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“A Beirut, come a Damasco, è morta la speranza”: parla lo scrittore siriano Shady Hamadi

Shady Hamadi è uno scrittore di origine siriana e da sempre è un attento osservatore del Medio Oriente. Esilio dalla Siria. Una lotta contro lindifferenza”, edito da Add Editore è il suo ultimo libro.

Lesplosione a Beirut ha acceso le voci di solidarietà falsi cortesi degli esponenti politici con strafalcioni come quello di Manlio Di Stefano. Che sensazione ti provoca la superficialità della politica italiana sul Medio Oriente?
Mi provoca delusione perché l’Italia ha, geograficamente e storicamente, un ruolo di primo piano nei rapporti con il Medio Oriente. Geograficamente perché siamo la porta verso l’Europa; storicamente a causa della presenza araba, durata secoli, nel sud Italia. Gli sbagli eclatanti, come quello di Di Stefano, stanno diventando una prassi (a destra e a sinistra) che non solleva neanche più l’indignazione. Ricordo gli elogi di Renzi al suo “amico”Al Sisi, poco prima della morte di Regeni. O, ancora prima, nel 2011 Franco Frattini che elogiava la Siria per la sua stabilità durante l’ondata delle primavere arabe. Il risultato è davanti a tutti noi.

Come valuti la politica estera del governo italiano?
Sclerotica perché c’è incoerenza nelle azioni della Farnesina a causa della nostra instabilità politica. Prendiamo l’Egitto. Con Renzi, prima dell’uccisione di Regeni, i rapporti erano idilliaci. Ucciso il ricercatore, abbiamo virato completamente. Salvo poi rimandare l’ambasciatore al Cairo. Oggi che cosa rimane del nostro approccio verso l’Egitto, la questione della tutela dei diritti umani? Nulla, a parte la vicenda di Patrick Zaki che non cade nel dimenticatoio grazie all’attenzione di alcuni movimenti di sinistra e Amnesty.

Come valuti lattenzione della politica occidentale sul Medio Oriente?
Dovevamo accompagnare i paesi arabi verso una transizione, sostenendo quel corpo sociale che si chiama società civile ma non lo abbiamo fatto. Preferiamo ancora oggi sostenere militari che con la forza riportano lo status quo antecedente. Guardiamo alla Libia. Parte della comunità internazionale sostiene Haftar; altri Sarraj. All’interno dell’Unione Europea ci sono Stati che, seguendo il proprio interesse nazionale, sostengono gruppi differenti.

Cosa bisognerebbe avere il coraggio di dire/fare?
Abbiamo sbagliato. L’ammissione di colpa dovrebbe arrivare da chi si è seduto in parlamento in Italia come nella Ue. Hanno sbagliato nel guardare al Medio Oriente con i soliti preconcetti: se non c’è un dittatore c’è il fondamentalismo. Come se questi arabi non fossero capaci di emanciparsi da questi due mali, creando una terza via che li conduca verso la democrazia. Il male assoluto, secondo questa vulgata alla Magdi Allam, sarebbe l’Islam. Semplicisticamente sarebbe la religione a bloccare ogni trasformazione.

Da scrittore, con la tua storia, come valuti questo momento internazionale?
É una restaurazione. A Beirut come a Damasco manca la speranza. Sto parlando proprio del sentimento. Sperare di cambiare, di migliorare vita… la gioventù vive nel pessimismo. Questo stato di cose ha prodotto un aumento vertiginoso dei suicidi. Decine di giovani si tolgono la vita esausti non solo di vivere nella miseria ma di non vedere mai un cambiamento. Di chi è la responsabilità di queste morti?

Che ne pensi del rifinanziamento italiano alla Libia?
Abbiamo Salvini che grida contro gli sbarchi. Vuole che si fermino ma lui ed altri hanno firmato per il rifinanziamento della guardia costiera libica da più parti accusata di gestire il traffico di migranti con le mafie locali. Diamo soldi ai trafficanti. Ho idea che chi grida alla chiusura dei porti voglia il contrario. I migranti servono come merce di scambio elettorale, in barba alla sofferenza di quei nei lager.

In Italia haisentito” razzismo?
Personalmente no. Mi definisco da sempre sirio-brianzolo anche se ultimamente mi sento solo brianzolo. Penso che gli italiani non siano razzisti. Credo esista molta ignoranza. Molti politici la sfruttano perché viviamo in una epoca di slogan e non di discorsi culturali. Vede, oggi non vogliamo prenderci la briga di capire perché un nigeriano scappa da Lagos o un siriano da Aleppo. Vogliamo tutto subito, anche le spiegazioni. Il politico improvvisato che ormai dilaga nei talk show e nelle aule un tempo frequentate da Berlinguer, regala slogan. È un ignorante, che non sa che i libici abitano in Libia e che Pinochet non era il dittatore del Venezuela. Non è umile. Infatti non chiede scusa. Dobbiamo ripartire dalla cultura.

Leggi anche: 1. Libano: devastante esplosione al porto di Beirut. Le impressionanti immagini della deflagrazione / 2. Libano, ferito un militare italiano in un’esplosione al porto di Beirut / 3. Libano, esplosione al porto di Beirut: incidente o attentato? Tutte le ipotesi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Quello che manca al racconto su Aleppo

(un pezzo interessante di Fulvio Scaglione, editorialista di Famiglia Cristiana, per allargare lo sguardo)

La battaglia di Aleppo, con le stragi di questi giorni e gli anni terribili che le hanno precedute, ha segnato tra le altre cose il collasso del sistema informativo occidentale, ormai quasi incapace di distinguersi dalla propaganda di parte.

Tutto, nel racconto occidentale su Aleppo, sa di truffa e inganno. Dalla pubblicazione senza filtri né verifiche dei dati forniti dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, fondato e animato da un oppositore di Bashar al-Assad e mantenuto dal governo inglese, alla parola “assedio”, usata senza risparmio per Aleppo ma solo negli ultimi mesi, e mai nei più di tre anni in cui la città era attaccata su tre lati da ribelli e jihadisti, arrivati anche a occupare il 60 per cento del territorio urbano.

Ma questi, se vogliamo, sono piccoli particolari. Il problema vero è il rifiuto di confrontarsi con una realtà che possiamo sintetizzare così: quanto è accaduto ad Aleppo in queste settimane non è per nulla eccezionale. Al contrario, è la norma della guerra contemporanea. Non ci credete? Allora cominciamo a guardarci intorno. Prendiamo Mosul, la grande città irachena che da due anni e mezzo è occupata dall’Isis.

A metà ottobre è partita (finalmente) l’offensiva per liberarla dai jihadisti. Grandi fanfare, toni trionfalistici, esultanza per i civili che “venivano liberati” dai quartieri prima sotto il controllo dei miliziani (mentre i civili di Aleppo, che escono dai quartieri dominati da al-Nusra, non sono liberati ma “fuggono”). Adesso, due mesi dopo, tutto è fermo e di liberare Mosul non si parla più. Non solo: l’offensiva di americani, curdi e iracheni è così ferma che l’Isis ha distaccato 4-5 mila combattenti dal fronte iracheno e li ha mandati a riprendere Palmira in Siria. Perché?

La risposta è molto semplice. I due anni e mezzo di estenuante campagna di bombardamenti hanno dato all’Isis tutto il tempo per organizzare le difese in città. Le strade sono state minate o sbarrate o sostituite da gallerie note solo ai miliziani. Certi palazzi sono stati abbattuti per liberare le linee di tiro, in altri punti sono stati costruiti muri per chiudere la vista e il passaggio agli attaccanti. Migliaia di civili, infine, sono stati bloccati per essere usati come scudi umani.

Per essere “liberata” Mosul dovrà diventare un’altra Aleppo: con i bombardamenti, le vittime civili, i bambini straziati dai colpi e così via. L’alternativa c’è: la conquista casa per casa con centinaia e centinaia di morti tra gli iracheni e i curdi. Cosa che peraltro già succede, anche se le operazioni militari sono quasi ferme.

La missione delle Nazioni Unite per l’assistenza all’Iraq (Unami), diretta da Jan Kubis, ex ministro degli Esteri della Slovacchia (dal 2006 al 2009), ha reso noti i dati, allucinanti, sul numero dei morti iracheni, civili e non, degli ultimi mesi. In settembre, cioè prima dell’offensiva su Mosul, i civili iracheni uccisi erano stati 609 (con 951 feriti); in ottobre sono diventati 1.120 (con 1.005 feriti) e in novembre 926 (930 feriti).

Per quanto riguarda militari e combattenti vari, le cifre sono: in settembre, 394 uccisi (208 feriti), in ottobre 672 uccisi (353 feriti), in novembre 1.959 uccisi (e 450 feriti). Risultato? Tutto bloccato, quindi altre sofferenze per i civili prigionieri a Mosul e altro tempo regalato all’Isis per continuare a fortificarsi.

Certo, nouveaux philosophes e altri clown possono pigiare sul pedale delle atrocità e delle violazioni dei diritti umani ad Aleppo. Ma sono solo degli ipocriti. Nel 2004, l’esercito americano combattè due battaglie per “liberare” la città irachena di Fallujah, di fatto occupata dai miliziani di al-Qaeda, gli zii dei miliziani di al-Nusra, che tanta parte hanno avuto nella battaglia di Aleppo.

Secondo l’Ong indipendente Iraq Body Count, nella prima battaglia (aprile 2004) morirono tra 572 e 616 civili; nella seconda (novembre 2004) ne morirono tra 581 e 670. Gli americani usarono armi al fosforo e, pare, all’uranio impoverito. Avete mai sentito un nuovo filosofo stracciarsi le vesti in proposito? Ricordate che il Corriere della Sera abbia usato, nei titoli, per Fallujah, il termine “mattatoio” come ha fatto per Aleppo?

E che dire di Gaza? Secondo i dati più prudenti, che sono quelli pubblicati dal Jerusalem Center for Public Affairs, solo il 45 per cento dei 2.100 palestinesi uccisi nella Striscia durante la guerra del 2014 erano veri civili e non combattenti. Il che fa pur sempre 945 persone inermi ammazzate in due mesi di scontri.

Allora furono proprio i paesi che oggi gridano allo scandalo per le operazioni di Aleppo a bloccare, all’Onu, le proposte di censura contro Israele. E Gaza, d’altra parte, non è una perfetta copia dei quartieri est di Aleppo, quelli attaccati con le bombe dai russi e dai siriani di Assad?

Ancora. L’Unicef ci ha fatto sapere che nei primi sei mesi del 2016 in Afghanistan si è avuto il numero record di vittime civili: 1.601 morti e 3.565 feriti. Il semestre peggiore dall’invasione anti talebani del 2001. Secondo le stime dell’Onu, il 60 per cento dei civili afghani cade sotto i colpi dei talebani e degli altri gruppi ribelli e criminali.

Ma il 40 per cento di 1.601 morti fa pur sempre 640 morti, ossia 640 afghani innocenti ammazzati in sei mesi (più di 3 al giorno) dalle truppe arrivate dai nostri paesi, cioè da coloro che dovrebbero proteggerli e “liberarli”. Ma tutto tace, quei morti non meritano lo sdegno riservato ai morti di Aleppo est.

La guerra dei nostri tempi, insomma, è questa roba schifosa. Chi fa finta di credere che in Cecenia e ad Aleppo si siano fatte cose diverse da quelle accadute altrove, per esempio a Fallujah o a Gaza, molto semplicemente mente. Tutte le guerre di oggi si combattono sulla pelle dei civili. Tutte.

E in tutte le guerre gli uomini armati, portino o meno un’uniforme, sono al più le vittime collaterali. Cosa che politici, militari e terroristi sanno bene. Dunque la questione vera è evitare il più possibile le guerre, non far finta che ci siano guerre buone e guerre cattive.

Lo scrittore Mathias Énard: «sulla Siria siamo i portinai della viltà»

(di Mathias Énard, dal volume collettivo Bienvenue ! 34 auteurs pour les réfugiéstraduzione di Lorenzo Alunni, fonte)

Sapevamo che quello del Ba’ath siriano era un regime tossico, di assassini e torturatori: l’abbiamo tollerato.

Abbiamo fatto addirittura di più: l’abbiamo rafforzato. Bashar al-Assad veniva invitato a sedersi nella tribuna presidenziale per la sfilata del 14 luglio, a Parigi, a pochi metri da Nicolas Sarkozy, che gli ha calorosamente stretto la mano due anni prima dell’inizio delle manifestazioni a Dera’a.

Sapevamo tutti che il regime di Assad era pronto a massacrare senza esitazioni la sua popolazione civile e quella dei suoi vicini: gli eventi del 1982 noti come «massacro di Hama» (ma che si sarebbero estesi a molte altre città siriane) e i soprusi siriani nei confronti del Libano ce l’hanno dimostrato a sufficienza. L’abbiamo tollerato.

Sapevamo che l’esercito siriano e i suoi sicari, che hanno organizzato la repressione per decenni, non avrebbero esitato un istante a sparare sulla folla, a torturare oppositori, a bombardare città e villaggi: li abbiamo lasciati fare.

Sapevamo che il regime siriano era diventato maestro dell’arte della manipolazione diplomatica regionale, abile a rafforzare temporaneamente i propri nemici, a infiltrarvisi, portando avanti un terribile doppio gioco letale: lo ha dimostrato la storia delle relazioni della Siria con i diversi gruppi palestinesi. È solo un esempio fra i tanti possibili. Li abbiamo dimenticati tutti, questi esempi, o abbiamo fatto finta di dimenticarli.

Sapevamo che tutte le figure politiche siriane non sono altro che una clientela di sicari che sopravvive grazie al sistema dei clan e alle elargizioni della casta Assad. Eppure abbiamo sperato nel cambiamento. Eravamo tutti al corrente che, nella così breve Primavera di Damasco del 2000, i club della democrazia erano stati repressi, che i nuovi leader si erano improvvisamente ritrovati in prigione o che erano stati costretti a lasciare il Paese. Ci siamo rassegnati.

Abbiamo immaginato che l’apertura economica avrebbe portato a un’apertura democratica. Abbiamo visto con chiarezza come tale apertura servisse solamente a distribuire nuovi guadagni per attirare nuovi clienti e rafforzare il clan al potere. Abbiamo venduto auto, tecnologia e fabbriche chiavi in mano, senza il minimo turbamento.

Sapevamo delle faglie che attraversano il territorio siriano; non ignoravamo che il regime di Assad si reggesse essenzialmente sulla minoranza alauita, soprattutto per il suo apparato militare e repressivo; sapevamo della sua alleanza strategica con l’Iran, che risale alla guerra fra Iran e Iraq e alla guerra del Libano, negli anni Ottanta; eravamo testimoni della potenza militare e politica dell’Hezbollah libanese; abbiamo assistito alla strumentalizzazione dei Curdi nelle relazioni fra la Siria e la Turchia nel corso degli ultimi trent’anni: sapevamo di tutto il risentimento dei sunniti siriani poveri, esclusi dal clientelismo e odiati dalle loro stesse élites; avevamo coscienza del peso dell’Arabia Saudita e del Qatar nell’economia europea e della «guerra fredda» che queste due potenze fanno da anni all’Iran.

Ci ricordiamo – o ci dovremmo ricordare – che la mappa del Medio Oriente del XX secolo è nata da accordi segreti firmati da Mark Sykes e François Georges-Picot nel 1916, o piuttosto dalle conseguenze di questi accordi e dalla loro attuazione fra il 1918 e il 1925. Il Libano, la Siria, l’Iraq, la (Trans)Giordania e la Palestina sono nate da queste frontiere, quasi cento anni fa, e da allora tali frontiere sono state messe in discussione direttamente solo una volta, quando la scorsa estate l’Isis ha riunito le province dell’ovest dell’Iraq e quelle del nord e dell’est della Siria, facendo improvvisamente tremare tutte le altre frontiere, in particolare quelle della Giordania e dell’Arabia Saudita.

Sapevamo che il Libano è un Paese fragile, un Paese di cui alcune componenti desideravano la ridefinizione (o l’implosione) geografica e la trasformazione del territorio in una confederazione, per «proteggere le minoranze». I Balcani ci hanno insegnato che nessuno desidera essere una minoranza sul territorio dell’altro quando l’impero sta crollando. Sapevamo inoltre che l’invasione – la distruzione totale – dello Stato iracheno ha portato all’ingiustizia, alla corruzione, all’insicurezza, alla carestia e al crollo dei servizi pubblici.

Da tutto questo, non abbiamo tratto nessuna conclusione.

Quando le manifestazioni si sono trasformate in rivolta, quando la rivolta è diventata rivoluzione, quando le prime granate sono cadute sui civili, quando la rivoluzione si è trasformata in Esercito Siriano Libero, non abbiamo fatto niente.

Sapevamo perfettamente che la soluzione al «problema siriano» e la risposta alla «questione siriana» passava per Mosca e Teheran, e non siamo voluti andare a Mosca né a Teheran.

Abbiamo detto di sostenere i democratici.

Abbiamo mentito.

Abbiamo lasciato morire l’Esercito Siriano Libero e tutte le forze di libertà.

Abbiamo dibattuto del numero di morti.

Abbiamo dibattuto di linee rosse, piazzate da noi, per poi spostarle perché non eravamo sicuri che fossero state realmente superate.

Abbiamo dibattuto del colore della bava nella bocca dei cadaveri.

Abbiamo detto di sostenere le forze democratiche.

Abbiamo mentito.

Abbiamo organizzato conferenze nei palazzi europei.

Lì, abbiamo visto i documenti in mano all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia.

Abbiamo continuato a mentire.

Dibattiamo tutti i giorni del numero di morti.

Abbiamo guardato fiorire le tende in Turchia, in Giordania, in Libano.

Contavamo tutti i giorni le tende.

Stanchi di contare i corpi mutilati, ci siamo compiaciuti per il miglioramento delle condizioni di vita dei rifugiati.

Abbiamo visto uomini sgozzati nel deserto, uomini su cui non abbiamo fatto affidamento.

Ci siamo indignati e la nostra indignazione si è trasformata in bombe e attacchi aerei.

Dibattiamo tutti i giorni dell’efficacia delle bombe.

Contiamo i morti e le tende.

Vendiamo aerei.

Impariamo nomi di città, impariamo nomi di città distrutte non appena ne abbiamo imparato il nome.

Mentiamo.

Siamo i geografi della morte.

Gli esploratori della distruzione.

Siamo portinai.

Portinai alla porta della tristezza.

Ogni giorno si bussa alle nostre porte.

Contiamo i colpi alle nostre porte.

Uno dice che «centomila persone bussano alle nostre porte».

L’altro dice che «sono milioni, e spingono».

Spingono per venire a cagare di fronte alle nostre porte chiuse.

Siamo i portinai della viltà.

Non accogliamo nessuno.

Non ci chiniamo davanti a nessuno.

Siamo fieri di non essere nessuno.

#SaveAleppo: cosa possiamo fare (e il senso della politica)

La tragedia di Aleppo è sotto gli occhi del mondo, anche se il mondo sembra preferire parlarne poco e male. Un città distrutta e civili che fuggono sono l’immagine di una sconfitta umana prima che politica. La politica, appunto: ieri con Pippo, Stefano e gli altri ci siamo interrogati a lungo su cosa avremmo potuto fare e come intervenire. Shady Hamadi (che è uno dei bei incontri che la vita mi ha regalato in questo ultimo anno) ne ha scritto qui. Ma noi? Concretamente?

Oltre alle pressioni politiche al governo abbiamo aperto due sottoscrizioni (le trovate qui): una serve, tramite ONSUR, a finanziare l’acquisto di una ambulanza (il costo preventivato è di 3.000 euro) che opererà, non appena possibile, nelle zone più critiche di Aleppo e l’altra per finanziare l’accoglienza in Italia di rifugiati siriani al momento presenti a Beirut, attraverso i canali umanitari già attivati da Mediterranean Hope (si tratta di profughi in situazione di particolare fragilità, portati in Italia in sicurezza e introdotti a percorsi di inclusione).

È poco, lo sappiamo, e terribilmente in controtendenza rispetto a chi ci vorrebbe convincere che restare umani sia debole, stupido e addirittura pericoloso; eppure in poco tempo siamo già vicinissimi all’obbiettivo. Ed è confortante sentirsi parte di una comunità che ci assomiglia, credetemi. Se volete dare un mano lo potete fare qui, se volete partecipare alla nostra comunità qui trovate tutti i modi per esserci. Buona giornata, intanto.

Siria, ad Aleppo crollano gli ospedali

Violenti bombardamenti hanno colpito due ospedali nella giornata di sabato ad Aleppo, in Siria. Oltre cento i morti tra i civili, compresi 17 bambini.
Due ospedali della città di Aleppo, in Siria – uno dei quali specializzato in medicina pediatrica – sono stati bombardati nella giornata di sabato dalle forze filo-governative di Bashar al-Assad. Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti dell’uomo i raid hanno provocato la morte di almeno 107 civili, compresi 17 bambini. Le strutture colpite sono state distrutte: “Non ci sono più ospedali in piedi” nei quartieri controllati dai ribelli, ha dichiarato al settimanale francese l’Express Joël Weiler, dirigente della Ong Médicins du Monde. Un’informazione confermata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità.

“A partire dal mese di gennaio – ha aggiunto l’attivista – abbiamo contato 126 attacchi contro strutture ospedaliere, nonostante la Convenzione di Ginevra protegga i combattenti feriti. Non abbiamo più personale, né materiali. Le ultime razioni alimentari sono state distribuite giovedì: la volontà è ormai di affamare la gente. Sono mesi che denunciamo questo scandalo, non so più quali parole utilizzare per definirlo”.

Dal punto di vista umanitario, infatti, Aleppo è ormai sull’orlo del baratro: “Entro Natale, in ragione dell’intensificazione delle operazioni militari, potremmo assistere alla fuga verso la Turchia di 200mila persone, il che rappresenterebbe una catastrofe”, ha dichiarato l’emissario Onu per la Siria, Staffan de Mistura.

Le stesse Nazioni Unite hanno inoltre ricordato di aver “condiviso con tutte le parti in conflitto e con tutti gli stati coinvolti un piano umanitario dettagliato per fornire aiuto agli abitanti di Aleppo-Est, necessario anche per evacuare i malati e i feriti. Occorre che questo piano sia adottato e che ci venga garantito un accesso immediato e sicuro all’area in questione”.

È stata anche avanzata l’ipotesi di instaurare un’amministrazione autonoma da parte degli insorti a Aleppo-Est. Idea che però è stata immediatamente rispedita al mittente dal ministro degli Affari esteri siriano, Walid Mouallem: “Quale governo al mondo – ha dichiarato – accetterebbe una soluzione del genere?”.

La strada per un mondo migliore passa attraverso le scelte individuali. L’era delle guerre del petrolio, dei morti per carbone, dei disastri petroliferi, è al tramonto. Utilizza anche tu energia rinnovabile per la tua casa, grazie a LifeGate, e risparmia attivandola da solo online, clicca qui.

(fonte)

Aleppo senza acqua

“Quasi 2 milioni di persone in Aleppo sono, ancora una volta, senza acqua corrente da rete pubblica. Gli intensi attacchi di giovedì notte hanno danneggiato la stazione di pompaggio di Bab al-Nayrab che fornisce acqua a circa 250mila cittadini nella parte orientale della città: le violenze stanno impedendo alle squadre di tecnici di raggiungere la stazione per la riparazione”. Le parole di Hanaa Singer, rappresentante UNICEF in Siria, non lasciano spazio all’immaginazione: sotto i bombardamenti, stando a quanto riportano gli “elmetti bianchi”, hanno perso la vita almeno 93 persone e sono rimaste colpite anche strutture dei servizi di emergenza e molti rifugi sotterranei. E il dramma nel dramma è ora la mancanza di acqua.

Il rischio di epidemie. “Per ritorsione – continua Singer – la stazione di pompaggio di Suleiman al Halabi, che si trova ad est, è stata disattivata, tagliando l’acqua a un milione e mezzo di persone nella parte occidentale di Aleppo. Privare i bambini dell’acqua li mette a rischio di terribili epidemie aggiunge trauma alla sofferenza, alla paura e all’orrore che già vivono a ogni giorno”. Nella parte orientale della città, la popolazione dovrà ora utilizzare acqua di pozzo altamente contaminata. Nella parte occidentale, i pozzi già esistenti saranno una fonte alternativa sicura. “L’UNICEF aumenterà il trasporto dell’acqua di emergenza in tutta la città – precisa ancora Singer – ma questa è una soluzione temporanea e non sostenibile nel lungo periodo. Per la sopravvivenza dei bambini è fondamentale che tutte le parti in conflitto fermino gli attacchi contro le infrastrutture idriche, dando accesso per valutare e riparare i danni alla stazione di Bab-al- Nayrab, e che facciano di nuovo passare l’acqua alla stazione di Suleiman al-Halabi”.

Aleppo brucia. “Nulla di quello che dice il regime sui corridoi umanitari è vero, nulla. Come possiamo uscire di casa se non ci sentiamo sicuri? Se fosse vero, me ne andrei subito”, ha detto all’agenzia di stampa tedesca Dpa Mustafa, 48 anni, intrappolato con i suoi genitori anziani, la moglie e una figlia in città, in uno dei quartieri presi di mira dalle forze siriane o loro alleate. “La terra trema e si sposta sotto i nostri piedi. Aleppo brucia”, spiega all’agenzia Bahaa al Halabi, anche lui residente ad Aleppo est.

(fonte)

Siria: il contrabbandiere di felicità

«Il coraggio di un siriano tra la Finlandia e la Siria per portare sollievo ai bimbi sotto le bombe: “Assad? Daesh? Tutti criminali”». Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2016
Sembra il titolo di un film e, chissà magari potrà diventarlo. Il giocattolaio è un siriano trapiantato in Finlandia dal 1989, la cui passione/missione è regalare un sorriso ai bambini costretti a vivere sotto le bombe. Rami Adham, 44 anni, va e viene da Aleppo e quando va, si comporta proprio come gli affascinanti “spalloni” a cavallo tra Ottocento e Novecento lungo la nostra linea di confine con Austria e Svizzera: i contrabbandieri dell’epoca si caricavano sulle spalle enormi valigie o sacchi pieni di merce e denaro. Oggi, oltre un secolo più tardi, Rami Adham si carica zaini pieni di giocattoli. E varca la frontiera tra Turchia e Siria.

Quando è successo l’ultima volta?
A inizio anno. Sto preparando il prossimo viaggio. Per motivi di sicurezza non posso rivelare la data esatta. Sono viaggi complicati, le cose cambiano in fretta, gli amici possono diventare nemici, all’improvviso.

Si preannuncia pericoloso?

Sì, specie dopo l’assedio e la battaglia di Aleppo, con i ribelli bombardati con i barili e dalle forze russe. È il viaggio più delicato finora.

Quale sarà il tuo itinerario?

Non posso addentrarmi nei particolari. Ti posso solo dire che con l’aereo da Helsinki raggiungerò la Turchia, poi si vedrà. Da lì viaggerò su strade non ufficiali, varcherò il confine da punti non segnalati. Ho guide molto preparate.

Spiegaci cosa significa essere un toy smuggler, un ‘trafficante di giocattoli’.

Significa portare un sorriso ai bambini che soffrono. Quando guardo in faccia i miei figli che vivono sereni e sicuri, non posso non pensare a quel che vedo ogni volta ad Aleppo.

Come parte la missione?

Grazie a serate, incontri e contatti in Finlandia, riesco a raccogliere giocattoli. Poi li carico sull’aereo per la Turchia e da lì, a mano, li porto con me fino ad Aleppo.

Per la prossima missione quanti ne porterai?

Oltre 600 pezzi.

Quando hai iniziato questa attività particolare?

Porto aiuti, giocattoli soprattutto, alla popolazione colpita da quando è iniziata la battaglia di Aleppo, quattro anni fa. Da quando la Turchia ha chiuso le frontiere con la Siria, dalla primavera del 2015, sono diventato un ‘contrabbandiere’ perché supero il confine clandestinamente.
Porti i giocattoli solo ad Aleppo?
Beh, quella è la città dove sono nato, il simbolo dell’aggressione del regime, ma capita di svolgere la mia funzione anche in altri centri dell’area, quelli liberati dalla presenza dei soldati di Assad.

C’è la storia di un bimbo che ti ha colpito in particolare?

Sì, una bambina di Aleppo, avrà avuto 6-7 anni e l’ho incontrata durante l’ultimo viaggio. Un giorno le ho dato un giocattolo, la mattina seguente me la sono ritrovata davanti: “Non lo hai preso ieri il giocattolo?”, le ho chiesto, e lei: “Ne volevo altri per tutti i bimbi del mio quartiere che hanno perso i genitori e non possono venire qui perché sono soli”. A quel punto le ho detto di portarmi da loro.

Oltre ai giocattoli, porti anche altri aiuti?

Certo, il denaro che riesco a raccogliere durante le raccolte e quello che viene donato alla nostra Ong, Toy Smuggler of Aleppo, dalla gente comune, dalle associazioni. Ogni singolo euro va a favore di Aleppo, non mi tengo neppure i soldi per il viaggio. La base dell’organizzazione è nella capitale finlandese, ma capita spesso di fare incontri in altri paesi, di conseguenza gli aiuti arrivano da varie parti del mondo. L’obiettivo primario in questa fase, è raccogliere abbastanza fondi per realizzare una scuola, la nostra scuola. Le bombe di Assad ne hanno distrutte tante, noi ne costruiamo una che rappresenti il sacrificio di tutte le altre. Un segnale forte.

Durante i tuoi viaggi in Siria, sei costretto ad assistere a scene inenarrabili, a incontrare gente che soffre; come si superano questi choc?

È brutto dirlo, ma ci si fa l’abitudine. Ogni volta che torno ad Aleppo la trovo sempre più piegata, distrutta, violata. E ad accogliermi arriva sempre la notizia di un parente o di un amico che non ci sono più, uccisi dalla guerra. È frustrante, ma bisogna andare avanti.

Cosa pensi della situazione attuale in Siria, ad Aleppo?

Penso che la resistenza dei ribelli sia un atto di eroismo e la rivoluzione un atto da supportare, sin dalle origini.
Dove sta, secondo te, il lato peggiore del conflitto, il governo siriano, il Daesh?
Sono tutti criminali, non riesco a distinguerli.
Rami, non hai paura quando torni in Siria?
Resto sempre pietrificato, e sempre di più.

Ma secondo voi?

Ma secondo voi, che vi siete spremuti il cuore per la foto di quel bambino bombardato, secondo voi, esattamente, da cosa scappano quei milioni di profughi? E perché non li avete notati? Perché sono usciti mossi?

Li armano e poi li combattono /9

La Turchia consente attraverso le sue frontiere la vendita all’Isis di fertilizzante che può essere utilizzato per realizzare esplosivi. A sostenerlo è il New York Times con un’inchiesta dalla città di Akcakale, al confine con la Siria.

Secondo il quotidiano, in queste settimane decine di camion carichi di nitrato di ammonio, un composto chimico che può essere impiegato sia come fertilizzante che per la costruzione di bombe, hanno attraversato la frontiera per consegnare il materiale nella cittadina siriana di Tal Abyad, che si trova sotto il controllo dell’Isis da quasi un anno. Le autorità locali sostengono che è tollerato solo il commercio di fertilizzante a basso contenuto di nitrato, che avrebbe minori capacità esplosive.

Ad Akcakale, tuttavia, sono in pochi a credere che il fertilizzante serva davvero per aiutare i contadini siriani. “Non è per l’agricoltura, è per le bombe”, dichiara Mehmet Ayhan, politico dell’opposizione candidato al Parlamento. Ayhan non si oppone a questo tipo di commercio, dal momento in cui crea posti di lavoro in una città impoverita. “Fino a quando i turchi possono trarne dei benefici, è un fatto positivo”.

Nelle ultime settimane la Turchia ha rafforzato i controlli alle sue frontiere per evitare il passaggio in Siria dei cosiddetti foreign fighters, ma il commercio di beni verso zone controllate dallo Stato islamico continua a essere tollerato. Ma un conto è quando si parla di drink energizzanti, un altro quando si tratta di un fertilizzante usato per realizzare potenti esplosivi. E su questo c’è poco da dire: l’aperto trasporto di nitrato di ammonio nei territori gestiti dall’Isis pone dubbi persistenti sul reale impegno della Turchia a isolare i jihadisti suoi vicini.

Secondo John Goodpaster, un perito chimico consultato dal Nyt, con 90 kg di nitrato di ammonio è possibile equipaggiare un’autobomba, mentre con 9 kg si potrebbe condurre un attacco kamikaze. Nei soli camion rintracciati ne sarebbero state contenute 25 tonnellate. Il nitrato di ammonio è stato utilizzato per compiere diversi attentati, tra cui quello al consolato britannico di Istanbul che nel novembre 2003 causò 27 morti.

Rapporto Amnesty: “Ad Aleppo atrocità indicibili”

Oltre alle vessazioni dello Stato islamico, la popolazione siriana è sottoposta ad “atrocità indicibili” da parte del regime di Bashar al Assad e delle frange più violente delle forze di opposizione. Soprattutto ad Aleppo, dove le forze del regime siriano continuano a commettere “crimini contro l’umanità” bombardando in modo cieco e indiscriminato la città. La denuncia arriva da Amnesty International che non risparmia neppure le forze ribelli, responsabili di “crimini di guerra”.

Nel suo ultimo rapporto l’ong afferma che i raid ininterrotti dell’aviazione siriana contro l’ex capitale economica del paese costringono gli abitanti “a condurre un’esistenza sotterranea”.

Amnesty condanna “gli atroci crimini di guerra e le altre violenze compiute quotidianamente nella città dalle forze governative e dai gruppi di opposizione”. “Alcune azioni del governo ad Aleppo equivalgono a crimini contro l’umanità”, afferma Amnesty.

Il rapporto critica soprattutto il ricorso ai bombardamenti aerei con i cosiddetti barili bomba, un’arma particolarmente devastante e che uccide in modo indiscriminato. “Prendendo di mira in modo deliberato e ininterrotto i civili, il governo sembra aver adottato una politica di punizione collettiva contro la popolazione civile ad Aleppo”, afferma il direttore della sezione Medioriente di Amnesty, Philip Luther. Il presidente Bashar al Assad ha sempre negato il ricorso a queste armi che, secondo Amnesty, “provocano un terrore puro e sofferenze inimmaginabili”.

Ma l’ong critica anche i gruppi ribelli ad Aleppo, una città divisa dal 2012 tra la zona orientale in mano agli insorti e quella occidentale controllata dal regime. Il rapporto assicura che i ribelli hanno commesso “crimini di guerra” utilizzando “armi imprecise come i mortai o razzi artigianali fabbricati con bombole del gas e soprannominati ‘cannoni dell’inferno’”. Questi proiettili, sparati regolarmente dai ribelli contro la parte occidentale della città, hanno causato la morte di almeno 600 civili nel 2014. L’anno scorso i barili bomba hanno ucciso invece almeno 3.000 civili nella provincia di Aleppo. Il rapporto fa riferimento anche al ricorso alla “tortura su vasta scala, detenzioni arbitrarie e sequestri, compiuti tanto dall’esercito che dai gruppi di opposizione armati”.

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