Massimo Lugli per ‘La Repubblica‘
«Una bella mattina di sabato Santo, allo spuntare e non spuntare del sole, passeggiando sulla riva del mare vitti una barca con tre vecchi marinai, che mi domandarono cosa stavo cercando… ». Sembra l’inizio di una ninnananna popolare, criptica e piena di simboli come il Tao te ching o la Bhaghvad Gita.
Ma in realtà è qualcosa di molto meno poetico e decisamente più inquietante: il rituale di affiliazione alla ‘ndrangheta, descritto nei minimi particolari in un documento criptato, decifrato dagli agenti della mobile romana. Che le cosche calabresi avessero fatto della capitale uno dei campi d’azione preferiti, ormai, si sapeva da tempo. Ma che piombo, sangue, tradizioni e maledizioni fossero stati trapiantati in blocco da San Luca a San Pietro, finora, nessuno l’aveva scoperto. Non in modo tanto preciso e documentato, almeno.
Un passo indietro per chiarire il contesto. Il documento è saltato fuori durante l’indagine su un omicidio eccellente: quello di Vincenzo Femia, personaggio di spicco della cosca di San Luca trapiantato da anni nella capitale e assassinato la sera del 24 gennaio 2013 con una grandinata di pallottole: due sicari e un’esca che proponeva l’acquisto di 5 chili di cocaina a 41mila euro al chilo. L’esca, Gianni Cretarola, un personal trainer con un omicidio da rissa alle spalle, finì in galera l’estate scorsa. Altri tre complici lo hanno raggiunto ieri mattina. Cretarola ha saltato il fosso ed è andato a ingrossare le fila dei collaboratori di giustizia.
A casa sua gli agenti di Renato Cortese sequestrarono, tra l’altro, tre fogli scritti a mano in un alfabeto che sembrava un mix di cirillico, arabo e ideogrammi cinesi arcaici. Il pentito su quegli strani geroglifici faceva spallucce e i poliziotti hanno appioppato il compito di tradurli a due colleghi appassionati di enigmistica.
Niente programmi software di lettura incrociata, niente consulenti d’alto livello, nessuna diavoleria tecnologica. Solo capatosta e un po’ di buon senso. E alla fine ha funzionato, con lo schema delle parole incrociate senza definizioni. La prima lettera individuata è stata la “C”. Una consonante sola ma che, piazzata nei punti giusti, ha permesso, poco a poco di tradurre tutti i ventuno simboli. Gli scarabocchi hanno acquistato un senso compiuto.
Eccone un esempio: «Come si riconosce un giovane d’onore? Con una stella d’oro in fronte, una croce da cavaliere sul petto e una palma d’oro in mano. E come mai avete queste belle cose che non si vedono? Perché le porto in carne, pelle e ossa».
Non ci vuole la laurea in antropologia per notare la continua reiterazione del 3, numero esoterico della Trimurti come della Trinità: i tre vecchi, le tre vele di cui si parla più avanti, i tre segni dell’affiliato alla cosca e i tre, mitici, fondatori della camorra (da cui la ‘ndrangheta ha attinto a piene mani): Osso, Malosso e Carcagnosso.
Una volta tradotto il codice, non resta che mostrarlo all’arrestato che, all’inizio, resta basito: «Ma come avete fatto?». Poi, visto che non ha praticamente altra scelta, parla. E racconta, nei dettagli, l’affiliazione alla cosca, avvenuta nella calzoleria del carcere di Sulmona e che l’avrebbe portato a occupare un ruolo stabile nella gerarchia della ‘ndrangheta: picciotto, sgarrista, santista, vangelista, quartino, trequartino, padrino e capobastone.
Nella ‘ndrangheta si entra per nascita o per battesimo e anche i figli dei boss, fino a 14 anni, sono «mezzi fuori e mezzi dentro». Il racconto di Cretarola è avvincente come certe pagine di Giancarlo De Cataldo. Sentiamolo. Una versione tratta dall’ordinanza di custodia della Dda romana diretta da Michele Prestipino.
«Per il battesimo ci vogliono cinque persone, non di più non di meno ma nella calzoleria ce n’erano solo due, oltre a me. Gli altri erano rappresentati da fazzoletti annodati. Il primo passo è la “formazione del locale”, una sorta di consacrazione che, alla fine del rito, verrà rifatta al contrario: «Se prima questo era un luogo di transito e passaggio da questo momento in poi è un luogo sacro, santo e inviolabile». Segue l’inevitabile offerta di sangue. In mancanza di un coltello (siamo comunque in galera) il “puntaiolo” impugna un punteruolo da calzolaio.
È il novizio che deve pungersi da solo: se non ci riesce al terzo tentativo, l’auspicio è pessimo e bisogna rinviare di sei mesi, ma la mano di Cretarola è ferma e il sangue scorre. Iniziano le formule di rito: «A nome dei nostri tre vecchi antenati, io battezzo il locale e formo società come battezzavano e formavano i nostri tre vecchi antenati, se loro battezzavano con ferri, catene e camicie di forza io battezzo e formo con ferri, catene e camicie di forza, se loro formavano e battezzavano con fiori di rosa e gelsomini in mano io battezzo e formo…». E via di questo passo.
Un rito che si ripeterà per tre volte nel tempo, dopo un’opportuna votazione, a ogni passaggio di grado e di status. In carcere non si trova un santino di San Michele da bruciare, il novizio si limita a bere il sangue e giura «di rispettare le regole sociali, di rinnegare madre, padre, fratelli e sorelle, di esigere e transigere centesimo per centesimo. Qualsiasi azione farai contro le regole sociali sarà a carico tuo e discarico della società». È nato un nuovo affiliato alla ‘ndrangheta o, per dirla in gergo carceraio, alla pisella, alla pidocchia o alla gramigna. Un altro incubo per Roma, come se ce ne fosse bisogno.