Vai al contenuto

andrea pertici

“In Parlamento andranno solo i nominati e le liste bloccate saranno addirittura due”

(Andrea Pertici intervistato da Antonella Mascali per Il Fatto Quotidiano)

Porcellum, Italicum, Rosatellum (mai nato) e ora Tedeschellum. Professor Andrea Pertici, da costituzionalista ci spiega cosa ha in comune questa proposta di legge col sistema tedesco?

Nulla, tranne la soglia di sbarramento del 5%, se rimane. Mentre in Germania chi vince nel collegio uninominale viene eletto in Parlamento, nel caso italiano i candidati dell’uninominale non fanno altro che mettersi in fila per essere tra gli eletti del loro partito. E non sono neppure tra i primi. La priorità spetta al capolista del listino bloccato poi, eventualmente, il candidato arrivato primo nel collegio uninominale, seguono gli altri della lista bloccata, infine, se il partito ha ancora diritto a ulteriori seggi, passano i candidati dei collegi uninominali che non sono arrivati primi.

Quindi, come con il Porcellum e con l’Italicum, abbiamo sempre dei nominati in Parlamento?

Esattamente. Sono tutti nominati e le liste bloccate sono addirittura due. Una evidente, che compare sulla scheda, cioè il listino, e l’altra formata dai candidati della lista per i collegi uninominali, all’interno di una circoscrizione.

Dunque, per il meccanismo che ci ha spiegato, le segreterie scelgono anche i numeri uno dei collegi uninominali, per controllare chi sarà eletto?

I primi di cui hanno cura sono i capilista del listino bloccato: anche se vanno in vacanza senza fare campagna elettorale, saranno eletti. Seguiranno i numeri 1 della parte uninominale, anche questi indicati dalle segreterie di partito.

Ma gli elettori cosa scelgono?

Scelgono il partito. Accanto al suo simbolo c’è il candidato uninominale, che cambia di collegio in collegio, dall’altra parte del simbolo c’è il listino bloccato uguale per tutta la circoscrizione.

Il Porcellum è stato bocciato dalla Consulta, l’Italicum idem. E il Tedeschellum ha recepito o ignorato quanto indicato dalla Corte costituzionale?

La cosa positiva è l’eliminazione dei premi di maggioranza, che la Consulta non reputa di per sé incostituzionale, ma sono a forte rischio quando assicurano sempre e comunque una maggioranza. Viceversa, è stata aggirata la necessità di non avere lunghe liste bloccate e di consentire agli elettori di scegliere gli eletti. Tanto è vero che perfino il candidato nel collegio uninominale anche se vince non ha certezza di entrare in Parlamento.

Dunque, ci risiamo? Si va di nuovo davanti ai giudici costituzionali?

Sulla incostituzionalità avrei qualche dubbio in più, il sistema valorizza molto poco il voto dell’elettore ma certamente dal punto di vista formale non c’è un’unica lunga lista bloccata ma una evidente e un’altra occulta, più corta.

Lei è stato chiamato alle audizioni parlamentari. Cosa aveva suggerito?

Un compromesso per valorizzare la rappresentanza e tenere ferma l’esigenza di stabilità di governo. In sostanza un sistema misto, in parte maggioritario e in parte proporzionale, che sembrava il preferito. Era venuto fuori il cosiddetto Rosatellum, non congegnato benissimo ma si poteva lavorare per perfezionarlo. Invece, si è abbandonato e si è intrapresa questa strada, sicuramente peggiore.

Qual è secondo lei la ratio di questa scelta?

La volontà di trovare una legge che passi rapidamente per assecondare una spinta al voto anticipato di cui non si comprende l’esigenza a questo punto, quasi finale, della legislatura.

E la fretta non porta a nulla di buono…

Mai. È una legge non in linea con il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre, quando gli italiani hanno ribadito che vogliono scegliere direttamente i propri rappresentanti.

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

 

(continua su Left)

Referendum: la bufala dei senatori eletti

(Ne scrive l’inesauribile Andrea Pertici, con cui ho il piacere di condividere il nostro #TourRicostituente. Non è facile tenere il passo alle bugie ma ci proviamo:)

L’ampia revisione della Costituzione su cui saremo chiamati a votare il 4 dicembre è – lo dicono ormai tutti – scritta in modo spesso oscuro o ambiguo. Questo consente talvolta ai suoi sostenitori di esporla con toni cangianti a seconda della luce del momento e degli interlocutori.

Negli ultimi giorni l’operazione è in corso nientemeno che rispetto alla composizione del Senato, l’ombelico di tutta la riforma costituzionale. Questa, infatti, parte dall’annuncio di “senatori non eletti e non pagati” e viene presentata, infatti, dal segretario del Pd, padre della riforma, alla direzione del suo partito (6 febbraio 2014) come la riforma dei quattro paletti, che sono: 1. non elettività dei senatori; 2. assenza di indennità per i senatori; 3. eliminazione del potere del Senato di dare e togliere la fiducia al governo; 4. eliminazione del potere del Senato di votare il bilancio.

Il paletto che ci interessa è quindi il primo, tradotto puntualmente nell’articolo 2 della riforma che modifica l’articolo 57 della Costituzione il cui testo è – nel caso – chiarissimo: «i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori».

Ora, nella seconda lettura effettuata dal Senato, è stato approvato un emendamento integrativo, in base al quale i Consigli regionali devono procedere all’elezione dei senatori «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma».

La norma ha avuto un’insperata fortuna, essendo riuscita a convincere la perplessa «minoranza del Pd» a passare da una posizione critica a un voto favorevole alla riforma.   Tuttavia, le doti taumaturgiche dell’emendamento sono state decisamente sopravvalutate al punto di far concludere a qualcuno che era stata reintrodotta l’elezione diretta dei senatori.

Naturalmente ciò è escluso dall’appena riportato secondo comma dell’art. 57, il quale prevede – con chiarezza, in questo caso – che «i Consigli regionali e i Consigli delle autonomie locali eleggono […] i senatori». D’altronde, perché tale elezione avvenga «in conformità delle scelte espresse dagli elettori» basta che sia rispettata la proporzione rispetto ai voti e ai seggi ottenuti dalle diverse liste, per cui non verrebbe aggiunto nulla rispetto a quanto già previsto allo stesso art. 57, secondo e settimo comma. Alcuni vorrebbero che la previsione fosse riempita di significato imponendo, per legge, ai Consigli regionali di eleggere al Senato i consiglieri che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze popolari o addirittura che vi fosse una seconda scheda con cui gli elettori indicherebbero i consiglieri regionali-senatori (e non i sindaci-senatori).

Tutto questo risulta escluso dal secondo comma, come dicevamo e più in particolare pone alcuni problemi:

  1. in base all’art. 122 della Costituzione, ciascuna Regione approva la sua legge elettorale, mentre la legge statale può solo dettare i principi fondamentali della stessa;
  2. in ogni caso, sarebbe incostituzionale una legge che vanificando il comma 2, impedisca che quella dei Consigli regionali sia una vera e propria elezione (visto che si sancisce espressamente che i Consigli regionali eleggono i senatori);
  3. si creerebbe peraltro una differenza, ingiustificata e ingiustificabile, tra i senatori-consiglieri regionali e i senatori-sindaci (pari al 50% del totale nella metà delle Regioni italiane) per i quali non vi è neppure nessuna generale indicazione (altro che obbligo di “conformità”) rispetto alle indicazioni degli elettori;
  4. in ogni caso, che senso avrebbe avuto togliere la rappresentanza della nazione per assegnare quella delle istituzioni territoriali a senatori eletti dai cittadini? E poi che senso avrebbe allora stabilire che «i Consigli regionali eleggono i senatori»? Sono parole inserite così, tanto per appesantire un po’ il testo?

La discussione, assurda come spesso quelle che riguardano questa revisione costituzionale, fa perdere tempo rispetto all’esame dei reali contenuti e mostra solo una cosa: che si cerca sempre di sostenere tutto e il contrario di tutto, piegando il significato delle parole e tenendosi lontani solo dalla chiarezza, per aggiustare il senso a seconda del momento, dell’interlocutore, in un trasformismo permanente non più solo di posizioni politiche e alleanze, ma addirittura, ormai, anche di norme. Più che la riforma del cambiamento sembra la riforma del cangiamento.

(il post è nei quaderni di Possibile qui)

Per chi vorrebbe convincerci che questa sia la stessa riforma dell’Ulivo

Andrea Pertici, professore di diritto costituzionale e punta di diamante della nostra squadra nel Tour RiCostituente, entra nel merito. Come piace a loro:

«L’argomento – rilanciato da Arturo Parisi in un’intervista a La Stampa – è ricorrente: questa riforma costituzionale sarebbe quella dell’Ulivo. Probabilmente il richiamo a questa positiva esperienza di centrosinistra – essenzialmente confinata nel biennio 1996-1998 (nonostante qualche successivo tentativo di rianimarla) – è dovuto al tentativo di alcuni esponenti del Partito democratico di convincere gli elettori “ulivisti” che quella è la loro riforma.

Ora, in realtà, il governo dell’Ulivo (cioè il primo governo Prodi) si tenne lontano dalle riforme costituzionali (non aveva neppure un ministro incaricato in materia), ma nel programma presentato dalla coalizione nel 1996, in effetti, la tesi n. 4 se ne occupava (brevemente). A scanso di ogni equivoco, vale la pena riportare letteralmente questa parte alla quale i sostenitori del parallelo con l’attuale riforma si attaccano con tanta enfasi.

Tesi n. 4

Una Camera delle Regioni

La realizzazione di un sistema di ispirazione federale richiede un cambiamento della struttura del Parlamento.

Il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza.

Il numero dei Senatori (che devono essere e restare esponenti delle istituzioni regionali) dipenderà dalla popolazione delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni più piccole.

Le delibere della Camera delle Regioni saranno prese non con la sola maggioranza dei votanti, ma anche con la maggioranza delle Regioni rappresentate.

I poteri della Camera delle Regioni saranno diversi da quelli dell’attuale Senato, che oggi semplicemente duplica quelli della Camera dei Deputati. Alla Camera dei Deputati sarà riservato il voto di fiducia al Governo. Il potere legislativo verrà esercitato dalla Camera delle Regioni per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali.

Ora, salva la qualificazione del «Senato della Repubblica» (questo rimane il nome) come «rappresentativo delle istituzioni territoriali», su ognuno dei punti di merito, la riforma costituzionale del 2016 risulta distante da quella prefigurata sinteticamente nel programma dell’Ulivo. Vediamo perché andando per punti:»

(continua qui)