La Corte dei conti ha bocciato il Ponte sullo Stretto. Non per ideologia, ma perché mancano coperture, dati affidabili e rispetto delle norme europee. Un giudizio tecnico, trasformato in nemico politico. Giorgia Meloni l’ha definito «un atto di invasione» e ha risposto minacciando la riforma della giustizia: una vendetta travestita da efficienza. Salvini, il profeta del cemento, parla di “scelta politica” e giura che andrà avanti comunque, anche senza i requisiti di legge. È l’arroganza del potere che confonde la propaganda con l’amministrazione.
La verità è che questo governo non sopporta i limiti. Ogni controllo diventa sabotaggio, ogni rilievo un complotto. La legalità è ridotta a burocrazia, i magistrati contabili a comparse da punire. Perfino l’uso di link nei documenti è diventato pretesto di scherno, come se l’informatica potesse giustificare l’illegalità. In realtà, la Corte ha ricordato solo l’ovvio: non si spendono miliardi per un sogno elettorale.
Nel governo al contrario dove Meloni e soci usano il calpestio delle regole come rumore di propaganda la giornata di ieri diventa un assist. Lo stop al Ponte diventa propaganda per la separazione delle carriere: i giudici “fermano il Paese”, quindi vanno messi al guinzaglio. È la stessa logica che Berlusconi teorizzava trent’anni fa, ma ora è tornata con il timbro istituzionale di Palazzo Chigi.
Il Ponte non è solo un’opera impossibile: è il simbolo di un potere che non tollera ostacoli, nemmeno quelli della legge. In fondo, è questo il vero progetto: costruire un Paese dove la legittimità si misura in applausi e l’illecito si chiama visione.
Buon giovedì.