Vai al contenuto

L’esempio di Zingaretti

Le nomine e la sanità: il binomio è spesso una collusione. In Regione Lombardia la questione delle nomine è un chiodo che non riesco a togliermi, dalle spartizioni di partito, agli indagati eppure nominati, agli amici degli amici eppure nominati fino alle nomine al fotofinish, è stato un crescendo di inopportunità. Eppure volendo una soluzione (o almeno un tentativo che appaia logico e coerente nella concezione) è possibile: la Regione Lazio introduce nuove norme per la nomina dei direttori generali di Asl, aziende ospedaliere e istituti di ricovero, con lo scopo di eliminare l’influenza della politica nelle scelte. Per il presidente, Nicola Zingaretti si tratta di “Una rivoluzione del merito e del valore delle persone”. A valutare le domande di candidatura, che potranno essere presentate entro 30 giorni dalla pubblicazione dell’avviso sulla Gazzetta ufficiale, sarà una terna di esperti nominata dall’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. La Regione avrebbe diritto  di nominare due suoi rappresentati in questa commissione, ma ha rinunciato ad esercitare questo potere. Prima, per essere inseriti nell’elenco dei candidati, per chi proveniva dal pubblico bastava essere stato direttore di unità operativa semplice, ora solo di unità operativa complessa. Mentre prima per chi proveniva dal privato era sufficiente aver avuto la direzione di una qualunque azienda a prescindere dagli addetti e dalla forma giuridica (anche aziende individuali), ora solo se amministratore unico, amministratore delegato, o presidente di un cda di spa. Ancora una novità sulla trasparenza: prima le domande erano in formato cartaceo con i curricula non pubblicati on line, ora la procedura sarà interamente informatizzata.

Ecco, si potrebbe fare.

La mafia e lo Stato, secondo gli studenti

Vito Lo Monaco, l’instancabile Presidente del Centro Pio La Torre, tutti gli anni prova a tastare il polso degli studenti sulla percezione del fenomeno mafioso. Come lui sono in molti a credere che se è vero che la mafia è un fenomeno ‘culturale’ debba essere la scuola a combatter la in prima linea.
I risultati del rapporto sulla percezione degli studenti parla chiaro:

E’ colpa della politica se la mafia non e’ ancora stata debellata e le istituzioni sono responsabili se si infiltra nell’economia sociale e ha il potere di controllo sul futuro. Per questa ragione la mafia e’ piu’ forte dello Stato e sara’ molto difficile riuscire a sconfiggerla. Questa la sintesi dei risultati della settima rilevazione sulla percezione mafiosa condotta dal Centro Pio La Torre di Palermo tra quasi 2000 studenti delle scuole medie superiori italiane partecipanti al progetto educativo antimafia promosso dallo stesso Centro. Per il 45,06% dei rispondenti la mafia non potra’ essere definitivamente sconfitta, per il 94,52% ha un rapporto molto o abbastanza forte con la politica e per il 49,35% e’ piu’ forte dello Stato.

La mafia più forte dello Stato. Per metà degli studenti.

Fare il Civati

Tra le parole che costruiscono macerie ultimamente nella politica italiana c’è il distorto concetto di fedeltà. Viene invocata ogni volta che i dirigenti di qualche partito si ritrovano in cul de sac e non trovano più obiezioni logiche o condivisibili per la propria sfrontata incoerenza e devono chiudere in fretta la partita: la fedeltà che viene usata come una sciabola per chiudere il confronto, meglio ancora senza mai iniziarlo.

Una delle caratteristiche più difficili da “raccontare” nel fare politica è il canale di comunicazione interno. Ho parlato per ore con persone che si rivolgevano a me credendo che fossi partecipe alle consultazioni o alle decisioni che includevano anche me nelle conseguenze “attive” oppure i più disillusi speravano comunque che avessi notizie di prima mano: no, non è così, spesso spessissimo le informazioni “interne” (a cosa poi, verrebbe da domandarsi) sono banalmente quelle che leggiamo sui quotidiani con al massimo qualche parere tra colleghi. La mancata partecipazione interna ai partiti (che è una frase che ormai fa venire i conati per l’abuso) esiste sul serio ed è più banale del previsto: tre o più persone decidono azioni e strategie chiedendo agli eletti e alla base di impegnarsi nel renderle più digeribili possibile. Tutto qui. Nessun arcano meccanismo così difficile da raccontare e nemmeno grandi strategie sotterranee: stare in un partito è come avere un coinquilino che gestisce la casa e ti concede le chiavi dell’ingresso stabilendo anche gli orari del rientro.

Alcuni decidono, i più si allineano diversamente variegati, alcuni grugniscono ma solo in famiglia e poi ci sono quelli che chiedono spiegazioni. Orrore! Quelli che chiedono spiegazioni sono i vili traditori mentecatti che spaccano il partito, urlano tutti. In questi giorni quelli che chiedono spiegazioni sono i “Civati” e vengono raccontati come un pericolosissima specie politica che rischia di sfasciare tutto (tutto cosa, verrebbe da chiedersi) e che cerca solo visibilità.

Ora, io Pippo ho la fortuna di averlo amico ormai da qualche anno (un’era fa, c’era ancora Formigoni faraone in Lombardia ed era impensabile ipotizzare due ministri ciellini al governo) e questa volta mi sembra anche più lineare del solito nel suo ragionamento: abbiamo fatto delle promesse – dice – tra cui non andare mai con B, abbiamo chiesto agli elettori di dare fiducia ad una coalizione PD-SEL, abbiamo irriso i punti di programma del centrodestra ed ora andiamo a braccetto tutti insieme senza che nessuno ci abbia raccontato il percorso politico. Non mi sembra così difficile da capire, ammetto.

E credo che le stesse domande oggi dovrebbero essere urlate sbattendo i pugni sul tavolo anche da SEL, ancora prima di promettere un’opposizione costruttiva. Perché se nessuno ce lo spiega e se sono troppo pochi (e troppo timidi) coloro che pretendono una spiegazione viene il dubbio che i fessi siano gli elettori.

‘Fare il Civati’ racconta come la politica sia il luogo dell’impunità nel mantenere relazioni sociali leali, prima di tutto il resto, e come sia eroico provare a scindere la fedeltà dalla servitù. Ma questo è un vizio antico.

La pulce speciale

Loredana Lipperini riporta la lettera di una ‘mamma speciale’ e riaccende le luci sulla realtà. La realtà fatta di di difficoltà che vorrebbero dirci come infinitamente piccole e che invece suonano così profondamente più umane di qualsiasi accordo tra partiti. Ha ragione Loredana a scrivere che non servono commenti ma l’attenzione sì: perché non c’è uguaglianza senza la capacità di avere attenzione ai bisogni diversi dai nostri.

La 104 e i tre giorni al mese… lavoro presso un privato, ho dovuto firmare un part time a quattro ore con la metaforica rivoltella puntata alla tempia. Credete che in tempi di crisi e di isteria imprenditoriale possa osare anche solo chiedere un giorno? Fosse solo per smettere di correre e saltar ostacoli e dormire e riposarmi?
No. I diritti ci sono e son belli a leggerli sulla carta. Ma se sei una mamma speciale come me, puoi anche risparmiarti l’estenuante iter burocratico della 104 e attingere alle ore di permesso che tanto è uguale.
Per la mia 104 per poco scoppiava un putiferio. Ma come? Tre giorni al mese? Ma se sei a quattro ore al giorno! 72 ore al mese sono tantissime!
Beh certo, ma non sono stata certo io a chiedere che mi venisse dimezzato orario e stipendio….

Corriamo io e la mia pulce. A balzi come cavallette, sopra i servizi che saltano, i datori di lavoro che sbuffano. E i bambini che sfottono, che ti isolano, che ti chiamano idiota, scemo, deficiente. E i genitori che guardano e fingono di non sentire. E se sentono sorridono imbarazzati e ti dicono che sono bambini.

Falcate lunghe e ben distese sopra l’idiozia dell’insegnante di sostegno che ogni anno cambia. Perché il piccolo diversamente abile non ha diritto ad una figura di riferimento. No, l’insegnante di sostegno te lo affibiano in base ad anzianità e suo personalissimo desiderio di avvicinarsi alla scuola sotto casa.
Il sostegno a misura sartoriale. Dell’insegnante e non del bambino.

Quando ho iniziato a correre pensavo di essere sola. Poi a una cena con il padrino della pulce e alcuni suoi amici, scopro che al nostro tavolo ben tre commensali avevano passato quello che sto vivendo io. Mamme single di figli ormai grandi cresciuti in solitaria anche se… meno speciali del mio.

Scambiare una tensione per twitter

Secondo Twitter non ha affatto influenzato le scelte politiche, è un alibi per chi, tra i politici (anche forse tra i giornalisti) usa questa interpretazione. Su Twitter in rete si esprime una parte (ancora modesta) dell’opinione pubblica, purtroppo irrilevante rispetto alle dinamiche politiche. I politici non sono in ascolto nemmeno dentro questi “ambienti” digitali. Figuriamoci se si facevano guidare, influenzare dalla pressione di alcune persone che esprimevano il proprio dissenso a colpi di tweet. La verità è che è esplosa una tensione – che ha radici antiche evidentemente – all’interno del Pd. Se twitter avesse influenzato l’elezione ora avremmo Rodotà come Presidente della Repubblica.

Arianna Ciccone, intervistata qui.

Mai con B. Firmato PD

«Pensare che dopo 20 anni di guerra civile in Italia, nasca un governo Bersani-Berlusconi non ha senso. Il governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile» (Enrico Letta, 8 aprile 2013).

«I contrasti aspri tra le forze politiche rendono non idoneo un governissimo con forze politiche tradizionali» (Enrico Letta, 29 marzo 2013).

«Non sono praticabili né credibili in nessuna forma accordi di governo fra noi e la destra berlusconiana» (Pier Luigi Bersani, 6 marzo 2013)

«Il governissimo non è la risposta ai problemi» (Pier Luigi Bersani, 13 aprile 2013).

«Il governissimo predisporrebbe il calendario di giorni peggiori» (Pierluigi Bersani, 8 aprile 2013).

«Se si pensa di ovviare con maggioranze dove io dovrei stare con Berlusconi, si sbagliano. Nel caso io, e penso anche il Pd, ci riposiamo» (Pierluigi Bersani, 2 ottobre 2012).

«In Italia non è possibile che, neppure in una situazione d’emergenza, le maggiori forze politiche del centrosinistra e del centrodestra formino un governo insieme» (Massimo D’Alema, 8 marzo 2013).

«Il Pd è unito su una proposta chiara. Noi diciamo no a ipotesi di governissimi con la destra» (Anna Finocchiaro, 5 marzo 2013).

«Fare cose non comprensibili dagli elettori non sono utili né per l’Italia né per gli italiani. Non mi pare questa la strada». (Beppe Fioroni, 25 marzo 2013).

«Non si può riproporre qui una grande coalizione come in Germania. Non ci sono le condizioni per avere in uno stesso governo Bersani, Letta, Berlusconi e Alfano» (Dario Franceschini, 23 aprile 2013).

«Sono contrario a un governo Pd-Pdl» (Andrea Orlando, 22 aprile 2013).

«Abbiamo sempre escluso le larghe intese e le ipotesi di governissimo» (Rosy Bindi, 21 aprile 2013).

«Serve un governo del cambiamento che possa dare risposta ai grandi problemi dell’Italia. Nessun governissimo Pd-Pdl» (Roberto Speranza, 8 aprile 2013).

«Non dobbiamo avere paura di confrontarci con gli altri, ma non significa fare un governo con ministri del Pd e del Pdl. La prospettiva non è una formula politicista come il governissimo, è quel governo di cambiamento di cui l’Italia ha bisogno» (Roberto Speranza, 7 aprile 2013).

«L’alternativa non può essere o voto anticipato o alleanza stretta tra Pd e Pdl» (Roberto Speranza, 7 aprile 2013).

«Lo dico con anticipo, io un’alleanza con Berlusconi non la voto» (Emanuele Fiano, 28 febbraio 2013).

«I nostri elettori non capirebbero un accordo con Berlusconi» (Ivan Scalfarotto, 28 febbraio).

«Non c’è nessun inciucio: se questa elezione fosse il preludio per un governissimo io non ci sto e non ci starebbe neanche il Pd» (Cesare Damiano, 18 aprile 2013).

«Serve un governo di cambiamento vero ed è impensabile farlo con chi in questi anni ha sempre dimostrato di avere idee opposte alle nostre» (Fausto Raciti, 14 aprile 2013).

«Un governo Pd-Pdl è inimmaginabile» (Matteo Orfini, 27 marzo 2013).

Così abbiamo ucciso Lea: la versione di Venturino

carmine-venturinoI ragazzi di Stampo Antimafioso stanno seguendo con certosina diligenza il processo d’appello sulla morte di Lea Garofalo. E andrebbero ringraziati cento volte per quello che stanno facendo: sono le “vedette” che che regalano occhi e orecchie ad una città (Milano) che negli anni è diventata professionista del non vedere e non sentire. La ricostruzione di Carmine Venturino (che, va ricordato, si professa “innamorato” della figlia di Denise, la figlia di Lea) squarcia una velo sul massacro organizzato. E parla (ancora una volta) di quella parola che aleggia fin dall’inizio del processo: ‘ndrangheta:

Separato da un paravento bianco da coloro che «per tre anni sono stati – così come li ha definiti – la mia famiglia», Carmine Venturino, collaboratore di giustizia dal 31 luglio 2012, si è trovato nel secondo giorno di udienza del processo di secondo grado per la morte di Lea Garofalo a dover confermare le dichiarazioni fatte nei mesi scorsi al pubblico ministero e ad autoaccusarsi del concorso all’omicidio della madre della ragazza che lui stesso dice di amare.

Lo scorso 10 aprile dichiara dunque questo davanti alla corte d’Assise del Tribunale di Milano: «È     una scelta d’amore per Denise perché deve sapere come sono andate le cose sull’omicidio di sua madre». Con queste parole Carmine Venturino, nato a Crotone nel 1987 da una famiglia di incensurati, inizia la ricostruzione di tutte le fasi di organizzazione dell’omicidio di Lea Garofalo; dal progetto sventato a Campobasso nel maggio del 2009 fino al giorno, il 24 novembre 2009, in cui la donna viene rapita, torturata e uccisa. Strangolata con un nastro floreale delle tende dell’appartamento di Via Fioravanti, il cadavere messo in uno scatolone e alla fine trasportata in un garage. Lì l’ordine di Carlo Cosco: «La dovete carbonizzare».

Poche parole quelle dell’ex compagno della donna ma soprattutto poche domande, afferma Venturino: «Non si fanno domande nella ‘ndrangheta, significherebbe poca serietà; l’unico commento di Carlo Cosco è stato ‘la bastarda se n’era accorta’». Il collaboratore poi prosegue il suo agghiacciante racconto sulla distruzione del cadavere di Lea Garofalo: «Apriamo lo scatolone e rovesciamo il corpo a testa in giù nella benzina; si intravedevano solo le scarpe. Poi abbiamo buttato la benzina ma il cadavere bruciava lentamente, così mentre il corpo bruciava venivano spaccate le ossa con un badile. Ciò che rimaneva l’abbiamo messo in una borsa e coperto da una lamiera».

Continua poi la sua ricostruzione, raccontando alla corte il recupero degli abiti sporchi di sangue di Carlo Cosco, nascosti vicino al cimitero monumentale e recuperati da Rosario Curcio perché “erano firmati”. Dettagli che, sommati alle altre dichiarazioni, lasciano intravedere lo scenario ‘ndranghetista dentro il quale si è consumato il terribile omicidio: «Lui doveva ammazzare la compagna per le regole della ‘ndrangheta; io non sono un affiliato, sono un contrasto onorato, ho preso parte a questo disegno criminoso perché facevo parte della famiglia, in quanto spacciavo per loro e quindi dovevo loro dei soldi; non potevo dire di no; a Pagliarelle non si muove una foglia che i Cosco non voglia».

E sulla dichiarazione spontanea rilasciata da Carlo Cosco il 9 aprile, alla fine della prima udienza, Carmine Venturino dichiara: «Secondo Carlo Cosco si doveva dovevano uccidere anche Denise; nel processo di primo grado c’è stato un episodio in cui l’avvocato ha mostrato delle fotografie rimaste appoggiate sul banco della difesa e Carlo Cosco quando le ha viste ha detto, ‘ancora davanti a me la metti questa puttana’». (l’articolo è qui)

Ah, ovviamente Carlo Cosco nega.

Arrivederci Anna, attrice perché mostro

Il prodotto può essere conservato a temperatura ambiente e non ha data di scadenza. Vale a dire che quando l’attrice “tirerà il calzino”, come dicono magnificamente a Firenze, il Sito resterà qui, per vostro uso e consumo.

L’avvertenza è scritta da Anna Proclemer e sta sulla prima pagina del suo sito. A passare tutta la vita sopra un palco poi succede che riesci ad essere ironica anche sulla morte. Anna è morta e il suo sito è il suo testamento artistico. Ed è morta una donna di un teatro che lascia molte eredità ma pochi eredi.

Perché a 4 anni, nel Duomo di Trento, ero convinta che tutti guardassero me, quando camminavo lungo la navata col mio vestitino di velluto blu e il colletto di coniglio bianco. Mi sentivo una regina. E mi atteggiavo di conseguenza.

Perché a 6 anni, quando mia nonna mi portava al Gran Caffè di Gorizia a bere una cioccolata, mi sedevo sullo sgabello liberty di velluto rosso e mettevo in mostra le gambe nude. Poco poco. Quel tanto perché la gente le notasse.

Perché a 12 anni, avendo assistito a una recita scolastica (una cosa pietosa, suppongo), scappai via con l’animo in tumulto e singhiozzai per tutta la strada fino a casa. Era stata un’“illuminazione”, un fulmine, uno choc irrazionale e sconvolgente. Il presagio di una vocazione, forse.

Perché attrice?  Perché sono un mostro.

Arrivederci, Anna.

 

anna-proclemer-morta-7