Aveva 32 anni ed era arrivato dall’Ucraina con la madre, in fuga dalle bombe. È stato schiacciato da un mezzo in una cava di Battipaglia. Un nome che si perde nella cronaca locale, derubricato a fatalità. Ma è invece simbolo di un’altra guerra, fatta di sfruttamento, precarietà e vite che valgono poco. Sognava l’Italia, il Paese che alla fine lo ha tradito.
Andrii Chufus non aveva mai visto l’Italia sulle cartoline. Non aveva mai immaginato quei borghi, le strade che si arrampicano tra i vigneti e le piazze. Lui, l’Italia, l’aveva raggiunta come si raggiunge un rifugio di fortuna durante una tempesta: con il cuore in gola e gli occhi bassi, portando con sé solo ciò che poteva contenere uno zaino e i ricordi di un mondo che stava andando in pezzi. E sua madre. Andrii aveva 32 anni e veniva da Nadvirna, una piccola città nell’Ucraina occidentale, una di quelle che raramente finiscono nei notiziari. Non era stata bombardata, ma non servivano le bombe a distruggere la vita che conosceva. Era fuggito dalla guerra come si fugge da un incendio, cercando di lasciarsi alle spalle il fuoco e l’incertezza. La guerra non ha bisogno di colpire direttamente: basta che avveleni l’aria. E Nadvirna, come il resto dell’Ucraina, respira quell’aria da troppo tempo.
Il posto in cava non era certo il sogno di una vita
In Italia Andrii aveva trovato una nuova casa a Eboli, un nome che suona quasi poetico ma che, per lui, era solo un’altra tappa di un viaggio che doveva portarlo lontano dall’inferno. Viveva in un quartiere chiamato Mulinello, assieme a sua madre. Di lei parlava spesso con i colleghi della cava, quelli che lo ricordano come un ragazzo silenzioso, sempre pronto ad aiutare. Era arrivato qui con la speranza di costruire un futuro, non solo per sé, ma anche per chi era rimasto. Il lavoro in cava non era certo il sogno di una vita, ma Andrii lo affrontava con la determinazione di chi sa che ogni fatica è un passo verso qualcosa di meglio. O almeno così credeva.

Il referto medico parlava di “schiacciamento del bacino”
Lunedì 25 novembre il suo viaggio si è interrotto brutalmente. Era nel piazzale dell’area prefabbricati vicino alla cava dell’Inca, dove lavorava. Un carrello elevatore semovente, un modello Merlo, si stava muovendo. Andrii era vicino al mezzo, forse troppo vicino. Un attimo, una scivolata, e la ruota del carrello lo ha travolto. L’autista, un uomo di 55 anni, ha provato a fermarsi, ma era troppo tardi. Andrii è stato portato d’urgenza all’ospedale “Santa Maria della Speranza“, ma il suo cuore ha smesso di battere poco dopo il ricovero. Il referto medico parlava di “schiacciamento del bacino”. La realtà, però, era molto più cruda: Andrii era morto di lavoro dopo essere scappato dalle bombe.
Le norme di sicurezza sono state rispettate?
La cava ha ripreso subito il suo ronzio meccanico. La polvere si è alzata di nuovo, coprendo il sangue che aveva segnato il piazzale. Due persone sono state indagate per omicidio colposo: la titolare dell’azienda e l’autista del mezzo. Saranno i tribunali a decidere se ci sono state colpe, se le norme di sicurezza sono state rispettate, se tutto questo poteva essere evitato. Ma Andrii non tornerà. La sua storia, come le altre, rischia di finire dimenticata in qualche faldone, tra perizie e accertamenti tecnici. Perché Andrii era uno di quelli che non fanno rumore.

Un morto straniero fa ancora meno notizia
Era un migrante, uno di quelli che si alzano prima dell’alba per un lavoro che nessuno vuole, che sorridono quando li chiamano “bravi ragazzi” perché è il massimo che possono aspettarsi. Non era uno di noi. Non ancora, almeno. I morti di lavoro diventano una fatalità, un episodio che si perde nella cronaca locale, tra le pagine che nessuno legge davvero. Un morto di lavoro straniero è ancora più sottovoce. Ma la storia di Andrii è più di una tragedia individuale. È il simbolo di un sistema che consuma vite con la stessa indifferenza con cui un carrello elevatore scarica merce. Andrii era venuto qui per vivere, per costruire qualcosa, e invece è stato schiacciato – letteralmente e simbolicamente – da un meccanismo che non si ferma mai. Non lo sapeva che la cava, come la guerra, non aspetta nessuno.
Fino ad agosto 2024 l’Italia ha registrato 680 decessi sul lavoro
In Ucraina le bombe continuano a cadere. Nadvirna, forse, resterà ancora intatta, ma non è questo il punto. Il punto è che non c’è un luogo sicuro per chi fugge. Le persone come Andrii lasciano una guerra per finire in un’altra: una guerra silenziosa, fatta di sfruttamento, di precarietà, di vite che valgono poco, pochissimo. Andrii non vedrà mai un’Italia che non fosse polvere e fatica. Non saprà mai che il suo sogno era troppo grande per un Paese che, alla fine, lo ha tradito. Fino ad agosto 2024, l’Italia ha registrato 680 decessi sul lavoro, inclusi 173 avvenuti in itinere, segnando un incremento di 23 casi rispetto allo stesso periodo del 2023. Nei primi sette mesi del 2024, le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail sono state 577, un aumento del 3,2 per cento rispetto alle 559 registrate nel 2023. Gli stranieri morti sul lavoro quest’anno – sotto i 60 anni – sono il 35 per cento.
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