere sono i migliori vaccini per curarci e per prendere coscienza dei limiti della nostra visuale. In fondo è anche la grande missione della letteratura: scardinare le nostre sicurezze. Come scriveva Mark Twain non dobbiamo avere paura di ciò che non conosciamo ma dobbiamo temere ciò che crediamo vero e invece non lo è.

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Intensificare il controllo di DF diventa sempre più urgente ma questo consegue una limitazione delle libertà in un gioco infinito fra lecito e non lecito, nonostante le opinioni di chi vive fuori dal microsistema. Al netto della simbologia, che nutre tuttavia l’immaginario, siamo dentro una Italia DF secondo lei negli ultimi tempi? Stiamo perdendo pezzi di libertà barattandoli in nome della sicurezza oppure sono soltanto fantasmi di una certa sinistra?

Le eventuali analogie con il libro le lascio ai lettori. Registro comunque che la sicurezza in Italia sia una clava sventolata per erodere i diritti e i due decreti che ne portano il nome sono l’esempio più significativo. È difficile comprendere che ripristinare i diritti è un esercizio molto più difficile di quello che sembra, una volta persi.

Quale messaggio vuole portare con le ondate ricorsive di cadaveri? Le va di scomporre il lato narrativo per farci capire livelli di lettura che magari ci sono sfuggiti?

Mi serviva spingere al limite la trasformazione della vita umana in oggetto da potere/dovere utilizzare da parte degli abitanti. Un mare che non ha più pesci e che vomita cadaveri è un mare che certifica che da quelli si debba trarne profitto. E la ripetizione della morte è il trucco che spesso si usa per svuotarne il significato.

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DF a un certo punto dichiara l’indipendenza dall’Italia. Il divide et impera sembra andare di moda anche oggi, si pensi alla spinta nordica delle autonomie regionali, in conflitto con le grandi istituzioni come l’Europa.  In Italia rischiamo fra qualche anno separazioni territoriali come DF?

La ricerca compulsiva del sovranismo e la manipolazione del senso di Patria non porta nient’altro che una chiusura sempre più fortificata e sempre più ristretta, fino all’esclusione dal resto del mondo. Al di là di quello che succederà in Europa direi che l’idea dei muri in cui chiudersi dentro stia già funzionando in termini elettorali.

Da chi vorrebbe che fosse letto il suo libro e per quale motivo?

Da chi ama la letteratura, innanzitutto. E da chi crede che le parole abbiano ancora la forza di porre domande.

Come si sta preparando o si preparerà per la serata finale del Premio Campiello?

Abbiamo concluso il tour, è stata un’esperienza positiva che mi ha permesso di stringere rapporti con i miei colleghi di cinquina. Non ho particolari tremori per la serata finale: quello che dovevo fare l’ho messo nelle pagine. Tutto qui.

«Un bellissimo romanzo, drammatico, forte, scioccante, un pugno nello stomaco che tiene incollato il lettore dalla prima all’ultima pagina»: ‘Leggere e Rileggere’ recensisce Carnaio

(fonte)

(credits fotografici: Giorgia Negrini @leggere_e_rileggere)

Un bellissimo romanzo, drammatico, forte, scioccante, un pugno nello stomaco che tiene incollato il lettore dalla prima all’ultima pagina Carnaio di Giulio Cavalli edito da Fandango.

La copertina semplice, con una barca ed il mare, non fanno capire cosa racchiude questo libro: la tragedia del paese di DF e dei suoi cittadini, per la maggioranza pescatori che, improvvisamente al posto del pesce, si trovano a raccogliere corpi umani. Nessuno sa da dove vengano i cadaveri che, onda dopo onda, arrivano a sconvolgere la quotidianità di un paese.

“L’onda arrivò nel pomeriggio ma, per averne una visione chiara, servì attendere le prime immagini della televisione…. DF era ricoperta di cadaveri… un’onda di carne, senza corpi, a forma di massa…. Che sommerge la città … corpi come fango che sfondavano le siepi e le recinzioni dii ordinati giardini e le vetrine dei negozi e i gazebo dei bar sul lungomare.”

Sindaco, parroco e commissario cercano in un primo momento di risolvere il problema seguendo le procedure tradizionali e chiedono aiuto allo Stato ma successivamente di fronte alla mancanza di risposte ed aiuti decidono di risolvere le cose secondo le “regole” di DF. Quest’ultimo diventa un luogo chiuso, omertoso dove gli abitanti si arricchiscono sfruttando la carne e la pelle dei corpi ritrovati.

L’autore chiede lo sforzo del lettore per immaginare l’immaginabile….

Un romanzo che nel corso della lettura suscita sentimenti contrastanti: orrore, paura e impotenza.

“Carnaio” diventa una critica feroce, sarcastica e grottesca di una società in cui l’egoismo prende il sopravvento e i cittadini per mantenere la loro serenità sono disposti a tutto anche a perdere il senso dell’umanità.

Leggere e Rileggere è il blog in cui Giorgia Negrini legge, recensisce e parla di libri e librerie. Con i suoi profili Istagram e dalla pagina Facebook facendoci innamorare della lettura con splendide immagini e stories. Booklover, bookeater dice di lei “Leggere è da sempre la mia grande passione, laureata in Lingue e Letterature Straniere, mi piace condividere con altri questo mio amore per la lettura”. Seguila su

Instagram @leggere_e_rileggere  e Facebook e sulla Pagina facebook @leggereerileggere. Tra le sue recenti collaborazioni Corriere La Lettura e Radio Latte e Miele

Per LibroSì Lab cura la rubrica #leggereerileggerecongiò

«Una scrittura che evoca Saramago, Bolano, McCarthy, raccontando un uomo contemporaneo disumanizzato»: Corriere del Veneto su Carnaio

(di Francesca Visentin, dal Correre del Veneto, fonte)

Se un giorno dal mare invece che migranti iniziassero ad arrivare cadaveri. Solo cadaveri. A decine, a centinaia, a migliaia. Senza sosta. Sospinti dalle onde. Planando sulla costa fino a ricoprire un intero paese del sud. Visione catastrofica, distopica, che diventà realtà nel romanzo di Giulio Cavalli, Carnaio (Fandango, 218 pagine, 17 euro), scelto dalla giuria dei letterati come uno dei cinque libri finalisti al Premio Campiello, il concorso letterario organizzato da Confindustria Veneto. «Quelli», così sono definiti in Carnaio, «uomini di un altro mondo», tutti giovani, tutti neri, iniziano a piovere a ondate nel paese DF, ricoprono le strade, entrano dalle finestre aperte, risalgono i tubi, affiorando smembrati dai gabinetti. La causa è misteriosa. Ma l’emergenza va affrontata. I cittadini s’ingegnano, prima per difendersi, poi per trasformare il dramma in business. Costruiscono una barriera di plexiglas sulla spiaggia per bloccare i cadaveri. Quindi, arriva l’idea che porta profitto: dei corpi non si butta via niente. Vengono lavorati e trasformati in combustibile per una centrale elettrica, in cibo, giocattoli per bambini e pelle da concia, borse, divani, arredamento. Un progetto che fa inorridire il mondo, ma che arricchisce il paesino del sud e porta i cittadini a separarsi dall’Italia, a costituirsi come (ricchissimo) Stato indipendente, a chiudere le frontiere, a tenere lontani i giornalisti, a erigere una campana di vetro per segregarsi dal mondo.

Un crescendo inquietante di barbarie, vissuta dal paese e dal sindaco come innovazione straordinaria. La perdita totale di scrupoli e regole morali, va di pari passo con l’arricchirsi della comunità. Racconto incandescente, che inchioda per il ritmo veloce. Mette in scena pulsioni, imbarbarimento, lascia nel lettore la voglia, pagina dopo pagina, di scoprire fino a dove arriverà l’orrore. Ma contemporaneamente la scelta linguistica e narrativa di Cavalli, che punta sul grottesco e sull’ironia per portare in scena quell’incubo di carne e di soldi, rende il ritmo incalzante. «Non lo considero un romanzo politico – sottolinea Giulio Cavalli, scrittore, giornalista, autore teatrale – , credo sia una narrazione asettica, priva di giudizi. Che mette in evidenza dove può arrivare l’uomo quando abdica a ogni forma di etica e di morale e ogni giorno sposta un po’ più in là l’asticella del lecito. C’è chi l’ha definito una profezia, chi un libro di pura fantasia, la soddisfazione è che è stato apprezzato, anche da chi ha idee politiche diverse dalle mie. Il fatto che sia già alla quinta ristampa mi conferma che ai lettori piace».

Una scrittura che evoca Saramago, Bolano, McCarthy, raccontando un uomo contemporaneo disumanizzato, capace di qualsiasi azione pur di sopravvivere e arricchirsi. Il romanzo è corale, non c’è un protagonista, ma tante voci che parlano. E raccontano quello che accade a DF, ognuno dal suo punto di vista. Il sindaco, i creativi che escogitano sempre nuovi modi per trarre profitto dai cadaveri, lo chef che ne cucina le carni in ricette gourmet irresistibili, i pensatori, gli addetti alle varie mansioni. Anche chi dissente (e muore). Illuminante lo stralcio dell’intervista di uno dei pensatori e sponsor di DF. «Il fatto che noi in così breve tempo siamo diventati tra le città più ricche al mondo e di gran lunga la più ricca delle nazioni europee è la prova provata che le leggi, le vostre leggi, sono un ostacolo alla produttività – dice – . Si certo, l’accostamento della nostra centrale elettrica ai forni crematori è il cavallo di battaglia di chi ci vorrebbe screditare, senza riuscirci. La pornografia è negli occhi di chi guarda».

Un Campiello caldissimo (di Bruna Mozzi)

(fonte)

Incontro con i finalisti del Campiello 2019: si parte alle 19:00 con una cena leggera a metà self-service a metà servita. Vino buono e sorrisi ovunque. Siamo a Cornuda al Ristorante le Corderie: ambientino caldo (sic!) e accogliente. Si sta tra la sala interna – più fresca –  e il piccolo giardino con terrazza ( a 36° C). Dopo un antipasto bio, una fettina d’arrosto con patate e un dolcetto tradizionale, a cena conclusa prende la parola Matteo Zoppas, Presidente della Fondazione Il Campiello ‐ Confindustria e a seguire poi Piero Luxardo, Presidente del Comitato di gestione del Premio. Parole di encomio per il lavoro che sta facendo la Fondazione e sull’importanza della cultura anche per il mondo dell’imprenditoria.

        Poi siamo tutti invitati ad entrare nella Tipoteca, il Museo della Stampa e del Design tipografico che vanta  50 anni di vita da quando i tre fratelli Antiga hanno dato vita alla azienda leader nel settore della tipografia e della grafica, della cartotecnica e dell’editoria. Meta raggiunta grazie anche ai 200 collaboratori che hanno sempre privilegiato l’aspetto umano, la collaborazione, la sostenibilità ambientale: grazie agli attenti investimenti è divenuta un’azienda certificata “green”.

      Varco la soglia della tipoteca: attraverso la porta girevole e mi ritrovo inondata dal forte odore di inchiostro che respiro a pieni polmoni e mi riporta nella lontana infanzia. Con mio padre giravo per le piccole aziende della Bassa Padovana. L’odore sembra quello dell’olio motore misto a qualcos’altro. L’altra sensazione piacevolissima è quella del fresco. Estraggo dalla borsa la mia pashmina passpartout e non me ne separo più per i seguenti 90 minuti. Tanto è il tempo dell’incontro con gli autori. La formula è quella della rotazione: nelle quattro sale si alternano quattro finalisti (uno, Pecoraro, è assente), ciascuno stimolato da un intervistatore under 25, scelti tra gli ex partecipanti a Campiello giovani o tra studenti benemeriti in Master dell’editoria o simili.

      Siamo nella sala al piano terra dove ho guadagno a fatica una seconda fila che mi permette di vedere bene gli autori. Comincia Giulio Cavalli che parla di distopia del Paese Italia. Colpisce col suo stile graffiante così come sorprende il suo libro “Carnaio”. Parla di caduta del valori e dell’etica, denuncia un’Italia innamorata degli spericolati, denuncia l’impossibilità di condannare chi ha paura. Nella dedica sulla mia copia mi scrive “resisti” che riassume tutto il senso del libro e del suo intervento.

      Segue poi Andrea Tarabbia, al suo quinto romanzo: presenta il suo “Madrigale senza suono” un volume raffinato e colto ambientato nel tardo Rinascimento e che ha come protagonista un contemporaneo e antagonista di Tasso, Gesualdo da Venosa e un omicidio.

       E’ la volta dell’unica donna finalista: Laura Pariani. La sua storia – Il gioco di Santa Oca – ha la cornice storica del Seicento milanese, dopo il periodo di ambientazione del romanzo manzoniano (lo nomina l’autrice). La Pariani parla di scrittura e afferma che ha scoperto da grande che il lavoro dello scrittore non va da dentro a fuori, non è mera esternazione di pensieri ed emozioni, ma va da fuori a dentro. Lo scrittore ascolta, guarda, osserva e poi trasmette.

        Per ultimo nella sala della “stamperia” Paolo Colagrande, autore de “La vita dispari”, una storia originale di un certo Buttarelli che vede male da un occhio, non vede la metà di sinistra delle cose, dei libri, della vita. Vede tutto sfasato. Un cannocchiale sfocato sul mondo quello di Buttarelli che rivela invece acute osservazioni dell’autore sulla vita e sull’uomo, che pare esser sulla terra quasi per errore.

Una dedica anche degli altri autori, una sigla, una data: Cornuda, 25 luglio 2019.

Ora ho voglia di cercare una Via di Fuga, no, non dagli autori…ma solo dal caldo che non dà tregua.

Un “carnaio” cui si finisce per abituarsi (la recensione di Francesco De Palma)

(fonte)

Un romanzo surreale, grottesco, crudo, inquietante. E che rimanda all’attualità. E’ “Carnaio”, di Giulio Cavalli.

Una città sulla costa, DF, è travolta da ondate di morti, tutti uomini, tutti giovani, tutti di pelle più scura. Migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia. Metafora potente delle migrazioni di questi anni, l’emergenza finisce per stimolare la creatività degli abitanti della cittadina, che impareranno a sfruttare nei modi più vari i corpi che il mare continua a riversare sulla costa e poi sulla barriera fatta costruire dal sindaco, per farne occasione di guadagno e di apparente prosperità. Almeno fino all’epilogo finale, che ovviamente è meglio non rivelare. 

A svilupparsi pagina dopo pagina, però, non è solo la creatività umana. Pian piano si assiste a un racconto corale che registra una deriva di umanità. Che il lettore troverà senz’altro familiare, e che passa dalle prediche assolutorie del parroco – “Quando la bontà diventa un idolo si cade nell’isteria. Gesù ci chiede di amarci, ama te stesso, dice il sacro comandamento, quella è la nostra natura” -, all’inaridimento dei cuori, alla crudeltà crescente: “Speravo che qualcuno fermasse questa discesa verso il baratro, confidavo che il mondo non avrebbe permesso che la città in cui vivo con mia figlia si trasformasse in una miniera d’odio”, dice una delle protagoniste, una delle poche a dissociarsi dal cattivismo imperante.

“Carnaio” è uno schiaffo. Uno schiaffo a chi, avanzando lungo una trama volutamente esasperata, esagerata, irreale, confida nel fatto che vicende del genere sono troppo oltre il possibile. E’ uno schiaffo perché, come leggiamo, “camminando camminando, ci si fa l’abitudine. Perché ci si abitua a tutto”.

Francesco De Palma