Nel 2012, nel mondo della cultura, sono previste 32250 assunzioni, dopo un quinquennio che ha visto il settore in espansione, con una media dello 0,8% annuo, nonostante la crisi e una crescita economica nazionale media dello 0,4%. Tra il 2007 e il 2011 infatti, i posti di lavoro creati nell’industria culturale sono stati 55mila. Questo il quadro disegnato dall’indagine Excelsior – curata da Unioncamere e ministero del Lavoro – e presentata da Ferruccio Dardanello, presidente dell’ente che rappresenta le camere di commercio, al meeting di Rimini.
Di questi nuovi posti, 22.880 sono stabili e 9.370 stagionali, pari al 5,6% del totale delle assunzioni che verranno realizzate dalle imprese di industria e servizi. Nonostante la contrazione dello 0,7% dei dipendenti rispetto al 2011, 4.900 in meno, il dato è positivo se confrontato con le altre imprese, che nello stesso periodo hanno perso l’1,2%, 125600 posti di lavoro in meno.
Ha ragione Dardanello quando dice che “Sembra un paradosso ma in Italia manca un quadro organico di politiche economiche basate sul potenziale produttivo del settore culturale. Gli italiani devono recuperare non soltanto il senso economico della cultura, ma anche in una certa misura il suo senso sociale, di elemento alla base delle sue produzioni di eccellenza e occasione per dare opportunità di lavoro a tanti giovani che hanno capacità e qualità da vendere. Purtroppo è ancora diffusa l’idea che con la cultura non si mangi, ma i successi del Made in Italy, di cui tanta parte discende proprio dalla nostra cultura del fare e del vivere, vengono da questo patrimonio inesauribile. Che va messo a frutto con politiche che devono partire fin dai banchi di scuola, per mettere in condizione i nostri giovani e le loro famiglie di cogliere le tante opportunità che vengono dall’industria culturale, e maturare presto quell’esperienza indispensabile per conseguire un lavoro di qualità”.
Un settore che cresce mentre sparisce dai bilanci pubblici dovrebbe essere la china da cui ripartire. Dovrebbe essere l’esempio di una crisi che nei campi dell’intelligenza e fuori dai meccanismi della finanza fa molta meno paura. Dovrebbe essere l’occasione per rivendicare la cultura come punto di programma vero mica da elencare nei comizi ma da inserire nel piano di programmazione economica. Ecco, magari facciamolo sul serio noi questa volta.