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Giulio Cavalli in scena contro la mafia del Nord

L’unico attore sotto scorta. In prima linea come Saviano, combatte con i suoi spettacoli Cosa nostra in Lombardia «A cento passi dal Duomo» debutta al Teatro della Cooperativa di Milano: «È qui la vera capitale della ’ndrangheta»
MILANO –  Torna sul tema mafia Giulio Cavalli, l’unico attore sotto scorta, per colpa di Cosa nostra, appunto. Dopo il coraggioso Do ut des, l’attore e sceneggiatore che dirige artisticamente il Teatro Nebiolo di Tavazzano, nel Lodigiano, ha debuttato ieri sera in prima nazionale con A cento passi dal Duomo scritto con il giornalista Gianni Barbacetto (musiche di Gaetano Liguori). A ospitare lo spettacolo, che sarà adottato dall’associazione Libera, il Teatro della Cooperativa di Milano (fino a domani e poi dal 15 al 18). L’approfondimento sarà sulle famiglie mafiose al Nord. Cavalli, che l’altra sera era ospite di Santoro ad Annozero, spiega: «Il mio nuovo spettacolo, basato su inchieste giornalistiche e atti processuali, ha inizio con il silenzio milanese che ha accompagnato l’omicidio di Giorgio Ambrosoli e il suo funerale. Tra il 1974 e il 1983, in Lombardia ci sono stati 103 sequestri di persona per mano di mafia e ’ndrangheta calabrese. Sono stati dimenticati, come del resto i dieci maxiprocessi vissuti come fenomeni che hanno radici altrove, nel Sud. Anche oggi la nostra regione è intrisa di mafia. Milano è la vera capitale della ’ndrangheta: è parola del pm Antimafia Vincenzo Macrì. Il mio è un atto d’accusa contro il silenzio. Milano non percepisce i nuovi mafiosi in giacca e cravatta, le cui famiglie sono radicate sul territorio. Quando porterò il mio spettacolo a Buccinasco, sarà bello citarli a casa loro».
Come parte la sua vicenda personale? Non ha mai paura?
«No. Parte con amicizie siciliane: Rosario Crocetta (sindaco di Gela) e Giovanni Impastato (fratello di Peppino, il giornalista ucciso dalla mafia nel ’78) vogliono mettere in scena uno spettacolo che andasse a colpire arlecchinescamente Cosa nostra. Questo nel 2006. Nasce così il mio Do ut des, ispirato alle invettive satiriche che Peppino Impastato indirizzava al boss Badalamenti. Lo porto nelle piazze siciliane, ma i boss non hanno il senso dell’umorismo. Ricevo minacce di morte via lettera; fanno disegnare una bara con il mio nome sulla parete esterna del teatro che dirigo… Quindi scatta la protezione. Ho una scorta fissa di due persone da aprile».
Lei traccia nel suo spettacolo una mappa della criminalità organizzata in Lombardia e dintorni oggi.
«Sì, parlo di Piacenza, Cremona, Brescia, persino della tranquilla Lodi, degli arresti proprio di qualche giorno fa. Parlo del pentito Angelo Bernasconi legato alla famiglia gelese che occupa il mercato delle carni al Nord».
La Bergamasca ne è immune?
«Non credo che ci siano casi eclatanti. Tuttavia Vincenzo Macrì dice che non c’è zona lombarda immune. Però è vero che le collusioni tra mafia e politica sono meno evidenti in Lombardia. Dovremmo sfruttare questo stato di cose per fare prevenzione, anche in previsione di Expo 2015. Dobbiamo creare un’alfabetizzazione antimafia».
Come spiega il gesto del sindaco leghista che ha tolto la targa in onore a Peppino Impastato dalla biblioteca di Ponteranica?
«La lotta alla mafia è anche fatta di simboli. Ma non credo che gli amministratori lombardi siano in malafede. È una questione di non conoscenza».
Ha la solidarietà dei suoi colleghi?
«Io mi sento abbandonato dal mondo del teatro. Ho solo l’appoggio di Dario Fo e di Paolo Rossi. Mentre sento la vicinanza affettuosa di giornalisti e magistrati».
Roberto Saviano, debuttando a teatro con La bellezza e l’inferno, ha parlato del bisogno di spazio puro per la sua parola.
«Sono d’accordo con lui. Credo che il teatro sia ancora uno spazio genuino, non manipolabile. Ma altra cosa è l’istituzione teatro. È omertosa. Il teatro viene considerato di serie B. E sempre più spesso si fa un teatro civile spettacolare che non denuncia. E la critica basa tutto su valutazioni estetiche. A me e a Roberto questo non interessa perché siamo caduti dentro le cose che raccontiamo».

Mariella Radaelli

Martedì 13 ottobre Giulio Cavalli all'Università di Firenze per il quinto Forum contro la Mafia

L’aspetto più allarmante del fenomeno mafioso è la sua capacità di condizionare la vita di migliaia di persone. E’ importante non rassegnarsi ad essere elementi passivi di questo sistema degenerato.

Anche quest’anno il Forum Nazionale contro la mafia rifiuta di rimanere in silenzio, ne nascono due giorni ricchi di incontri e dibattiti, alla presenza di esponenti del mondo della giustizia, dell’informazione, e dell’ambito associativo, che hanno fatto della lotta alla mafia un impegno costante ed un’etica di vita.

Martedì 13 Ottobre

[09.30 – 13.30] Mafia, sanità ed edilizia

Molta parte dell’edilizia, soprattutto quella pubblica, è spesso invischiata in rapporti con associazioni mafiose, e questo si riscontra anche (e spesso tragicamente) nell’edilizia sanitaria, a cominciare dagli ultimi scandali che balzano all’attenzione fino alle annose questioni irrisolte che ancora continuano suscitare consistenti dubbi sulla loro legalità.

intervengono:
* Gaetano Paci Magistrato
* Enzo Ciconte Docente Università Roma 3
* Stefano Maria Bianchi Giornalista
* Rosario Cauchi Giornalista

[13.30 – 15.00] Proiezioni

[15.00 – 18.30] La mafia è morta?

Come la società risponde alla mafia? Testimonianze di associazioni, gruppi, ma anche vicende personali, dal Nord e dal Sud Italia, attraverso anche un’analisi generale sul fenomeno mafioso su come esso si presenta ai giorni d’oggi, per capire cosa è cambiato nei suoi metodi e nelle sue strategie, dove attecchisce e perché.
Ripercorreremo e approfondiremo inoltre una nera pagina del nostro paese che continua oggi a far male: fatta di stragi e indagini ancora ad oggi in parte irrisolte.

intervengono:
* Piercamillo Davigo Magistrato
* Giovanna Maggiani Chelli Associazione ‘Tra i familiari delle vittime di Via dei Georgofili’
* Libera Toscana
* Silvano Sarti Presidente provinciale ANPI
* Rino Giacalone Giornalista
* Presidio San Pietro di Rosà

[21.00] Intervento di Giulio Cavalli: letture tratte da  “A cento passi dal Duomo “

 

Mercoledì 14 Ottobre

[09.30 – 13.30] Come si arricchisce la mafia
Come la società risponde alla mafia? Testimonianze di associazioni, gruppi, ma anche vicende personali, dal Nord e dal Sud Italia, attraverso anche un’analisi generale sul fenomeno mafioso su come esso si presenta ai giorni d’oggi, per capire cosa è cambiato nei suoi metodi e nelle sue strategie, dove attecchisce e perché.
Ripercorreremo e approfondiremo inoltre una nera pagina del nostro paese che continua oggi a far male: fatta di stragi e indagini ancora ad oggi in parte irrisolte.

intervengono:
* Giovanna Maggiani Chelli Associazione ‘Tra i familiari delle vittime di via dei Georgofili’
* Fondazione Caponnetto
* Don Alessandro Santoro Comunità di base Le Piagge, Firenze
* Antonio Pergolizzi Legambiente nazionale. Rapporto Ecomafie

[13.30 – 15.00] Proiezioni

[15.00 – 18.30] Informazione, intercettazioni, politica e mafia

Partendo dall’emergenza sul provvedimento del governo sulle intercettazioni, affronteremo un’analisi dei rapporti di silenzio o di collusione con la mafia, sia da parte di esponenti dell’informazione che della politica.

intervengono:
* Antonio Ingroia Magistrato
* Peter Gomez Giornalista
* Pino Maniaci Giornalista, Direttore di Telejato
* Docente di Diritto costituzionale
* Giovanna Maggiani Chelli Associazione ‘Tra i familiari delle vittime di via dei Georgofili’

 

Per ogni informazione visita www.forumcontrolamafia.info.

Ho incontrato Giulio Cavalli

Ho incontrato Giulio Cavalli. Attore ed autore teatrale che vive attualmente sotto scorta. Per motivi diversi già ci sentivamo per telefono o per email. Ma l’occasione di potergli stringere la mano mi ha permesso di farmi un’idea sull’uomo, sulla cultura, su ciò che accade in Italia. Giulio vive sotto scorta perché minacciato di morte dalla Mafia. Caso unico nel suo genere in Italia e forse in Europa. Nessuna raccolta di firme o vesti che si strappano. Giulio non ne fa un dramma, tantomeno un martirio. Non è piangente su se stesso ne lamentoso. Ecco, forse la spiegazione: se non sei un gadget televisivo o mediatico, non vai bene. Eppure Cavalli non è solo Radio Mafiopoli. I suoi spettacoli toccano diversi temi: Linate 8 ottobre 2001, sulla tragedia che costò la vita a 118 persone. Bambini a dondolo, sul dramma del turismo sessuale che coinvolge i minori. Non solo mafia, ma società italiana con i suoi drammi e le sue tragedie. Ultimamente Cavalli è stato querelato preventivamente da Fiorani (proprio il banchiere ospite di Lele Mora), perdendo, ovviamente, per uno spettacolo sulla Popolare di Lodi. Cavalli è un uomo di cultura, di denuncia, di studio. Ricorda, racconta, tramanda storie, narrazioni, nomi, piccole indegnità del nostro Paese. Eppure non lo sento spesso. Non si ascoltano tante interviste di Cavalli nel circo mediatico. Già, Giulio è posato e non si mette in posa, recita e studia, non blatera slogan. Giulio è cittadino non martire, dice quello che pensa senza fare il conteggio della popolarità mediatica. Cavalli beffa la Mafia con il suo palcoscenico puntato verso le coscienze. Non si trastulla con le parole, ma riflette le angosce di una nazione. Eppure rischia la vita. Per davvero. Non è uno scherzo. Lo vogliono morto. Eppure Cavalli sorride, si preoccupa ma non lo da a vedere. Sarebbe salutare sentirlo parlare, dargli più spazio per i suoi testi scritti, eccellenti nella loro composizione, profondità, semplicità. Ma Giulio pone noi al primo posto e non se stesso. Ma questa è una nazione che gli piace il sangue spettacolo, i martiri mediatici. La normalità della cultura, quella vera, beh è roba da teatranti.

Sergio Nazzaro

DA LEFT

L’ARTICOLO QUI

Recessione e mafie 3 – L’Africa e le vie della droga

africadi Carlo Ruta

Più di qualsiasi altra parte del globo, l’Africa evoca calamità e regressioni militari, nondimeno costituisce, oggi più che in passato, un mondo eterogeneo, anzitutto sotto il profilo economico. Se l’immensa regione centrale, di cui è emblema Korogocho, la “favela” più popolosa del mondo, rimane infatti irriducibilmente povera, l’intera fascia settentrionale va progredendo, agganciandosi addirittura al trend di paesi come India e Cina, che in questo momento, come detto, fanno argine alla recessione. Tutte le regioni continentali sono comunque accomunate da un fenomeno in crescendo, la domanda di narcotici: dalla cannabis che, secondo l’Unodc, copre il 63 per cento dei consumi continentali di droghe, alla cocaina, che copre in Africa il 20 per cento della domanda globale. Tenuto conto delle enormi sacche di povertà del continente, tutto questo può apparire paradossale. Testimonia comunque quanto il narcotraffico possa discostarsi dalle logiche della normalità economica, in taluni casi fino a sovvertirle, traendo vantaggio da emergenze di ogni tipo.

Nel contesto di una economia globale che ha aperto a inedite e impetuose colonizzazioni, su questo continente il narcotraffico ha puntato in modo strategico. I cartelli sudamericani hanno avocato a sé territori importanti, fino a farne appunto un mercato in crescita. Ma hanno fatto di più, aprendo in Africa un corridoio relativamente sicuro per l’introduzione della coca in Europa. Dalle coste del Brasile, la polvere bianca, proveniente dalla Colombia, dal Perù e dalla Bolivia, attraversa l’Atlantico per approdare lungo le coste dalla Guinea Bissau e della Sierra Leone. Dopodiché, fatte salve le partite riservate al consumo continentale, risale lungo varie piste, che possono interessare la Mauritania, la Costa d’Avorio, la Nigeria, il Niger, il Ciad, per raggiungere le coste mediterranee del Nord Africa, dal Marocco alla Tunisia, dove viene imbarcata su navi di piccolo cabotaggio e pescherecci diretti in Spagna, in Italia, in Grecia, nelle coste balcaniche. I numeri che vengono proposti dall’Unodc, ricavati dalla curva dei sequestri nell’ultimo decennio, appaiono già considerevoli. Si ritiene infatti che circa la quarta parte dei carichi di narcotici introdotti in Europa dal Sud America segua la rotta africana. Tale stima, che si fonda appunto su certificazioni territoriali, potrebbe essere tuttavia poco indicativa, per difetto, almeno per due ragioni. La prima è politica. Allo stato delle cose è verosimile che determinati paesi vadano rendendosi permeabili al commercio di droghe. La seconda è di terreno. Le aree desertiche del nord, in cui transitano quantitativi importanti di narcotici, sono troppo estese per poter essere sottoposte, laddove pure si volesse, a controlli significativi.

I narcos non sono stati beninteso i soli a puntare sul continente. Seppure con circospezione, si sono mobilitati pure ambienti dell’oppio del sud-ovest asiatico, ravvisando un terreno idoneo nella regione orientale, ma soprattutto nel Corno d’Africa, con la garanzia di una guerra civile endemica che dal 1993 ha reso l’area fuori controllo. È andata delineandosi così un’attività composita, divisa fra interessi interni ed esterni, che vede in causa boss afgani, reti fondamentaliste, clan militari somali, perfino le piraterie del Golfo di Aden. E tale stato di cose, pure per le saldature che rischia di avere con altre situazioni continentali, lascia prevedere risvolti non da poco. Va considerato peraltro che quasi l’intera Africa brulica di traffici, di affari eterogenei, mentre in diversi paesi si rendono più sostenuti i disegni di far da sé, di realizzare cioè in via del tutto autonoma l’intero ciclo delle droghe, dalla produzione al rifornimento dei mercati, locali e non solo. Si tratta di focalizzare allora tale processo, che reca peraltro una tradizione importante nel Marocco: ancora oggi fra i primi produttori al mondo di cannabis.

Il Rif, regione montuosa del Marocco settentrionale, sin dagli anni settanta costituisce una immensa distesa di canapa indiana, sostenuta soprattutto dalla richiesta europea. Come il Sud America e il Triangolo d’Oro, ha coniugato e insiste a coniugare quindi povertà e ricchezza fino al paradosso. Al livello più basso stanno intere popolazioni contadine, che traggono dalle coltivazioni solo il minimo per sopravvivere. In alto risultano i boss, marocchini, turchi, tunisini, spagnoli, italiani, che muovono l’affare, proiettando l’hashish lungo i continenti che chiudono il Mediterraneo. Negli ultimi tre anni la situazione è mutata. Le leggi del governo di Mohammed VI, indotte dall’Onu, sono divenute più severe. Numerose piantagioni dell’area sono state distrutte. I rilievi ufficiali dell’Unodc stimano addirittura nel 50 per cento la riduzione delle superfici coltivate. Ma tutto questo significa poco. La cannabis viene riconosciuta ancora oggi come la droga più coltivata al mondo, ma soprattutto la più richiesta. In Africa, dove è preponderante l’offerta del Rif, è, come si diceva, allo zenit, coprendo il 63 per cento dei consumi continentali di narcotici. Il dato più rappresentativo continua a venire comunque dalla sponda nord del Mediterraneo. I sequestri effettuati negli ultimi anni in Spagna, Italia, Francia, Grecia, in altri paesi europei, testimoniano infatti che la marijuana prodotta in Marocco, a dispetto degli interventi delle autorità pubbliche, rimane in tali aree la più diffusa.

Il presente dell’Africa non è tuttavia la sola tradizione del Rif: che in termini di commercio clandestino risale almeno al secondo dopoguerra. È anche altro. È soprattutto la Nigeria, dove il narcotraffico è gestito da una mafia locale, fortemente connotata in senso etnico, divenuta di fatto la più coesa su scala continentale: in grado di tenere testa quindi a quella turca sulle rotte che si diramano dal Mediterraneo. Particolarmente attivi dagli anni ottanta, quando il paese fu scosso dalla crisi del petrolio, i nigeriani hanno potuto godere nell’ultimo decennio di una rendita strategica. Con l’aprirsi delle rotte africane, il territorio da cui muovono è divenuto infatti un crocevia del narcotraffico globale. Incombe sulla Guinea Bissau, chiudendo il golfo in cui sbarca la coca dei narcos. Occupa lo stesso parallelo del Corno d’Africa, dove transitano gli oppiacei da Oriente. Se nei primi periodi i boss centro-africani si sono limitati allora a chiedere l’obolo o reclamare forme minime di partnership, con il tempo si sono meglio organizzati, elaborando un metodo. Per conto dei sudamericani, controllano oggi il traffico di coca continentale e una parte non indifferente di quello europeo. Hanno dato avvio a coltivazioni di papavero, seppure in una misura discreta, mentre continuano a garantire, ai loro facoltosi contraenti, i percorsi dell’oppio afgano. Infine, là dove è possibile, fanno gioco a sé, incentivando soprattutto la coltivazione e la lavorazione della canapa, tanto da rendere il paese africano, un po’ sulle orme del Marocco, uno fra i maggiori esportatori di marijuana e hashish.

Come interagisce allora la recessione di oggi con tale stato di cose, nel continente? È il caso di esaminare alcuni aspetti generali. La crisi in Africa, come danno conto gli allarmi lanciati da numerose organizzazioni, sta avendo ripercussioni sociali pesantissime. Il 2009 si chiuderà, secondo Jean Ping, presidente dell’Unione Africana, con 27 milioni di nuovi disoccupati. In aggiunta, i prezzi dei beni primari stanno aumentando in modo esorbitante, con l’effetto di una carestia che le popolazioni, già provate da piaghe ataviche, non sono in grado di fronteggiare, tanto più nei paesi sub-sahariani. Vanno accendendosi quindi tensioni che rischiano di alimentare l’instabilità politica, già notevole, e gli scontri fra etnie. Si è entrati insomma nel tunnel di una emergenza che, come denuncia Amnesty International in un rapporto del maggio 2009, rende l’intero continente una polveriera pronta ad esplodere. In questo clima un peso crescente sta assumendo comunque la questione delle droghe. Nessun risultato statistico, beninteso, può attestare che negli ultimi mesi il traffico e il consumo di tali sostanze nel continente siano alimentati dalla crisi. Esistono nondimeno situazioni di cui va preso atto, a partire dalle aree cruciali del narcotraffico, dove proprio in questi frangenti si registrano evoluzioni drammatiche.

In Guinea Bissau è in atto una strategia di delitti che ha assunto il significato di un golpe. Il 2 marzo 2009 è stato ucciso, per mano militare, il presidente Joao Bernardo Vieira, che aveva guidato il paese per 23 anni. A giugno, poco prima delle elezioni, sono stati assassinati: Baciro Dabo, maggiore candidato alla successione; Helder Proença, già ministro della Difesa e stretto collaboratore di Vieira; Faustino Fudut Imbali, primo ministro dello stato africano dal marzo al dicembre 2001. Un altro candidato alla presidenza è stato indotto invece a ritirarsi, per salvare la vita. Le movenze sono quelle di una guerra intestina sul terreno dei narcotici, su cui, oltre le apparenze, hanno puntato con abbondanza tanto i dignitari di Vieira quanto i militari che adesso tengono il gioco. Tutto richiama quindi i cartelli sudamericani, determinati, con i loro contraenti del Golfo, a bruciare i tempi della conquista continentale. Tale situazione appare altresì coerente con quella della confinante Guinea Conakry, dove il 23 dicembre 2008, dopo l’annuncio della morte del presidente Lansana Conté, che aveva mantenuto il potere per 25 anni, si è insediata una giunta militare golpista, guidata dal capitano Moussa Dadis Camara. Il canovaccio è uguale. Il regime di Conté, come si evince da numerosi rapporti, a partire da quelli della Lega guineense per i diritti umani, era sceso a patti con il narcotraffico. La giunta di Camara fa altrettanto, ma con più metodo, malgrado ostenti di aver dichiarato guerra alle droghe.

Gli effetti della connessione afro-sudamericana si fanno in sostanza sempre più preoccupanti. Se ne trova riscontro quindi nelle prese di posizione che vanno sommandosi a tutti i livelli. Di ritorno dal Golfo, Mary Carlin Yates, direttrice della DEA, l’agenzia antidroga dell’FBI statunitense, ha dichiarato che il traffico di narcotici, già gigantesco, sta crescendo ancora, con il rischio di destabilizzare ulteriormente gli stati della regione. Jean Ping, che esprime per certi versi l’opinione generale del continente, ha aggiunto che il narcotraffico di stanza in Guinea e in Sierra Leone sta mettendo a rischio la pace non solo dell’area, ma dell’Africa intera. E del medesimo avviso, sulla scorta di dati tratti dagli uffici di polizia, è il ministro dell’Interno colombiano Fabio Valencia Cassio, trovando la colonizzazione africana dei narcos in netta progressione. Un dettaglio della situazione sul terreno, dall’epicentro della Guinea Conakry, viene offerto comunque dal capitano Moussa Tiégboro, ministro della giunta militare che dovrebbe combattere i narcos: in tutto il paese, a dispetto dei livelli di povertà, fra i più alti su scala continentale, anche le tossicodipendenze sono in aumento.

In modo ugualmente severo sta evolvendo la situazione del Corno d’Africa. Il consumo di Khat, la cui coltivazione costituisce per gran parte delle famiglie contadine l’unica risorsa per sopravvivere, come del resto in Kenia, in Etiopia e altrove, continua a diffondersi con ritmi ascendenti. Prova ne è che nella sola Somalia tale droga muove un giro d’affari di circa 70 milioni di dollari l’anno, più di quanto ne registrano in bilancio gli stati più poveri della regione. Insieme con l’eroina dell’Afganistan, che viene irradiata appunto in tutto il continente e oltre il Mediterraneo, continua ad alimentare quindi i conflitti territoriali. Le ripercussioni sul terreno sono sempre più devastanti, con saldature tattiche fra clan militari, narcotrafficanti dell’oppio, reti terroristiche islamiche, mentre lo stato di indigenza e i disagi della guerra sempre più vanno traducendosi in progressi dell’Aids e in violenza. Un effetto clamoroso di tale impasto fra guerra, povertà e droghe è la pirateria del Golfo di Aden che, dopo decenni di relativa sordina, si trova in piena recrudescenza. L’esercito dei nuovi bucanieri, impinguatosi di anno in anno, con picchi recenti del 200 per cento, conta oggi su circa 2 mila unità. Ha rinnovato strategie e metodi operativi, traendo quanto gli occorre dai sequestri, ma pure dall’eroina e dal Khat. È andato dotandosi altresì di armi sofisticate, tecnologie, mezzi logistici, mettendo a frutto gli accordi che è riuscito a cucire, lungo gli anni, con i mujahedin e i signori della guerra di Mogadiscio. Si tratta uno scorcio beninteso, sullo sfondo dei conflitti dimenticati e del narcotraffico. Quanto accade nel Golfo esemplifica tuttavia i caratteri di una emergenza che si è resa debordante, a dispetto della decisione dell’Africom, a guida statunitense, di intervenire nell’area. La denuncia che viene da numerose sedi, ufficiali e non solo, è del resto unanime: la faglia del Corno d’Africa rischia oggi di far saltare gli equilibri residui dell’intero continente, al pari di quella delle Guinee ma forse più ancora, perché acutizzata appunto da guerre senza fine.

Giulio Cavalli: “Io, attore sotto scorta”

E’ brutto dover parlare di un artista e di uno spettacolo in termini di “sicurezza e ordine pubblico”. Giulio Cavalli, attore e regista lombardo, dal 2006 vive sottoscorta, proprio come Roberto Saviano. Aveva presentato uno spettacolo Do ut des che metteva in ridicolo i riti e i vezzi della mafia siciliana, in particolare dei mafiosi di Gela. Il risultato lo racconta lo stesso Cavalli: ” Mi sono cominciate ad arrivare lettere anonime, dopo un po’ mi sono trovato il mio nome nel muro sotto il mio ufficio al centro del disegno di una bara. Le minacce sono poi proseguite negli anni via via fino a una escalation che si è fatta più preoccupante e che arriva a pochi mesi fa”.
Oggi Giulio Cavalli vive accompagnato da una scorta, ma non ha smesso di fare spettacoli. “La vicenda personale è diventata tutt’uno con il teatro e così mi son detto se mi sfidate non mi limito a fare un attacco sul vostro costume, voglio capire chi siete”.
Ed ecco il nuovo spettacolo che Giulio Cavalli presenta da domani al Teatro della Cooperativa di Milano, un piccolo e agguerrito teatro diretto da Renato Sarti, in pochi anni diventato un luogo di impegno e dibattito civile. Lo spettacolo (è in scena fino al 18 ottobre) si intitola A cento passi dal Duomo scritto da Cavalli con il giornalista Gianni Barbacetto e le musiche di Gaetano Liguori ed è una ricognizione sulle diramazioni economiche, sociali e politiche della mafia in Lombardia: le famiglie mafiose al nord, con nome e cognome, i loro affari, la collusione con la politica e le infiltrazioni nei gangli di potere.
“Lo spettacolo – racconta Cavalli- riparte dalle famiglie gelesi e arriva a quelle della ‘ndrangheta. Ma quello che a me interessa è soprattutto scalfire l’atteggiamento di una intera classe politica regionale che nega di essere stata intaccata dal fenomeno mafioso. Ci dimostri che non faranno entrare la criminalità organizzata nell’Expo del 2015 e ci dicano come faranno, ci dicano che dopo Ambrosoli, Sindona, Gardini hanno imparato come liberarsi della mafia e delle sue infiltrazioni altrimenti è bene sapere che siamo di fronte a un grande inganno culturale. A Cento passi dal Duomo fa suo il grido di allarme del procuratore generale antimafia, Vincenzo Macrì che nel 2008 ha affermato che “Milano è oggi la vera capitale della ‘ndrangheta” e, tuttavia, la politica sembra non accorgersene”.
Questo sentiremo in scena. Ma fuori scena? Come vive un artista da “controllato”? “Con la scorta convivo con traquillità, non ho perso il sorriso. Tranne quando certi esponenti della destra mi parlano di savianite che contagia gli artisti. Perchè non chiedono a magistrati come Caselli da trent’anni sotto scorta cosa pensano i loro figli?”

Info sul Teatro della Cooperativa

Il sito di Giulio Cavalli

da repubblica.it blog teatro


Cavalli ad “Annozero”: «Sotto scorta a Lodi, terra senza memoria»

L’attore lodigiano ospite ieri nella trasmissione di Michele Santoro. «Sotto scorta a Lodi? A Lodi?». Michele Santoro sembra incredulo mentre chiede lumi all’attore che ha di fronte, un attore che mette alla berlina «una regione e un territorio in cui la mafia è connaturata all’economia e alla politica». L’attore è il lodigiano Giulio Cavalli, ospite ieri sera della puntata di “Anno Zero”. La sua testimonianza arriva nella vigilia del debutto milanese di “A cento passi dal Duomo” (al Teatro della cooperativa di Milano da oggi) in cui l’autore denuncia la mafia facendo nomi e cognomi. «Il teatro mi permette di andare oltre l’antimafia da souvenir e di prendere una posizione – ha detto ancora Cavalli dalla tribuna -. È un luogo in cui la memoria non va in prescrizione. Il mio è prendere una parte contro qualcosa in un territorio che è bravissimo nelle cerimonie “colletto a posto e cappello in ordine” e si dimentica dei buchi desolanti della sua storia». Un territorio, sottolinea Cavalli, «che dice che qui non arriveranno i mafiosi, quando sono qui da trent’anni».E se nel suo spettacolo, scritto a quattro mani con Gianni Barbacetto, Cavalli fa i nomi e i cognomi degli uomini d’onore al confino, nell’agorà di Michele Santoro non ha lesinato commenti su una città come Milano e su un territorio come la Lombardia, «colpevole anche dal punto di vista culturale». Al centro della puntata di ieri del celebre programma di Rai Due, le “verità nascoste” di Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e protagonista di quella trattativa Stato-Mafia che potrebbe avere accelerato la condanna a morte del giudice Paolo Borsellino. Una puntata clamorosa, che si è aperta con l’appello della moglie del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio, Agnese Borsellino, che ha chiesto di dire la verità come «azione di grande coraggio, lo stesso coraggio posseduto dai carnefici nell’organizzare ed eseguire un’azione di guerra» per restituire «dignità a questa nazione e renderci liberi da ricatti e da quel sottobosco in cui gli interessi personali coincidono con la cultura della morte».La rivelazione shock però è di Claudio Martelli, ministro di Grazia e Giustizia nei tempi delle stragi. È lui a raccontare che la trattativa fra Stato e antistato parte nel giugno 1992 e che Paolo Borsellino stesso ne era a conoscenza, informato da Liliana Ferraro, magistrato e per dieci anni collaboratrice di Giovanni Falcone. Una circostanza mai attestata prima e che conduce inevitabilmente a valutazioni diverse rispetto a quella che Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei Valori, definisce «una pagina buia della storia di questo paese». In collegamento da Palermo, circondato da un gruppo di uomini e donne con, in mano, un’agenda rossa come quella sparita da via D’Amelio e appartenuta a Paolo Borsellino, Sandro Ruotolo, il giornalista che lavora per la testata di recente oggetto di intimidazioni mafioseIntimidazioni e minacce come quelle che hanno raggiunto, nei mesi scorsi, Cavalli, tanto che l’attore lodigiano vive ormai sotto scorta. Un’esistenza di rinunce e disagi che non impedisce all’autore teatrale di portare avanti le proprie denunce. A Santoro che gli dice, quasi incoraggiandolo «Anche noi facciamo la nostra parte, è un lavoro duro…», Cavalli risponde con un sorriso ironico: «Sì, contando che io lo faccio a Lodi…

Rossella Mungiello

Fabrizio Tummolillo

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Cavalli sul palcoscenico con la scorta «Ecco la mafia a cento passi dal Duomo»

di LUCA VIDO — MILANO — GIULIO CAVALLI, milanese, classe 1977. Professione, attore, o quasi. Nel 2001 fonda, nel Lodigiano, la «Bottega dei mestieri teatrali», che troverà la sua sede solo nel 2007 con il Teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco (Lodi), e firma le sue prime prove da autore e regista. Solo nel 2006 sale sul palco, spinto da quel geniaccio che risponde al nome di Paolo Rossi. E a quella del signor Rossi, in verità, molto assomiglia la sua parlata. Già, perchè Giulio Cavalli parla, dal palco, e non sta zitto. Nemmeno quando gli tagliano le gomme, gli mandano lettere minatorie, lo minacciano di morte e, tanto per gradire, gli fanno trovare una bella bara disegnata sulla porta di casa. Da allora è sotto scorta. Tutto è iniziato, ma non concluso, con «Do ut des» dall’esplicativo sottotitolo «spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi», in cui ridicolizza, proprio così, la mafia. E di mafia, e dintorni, tratta anche «A cento passi dal Duomo» che debutta questa sera, in prima nazionale, al Teatro della Cooperativa.
Vuoi dire che la piovra è arrivata anche sotto l’ombra della Madonnina?
«No, non proprio. Mi sono accorto che ridicolizzare la mafia funziona dove c’è un substrato…»
Ti interrompo… A questo punto ci sta a pennello l’aneddoto di Alcamo…
«Non la dimenticherò mai quella serata in Sicilia, è stato il momento in cui ho preso coscienza di quello che era veramente uno spettacolo come “Do ut des” in cui si gioca, come in una clownerie, sulla “punciuta”, ridicolizzando proprio il momento sacrale, il giuramento che il “picciotto” fa per entrare in Cosa Nostra. In piazza, ad Alcamo, non solo non ha riso nessuno ma la gente se n’è andata. Lì ho capito che non esiste solo il racket economico della mafia, ma anche il racket culturale. Ed è lì che noi operatori culturali dobbiamo lavorare».
Tornando a Milano?
«A Milano non c’è questo substrato mafioso, ma anche qui bisogna fare opera di alfabetizzazione per sensibilizzare. Esempio: Expo 2015. Certo, non bisogna fare entrare nel progetto, nei cantieri, imprese che abbiano legami con la mafia. Tutti d’accordo. Ma in “A cento passi dal Duomo”, scritto insieme a Gianni Barbacetto, vogliamo fare opera di sensibilizzazione perché ci sono imprese dal volto pulito che in realtà sono teste di ponte per il riciclaggio di denaro sporco. E il problema non è di tenere fuori dagli appalti queste imprese, ma di buttarle fuori, perché negli appalti già ci sono».
Roba da farsi rafforzare la scorta… A proposito come si sente un attore sotto scorta?
«Premettendo che trovo kafkiano dovermi difendere devo dire una cosa che sembrerà impopolare: sono schifato da questo voyerismo sulle scorte che si concentra solo su certi personaggi. Siamo a migliaia sotto tutela, impresari, politici, giornalisti, semplici negozianti. Mi piacerebbe ci fosse una solidarietà maggiore e non solo là dove il personaggio catalizza l’attenzione dei media. Io non mi sento il nuovo Saviano ma piuttosto il panettiere di Palermo che ha denunciato il pizzo e che, alle quattro di mattina, va a fare il pane con la scorta».
La tua vita quotidiana è cambiata?
«Faccio una vita molto nomade: al posto di avere due tecnici e tre collaboratori al seguito, in tournèe siamo due tecnici, tre collaboratori e le forze dell’ordine. Ma il sorriso, quei quattro imbecilli, non me lo tolgono».
Cos’è, per te, il teatro civile?
«Un istinto di sopravvivenza nato cinquecento anni fa, quando i giullari denunciavano che “il re era nudo” ma dovevano farlo senza poi morire di fame. Oggi somiglia di più a un funerale laico. Il teatro civile oggi lo fanno i giornalisti di inchiesta. Il teatro civile sta diventando molto incivile».
«A cento passi dal Duomo», da questa sera al Teatro della Cooperativa, via Hermada 8, info: 02.64749997.

DA IL GIORNO

2009-10-09

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Sul palco racconto la mafia a cento passi dal Duomo

La prima parte del titolo, «A cento passi», suona un po’ tetro ed evoca agli amanti del cinema il film-verità di Marco Tullio Giordana su Peppino Impastato, il sindacalista che pagò con la vita il coraggio di ribellarsi a Cosa nostra. La seconda parte, «dal Duomo», ha invece un effetto rassicurante ma è soltanto un’impressione. «A cento passi dal Duomo» è infatti uno spettacolo teatrale che parla di cosche in terra padana. Già. Regista, Giulio Cavalli, attore milanese da quasi un anno sotto scorta per le sue rappresentazioni di «teatro civile» contro la mafia. A Impastato, il piccolo grande eroe siciliano che sfidò don Tano Badalamenti, Cavalli si è probabilmente anche un po’ ispirato quando ha cominciato a trasmettere la sua rubrica «Radiomafiopoli» in onda sull’emittente Agoravox. Ma nel mirino di qualche mafioso, questo Saviano lombardo potrebbe esserci finito quando decise di mettere in scena, al Franco Parenti di Milano, la piéce «Do ut des», una parabola comica che sbeffeggia riti e conviti di Cosa Nostra: dalla «punciuta mafiusa», il giuramento di affiliazione dei picciotti, ai «pizzini» di provenzana memoria.
La voglia di ridere sembra essergli passata dopo le lettere anonime e il passaggio dalla «tutela dinamica» a quella «totale» da parte dei carabinieri di Lodi. La voglia di fare teatro a modo suo però, quella gli è rimasta. E allora eccolo oggi portare sul palco del Teatro della Cooperativa, in prima nazionale, il suo monologo musicale dedicato alla mafia giù al nord. Stavolta, però, niente guasconate, non ci saranno le burle di «Totò Nessuno» che da apprendista diventa sindaco di Mafiopoli. Sul palco saliranno soltanto i fatti: dati, condanne, inchieste giudiziarie e giornalistiche ricavate da atti pubblici e dall’Osservatorio milanese sulla criminalità organizzata al nord. L’io narrante di Cavalli dipingerà una mappa poco letteraria e molto neorealista delle attività della mafia (soprattutto ’ndrangheta) in terra lombarda, «che non porta la coppola ma dialoga con i colletti bianchi».
Nella sua lettura parte da lontano, «dal silenzio assordante» che accompagnò il delitto Ambrosoli, ai 103 sequestri avvenuti in Lombardia per mano di Cosa nostra tra il 1974 e il 1983, ai maxiprocessi sulle attività in padania, fino ai giorni nostri. «I giorni nostri -dice al Giornale- sono quelli delle famiglie che gestiscono il narcotraffico, come i Barbaro e i Papalia che controllano l’area di Buccinasco, i Rispoli che agiscono nell’area di Legnano, il clan Emmanuello che controlla l’hinterland meridionale. Non dimentichiamoci che Milano oggi è la capitale della cocaina e del riciclaggio. Molte società apparentemente pulite sono il frutto del lavaggio di denaro». Cavalli, però,si considera un ottimista e non ci sta a mettere il magone agli spettatori. «In realtà qui siamo ancora in una terra privilegiata perchè la società civile, e anche la politica, hanno gli anticorpi per difendersi». Sul palco l’attore fa nomi e cognomi, anche dei politici collusi. «Ma non parlo dei partiti, perchè il marcio sta dappertutto». Come pure il coraggio. «Ad esempio ho elogiato il consigliere leghista che a Lonate Pozzolo ha denunciato le infiltrazioni della famiglia Filippelli in alcuni cantieri di Malpensa. L’edilizia da queste parti fa molta gola».
Della grande torta dell’Expo, però, nello spettacolo quasi non si parla. «Non sono un populista e voglio evitare il rischio di facili strumentalizzazioni. In realtà è più utile guardarsi dietro l’angolo. Il pizzo, ad esempio, esiste ancora in Lombardia». Ma il «teatro civile» serve davvero a smuovere le coscienze? «A volte sì, e ne ho avuto conferma anche quando ho portato in scena al Piccolo la pièce sulla strage di Linate 2001 o quando, in Bambini a dondolo, ho rappresentato la piaga mondiale del turismo sessuale sui minori, di cui gli italiani purtroppo reggono la bandiera».

Mimmo Di Marzio

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