La tavola è perfetta. Anche la sala viene riordinata per l’occasione, che poi è anche l’occasione giusta per riordinarla, e la credenza dei piatti buoni e delle foto dei morti puzza ancora del lucido che è per le credenze ma ha lo stesso odore del lucido per le scarpe, e i quadri, quei quattro quadri messi su più per coprire la muffa che per fare i quadri, che rendono questa stanza come una sala d’aspetto che poi è un stanza in cui si aspetta davvero, in fondo. Si aspetta di provare ogni volta come tutte le settimane ad annaffiare quel nipote, Michele, di una famigliarità con una persona e con le cose, almeno con una persona e poche cose in questo suo paese, e nonno lo sa bene che sentirsi in famiglia senza abitudini è un esercizio difficile che logora quel poco tempo insieme per tutte le aspettative che si trascina dietro, ormai erano anni che erano vedovi e orfani tutti e due e ormai erano anni che nonno aveva capito che senza svegliarsi insieme la mattina, abitare gli stessi litigi e incassare gli stessi imprevisti è impossibile essere una famiglia a forma di famiglia per davvero. Impossibile. Rimane da dividersi una volta alla settimana la presa di coscienza di questo ineluttabile fallimento. Sono le sette e cinque. Il campanile si è rotto da un pezzo, mai aggiustato dopo i bombardamenti e dio probabilmente con tutto quello che ha da fare non se n’è ancora accorto.
Mio padre in una scatola di scarpe (titolo provvisorio), in scrittura.